Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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L’𝐸𝑑𝑖𝑐𝑡𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑡𝑖𝑖𝑠 𝑟𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑣𝑒𝑛𝑎𝑙𝑖𝑢𝑚

Salito al potere nel 284, Diocleziano ereditò un impero economicamente al collasso: nel precedente mezzo secolo di anarchia militare, infatti, il valore nominale delle monete romane aveva subito una costante e progressiva svalutazione a causa della presenza di molteplici candidati alla porpora e altrettanti usurpatori, i quali non avevano esitato a battere nuova moneta per consolidare la propria posizione, corrompendo senatori, funzionari e militari e per farsi propaganda. Di conseguenza, l’eccessivo esubero di moneta in circolazione aveva provocato la riduzione del potere d’acquisto del denaro, a cui parallelamente, si sommavano altri fenomeni perniciosi, come l’aumento dei prezzi, a sua volta prodotto in parte da periodiche carestie e dai conflitti e in parte da una speculazione selvaggia; insomma, si trattava di segnali di quella che gli economisti oggi chiamano inflazione.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Testa, marmo, c. 284-305, da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Diocleziano, dunque, concepì un progetto di riforma su vasta scala con il quale intese risanare l’economia e le finanze imperiali, revitalizzare il sistema monetario e soprattutto garantire la regolare corresponsione degli stipendia ai quadri amministrativi e militari. L’imperatore, poste fuori corso le emissioni dei predecessori, dal 294 introdusse nuovi tipi monetali e dal 1 settembre 301 attuò una serie di misure volte a rifondare l’apparato monetario, cercando di renderlo nuovamente coerente e affidabile, quale era stato al tempo di Nerone; in altre parole, l’imperatore imperniò il sistema sul rapporto tra l’aureus (5,45 g = 1/60 di libbra) e i nuovi coni: l’argenteus, il cui peso e il valore nominale lo rendevano in tutto e per tutto comparabile al denarius del principato, deteneva un contenuto di metallo prezioso pari a più del 90% e un peso teorico che si aggirava attorno ai 3 g o poco più, equivalenti a 1/96 di libbra – come riportato sui rovesci delle monete (XCVI); il follis (o nummus) era una grossa moneta di bronzo (∅ c. 30 mm), rivestita di una sottile patina d’argento (al 4%), avente un peso compreso tra i 9 e i 13 g (= 1/32 di libbra). Il rapporto di cambio tra queste monete erano i seguenti: per un argenteus ci volevano 8 folles; per un aureus 25 argentei. A causa, però, di un’eccessiva tesaurizzazione da parte della popolazione, queste nuove emissioni ebbero una circolazione di breve durata: entro il 307 scomparvero gradualmente.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Argenteus, Sciscia c. 294. AR 2,879 g. Obversus: Virtus – militum. Porta turrita di un castrum con i tetrarchi intenti a prestare un solenne giuramento.

Oltre alla riforma monetaria, Diocleziano cercò di fissare un tetto massimo, imponendo un calmiere, sui salari, sui prezzi delle merci, sulle prestazioni d’opera e sui servizi in genere. Il provvedimento fu varato attraverso il cosiddetto Edictum de pretiis rerum venalium tra il novembre e il dicembre del 301, sotto il consolato di Tito Flavio Postumio Tiziano e Virio Nepoziano, a nome degli Augusti, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano e Marco Aurelio Valerio Massimiano, e i loro Caesares, Flavio Valerio Costanzo Cloro e Galerio Valerio Massimiano. Mentre la politica monetaria, perseguita per abbattere l’inflazione imperante, si limitava a introdurre nuove emissioni in sostituzione di quelle svalutate, per difendere il potere d’acquisto della moneta “buona” i tetrarchi stabilirono una relazione unica tra le singole voci di spesa e il loro valore, fissando un massimale per ogni elemento. I prezzi imposti dal decreto, dunque, furono calcolati in base al valore dell’oro (di cui una libbra corrispondeva a 72.000 denarii) e a quello dell’argento (di cui una libbra valeva 6.000 denarii), metalli il cui rapporto era di 12:1. Onde evitare confusione, è bene specificare che, dopo il crollo della monetazione argentea nel III secolo, il denarius sopravvisse come unità di calcolo nella riforma dioclezianea.

Il testo dell’Editto sui prezzi è noto, seppur in forma incompleta, dalla documentazione epigrafica, che fra Ottocento e Novecento ha restituito all’incirca 150 frammenti delle copie del rescritto, sia in latino sia in greco, provenienti per lo più dalla pars Orientis. Tra i reperti più significativi si possono menzionare, per esempio, il frammento di una stele di marmo proveniente da Platea (Achaia), contenente la copia del preambolo dell’editto (CIL III, p. 1913 = AE 1980, 66) e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene, e i lacerti di un pannello marmoreo scoperti tra i resti della facciata della basilica civile di Afrodisiade in Caria (CIL III, pp. 2208-2209 = CIL XII 69 = IAphr. 231 = ILS 642).

Calco cartaceo della copia del tariffario dell’Edictum de pretiis (CIL III, p. 1913 = AE 1890, 66 [], []) da Platea (Achaia) [].

La denominazione di edictum fu ricavata dal Mommsen (1850) dalla presenza del verbo tecnico dicunt nell’esordio (praef. 4); tuttavia, nello stesso testo si fa riferimento al dispositivo anche nei termini di lex (ibid. 15) e statutum (15; 18-20). A ogni modo, si tratta di un documento complesso e per meglio comprenderlo è opportuno leggerne un passo della lunga premessa (ibid. 15), nella quale si dichiarano le ragioni e gli scopi del provvedimento:

his omnibus, quae supra conprehensa sunt, iuste ac merito | permoti, cum iam ipsa humanitas deprecari videretur, non pretia venalia rerum – neque enim fieri id iustum putatur, cum | plurimae interdum provinciae felicitate optatae vilitatis et velut quodam afluentiae privilegio glorientur – sed modum statuen|dum esse censuimus, ut, cum vis aliqua caritatis emergeretquod dii omen averterint! – avaritia, quae velut campis quadam immensitate diffusis teneri non poter‹at›, statuti nostri finibus vel moderaturae legis terminis stringeretur.

“A buon diritto, spinti da queste motivazioni, che sopra sono state passate in rassegna, siccome l’umanità stessa sembrava chiederlo con insistenza, abbiamo deciso di fissare non i prezzi delle merci in vendita – infatti, ciò non può avvenire nel modo giusto, poiché parecchie province di solito si vantano della felicità dei desiderati prezzi bassi e, per così dire, di un certo privilegio di abbondanza – bensì un loro tetto massimo, in modo tale che, nel caso in cui dovesse capitare una qualche carestia – che gli dèi allontanino un simile presagio! – l’avidità, la cui diffusione non poteva essere frenata, sarà costretta entro i limiti della nostra normativa e nei termini consentiti dalla legge”.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II secolo, da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Il passo mostra chiaramente la distanza ideologica del pensiero economico antico dalla moderna dottrina: l’aumento incontrollato dei prezzi e l’inflazione galoppante erano attribuiti all’avaritia di mercatores e negotiatores, che non si erano fatti scrupolo a speculare sul costo delle merci, arrivando persino a ottuplicarne il valore di mercato; non si tenevano in conto altre concause, come guerre, carestie ed epidemie, ma si addossava interamente la responsabilità della situazione al comportamento sconsiderato di una particolare categoria economico-sociale, che nel mercato aveva parte attiva. Insomma, le ragioni dell’intervento pianificato degli imperatori sembra più morale che altro. Di contro, infatti, si presumeva che in condizioni ordinarie la sovrabbondanza e il benessere procurassero non solo la felicità della popolazione ma anche la riduzione dei costi.

Allo stato attuale, è difficile formulare una valutazione complessiva di questo provvedimento, ma è comunque interessante osservare gli indicatori numerici dei prezzi calmierati, raccolti in sessantanove categorie (più un’appendice) a comporre un vero e proprio tariffario – una testimonianza utile a ricostruire il quadro economico e sociale del tempo. Vale dunque la pena di fare qualche esempio, cominciando dalle professioni (VII de mercedibus operariorum): si stabilì che un bracciante agricolo potesse ricevere fino a 25 denarii al giorno, che i lavoratori impegnati nell’artigianato (lapidarii, fabri, calcis coctores, ecc.) potessero ottenere una paga massima di 50 denarii. Secondo le disposizioni imperiali, gli oratori sive sophistae potevano incassare fino a 250 denarii al mese per ogni studente al loro seguito, mentre più contenuto era l’onorario dei grammatici (200 denarii) e dei pedagogi (50 denarii). Un avvocato, a seconda del servizio fornito ai clienti, poteva godere di una parcella fino a 250 denarii per tenere un’accusa (in postulatione) oppure fino a 1000 denarii per sostenere una difesa (in cognitione).

Frammenti di lastra marmorea iscritta (IAphr. 231) con le tariffe sui trasporti dell’Edictum de pretiis (301) da Afrodisiade (Caria). Aphrodisias Museum.

Quanto ai beni, ecco il costo massimo di alcuni generi alimentari: una libbra italica (circa poco più di 300 g) di carne di maiale ammontava fino a 12 denarii, una libbra di carne bovina valeva al massimo 8 denarii e un paio di polli era venduto a 60 denarii complessivi. Vari, a seconda della qualità e della specie, i prezzi del pesce e della verdura, come pure quelli del vino: per esempio, un sestario (circa 0,5 l) di ottimo Falerno era ceduto a 30 denarii, più del triplo del valore del comune vino da tavola (vinum rusticum). Insomma, mezzo litro di vino di qualità valeva più della paga giornaliera di un operaio agricolo.

Che l’editto non abbia conseguito i risultati auspicati è noto, dato che le sue disposizioni furono spesso ampiamente aggirate, incrementando il mercato nero. A dimostrare comunque l’importanza della prescrizione era la pesantissima sanzione prevista per i trasgressori: in caso di sovrapprezzo, contrattazioni non autorizzate o altri comportamenti illeciti, i contravventori erano puniti con la pena capitale. Nonostante le numerose condanne comminate e l’eccessivo rigore dei giudici, le merci calmierate sparirono rapidamente dal mercato, l’inflazione riprese la sua corsa e molti prodotti si vendettero sotto banco a prezzi ancora più alti, dato che i commercianti più coraggiosi si facevano pagare una sorta di indennizzo per i rischi corsi.

Un macellaio (Tib. Giulio Vitale) e il suo servo (Marco). Rilievo sepolcrale con iscrizione (CIL VI 9501), marmo, c. metà del II secolo. Roma, Villa Albani.

A proposito degli effetti negativi delle misure dioclezianee parla Lattanzio nel suo De mortibus persecutorum, la fonte più polemica nei confronti della persona e dell’operato dell’imperatore. Nonostante la tradizione storiografica ricordi Diocleziano come un grande riformatore e restauratore, pur con tutti gli errori, i fallimenti e le contraddizioni, l’apologeta lo presenta non solo come un empio e sanguinario persecutore di cristiani ma anche come un uomo debole, pieno di vizi e pessimo governante; ne denuncia il malgoverno, a causa del quale trionfano illegalità, prepotenza e arbitrio, e lo accusa di essere responsabile perfino della crisi economica del cinquantennio precedente. Quanto all’Editto sui prezzi, il prosatore cristiano rinfaccia all’imperatore gli effetti e le modalità di attuazione (Lactant. De mort. pers. 7, 6-7):

idem cum variis iniquitatibus immensam faceret caritatem, legem pretiis rerum venalium statuere conatus est; tunc ob exigua et vilia multus sanguis effusus, nec venale quicquam metu apparebat, et caritas multo deterius, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur.

“E siccome le sue malefatte avevano prodotto un’enorme inflazione, egli cercò di fissare per legge i prezzi delle merci; al che avvenne che per cose insignificanti e senza valore il sangue scorresse a fiumi, il timore faceva sparire tutte le merci e l’inflazione subì una forte impennata, finché la legge per forza di cose non decadde, non prima di aver provocato la morte di tante persone”.

Come gli interventi in ambito monetario, dunque, anche l’Edictum de pretiis alla lunga si rivelò un fallimento: la crescita del mercato nero assunse forme così vistose e il meccanismo sanzionatorio divenne tanto insostenibile da costringere le autorità imperiali ad abrogare il provvedimento e ritornare al mercato libero.

I quattro tetrarchi con le loro famiglie. Bassorilievo su fregio, marmo, inizi IV secolo. Salonicco, Arco di Trionfo di Galerio.

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La crisi del III secolo: la paura di vivere e l’anarchia militare

Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.

Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.

Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).

M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).

Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.

La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio.  Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).

Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.

Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.

La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.

Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.

Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς,  φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).

Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.

Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.

Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.

Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.

Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.

Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.

I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.

Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.

Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.

Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):

Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.

Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.

Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.

I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.

Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.

Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.

Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.

Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.

L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.

Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.

Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.

Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).

È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).

La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.

La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.

Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.

In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.

Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.

L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.

Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.

Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).

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Il culto di Mithra nella Commagene

di RIES J., Il culto di Mithra nella Commagene, in Opera omnia, vol. VII/1, Religioni del Vicino Oriente Antico, Il culto di Mithra dall’India vedica ai confini dell’Impero romano, trad. it. NANINI R., rev. COSI D.M., Milano 2013, pp. 193-203*.

 

1. Il Mithra ellenistico nella Commagene

La Commagene

Cominciamo la nostra ricerca sulla diffusione del culto di Mithra soffermandoci innanzitutto sulla Commagene, antica Provincia siriaca del regno seleucide. La Commagene, situata tra la Cilicia e l’Eufrate, ai piedi del Tauro, con capitale Samosata, venne integrata nell’Impero seleucide. Il nome Commagene è un adattamento greco del mesopotamico Kummuh. Questa regione ha una lunga tradizione culturale: la Commagene si trovava infatti ai confini tra l’Iran, la Mesopotamia, il paese degli Hurriti e quello degli Ittiti. Nel 162 a.C. il governatore della provincia, Tolomeo, si pone a capo di una rivolta e trasforma la Provincia in un regno indipendente. Nella Provincia della Commagene, che rappresentava un trait d’union tra il mondo iranico e il mondo anatolico, negli ultimi decenni sono state fatte importanti scoperte relative al culto di Mithra. Vanno innanzitutto ricordati i numerosi sovrani che portano il nome teoforo Mitridate. Nel regno del Bosforo il re Mitridate fu designato dall’imperatore Claudio, nel 41 a.C., come successore di Tolomeo. Nel regno dei Parti troviamo Mitridate I Filelleno dal 171 al 138 a.C. e Mitridate VI il Grande dal 123 all’86 a.C., colui che conquistò l’Armenia e istituì rapporti diplomatici con Roma nel 92[1].

Carta dell’Asia minore sudorientale (da WALDMAN H., Die kommagenischen Kultreformen unter König Mithradates I. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos I., Brill, Leiden 1973).

Nella Commagene il culto di Mithra divenne un culto regale nel corso dei secoli precedenti alla nostra era. La documentazione è vasta[2]. Dörner descrive una serie di scoperte: statue, rilievi, iscrizioni. In esse ritroviamo l’incontro tra le tradizioni greche e quelle iraniche, in particolare in alcune iscrizioni e statue in cui figurano quattro nomi divini, quelli di Apollo, Mithra, Helios ed Hermes.

Sembra certo che l’iscrizione (OGIS 383 = IGLSyr 1 1 = CIMRM 32) di Nemrut Dağı (in cui compaiono le quattro divinità appena nominate) fu fatta incidere da Antioco I, re della Commagene dal 69 al 38 a.C. Un bassorilievo ci mostra il dio Mithra che stringe la destra del re in segno di alleanza e di protezione. Dörner ha ritrovato ad Arsameia del Ninfeo, sul fianco meridionale di Eski-Kale, i resti di un santuario. Per alcuni si tratterebbe addirittura di un antico mitreo, il più antico tra tutti quelli conosciuti, cosa che ci ricondurrebbe ai misteri di Mithra celebrati nella Commagene nel I secolo a.C. Non lontano dai resti individuati da Dörner sorge un monumento eretto da Antioco I a gloria di suo padre Mitridate I, sul quale troviamo una allusione a Mithra. Bisogna però ricordare che Dörner stesso, così come numerosi altri studiosi, non accoglie l’ipotesi del mitreo.

Queste testimonianze del I secolo a.C. documentano soltanto il culto di Mithra come culto regale: non si tratta della celebrazione dei misteri. Significativa è la rappresentazione delle immagini in cui Mithra compare di fronte al sovrano. Si vedano la statua della dexiosis (il darsi la mano destra) tra Mithra e Antioco I di Commagene a Nemrut Dağı (tav. VI) e quella di Mitridate Callinico nello hierothesion di Arsameia del Ninfeo (tav. V), «Études mithraiques», 1978. Siamo nel I secolo a.C.[3] Queste scoperte ci hanno fatto conoscere il culto regale di Mithra nella Commagene. Si tratta del culto organizzato da re Mitridate I Callinico e da suo figlio Antioco I. I documenti sono di due tipi, dal momento che abbiamo le iscrizioni su stele e quelle su rocce:

Dall’altra parte abbiamo alcuni monumenti cultuali, gli hierothesia, di cui dovremo parlare più a lungo.

Queste recenti e importanti scoperte gettano nuova luce sul culto del Mithra ellenistico. R. Turcan riassume così la situazione:

Nell’Asia minore dei diadochi le dinastie di origine iranica (alcune delle quali rivendicavano una eredità achemenide) favorirono le prime contaminazioni greco-orientali che stavano aprendo la strada dell’Occidente a un mitraismo ellenizzato. Il nome teoforo Mitridate o Mitradate, assunto dai re del Ponto, d’Armenia e della Commagene, attesta che essi veneravano in Mithra il garante divino della loro autorità. Le monete di Mitridate I, re dei Parti (171-138), portano sul rovescio una figura d’arciere paragonabile all’Apollo delle tetradracme seleucidi; nell’Impero ellenizzato degli Arsacidi lo si identificava con Mithra[4].

Antioco I di Commagene. Testa, pietra calcarea, seconda metà I sec. a.C. da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia). Gaziantep, Museo Archeologico Nazionale.

La testimonianza di Plutarco

a) La Cilicia

Nel 67 a.C. Pompeo inaugura contro i pirati che infestavano il Mediterraneo un’azione destinata a mettere fine alle loro scorrerie contro i rifornimenti di grano, inviando squadre militari in diversi settori, ma riservando a sé la Cilicia, noto covo dei pirati. La campagna ha successo: dopo tre mesi regna la calma. La Cilicia, situata nella parte sudorientale dell’Anatolia, è l’antico territorio di Kizzuwatna del periodo ittita. Dopo la fine dell’Impero ittita cade nelle mani degli Assiri, in seguito dei Cimmeri. Sotto la dominazione persiana è unita alla satrapia di Cappadocia. Alessandro la occupa entrandovi da settentrione. La Cilicia è fiancheggiata a oriente dalla catena del Tauro, luogo montagnoso e poco abitato, che rappresentava il covo ideale per i pirati, i quali da oriente, attraverso la pianura e il corso dei fiumi, avevano facile accesso al mare.

b) La notizia di Plutarco

Nella Vita di Pompeo di Plutarco incontriamo un breve accenno al mitraismo. Ecco alcuni passi del ventitreesimo capitolo:

La potenza dei pirati che nacque in Cilicia ebbe un’origine tanto più pericolosa quanto meno era nota all’inizio. I servizi che resero a Mitridate durante la sua guerra contro i Romani ne aumentarono la forza e l’audacia … Facevano anche sacrifici barbari che erano in uso a Olimpia e celebravano misteri segreti, tra cui quelli di Mithres, conservatisi fino ai nostri giorni, che avevano fatto conoscere per primi.

Che cosa si può dedurre da questa notizia di Plutarco? Seguiamo la storia degli studi. In Les mystères de Mithra[5], Fr. Cumont afferma:

Se si presta fede a Plutarco … i Romani sarebbero stati iniziati ai suoi misteri dai pirati di Cilicia vinti da Pompeo nel 67 a.C. Questa informazione non ha nulla di inverosimile: sappiamo, per esempio, che la comunità ebraica stabilitasi trans Tiberim era composta in gran parte dai discendenti dei prigionieri che lo stesso Pompeo aveva portato con sé dopo la presa di Gerusalemme (63 a.C.). Grazie a questa particolare circostanza è dunque possibile che a partire dalla fine della Repubblica il dio persiano abbia trovato alcuni fedeli nella variegata plebe della capitale. Ma confondendosi nella folla delle confraternite che praticavano riti stranieri, il piccolo gruppo dei suoi adoratori non attirava l’attenzione. Lo yazata partecipava così al disprezzo di cui erano oggetto gli Asiatici che lo veneravano. L’azione dei suoi seguaci sulla massa della popolazione era praticamente nulla, tanto quanto quella delle comunità buddhiste nell’Europa moderna.

Cumont, dunque, accetta il fatto che i pirati di Cilicia abbiano introdotto, nel 67 a.C., i misteri di Mithra a Roma e ipotizza che il culto sia stato sostanzialmente ignorato a Roma nelle sue prime fasi di sviluppo. Ernest Will adotta, per interpretare questo testo, un approccio più sfumato[6]. Egli distingue due problemi: la data di formazione dei misteri e il luogo in cui si realizza questo evento. Per quanto riguarda la cronologia, Will utilizza anch’egli Plutarco, che allude all’esistenza del culto in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., ma cita anche la testimonianza del poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio), nato a Napoli verso il 46 d.C., che attorno al 65 comincia a scrivere un poema epico, La Tebaide, portato a termine nel 90 circa. In questo poema Stazio descrive l’immagine della tauroctonia (Theb.  I 719-720), dimostrando la penetrazione del culto a Roma alla metà del I secolo della nostra era. Questa indicazione, afferma Will, corrisponde alla realtà, dal momento che è appunto sotto i Flavi, tra il 70 e il 100 d.C., che i ritrovamenti archeologici dimostrano la diffusione del culto. Questo dato, accostato alla testimonianza di Stazio, attesta dunque la diffusione del culto di Mithra a Roma alla fine del I secolo. Will utilizza il testo di Plutarco, che ci fa risalire all’inizio del I secolo a.C., come testimonianza del lungo periodo di incubazione durante il quale ebbero luogo la guerra di Armenia di Nerone e la guerra giudaica, guerre che implicarono numerosi spostamenti di truppe da Roma all’Asia. Il secondo problema è quello della nascita dei misteri, che, afferma Will, presuppone una regione e un’epoca in cui gli elementi persiani erano ancora vivi:

L’Asia minore e soprattutto la sua pane orientale apparivano, alla fine dell’epoca ellenistica, particolarmente propizie. Basti ricordare, a questo proposito, i tentativi dei reucci della Commagene della stessa epoca (I secolo a.C.) di assicurare il proprio potere e il proprio prestigio richiamandosi sia alla Grecia che alla Persia: essi si fecero raffigurare faccia a faccia con Mithra. Centocinquant’anni dopo, l’ora della Persia era passata e l’Iran dei Pani non suscitava più nei Romani paura o ammirazione profonda. La verosimiglianza è dunque più favorevole al testo di Plutarco. Ma anche lo studio dell’iconografia – che è l’unica altra nostra risorsa – fornisce argomenti che vanno nella stessa direzione[7].

Will guarda dunque con molto favore alla testimonianza di Plutarco sulla presenza dei misteri di Mithra in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., a condizione che si pensi alla Cilicia orientale, che ai suoi occhi si rivela come «la probabile culla del culto misterico», soprattutto per via delle scoperte archeologiche, delle monete, di un’iscrizione di Anazarba e della presenza dei Magi in questa regione.

Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).

E.D. Francis[8] osserva che alcuni studiosi hanno ricavato dalla notizia di Plutarco l’idea che il mitraismo avrebbe raggiunto Roma proprio grazie all’operazione militare di Pompeo. Ma in realtà Plutarco non fornisce la data dell’arrivo a Roma di questi misteri. E parla del rito utilizzando il generico termine teletai. Inoltre, afferma Francis, non è certo che Pompeo abbia portato con sé a Roma i pirati, se teniamo conto di una nota di Servio alle Georgiche di Virgilio, che afferma: Pompeius enim victis piratis Cilicibus partim ibidem in Graecia, partim in Calabria agros dedit.

Per comprendere appieno il testo di Plutarco, afferma Francis, bisogna tenere presente che con il termine teletai Plutarco intende riferirsi non alle origini dei misteri, bensì a un contesto del tutto tradizionale. Francis pensa che le teletai (riti, cerimonie di iniziazione) siano da interpretare come una sorta di patto di protezione: avremmo così un’allusione all’adozione da parte dei pirati di una religion of robbers, un culto di banditi che, nella versione romana, diverrà poi un culto di soldati. Questo culto di banditi si sarebbe fondato sopra un patto di fratellanza, posto sotto la protezione di Mithra. E si può ipotizzare che questi banditi stringessero il loro patto nel profondo delle grotte. Le cerimonie del patto dei banditi sarebbero evidentemente riservate agli uomini: le donne ne sono escluse. Il culto mitraico dei pirati sarebbe stato, dunque, segnato dal rispetto di un patto stretto per combattere in vista della vittoria. Quando Roma adotterà i misteri di Mithra, questi riti di iniziazione si modificheranno profondamente.

Dopo aver analizzato la notizia di Plutarco, Vermaseren[9] si rivolge allo storico Appiano, il quale ci informa, nel II secolo d.C., che furono i sopravvissuti dell’esercito sconfitto del re Mitridate Eupatore a iniziare i pirati ai misteri. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.C.), nell’88 ordinò il massacro di tutti i Romani d’Asia. Nel 66 fu definitivamente sconfitto da Pompeo sull’Eufrate. Mitridate, come indica chiaramente il suo nome, era un fedele di Mithra. Come i suoi predecessori, aveva accolto nel suo esercito soldati provenienti da ogni parte dell’Asia.

In Cilicia, la montuosa patria dei pirati, esistono diversi monumenti dedicati a Mithra. Ad Anazarba è stato scoperto recentemente un altare dedicato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di Zeus-Helios-Mithra. Il dio era venerato anche a Tarso, la capitale, come provano alcune monete dell’imperatore Gordiano III che portano l’effigie dell’uccisore del toro[10].

I pirati, ai quali a volte si erano uniti personaggi importanti, veneravano Mithra nella loro comunità. Soltanto gli uomini erano ammessi al culto. È dunque probabile che, dopo la loro disfatta, i pirati abbiano portato Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì[11].

Secondo Vermaseren, a Roma non abbiamo alcun monumento relativo a Mithra prima della fine del I secolo d.C. Soltanto alla fine del I secolo della nostra era Mithra comincia la sua marcia trionfale nell’Impero romano[12].

Questo primo paragrafo ci ha consentito di porre in modo chiaro il problema del Mithra ellenistico. All’inizio del secolo Cumont scriveva: «Si può affermare in generale che Mithra è sempre rimasto escluso dal mondo ellenistico». Oggi questa affermazione va presa con molta cautela, in particolare dopo le importanti scoperte della Commagene. Dobbiamo spingere più a fondo le nostre indagini e chiederci soprattutto se i documenti archeologici ed epigrafici della Commagene ci forniscono elementi capaci di documentare il passaggio dal culto regale di quella regione al culto misterico dell’Impero romano.

 

2. Il culto regale della Commagene

Hierothesion

Incontriamo il termine hierothesion in diverse iscrizioni, come quelle di Karakush e di Arsameia sull’Eufrate. Il vocabolo ha un significato del tutto particolare nella Commagene. È presente anche a Nemrut Dağı, sulla terrazza in cima alla montagna. Lo studio di H. Waldmann ci permette di chiarire diversi aspetti: il termine serve soltanto a designare un santuario funebre, un santuario regale in cui si rende un culto dinastico oppure un culto ai sovrani defunti e divinizzati[13].

Ricostruzione assiometrica della tomba-tempio di Antioco I di Commagene sul Nemrut Dağı.

Lo hierothesion di Nemrut Dağı

A Nemrut Dağı avremmo così un santuario che celebra i sovrani defunti della dinastia. Mitridate I Callinico è il primo re di una nuova dinastia che fa riferimento da una parte a Dario il Grande e dall’altra ad Alessandro Magno. Due sono le serie di divinità: Mithra-Apollo e Helios-Hermes. Si tratta di una riforma cultuale di carattere sincretistico.

Waldmann pubblica il testo greco ricostruito e la traduzione tedesca del nomos, cioè dell’ordinanza cultuale promulgata da Antioco I[14]. Eccone alcuni dei passi principali. «Il grande re Antioco, dio, il Giusto, Epifanio, amico dei Romani e dei Greci, figlio del re Mitridate Callinico e della regina Laodicea, dea … ». Il sovrano nomina gli dèi ai quali consacra il suo regno: «Così, come vedi, ho eretto a questi dèi immagini davvero degne: quella di Zeus Oromasdes, quelle di Apollo-Mithra-Helios-Hermes, quelle di Artagnes, Eracle, Ares… ». Alla riga 123 comincia il nomos, la legge. Il re designa un sacerdote incaricato del culto degli dèi e degli antenati divinizzati. Il giorno dell’apoteosi degli dèi e del sovrano, costui deve vestirsi con abiti sacerdotali persiani; dovrà fare offerte di incenso e di piante aromatiche e deporre sugli altari cibi e brocche di vino. Tutti gli alimenti saranno distribuiti tra i presenti. Tutti gli ieroduli consacrati al servizio degli dèi non saranno mai ridotti in schiavitù. I villaggi consacrati a questi dèi non saranno mai proprietà di nessuno. A tutti coloro che si conformeranno piamente alle decisioni del re saranno propizi gli dèi di Macedonia, di Persia e della Commagene.

 

Lo hierothesion di Arsameia del Ninfeo

Abbiamo una lunga iscrizione in cui Antioco afferma che questo hierothesion è stato creato da suo padre, Mitridate Callinico, per gli dèi e perché vi sia deposto il suo bel corpo, passato in vita di vittoria in vittoria. Descrive poi la città di Arsameia, costruita su due collinette simili al petto di una ninfa che esce dal fiume Ninfeo. Poi ritroviamo i soliti elementi: la fondazione di un culto in onore degli dèi e dei sovrani defunti, gli incarichi dei sacerdoti, degli ieroduli e dei fedeli.

Un’altra lastra di pietra, spezzata ma che ha potuto essere ricostruita, porta al recto la dexiosis di Antioco con Mithra, al verso un’iscrizione votiva di Antioco in onore di Mithra-Helios e Apollo-Hermes. Un sacerdote è incaricato di questo culto divino. Comunque, afferma Waldmann, non si tratta di un culto misterico. n culto viene celebrato all’aria aperta, con la folla dei fedeli che partecipa al pasto rituale. Non siamo in presenza di un culto iniziatico, ma di un culto mitraico di carattere regale e pubblico. La presenza di una grotta scavata nella roccia ha fatto pensare a un mitreo, ma in realtà essa era semplicemente la camera funeraria del sovrano. Si veda la lunga discussione in Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen, nella seconda parte del volume, Die Hierothesia[15]. Waldmann propone infine un’altra osservazione importante. L’iconografia ci mostra che Mitridate I Callinico non ha soltanto parlato di belle immagini degli dèi, ma le ha anche realizzate. Lo studioso si chiede se questo culto regale della Commagene, nel quale Mithra assume un ruolo di primo piano, non sia all’origine del culto mitraico che si diffonderà nei secoli seguenti. Waldmann non risponde positivamente, a causa della mancanza di prove. Ma la questione è di un certo rilievo.

Antioco I di Commagene. Testa colossale, pietra calcarea, 64-32 a.C. ca. dallo Hierothesion, Nemrut Daği.

Il culto regale della Commagene e Mithra

  1. Ciò che stupisce in questo culto, afferma J. Gagé[16], è l’associazione tra sovrano e dio: il re si assicura l’uguaglianza con gli dèi, come dimostra la dexiosis. Ciò che stupisce ulteriormente è l’equivalenza affermata tra i nomi iranici e i nomi greci delle principali divinità: Zeus = Oromasdes, Eracle = Artagnes, Helios = Hermes, Mithra = Apollo. Abbiamo qui una doppia tetrade, che si ricollega ad Ares = Eracle-Artagnes. Gagé[17] sottolinea il fatto che Mithra, «il più prossimo al re tra questi dèi, è detto anche Apollo e in fondo non è realmente diverso da Helios-Hermes». C’è una tendenza al sincretismo delle entità divine. Jonas impiega il termine «teocrasia» per definire la tendenza al sincretismo nei nomi divini.
  2. Il culto. Secondo Gagé, al sincretismo delle entità divine corrispondono le norme prescrittive di origine persiana imposte agli osservanti del culto. L’esame archeologico del monumento di Nemrut Dağı mostra il fascio di rami (baresman) nella casa di Mithra. Si tratta del rituale mazdeo del culto del fuoco. Il sacerdote deve vestire l’abito persiano per gli atti di culto da celebrare in occasione delle feste. I sacerdoti godono di diversi privilegi. Nella celebrazione del sacrificio abbiamo offerte e vittime animali e infine la condivisione del pasto sacro.
  3. Le motivazioni psicologiche e morali. Il documento regale di fondazione del culto del sovrano insiste sulla purezza morale dei suoi protagonisti. Il re è portatore dell’eusebeia, la pietà religiosa, che è una virtù regale. La perennità del culto viene enunciata con enfasi. Alcuni autori hanno persino ritenuto che si trattasse di una continuazione dello zervanismo, con il culto di Zervan-Aion.

Quello che manca, però, è l’iniziazione di tipo misterico. Su questo punto Dörrie, Gagé e Waldmann sono d’accordo. Non si tratta di un culto misterico, bensì di un culto regale, un culto dei sovrani. I sacerdoti sono Magi. Ne era convinto Cumont, che collocava nella Cappadocia i Magi e li identificava con questi sacerdoti della Commagene.

Gagé, invece, non è di questa opinione: non si tratta di Magi, ma di sacerdoti nazionali, regali, ben contenti di conservare le loro rendite e i loro privilegi all’ombra di una dinastia nazionale. Questi sacerdoti erano tuttavia molto vicini ai Magi e il culto di Mithra sviluppò alcune delle dottrine che saranno riprese nei misteri mitraici successivi. L’astrologia, in ogni caso, era già presente in questo culto.

 

3. La dexiosis mitraica

L’esame della documentazione archeologica della Commagene ci mostra una serie di immagini in cui il sovrano stringe la mano destra a una divinità, in particolare al dio Mithra[18].

La dexiosis della Commagene secondo Waldmann

Gli autori hanno interpretato in modo differente questa scena, che nella Commagene troviamo molto diffusa. Per alcuni si tratta di un gesto di saluto del sovrano e del dio. Ma, si chiede Waldmann, chi saluta e chi viene salutato? È il dio che saluta il re o è il re che accoglie il dio? Dörrie pensa, invece, che questa dexiosis sia da mettere in relazione all’astrologia: gli dèi si avvicinano (come le stelle, come i pianeti) e salutano il sovrano, la stella regale. Waldmann ritiene di trovare la spiegazione nelle righe 61-63 di Nemrut Dağı. «L’antichissima dignità degli dèi l’ho presa come compagna di una giovane fortuna». Antioco tratta dunque gli dèi in modo attivo, associandoli alla propria sorte. È lui ad avere l’iniziativa. Va persino più lontano: esso era una dignità arcaica a un elemento nuovo, come risulta dalle righe 24-27: «Quando ho ripreso la sovranità paterna ho stabilito il regno, sottomesso al mio trono sulla base della mia pietà, come residenza comune di tutti gli dèi». Waldmann insiste piuttosto su un altro fatto. Non è Antioco ad aver introdotto il culto, bensì Mitridate I Callinico, suo padre. È costui, quindi, che ha accolto nel suo regno, come residenti ufficiali, le divinità di Persia e di Macedonia. Non si tratta, per il sovrano, di prendere il posto degli dèi, ma di portarli nel suo regno. Waldmann ritiene, interpretando le iscrizioni delle stele, che il re della Commagene distingua due nature divine (Gottum), quella degli dèi e la propria: rivendica per sé una virtù, l’eusebeia; utilizza per sé il termine dikaios, ponendosi così nell’ambito della giustizia; sottolinea il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni ha sempre fatto la volontà degli dèi; evita accuratamente ogni possibile confusione tra gli dèi e se stesso; nei documenti iconografici della dexiosis non si pone mai nella condizione di poter essere identificato con gli dèi, ma si presenta come il re divino; pone i propri santuari sotto la protezione degli dèi e non sotto la propria protezione, per quanto divina. Per Waldmann in questi casi non abbiamo a che fare con una apoteosi: la dexiosis non è una divinizzazione del sovrano. Il re è divino e si mostra come tale al suo popolo. In quanto re divino, nella sua epifania divina, instaura nel suo regno un nuovo culto. Questo culto è reso agli dèi di Grecia e di Persia, ma con una predilezione per la teologia astrale, dal momento che le divinità astrali assumono un ruolo assai importante. In tale culto il ruolo di Mithra è centrale. Fondamentale, in ogni caso, è l’elemento della dexiosis tra il re e la divinità, tra il re e Mithra[19].

Antioco I di Commagene stringe la mano ad Eracle. Bassorilievo, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

Dextrarum junctio: la dexiosis

Disponiamo di una ragguardevole sintesi della nostra documentazione sulla dexiosis grazie a uno studio di M. Le Glay, La dexiosis dans les mystères de Mithra[20]. L’autore ha analizzato la documentazione di numerosi monumenti antichi, greci e cristiani. La dextrarum junctio è stata interpretata in modi differenti: come simbolo della fides o come il gesto degli sposi che si uniscono in matrimonio. Oggi sappiamo che questo gesto non appartiene né al rituale né alla simbologia del matrimonio, ma è divenuto, nel mondo cristiano, signum concordiae.

Nell’iconografia mitraica abbiamo soprattutto due episodi raffigurati sui bassorilievi cultuali collocati intorno alla scena della tauroctonia:

  • La scena dell’alleanza tra Mithra e il Sole: Mithra e il Sole si danno la mano destra, di solito al di sopra di un altare, «e questo conferisce al loro gesto un valore particolarmente sacro»[21]. «E questa dextrarum junctio è rappresentata con particolare frequenza tra il pannello che mostra il Sole inginocchiato ai piedi di Mithra e quello che ricorda il pasto sacro dei due personaggi»[22].
  • La scena dell’apoteosi: «Quando Mithra prende posto sul carro del Sole che deve condurlo fino al soggiorno celeste degli dèi, il Sole gli tende la sua destra, che il giovane dio stringe, a sua volta, con la mano destra. Questa seconda dexiosis non ha evidentemente lo stesso significato della prima».

I due episodi occupano un posto particolare nel mito e nella liturgia mitraici. Ciascuno di essi conclude una diversa serie iconografica: la serie breve termina con l’alleanza; la serie lunga con l’apoteosi e il banchetto, che seguono logicamente la scena dell’alleanza.

Per comprendere la dexiosis:

  • L’importanza del giuramento nelle società antiche. Dumézil e Boyancé hanno sottolineato l’importanza della fides, della devotio e del giuramento nella società romana.
  • La pax deorum in Occidente, la sottomissione e l’assoggettamento degli uomini agli dèi è uno degli aspetti fondamentali di questa realtà.
  • Il giuramento assume in tutte le religioni misteriche e iniziatiche un ruolo particolare: nel culto dionisiaco, nei culti alessandrini, l’Isismo e l’Osirismo.
  • Nel culto di Mithra il giuramento è proprio al centro del «gesto» divino e del rito di iniziazione dei fedeli. Questo giuramento solenne, di cui parla Tertulliano, è un sacramentum. «Colui che partecipa al mistero imita i gesti di Mithra, che tendendo la destra secondo l’uso persiano conclude il patto e ratifica il proprio giuramento».

La mano destra detiene la potenza ed esprime la volontà. In Oriente, a Roma, nella Bibbia, la destra è simbolo di potenza e di supremazia. In Siria la simbologia della mano è il segno della presenza di Dio. Da qui l’importanza della mano per gli dèi del tuono: è la mano a reggere il fulmine. Le mani votive ritrovate in Siria rimandano al culto di Giove Dolicheno. La mano divina dispensa potenza.

La mano è presente nella simbologia semitica, frigia, greca, romana e cristiana. Come in Oriente, la simbologia della potenza della mano destra si ritrova anche a Roma: potenza, protezione, benedizione. La mano destra è segno di impegno. A Roma la mano è associata alla dea Fides. P. Boyancé ha criticato una interpretazione esclusivamente giuridica di Fides, per segnalare alcuni suoi aspetti morali, sociali e religiosi[23]. Giove è Dius Fidius, e Fides, onnipresente a Roma, risulta una sorta di complemento di Dius Fidius. Nel rito della mano velata Le Glay vede un’esigenza di purezza assoluta e di rispetto della potenza divina. Le Glay si chiede se, in definitiva, Fides non sia proprio la dea dell’impegno.

Mitra (destra) stringe la mano ad Antioco I di Commagene (sinistra). Bassorilievo su stele, pietra calcarea, seconda metà del I sec. a.C. ca., dal settore occidentale dello Hierothesion di Antioco, Nemrut Dağı.

Dextrarum junctio: è il gesto che lega le potenze. La fides crea un legame, testimonia l’impegno. Boyancé ha indicato la stretta relazione tra le destre allacciate e la fides.

Così, la stretta di due mani destre evocata da tanti testi e raffigurata su tanti rovesci di moneta va compresa in tutti i casi come il segno, la testimonianza di un impegno volontario e reciproco. O meglio, essa stessa crea il legame.

Molti sono gli esempi di impegno di questo genere: impegno frutto dell’accordo che risulta da un trattato tra un vincitore e un vinto; impegno di alleanza e concordia che può risultare da un trattato; impegno di accoglienza, di ospitalità; accordo di fedeltà e di omaggio; impegno suggellato da un giuramento.

Che conclusioni trame?, si chiede Le Glay.

Che la mano destra, essendo insieme quella della potenza e quella dell’impegno, con la dexiosis crea tra gli uomini legami di ogni tipo, certamente di natura giuridica e morale, ma di essenza profondamente religiosa; legami che generalmente implicano una protezione volontaria e leale da una parte e una sottomissione volontaria e leale dall’altra[24].

Così trasposta all’ambito religioso, la dexiosis risulta ancora più importante.

 

La dexiosis nel mitraismo

a) Il parallelo dei culti orientali

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Le Glay propone la descrizione di diversi documenti. Innanzitutto la stele degli dèi palmireni trovata a Roma: Aglibol, dio lunare che indossa un’uniforme militare romana, stringe la mano al dio Malakbel, dio della fertilità, in costume palmireno. Questo gesto si ritrova a Palmira e ad Apamea: Le Glay vede qui un riferimento alla fecondità, ma anche alla salvezza, con un dio che rinasce ogni anno. Sull’altare del Campidoglio, sulle quattro facce, sono visibili le quattro fasi del sole: crescita, apogeo, declino, rinascita.

La dexiosis, gesto di introduzione: questo è il significato della scena nel culto dionisiaco. Le Glay descrive e analizza le immagini di un altare funerario di epoca imperiale. Dioniso riporta dall’Acheronte sua madre Semele e la conduce in cielo.

E la dextrarum junctio di Dioniso e di Semele mi pare dunque, sulla stele funeraria dei Musei Vaticani, evocare in realtà l’introduzione nell’aldilà beato, promesso ai misti, come normale conseguenza del loro impegno[25].

b) La dexiosis mitraica

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Mithra, il dio tauroctono, sconfigge le forze del male. Il Sole porta rinascita e salvezza. La dexiosis sta dunque a significare l’alleanza, l’impegno, il patto. Siamo nel contesto della fecondità. Il pasto sacro è segno dell’alleanza in vista della fecondità. La dexiosis nell’apoteosi di Mithra. Mithra sale e prende posto nel carro del Sole. È l’apoteosi, che prefigura l’accoglimento dell’iniziato. Con la dexiosis il Pater accoglie il nuovo iniziato, che stringe a sua volta la mano agli altri.

La dexiosis, unione di due mani destre che detengono la potenza ed esprimono la volontà, da un lato suggella l’impegno definitivo del miste con la divinità, creando con il dio e tra i misti un legame fraterno e indissolubile garantito dal giuramento, e dall’altro costituisce in fin dei conti un pegno certo di salvezza[26].

In sintesi, la dexiosis ha il valore di un giuramento con doppio impegno: dexiosis come impegno di tacere sul segreto della rivelazione e come impegno di fedeltà al contratto. È l’ingresso del miste nella milizia del dio Mithra, simbolo e garante del contratto. Il sacramentum, il giuramento, è di capitale importanza. Segno del giuramento e della fedeltà è il tatuaggio sacro, la sphragis, realizzato per mezzo di aghi acuminati. Una volta che il giuramento è prestato e l’impegno suggellato, il miste riceve la rivelazione. «Al miste il Pater dirà (i discorsi sacri)». Con questi riti si costituisce la comunità fraterna (syndexis, di quelli che si danno la mano) del mitreo, la comunità di coloro che sono salvati. Attorno alla dexiosis si svolgono così tre cerimonie liturgiche mitraiche.

In conclusione, Le Glay si domanda: «Si può constatare, nel passaggio dal rituale vedico al rituale dell’epoca imperiale romana, un arricchimento del significato e del valore della dexiosis?»[27]. E risponde:

È difficile da dire. Ciò che sembra certo è che in epoca romana la dexiosis finisce per essere molto più che il gesto del giuramento. E che con il suo triplice significato di gesto di introduzione, di alleanza e di fratellanza, avente sia valore di impegno, di patto concluso con la divinità da un lato e con i misti dall’altro, e di garanzia del segreto, condizione primaria e fondamentale della vita comunitaria fraterna, di cui ha significato la Inductio, essa si trova al cuore delle relazioni che governano principalmente la natura stessa e la vita delle religioni misteriche. E, a quanto sembra, del mitraismo in particolare, dato il posto senza eguali che essa occupa nei misteri di Mithra. Innanzitutto per le relazioni che crea con la divinità, relazioni di natura complessa (di sottomissione, di omaggio, di alleanza e di mutua fiducia), sicché in questo modo l’impegno e il patto culminano nell’unione mistica dell’apoteosi. In seguito, nei rapporti di carattere giuridico e morale di segreto e di fratellanza[28].

E infine Le Glay pone una questione molto pertinente:

Non starebbe forse in questo duplice soddisfacimento delle preoccupazioni e delle esigenze dei Romani, la cui formazione li portava a una attenzione particolare agli aspetti giuridici e le cui aspirazioni li orientavano al misticismo, una delle ragioni profonde del successo di cui godette in Occidente la religione di Mithra negli ambienti romani e romanizzati?[29]

Mitra nell’atto della dexiosis. Bassorilievo frammentario, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

4. Conclusioni

La nostra ricerca ci ha consentito, dunque, di mettere insieme una certa quantità di informazioni. Nel mondo ellenistico il dio Mithra non è sconosciuto. Le indicazioni di Plutarco su un culto mitraico di carattere iniziatico in Cilicia, nell’ambiente dei pirati, a partire dalle scoperte nella Commagene non risultano più massi erratici. Nella stessa epoca e in regioni molto vicine si parla egualmente di Mithra. Plutarco ci porta in Cilicia; le scoperte archeologiche ci portano nella Commagene. Sono scoperte importanti, poiché troviamo un culto di Mithra, culto pubblico, culto regale, con un sacerdozio e un rituale.

Questo culto pubblico ·e regale d’Asia minore fa riferimento a riti persiani, mazdei, a un sacerdozio che fa pensare ai Magi, dunque ai Medi, a divinità iraniche ma anche a divinità greche. L’ellenismo si manifesta, dunque, in modo netto. Mithra occupa un posto importante in questo culto regale, culto che, del resto, fa appello all’astrologia, che è presente ovunque, così come sarà presente nei misteri diffusi in Occidente. Esiste un luogo di culto, ma non sembra che si tratti di un mitreo, dal momento che i riti vengono celebrati all’aria aperta. n santuario si chiama hierothesion, un termine che sembra indicare piuttosto un culto regale di carattere funerario, un culto dei sovrani. La vasta documentazione iconografica ed epigrafica scoperta nella Commagene attirerà ancora, certamente, l’attenzione degli studiosi.

Accanto alle questioni legate al culto, alle corrispondenze geografiche e cronologiche, agli elementi del rituale, ci pare rilevante la questione della dexiosis mitraica. Troviamo la dexiosis nella liturgia mitraica e nell’iconografia dei misteri di Mithra: il Sole e Mithra che si danno la destra. Nella Commagene troviamo una dexiosis del tutto simile: il sovrano-dio dà la destra a Mithra, che è anche Helios.

Le scoperte della Commagene, il rituale e l’iconografia della dexiosis sembrano dare nuovo slancio a questo ambito degli studi mitraici. In una nota pubblicata alla fine del suo articolo, Le Glay segnala una serie di pubblicazioni recenti su questi aspetti, in particolare quelle di Gonda sul dio Mitra vedico e sul significato della mano destra nel rituale vedico. Egli affronta anche il problema della dexiosis nella Commagene, senza tuttavia prendere personalmente posizione.

Nelle scoperte della Commagene non abbiamo forse l’anello mancante che collega il dio Mitra dell’India, il dio Mithra iranico e il dio Mithra dei misteri dell’Impero romano? n fatto di porre la questione è forse già una risposta. Lo studio dei documenti della Commagene ci ha consentito di notare l’importanza dell’ellenizzazione del culto di Mithra. Nei documenti nella Commagene dell’India avevamo visto il dio sovrano Mìthra del mondo indoiranico. Un dio sovrano che ritroviamo in Iran, dove il suo culto si conforma all’evoluzione della religione iranica. Siamo in effetti in presenza di una iranizzazione del culto, nella quale assumono evidentemente un ruolo capitale i Magi e lo zervanismo. Forse non bisogna trascurare l’importanza dei Männerbünde, i gruppi guerrieri specificamente iranici. Nella Commagene ci troviamo di fronte a una terza tappa del culto di Mithra: la sua ellenizzazione.

In questa tappa il culto di Mìthra rimane un culto ufficiale. Diventa un culto regale, un culto dei sovrani. In questo culto troviamo tuttavia alcuni elementi religiosi, come la dexiosis, che saranno importanti nella quarta e ultima tappa del culto di Mithra: i misteri mitraici o la romanizzazione di Mithra.

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Note:

* Le cult de Mithra en Commagène, in J. RIES, Le culte de Mithra en Orient et en Occident, coll. « Information et Enseignement » 10, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1979, pp. 115-126.

[1] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen unter Konig Mithradates l. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos 1., Brill, Leiden 1973, XXXVIII tavole e una carta.

[2] F.K. DÖRNER, Mithras in Kommagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques. Actes du 2me Congrès international, Téhéran, du 1er au 8 septembre 1975, «Acta Iranica» 17, Édition Bibliothèque Pahlavi, Téhéran-Liège 1978, pp. 123-134; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Iran and Greece in Commagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 187-200.

[3] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., e F. DÖRNER, Arsameia am Nymphaios. Die Ausgrabungen im Hierothesion des Mithradates Kallinikos, von 1953-1956, coll. «lstanbuler Forschungen» 23, Verlag Gebr. Mann, Berlin 1963.

[4] R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, PUF, Paris 1968, pp. 106-107.

[5] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, Lamertin, Bruxelles 1899, 19133, pp. 35-36

[6] E. WILL, Origine et nature du mithriacisme, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 527-536.

[7] Ibid., p. 528.

[8] E.D. FRANCIS, Plutarch’s Mithraic Pirates, «Mithraic Studies», I, Manchester 1975, pp. 207-210.

[9] M.J. VERMASEREN, Mithra, ce dieu mystérieux, Sequoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 23.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 24.

[12] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, cit., p. 31.

[13] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., pp. 132-141.

[14] Ibid., pp. 62-77.

[15] lbid., pp. 51-141.

[16] J. GAGÉ, Basileia, les Césars, les Rois d’Orient et les Mages, Les Belles Lettres, Paris 1968, pp. 144-146.

[17] Ibid., p. 144.

[18] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., tav. VIII, stele di Selik; tav. XXI, terrazza di Nemrut Dağı, la dexiosis re-Eracle; tav. XXII, la dexiosis re-Zeus e re-Mithra; tav. XXXI, Mitridate-Eracle.

[19] Ibid., pp. 197-202.

[20] M. LE GLAY, La dexiosis dans les mystères de Mithra, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 279-304.

[21] Ibid., p. 280.

[22] Ibid.

[23] P. BOYANCÉ, Études sur la religion romaine, École Française de Rome, Rome 1972. Cfr. Fides et le serment, pp. 92-103, 296, 299, 300.

[24] M. LE GLAY, La dexiosis…, cit. p. 296.

[25] Ibid., p. 299.

[26] Ibid., p. 300.

[27] Ibid., p. 302.

[28] Ibid., pp. 302-303.

[29] Ibid., p. 303.

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Bibliografia complementare:

FR.K. DÖRNER, Arsameia am Flusse Nymphaios. Eine neue kommagenische Kultstätte, «Bibliotheca Orientalis», 9, 1952, pp. 93ss.

H. DÖRRIE, Der Königskult des Antiochos von Kommagene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Vandenhoeck &. Ruprecht, Göttingen 1964.

R. MERKELBACH, Der kommagenische Königskult, in ID., Mithras, Hain, Königstein/ Ts. 1984, pp. 50-73 [tr. it. Mitra, coll. «Nuova Atlantide», ECIG, Genova 19982]. Cfr. anche Bildteil, pp. 261-395. Vasta documentazione mitraica commentata dall’autore.

TH. REINACH, La dynastie de Commagène, «Revue des études grecques», 3, 1890, pp. 362-380.

B. YAMAN, Nemrut Dagi, Commagena, Minyatür, lstanbul s.d. (edizione francese). Bella documentazione a colori. 126 pp.

Epigrafia e culti dei re seleucidi

di Biagio Virgilio, in «SEL» 20 (2003), pp. 39-50.

 

Nel campo degli onori religiosi e dei culti per il basileus ellenistico si ha opportunità di una verifica diretta ed efficace del nesso “epigrafia e religione” proposto come punto di osservazione e denominatore comune in questo incontro di studio interdisciplinare: sia perché il documento epigrafico, inciso dalle autorità locali ed esposto nei luoghi più eminenti delle città ellenistiche, è lo strumento per eccellenza della comunicazione e della divulgazione; sia perché gli argomenti ricorrenti nella comunicazione e negli atti ufficiali scambiati fra città e re (decreti cittadini, epistole delle cancellerie reali, memoranda, ecc.) riguardano richieste, concessioni e riconoscimenti reciproci di benefici, privilegi e onori; sia perché tali documenti contengono talvolta importanti indicazioni sulla amministrazione e sulla organizzazione regia ellenistica in materia religiosa, fornendo spunti anche per la definizione della politica religiosa delle città e dei re ellenistici, nonché della ideologia e della simbologia del re e della regalità ellenistica. La mia esposizione avrà necessariamente le caratteristiche di una breve sintesi esemplificativa, e sarà per di più limitata alle attestazioni epigrafiche più significative degli onori religiosi e dei culti per i Seleucidi di Siria.

Mappa dell'Impero seleucide (II-I sec. a.C.).
Mappa dell’Impero seleucide (II-I sec. a.C.).

Nel culto del re ellenistico bisogna distinguere fra culti cittadini e culto dinastico. I culti cittadini in onore del basileus, spesso intrecciati con cerimonie festive e religiose comuni che non implicano necessariamente forme dirette di culto del sovrano, sono manifestazioni apparentemente spontanee delle poleis libere ο soggette, interne ο esterne al regno. Sono però anche indizio del desiderio delle città di manifestare prontamente le proprie buone attitudini nei confronti del basileus del momento per ottenerne benevolenza e vantaggi, dunque esprimono il diffuso stato di incertezza e di insicurezza delle città di fronte al potere dei re ellenistici e di fronte agli eventi che le coinvolgono e le sovrastano.

A sua volta, il re ellenistico corrisponde alle attese delle città svolgendo a loro favore la funzione generale di protettore e di evergete per eccellenza in àmbito politico, economico, fiscale.

Sui culti cittadini in onore dei re Seleucidi, l’epigrafia è dunque una fonte primaria anche se non esclusiva. Qualche esempio.

 

Truppe del regno seleucide (II-I sec. a.C.). Illustrazione di A. McBride.
Truppe del regno seleucide (II-I sec. a.C.). Illustrazione di A. McBride.

 

Nel 281 a.C. la città di Ilion regolamenta il culto di Seleuco I dotato di altare, sacrifici, agoni (iniziativa che potrebbe essere messa in relazione con la celebre legge contro la tirannide, emanata dalla stessa città di Dion nel clima della vittoria di Seleuco su Lisimaco a Curupedio)[1]. Poco dopo, nella stessa Ilion è attestato il sacerdote del figlio e successore Antioco I, al quale è tributato culto pubblico e privato[2]. Alla stessa epoca a Cuma Eolica erano celebrate feste in onore di Antioco I associate alle feste in onore di Dioniso (Dionysia e Antiocheia), alle quali furono in seguito aggiunte feste in onore del dinasta pergameno Filetero (Soteria e Philetaireia) resosi benemerito nei confronti della città per un cospicuo donativo di armi da distribuire ai cittadini per la difesa della città e del territorio[3]. Culti di Seleuco I e di Antioco I sono attestati anche in altre città greche, ma il culto cittadino di Ilion ha un rilievo particolare perché la città era sede del tempio e delle grandi feste di Atena Ilias.

 

Cleone di Antifane, magistrato responsabile del conio. Tetradramma, Ilion 188-133 a.C. ca. Ar. 16, 85 gr. R – AΘHNAΣ IΛIAΔOΣ Statua di Atena Ilias stante, con lancia in spalla e civetta, passata da ΚΛΕ-ΩΝΟΣ; il patronimico ANTIΦANOY in basso.
Cleone di Antifane, magistrato responsabile del conio. Tetradramma, Ilion 188-133 a.C. ca. Ar. 16, 85 gr. Drittro: AΘHNAΣ IΛIAΔOΣ. Statua di Atena Ilias stante, con lancia in spalla e civetta, passata da ΚΛΕ-ΩΝΟΣ; il patronimico ANTIΦANOY in basso.

 

A Smirne, il trattato di sympoliteia fra Smirne e Magnesia al Sipilo (databile fra il 245 e il 242 circa a.C.), attesta la istituzione di culti pubblici e privati di Antioco II e della madre Stratonice assimilata ad Afrodite. Nei preliminari del decreto posto in apertura del trattato, la città di Smirne dichiara di avere mantenuto la «benevolenza e amicizia» nei confronti di Seleuco II malgrado l’invasione dei nemici e le devastazioni subite dal suo territorio e dai beni dei cittadini (ll. 2-5, 89-91), offrendo così direttamente una testimonianza rara e preziosa degli sconvolgimenti che interessarono le città d’Asia Minore allo scoppio della terza guerra di Siria ο ‘guerra Laodicea’ (246-241 a.C.); la città dichiara quindi che il re Seleuco l’aveva ricompensata confermando «l’autonomia e la democrazia» della città e scrivendo «ai re, alle città, ai dinasti e ai popoli» perché il tempio di Afrodite Stratonicide fosse riconosciuto inviolabile e perché la città stessa fosse riconosciuta sacra e inviolabile (ll. 5-12)[4]. Un decreto di Delfi, tempestivamente emanato sulla base delle epistole inviate da Seleuco, attesta che i privilegi richiesti da Seleuco per Smirne e per il tempio erano stati accordati e registrati, e attesta inoltre che Seleuco aveva concesso a Smirne lo stato di «città libera e immune da tributo» (11. 7-8)[5].

Nelle città organicamente strutturate nell’impero seleucidico non sempre è agevole distinguere nei documenti epigrafici fra culto cittadino e culto ufficiale dinastico dei re Seleucidi. Il culto di Seleuco I a Dura Europos è attestato da un documento del 180 d.C., la cui formula di datazione è basata sulla eponimia di vari sacerdoti fra i quali figura ancora il sacerdote dei prógonoi e di Seleuco Nicatore[6]. Nella copia trascritta ed esposta a Magnesia al Meandro di un decreto di Antiochia di Perside, emanato attorno al 205 circa a.C. all’epoca di Antioco III e avente per oggetto il riconoscimento della dignità delle feste organizzate da Magnesia in onore di Artemide Leukophryene, la formula di datazione del documento è costituita dal riferimento alla eponimia del sacerdote unico di tutti i re Seleucidi compresi fra Seleuco I e Antioco III (dal 311-281 al 223-187 a.C.)[7]. Da Seleucia di Pieria, una delle città della Tetrapoli di Siria, proviene l’iscrizione (probabilmente dell’età di Seleuco IV) che contiene le liste annuali, riferite a due anni successivi, dei sacerdoti di Zeus, dei sacerdoti di Apollo di Dafne (il dio dinastico seleucidico) e dei singoli sacerdoti di tutti i basileis Seleucidi compresi fra Seleuco I e Seleuco IV (dal 311-281 al 187-175 a.C.)[8].

I culti cittadini in onore di Antioco III e di Laodice riflettono in particolare il prestigio personale della regina e il suo ruolo nei rapporti con le città[9]. Nel 213 a.C. Sardi decreta in onore di Laodice un recinto sacro (témenos Laodikeion), un altare, feste in suo onore (Laodikeia) con processione e sacrificio, in occasione delle quali Antioco concede una esenzione dalle tasse[10].

Antioco III. Tetradramma, Asia Minore 213-204 a.C. Ar. 17,01 gr. Dritto: Testa diademata del sovrano verso destra.
Antioco III. Tetradramma, Asia Minore 213-204 a.C. Ar. 17,01 gr. Dritto: Testa diademata del sovrano verso destra.

 

Fra il 204 e il 203 a.C. Antioco III, di ritorno dalla spedizione orientale, nel quadro della politica di rafforzamento della presenza seleucidica nell’Asia Minore occidentale e nel corso di una sua visita in città, concede a Teos, sede della potente corporazione dei Technitai dionisiaci, lo statuto di città sacra, inviolabile ed esente da tributi, risollevandola da una precaria condizione economica e politica a causa «delle continue guerre e della pesantezza delle contribuzioni» che avevano stremato la città e i cittadini (I, ll. 12-14), e facendole dunque preferire il protettorato seleucidico al protettorato attalide. Antioco aveva annunciato di persona, di fronte all’assemblea cittadina, la concessione di tali benefici. Teos riconoscente decreta statue di culto di Antioco e della regina Laodice che condivideranno con Dioniso il tempio (diventando dunque synnaoi theoi)[11], ogni altro onore e il titolo di Salvatori della città; la città istituisce sacrifici e feste in loro onore, Antiocheia e Laodikeia, con banchetti dei cittadini e dei Technitai dionisiaci; le organizzazioni dei cittadini e gli abitanti svolgeranno i riti del sacrificio e delle feste in pubblico e in privato; durante le feste i cittadini parteciperanno con la corona, vi sarà astensione dal lavoro e sospensione dei processi; la statua di culto del re sarà coronata; alla regina è consacrata una fontana[12]. L’integrazione dei culti reali con i culti cittadini esistenti è qui particolarmente evidente. Inoltre, la persistenza del culto cittadino dei re Seleucidi a Teos è ben documentata dalla lista (redatta dopo la metà del II secolo a.C.) di tutti i basileis divinizzati che si sono succeduti da Seleuco I fino a Demetrio I (dal 311 -281 al 162-150 a.C.)[13], con l’evidente intento di esibire una antica e ininterrotta devozione.

L’iscrizione di Teos con i decreti in onore di Antioco III e Laodice e con le epistole di Antioco mette dunque in buona evidenza alcuni punti essenziali: l’interesse politico reciproco che sta alla base dei rapporti fra basileis ellenistici e città; il rapporto di necessità che si può innescare fra una polis in difficoltà nel sostenere il peso economico delle contribuzioni regie e nell’affrontare i soverchianti eventi esterni; le provvidenze adottate dal basileus in suo soccorso; i decreti cittadini che ricompensano anche con onori divini il sovrano evergete.

 

iasos (caria, turchia). agorà
Agorà di Iasos (Caria).

 

In Caria, il recupero nel 197 a.C. della città di Iasos dal dominio di Filippo V di Macedonia al dominio seleucidico, fu accompagnato da una serie di interventi di Antioco III (come la restituzione della ‘libertà’ e dell’ordinamento costituzionale) per la migliore condizione del corpo civico e della città, sconvolta in quegli stessi anni anche da un terremoto.

La regina Laodice, con un’azione di supporto della politica del marito Antioco e in sintonia con la sua buona disposizione verso Iasos, manifestando il proposito di venire in soccorso dei cittadini bisognosi e dell’intera comunità colpita da «improvvise calamità dopo che (Antioco) aveva recuperato la città» (ll. 7-9), comunica con una sua epistola di avere disposto che a Iasos siano fatti pervenire mille medimni attici di grano all’anno per dieci anni, che parte sia venduta e che con i proventi della vendita sia fornita, entro i limiti di 300 dracme, la dote alle figlie dei cittadini indigenti. Nel finale dell’epistola la regina promette ulteriori interventi evergetici a favore della città se essa saprà mostrarsi fedele e grata alla casata di Antioco, e annuncia il fermo proposito del re di favorire la ricostruzione della città (ll. 32-33), evidentemente in considerazione delle «improvvise calamità» (ll. 7-9) che l’avevano colpita.

L’epistola di Laodice a Iasos, con i contenuti ora esposti, è seguita da un decreto molto lacunoso della città che testimonia l’esistenza del culto di Antioco con sacrifici compiuti dagli strateghi cittadini sul suo altare in occasione della cerimonia della consegna delle chiavi della città agli strateghi che entrano in carica, cerimonia che simboleggia la ‘libertà’ recuperata dalla città di Iasos grazie ad Antioco III. Accanto al culto di Antioco, il decreto istituisce anche il culto della regina Laodice assimilata ad Afrodite, dotandolo di una sacerdotessa, regolamentando i suoi compiti e le cerimonie alle quali assisteranno i giovani sposi: una norma, questa, che fornisce una precisa corrispondenza interna con le misure stabilite da Laodice nell’epistola a Iasos circa la dote da assegnare alle fighe dei cittadini indigenti[14].

 

Tempio di Atena, Eraclea al Latmo (Caria).
Tempio di Atena, Eraclea al Latmo (Caria).

 

Una situazione analoga è messa in luce a Eraclea al Latmo in Caria da due epistole di Zeuxi e di Antioco ΙII alla città databili al 196-193 circa a.C., restituite da quattro blocchi provenienti dal locale tempio di Atena (I, ll. 1-15 – II, ll. 1-2: epistola di Antioco; II-IV: epistola di Zeuxi). Ambasciatori di Eraclea comunicano a Zeuxi, che ha recuperato la città al dominio seleucidico, di avere deliberato sacrifici mensili in onore di Antioco III, di Laodice e dei loro figli (II, ll. 1-11); al tempo stesso gli ambasciatori presentano una lunga lista di richieste motivate dalle gravi ristrettezze nelle quali la città si dibatte rispetto ai tempi precedenti «a causa delle guerre e delle devastazioni» (II, ll. 11-14), e accompagnate dalle dichiarazioni degli stessi ambasciatori che si trattava di confermare alla città benefici già concessi dai predecessori di Antioco: esenzione dall’obbligo di fornire alloggiamenti all’esercito (anepistathmeia), benefici fiscali su proprietà, su importazioni ed esportazioni, sovvenzioni finanziarie dalla cassa reale per l’amministrazione della città, forniture d’olio per il ginnasio sovvenzionate con i proventi fiscali, esenzione fiscale sui prodotti della terra, sul bestiame e sugli alveari, forniture di grano ed esenzioni fiscali sul grano importato in città e venduto, restituzione di territorio cittadino, riaccorpamento di comunità rurali al territorio della città (II, ll. 14-16; III, ll. 1-13).

Malgrado la frammentarietà dei documenti, è evidente che con la sua epistola Zeuxi accorda alla città ciò che gli ambasciatori hanno richiesto, ammettendo il principio che «le concessioni fatte al tempo degli antenati del re vanno confermate» (III, ll. 14-15); inoltre, Zeuxi concede anche l’esenzione fiscale della panégyris (III, ll. 13-16 – IV, ll. 1-13).

L’epistola di Antioco III non solo conferma le decisioni assunte da Zeuxi ma contiene anche il bel gesto regale di concedere ulteriormente una maggiorazione nella fornitura annuale di olio per il ginnasio e il ripristino dell’acquedotto cittadino a spese dell’erario reale con sovvenzioni distribuite nell’arco di tre anni (1,11. 8-14)[15].

Se l’occidente seleucidico fornisce un maggior numero di esempi di culti cittadini in onore dei Seleucidi, basti qui un solo esempio per l’oriente (in aggiunta a quelli già ricordati di Dura Europos, Antiochia di Perside, Seleucia di Pieria). Una iscrizione greca proveniente da Babilonia ο da Seleucia sul Tigri ο da altra fondazione seleucidica vicina, attesta il culto di Antioco IV al quale è attribuito il titolo di «dio Epifane Salvatore dell’Asia, fondatore e benefattore della città»: si tratta della dedica offerta da un Filippo nel 167/6 a.C. in occasione di riti e feste di ringraziamento celebrati per un successo di Antioco. Il culto del re e la dedica connotano evidentemente come greca la comunità che li ha espressi[16].

Antioco III. Testa, marmo, fine I sec. a.C. - inizi I sec. d.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Antioco III. Testa, marmo, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Se dunque i culti cittadini del basileus dipendono dalla iniziativa interna della polis e dalle sue convenienze, il culto dinastico del basileus è invece un culto ufficiale istituito dai re per gli antenati (prógonoi), per se stessi, per la regina e non interferisce con i culti cittadini spontanei e locali. Il culto dinastico dei Seleucidi è distribuito e incardinato nelle circoscrizioni del regno, è gestito dalla amministrazione regia ed è curato da sacerdoti e sacerdotesse eponimi nominati dal basileus. Il culto dinastico aveva lo scopo di rafforzare l’influenza e il potere della dinastia con la onnipresenza del re dio sul territorio del regno.

Alle origini del culto dinastico vi sarà stata anche l’esigenza del re greco-macedone di rafforzare i culti greci legati alla dinastia e di costituire un proprio pantheon familiare distintivo nella grande varietà ed estraneità religiosa dei nuovi regni multietnici, fornendo dunque una forma di religiosità intima per il re e per la famiglia, e una religione nella quale il vasto numero dei funzionari, dei burocrati e dei soldati direttamente legati al basileus, trovavano identità e aggregazione consolidando il lealismo nei confronti del re e della dinastia[17]. Non tutte le dinastie ellenistiche hanno istituito culti dinastici, che sono noti per i Tolomei d’Egitto, per i Seleucidi di Siria, per i re di Commagene, ma non sono attestati né per gli Antigonidi di Macedonia né per gli Attalidi di Pergamo.

Il culto di Alessandro promosso in Egitto da Tolomeo I Soter[18] con chiaro intento dinastico è alle origini del culto dinastico dei Tolomei. Per commemorare il padre morto nel 282 a.C., Tolomeo II Filadelfo istituì feste quadriennali in suo onore, Ptolemaia, la cui prima celebrazione ebbe luogo ad Alessandria nel 280/279 a.C. e fu occasione per la formale divinizzazione di Tolomeo Soter. La descrizione di Callisseno di Rodi della grande processione (pompe) organizzata da Tolomeo II per gli Ptolemaia è un documento eccezionale per la definizione della ideologia dinastica tolemaica[19]. (Alla pompe tolemaica di Alessandria corrisponde, nella simbologia e nella ideologia, la pompe seleucidica di Dafne organizzata da Antioco IV nell’estate del 166 a.C. e descritta da Polibio: in entrambi i casi la fonte è Ateneo, che istituisce anche un confronto fra le due grandi celebrazioni e i re promotori)[20].

 

Alessandro il Grande. Testa, marmo, III secolo a.C. ca. Alessandria, Greco-Roman Museum.
Alessandro il Grande. Testa, marmo, III secolo a.C. ca. Alessandria, Greco-Roman Museum.

Il culto dinastico dei Seleucidi si sviluppa più lentamente. Un antecedente può essere considerato il luogo consacrato a Seleucia di Pieria da Antioco I per il padre defunto Seleuco I Nicatore (281 a.C.)[21]: come per i Tolomei, anche per i Seleucidi il culto familiare del capostipite è subito istituito alla sua morte dal figlio successore. Il culto dinastico dei Seleucidi è sicuramente e pienamente attestato a partire da Antioco III (223-187 a.C.), che potrebbe averlo introdotto attorno al 204 a.C. al suo rientro dalla spedizione orientale.

L’epistola di Antioco IV a Zeuxi rinvenuta a Pamuçsu in Misia, datata al 209 a.C., ha per oggetto la nomina di Nicanore, ‘amico’ e ‘gran ciambellano’ (ὁ ἐπὶ τοῦ κοιτῶνος) del re, come sommo sacerdote e curatore di tutti i templi oltre il Tauro; Nicanore sovrintenderà alla amministrazione dei templi, dovrà gestire le rendite templari e tutto il resto secondo le modalità religiose-amministrative adottate dal predecessore Dione in carica all’epoca del nonno Antioco II (261-246 a.C.); il sommo sacerdote sarà eponimo e il suo nome sarà menzionato negli atti pubblici e nei contratti secondo l’uso. È stato osservato che nell’epistola Nicanore è nominato ἀρχιερεύς τῶν ἱερῶν πάντων senza alcun riferimento esplicito al culto dinastico, e dunque la nomina di Antioco avrebbe comportato, nella dichiarata continuità con le funzioni esercitate dal predecessore Dione, solo la normale funzione di Nicanore come sommo sacerdote con particolare riguardo alla amministrazione e alle rendite dei templi oltre il Tauro, con le ovvie competenze dell’archiereus sui culti reali ufficiali praticati nelle città e nei territori oltre il Tauro. Ma è probabile che tali originarie competenze di Nicanore abbiano successivamente compreso anche quelle relative al culto ufficiale dinastico nel frattempo introdotto da Antioco[22].

Nicanore rimase a lungo nella carica. Il suo nome come sommo sacerdote eponimo può essere integrato in due decreti di Amyzon in Caria del 202 e 201 a.C., ed è ben conservato in un decreto di Xanthos in Licia del 196 a.C.[23] Nello stesso 196 a.C., ancora nell’età di Antioco III, Nicanore figura come sommo sacerdote eponimo, insieme con i sacerdoti cittadini annuali del culto reale, nel decreto dei neoi di Xanthos in onore del ginnasiarca Lisone[24]. Inoltre, nel memorandum indirizzato all’archiereus Eutidemo (post 188 a.C.), Kadoas, sacerdote locale ‘da lungo tempo’ del tempio di Apollo Pleurenos presso Sardi in Lidia, dichiara di avere già rivolto in precedenza, all’epoca di Antioco III, analoga richiesta all’archiereus Nicanore (ll. 6-9) al fine di ottenere il permesso di erigere nel tempio una stele che ricordasse il nome dell’archiereus, il suo stesso nome e quello degli iniziati (mystai) del dio[25]. Se ne può dedurre che Nicanore deve essere stato l’ultimo archiereus seleucidico[26] nei territori oltre il Tauro, prima che questi fossero assegnati agli Attalidi con la pace di Apamea; è anche plausibile l’ipotesi che Nicanore abbia per qualche tempo ancora esercitato le sue funzioni di archiereus e di sovrintendente alle finanze sacre anche sotto la nuova amministrazione attalide e che il suo successore come archiereus di nomina attalide sia stato quell’Eutidemo al quale Kadoas rinnova la richiesta che già aveva presentato a Nicanore. L’epistola di Antioco III rinvenuta a Pamuçsu in Misia, il memorandum del sacerdote Kadoas in Lidia e la dedica di Apollonio in onore di Euxenos – se questi ultimi due documenti possono essere letti in sequenza –, permettono dunque di ricostruire la successione degli ultimi archiereis seleucidici e dei primi archiereis attalidi nelle regioni dell’Asia Minore cistaurica, fra la metà circa del III e la prima metà del II secolo a.C.: Dione, Nicanore, Eutidemo, Ermogene.

Monumento delle Nereidi. Facciata con colonnato e statue, marmo policromo, 380 a.C. ca. dalla Tomba monumentale di Erbinna (Xanthos, Licia). London, British Museum.
Monumento delle Nereidi. Facciata con colonnato e statue, marmo policromo, 380 a.C. ca. dalla Tomba monumentale di Erbinna (Xanthos, Licia). London, British Museum.

 

Il dossier epigrafico proveniente da Hefzibah, nei pressi di Bet Shean/Skythopolis in Palestina (costituito da ben sei epistole di Antioco III e da due memoranda dello stratego e archiereus Tolomeo), documenta i reiterati interventi del re Antioco, fra il 199 e il 195 a.C., a tutela dei possedimenti di Tolomeo, costituiti in parte da villaggi (con le comunità agricole locali ad essi vincolate e alla terra: i laoi) di sua proprietà ο acquisiti per via ereditaria, il cui possesso risaliva all’epoca in cui era al servizio di Tolomeo IV, in parte da villaggi probabilmente a lui concessi da Antioco III quando era passato al suo servizio nel corso della quinta guerra di Siria (202-200 a.C.) ο poco prima. Figlio di quel Thraseas che negli anni trenta-venti del III secolo aveva contribuito al temporaneo consolidamento del potere tolemaico in Cilicia e alla rinascita della piccola città di Arsinoe[27], Tolomeo (lo stesso Tolomeo al quale nel 200 a.C., nel definitivo passaggio della Celesiria e Fenicia dal dominio tolemaico al dominio seleucidico, Antioco III invia l’epistola con il nuovo statuto di Gerusalemme[28]), figura nel dossier di Hefzibah con la duplice carica di stratego seleucidico della Celesiria e Fenicia e di sommo sacerdote.

Anche in questo caso la carica di archiereus di Tolomeo non è esplicitamente riferita al culto dinastico dei re seleucidi: la sua funzione di sommo sacerdote, unita a quella di stratego, dovrebbe significare che Tolomeo aveva competenza sulla amministrazione e sulle finanze dei templi, ma anche sui culti reali ufficiali praticati nella regione da lui amministrata come stratego[29].

Editto di Antioco III per la divinizzazione della regina Laodice, di sé e degli antenati (SEG 13, 592). Pietra locale, 193 a.C. da Laodicea in Media (Nahavand, Iran). Tehran, Museum of Archaelogical Iran.
Editto di Antioco III per la divinizzazione della regina Laodice, di sé e degli antenati (SEG 13, 592). Pietra locale, 193 a.C. da Laodicea in Media (Nahavand, Iran). Tehran, Museum of Archaelogical Iran.

Il documento più esplicito e chiaro sul culto dinastico dei re seleucidi è costituito dall’editto (próstagma) del 193 a.C. con il quale Antioco III introduce nell’impero il culto ufficiale della regina Laodice affiancandolo al culto degli antenati (prógonoii)[30] e al suo stesso culto. Sono note ben tre copie dell’editto provenienti dai poli opposti dell’impero seleucidico, da Occidente e da Oriente. Il primo esemplare fu scoperto a Eriza/Dodurga in Frigia nel 1884; il secondo a Laodicea di Media/Nahavand in Iran nel 1947; il terzo nella regione di Kermanshah ancora in Iran nel 1967[31]. La sequenza delle scoperte ha progressivamente consentito, fra l’altro, il definitivo accertamento della cronologia dell’editto reale: anno 119° dell’era seleucidica (Nahavand, l. 10 e 33), giorno 3 ο 10 del mese di Xandikos = 21 ο 28 febbraio 193 a.C. (Kermanshah, l. 22: incertezza di lettura fra gamma = 3, oppure iota = 10).

Dalle tre copie risulta che Antioco invia l’editto rispettivamente ad Anassimbroto governatore della Frigia e a Menedemo governatore della Media; questi a loro volta lo trasmettono ai funzionari locali subalterni. Le date poste in calce ai singoli documenti permettono di verificare che la diffusione dell’editto nel vasto impero seleucidico è avvenuta nell’arco di tempo compreso fra marzo e giugno del 193 a.C. Pur considerando che l’editto è stato redatto e trasmesso da Antioco ai governatori mentre era in Asia Minore occidentale nel 193 a.C. (il 3 ο 10 Xandikos = 21 ο 28 febbraio: Kermanshah, l. 22), e pur volendo considerare forse eccessivo il tempo burocratico impiegato da Anassimbroto nel trasmettere l’editto ai funzionari subalterni (il 19 Artemisios = 6 maggio: Eriza, l. 11) dopo averlo ricevuto in Frigia[32], si deve tuttavia convenire che complessivamente la diffusione dell’editto dall’Asia Minore occidentale alla Media nell’arco di tempo compreso fra marzo e giugno è prova di una organizzazione burocratica efficiente e della velocità di comunicazione da un capo all’altro dell’impero.

Viale colonnato di Laodicea al Lico (Frigia, Turchia).
Viale colonnato di Laodicea al Lico (Frigia, Turchia).

L’editto prevede che in ogni satrapia, accanto ai gran sacerdoti dei prógonoi e dello stesso Antioco siano istituite le grandi sacerdotesse eponime della regina Laodice che si fregeranno della corona d’oro sacerdotale con l’immagine di Laodice[33]. Le sacerdotesse nominate da Antioco, Laodice per la Media e Berenice per la Frigia, hanno rapporti di parentela con la casa dei Seleucidi: Laodice è la figlia stessa di Antioco III e della regina Laodice; Berenice è figlia di Tolomeo figlio di Lisimaco, dinasta di Telmesso in Licia. Dovendo escludere per ragioni cronologiche il primo dinasta Tolomeo, figlio del re Lisimaco di Tracia, bisognerà optare per l’altro Tolomeo, nipote del precedente e pronipote del re Lisimaco – dunque Lisimachide di quarta generazione –, terzo dinasta di Telmesso ricordato nelle clausole della pace di Apamea. Tolomeo di Lisimaco, il padre di Berenice, è dunque discendente dal re Lisimaco di Tracia e, nella copia di Eriza, è indicato in rapporto di parentela con Antioco III[34]. Il culto del re e della regina viventi coesiste con il culto dei re antenati defunti. L’introduzione di Laodice nel culto dinastico ufficiale seleucidico sembra preparata dalla sequenza dei culti cittadini in precedenza stabiliti in suo onore a Sardi, a Teos, a Iasos[35].

 

Epigrafia e religione, dunque: senza epigrafia poco ο nulla sapremmo della organizzazione e della diffusione dei culti, cittadini e dinastici, dei re Seleucidi: una condizione che si riscontra agevolmente anche nelle altre dinastie ellenistiche.

Fra i culti dei re ellenistici, documentati in prevalenza dalla epigrafia, una eccezione è costituita dal culto di Demetrio Poliorcete istituito ad Atene fra il 307 e il 304 a.C. e durato quasi vent’anni, fino alla sua abolizione nel 288-287 a.C. Gli straordinari onori religiosi, compreso l’inno itifallico cantato in onore di Demetrio, furono aspramente contestati da una parte degli Ateniesi (fra cui Democare, cugino di Demostene) come esempio di «adulazione» (κολακεία) vergognosa e abbietta. Nell’inno, parafrasato da Democare e riportato per esteso da Duride di Samo, gli Ateniesi così si rivolgevano al re dio: «… Ο figlio del possente dio Poseidone e di Afrodite, salve. Gli altri dei … sono lungamente distanti, ο non hanno orecchie, ο sono assenti ο non si curano affatto di noi, mentre te noi vediamo presente, non di legno né di pietra, ma vero: e a te rivolgiamo le nostre preghiere…». In questo caso, il lungo elenco dei contestati onori, insieme con il testo dell’inno, è restituito polemicamente dalla stessa tradizione oratoria e storiografica, scandalizzata dagli eccessi degli Ateniesi ‘vincitori di Maratona’ e dai comportamenti del basileus[36]. Si tratta dunque di un raro caso di tradizione letteraria critica, mentre la tradizione epigrafica è in genere uniformemente ufficiale e celebrativa.

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Note:

 

[1] OGIS nr. 212 *; L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris 1937, pp. 172-184; I. Ilion nr. 31; H. KOTSIDU. Τιμή και δόξα. Ehrungen fiir hellenistischen Herrscher im griechischen Mutterland una Kleinasien unter besonderer Berucksichtigung der archaologischen Denkmaler, Berlin 2000, nr. 206 [E] pp. 301-302; B, VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica2 (Studi Ellenistici XIV), Pisa 2002, nr. 6 pp. 229-231. Su legge contro la tirannide (OGIS nr. 218 *, I. Ilion nr. 25) e Seleuco I: SEG 44, 1994. nr. 981; 46, 1996, nr. 1562.

[2] OGIS nr. 219 *; L. ROBERT, Sur un décret d’Ilion et sur un papyrus concernant les cultes royaux, in Essays in Honor of C. B. Welles, New Haven 1966, pp. 175-211, particol. 175-192 = OMS VII. pp. 599-635, particol. 599-616; I. Ilion nr. 32 11. 19-32; C.P. JONES, The Decree of Ilion in Honor of a King Antiochus, GRBS 24, 1993, pp. 73-92; H. KOTSIDU, Τμή και δόξα, cit. (nota I). nr. 212 [E] pp. 306-309; B. VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora-, cit. (nota 1), nr. 7 pp. 231-234. Cfr. CHR. KABICHT, Gottmenschentum und griechische Stadie2, München 1970, pp. 82-108.

[3] G. MANGANARO, Kyme e il dinasta Philetairos, Chiron 30, 2000, pp. 403-414, particol. 405 1. 28 (Dionysia t-Antiocheia), 1. 42 (Soteria e Philetaireia). Cfr. M. SEVE, Bull. Épigr. 2001. nr. 54; PH. GAUTHIER, ibid. 373; ID., De nouveaux honneurs cultuels pour Philetairos de Pergame. A propos de deux inscriptions récemment publiées, in Studi Ellenistici XV, a cura di B. Virgilio, Pisa 2003, pp. 4-24.

[4] OGIS nr. 229 *; H.H. SCHMITT, Staatsvertrage III, nr. 492; I. Smyrna nr. 573 *. CHR. HABICHT, Gottmenschentum2, cit. (nota 2), pp. 99-102. Cf. inoltre L. ROBERT, Le calendrier de Smyrne. REA 38, 1936, pp. 23-28 = OMS II, pp. 786-791; ID.. OMS VII, p. 634.

[5] OGIS nr. 228; F. Delphes III.4, nr. 153; K.J. RIGSBY, Asylia. Territorial Inviolability in the Hellenistic World, Berkeley-Los Angeles-London 1996, nr. 7 pp. 102-105; H. KOTSIDU, Τιμή και δόξα, cit. (nota 1), nr. 88 [E] pp. 147-148.

[6] M. ROSTOVTZEFF, Πρόγονοι, JHS 55, 1935, pp. 56-66; E. BICKERMAN, Institutions des Séleucides, Paris 1938, p. 244.

[7] I. Magnesia am Maeander nr. 61 11. 2-6; OGIS nr. 233; K.J. RIGSBY, Asylia, cit. (nota 5), nr. III pp. 257-260 (con I. Magnesia am Maeander nr. 18-19; OGIS nrr. 231-232; RC nrr. 3132; K.J. RIGSBY, Asylia, cit. (nota 5), nrr. 69-70 pp. 195-197: epistole di Antioco III e del figlio Antioco a Magnesia sullo stesso argomento). Cfr. S. SHERWIN-WHITE – A. KUHRT, Front Samarkhand to Sardis. A New Approach to the Seleucid Empire, London 1993, pp. 163-165; P. BRIANT, Colonizzazione ellenistica e popolazioni del Vicino Oriente: dinamiche sociali e politiche di acculturazione, in I Greci 2.III, Torino 1998, pp. 309-333, particolar. pp. 321-324.

[8] OGIS nr. 245. Cfr. P. HERRMANN, Antiochos der Grosse und Teos, Anadolu 9, 1965, pp. 29-159, particol. pp. 149-152; J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1969, nr. 502.

[9] J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1971, nr. 621 p. 507.

[10] PH. GAUTHIER, Nouvelles inscriptions de Sardes II, Genève 1989, nr. 2 pp. 47-111 ; SEG 39, 1989, nrr. 12841285; J. MA, Antiochos III and the Cities of Western Asia Minor, Oxford 1999, nr. 2 pp. 285-287; B. VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora2, cit. (nota 1), nr. 8 pp. 234-236.

[11] A.D. NOCK, Synnaos Theos, HSPh 41, 1930, pp. 1-62 = Essays on Religion and the Ancient World I, Oxford 1972, pp. 202-251; B. SCHMIDT-DOUNAS, Statuen hellenistischer Könige als synnaoi theoi, Egnatia 4, 1993-1994, pp. 71-141.

[12] P. HERRMANN, Antiochos der Grosse und Teos, cit. (nota 8) (pp. 34-40 le iscrizioni con gli onori decretati); J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1969, nrr. 495-499; 1974. nr. 481; 1977, nr. 405; 1984, nr. 365; SEG 41, 1991, nrr. 1003-1005; K.J. RIGSBY, Asylia, cit., (nota 5) pp. 280-292; H. KOTSIDU, Τιμή και δόξα, cit. (nota 1), nr. 239 [E] pp. 346-355. Cfr. F. SOKOLOWSKI, Divine Honors for Antiochos and Laodice at Teos and Iasos, GRBS 13, 1972, pp. 171-176, con J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1973, nr. 377; S. SHERWIN-WHITE – A. KUHRT, From Samarkhand to Sardis, cit. (nota 7), pp. 207-208; J. e L. ROBERT, Fouilles d’Amyzon en Carie. I. Exploration, histoire, monnaies et inscriptions, Paris 1983, p. 137; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nrr. ΠΙ 9 pp. 308-321. Su Teos in bilico fra Attalidi e Seleucidi; R.E. ALLEN, The Attalid Kingdom. A Constitutional History, Oxford 1983, pp. 44-55.

[13] OGIS nr. 246. Cfr. P. HERRMANN, Antiochos der Grosse und Teos, cit. (nota 8), pp. 149-152; J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1969, nr. 502. Cfr. A. MASTROCINQUE, Seleucidi divinizzati a Teo (OGIS 246), EA 3, 1984, pp. 83-85. Sul Seleuco della 1. 4, figlio e coreggente di Antioco I, cfr. G.F. DEL MONTE, Antioco I Soter e i figli Seleuco e Antioco, SCO 45, 1995, pp. 433-444; ID., Testi dalla Babilonia Ellenistica. I. Testi Cronografia, (Studi Ellenistici IX), Pisa-Roma 1997, p. 37.

[14] L’iscrizione, edita per la prima volta da G. PUGLIESE CARRATELLI, Supplemento epigrafico di Iasos, ASAA 45-46, 1967-1968, pp. 437-486, particol. nr. 2 pp. 445-453; ibid. 47-48, 1969-1970, pp. 401-402, va letta con le decisive correzioni e interpretazioni di J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1971, nr. 621; 1973, nr. 432; 1974, nr. 544; ID., Amyzon, cit. (nota 12), p. 178 nota 127, pp. 186-187. L’iscrizione è nuovamente edita in I. Iasos nr. 4, con le osservazioni di PH. GAUTHIER – G. ROUGEMONT, Bull. Épigr. 1987, nr. 18, particol. pp. 272-273; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nr. 26 pp. 329-335. Cfr. CH.V. CROWTHER, Iasos in the Early Second Century B.C. A Note on OGIS 237, BICS 36, 1989, pp. 136-138; A. MASTROCINQUE, Iaso e i Seleucidi, Athenaeum 83, 1995, pp. 131-141; M. NAFISSI, L’iscrizione di Laodice (Ivlasos 4). Revisione del testo e nuove osservazioni, PP 56, 2001, pp. 101-146, con le osservazioni di PH. GAUTHIER, Bull. Épigr. 2002, nr. 390.

[15] M. WORRLE, Inschriften von Herakleia am Latmos. I: Antiochos III., Zeuxis und Herakleia, Chiron 18, 1988, pp. 421-476; PH. GAUTHIER, Bull. Épigr. 1989, nr. 277; SEG 37, 1987, nr. 859; P. BRIANT, Prélèvements tributaires et échanges en Asie Mineure achéménide et hellénistique, in Economie Antique. Les échanges dans l’Antiquité: le ròle de l’État, Saint-Bertrandde-Comminges 1994, pp. 69-81, in particolare pp. 70-73; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nr. 31 pp. 340-345.

[16] OGIS nr. 253 *. E. BICKERMAN, Institutions des Séleucides, cit. (nota 6), p. 244; S. SHERWIN-WHITE, Seleucid Babylonia: a Case-Study for the Installation and Development of Greek Rule, in Hellenism in the East, edited by A. Kuhn & S. Sherwin-White, London 1987, pp. 1-31, particol. 20; R.J. VAN DER SPEK, The Babylonian City, in Hellenism in the East, cit., pp. 57-74, particol. 66-69 (qui l’ipotesi della connessione di questa iscrizione greca con il diario astronomico babilonese dell’agosto-settembre 169 a.C., ora in A.J. SACHS – H. HUNGER, Astronomical Diaries and Related Texts from Babylonia. II. Diaries from 261 B.C. to 165 B.C., Wien 1989, -168 pp. 470-471, e in G.F. DEL MONTE, Testi dalla Babilonia Ellenistica I, cit. (nota 13), pp. 76-78); S. SHERWIN- WHITE – A. KUHRT, From Samarkhand to Sardis, cit. (nota 7), pp. 156-157 e fig. 7; L. BOFFO, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Brescia 1994, nr. 11 pp. 104-112. Un’altra iscrizione molto lacunosa proveniente dalla stessa Seleucia sul Tigri conteneva, in un contesto difficilmente identificabile, una lista di sacerdoti dei re seleucidici: M. ROSTOVTZEFF, Πρόγονοι, cit. (nota 6), p. 66; J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1963, nr. 293; P. VAN NUFFELEN, Un culte royal municipal de Séleucie du Tigre à l’epoque hellénistique, EA 33, 2001, pp. 85-87.

[17] E. BICKERMAN, Institutions des Séleucìdes, cit. (nota 6), pp. 249-256; F.W. WALBANK, Monarchies and Monarchie Ideas, Cambridge Ancient History, VII. I, 1984, pp. 62-100, particol. 96-97.

[18] CHR. HABICHT, Gottmenschentum, cit. (nota 2), p. 36.

[19] CALLISSENO, FGrHist 627, F 2 = ATENEO, V. 2535, 196 a-203 b. Cfr. F. DUNAND, Fète et propagande à Alexandrie sous les Lagides, in La fète, pratique et discours, Paris 1981, pp. 13-40; E.E. RICE, The Grand Procession of Ptolemy Philadelphus, Oxford 1983; V. FOERTMEYER, The Dating of the Pompe of Ptolemy II Philadelphus, Ηistoria 37, 1988, pp. 90-104; F. COARELLI, La pompe di Tolomeo Filadelfo e il mosaico nilotico da Palestrina, Κtema 15, 1990, pp. 225-251 = Revixit Ars. Arte e ideologia a Roma. Dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Roma 1996, pp. 102-137; F.W. WALBANK, Two Hellenistic Processions: a Matter of Self-Definition, SCI 15, 1996, pp. 119-130, particol. 121-125; R.A. HAZZARD, Imagination of a Monarchy: Studies in Ptolemaic Propaganda, Toronto-Buffalo-London 2000, pp. 59-79.

[20] POLIBIO XXX, 2526 = ATENEO V, 2224, 194 e-195 a-f. Cfr. J.G. BUNGE, Die Feiern Antiochos IV. Epiphanes in Daphne im Herbst 166 v.Chr. Zu einem umstrittenen Kapitel syrischer und judàischer Geschichte, Chiron 6, 1976. pp. 53-71; F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius III, Oxford 1979, pp. 448-453; ID.. Two Hellenistic Processions, cit. (nota 19), pp. 125-129. Cfr. DIODORO XXXI, 16.

[21] APPIANO, Syriaca, 63. E. BICKERMAN. Institutions des Séleucìdes, cit. (nota 6), p. 254.

[22] H. MALAY, Letter of Antiochos III to Zeuxis with Two Covering Letters (209 BC), EA 10, 1987, pp. 7-17; PH. GAUTHIER, Bull. Épigr. 1989, nr. 276; SEG 37, 1987. nr. 1010; L. BOFFO, Iscrizioni, cit. (nota 16), nr. 5 pp. 67-79; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nr. 4 pp. 288-292; B. VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora2, cit. (nota 1), nr. 9 pp. 236-239. Su Nicanore come sommo sacerdote e non sacerdote del culto dinastico: S. SHERWIN-WHITE – A. KUHRT, Front Samarkhand to Sardis, cit. (nota 7), pp. 43-44 e 198 (ma cfr. ibid., p. 206), e soprattutto J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), pp. 26-29, 144-145, 291-292; sulla evoluzione delle funzioni di Nicanore anche come archiereus del culto dinastico: H. MÜLLER, Der hellenistische Archiereus, Chiron 30, 2000, pp. 519-542, particol. 528-537 (cfr. PH. GAUTHIER, Bull. Épigr. 2001, nr. 127). Sulla introduzione del culto dinastico per opera di Antioco III al rientro dalla spedizione orientale, cfr. J. e L. ROBERT, Amyzon, cit. (nota 12), p. 168 nota 40; P. VAN NUFFELEN, Un culte royal, cit. (nota 16), p. 86, annuncia un « article à paraître » nel quale egli sostiene che il culto dinastico seleucidico fu fondato da Antiochos III « sans doute avant 209 ».

[23] J. e L. ROBERT, Amyzon, cit. (nota 12), p. 146 nr. 14 l. 2; p. 151 nr. 15 ll. 2-3; p. 154 nr. 15 Β l. 3; p. 165. Cfr. G.M. COHEN, The Hellenistic Settlements in Europe, the Islands, and Asia Minor, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1995, pp. 247-248.

[24] PH. GAUTHIER, Bienfaiteurs du gymnase au Létôon de Xanthos, REG 109, 1996, pp. 1-34, particol. 2-7; ID., Bull. Épigr. 1997, nr. 566; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nr. 24 pp. 325-327.

[25] H. MALAY – C. NALBANTOGLU, The Cult of Apollo Pleurenos in Lydia, ADer 4, 1996, pp. 75-79; SEG 46, 1996, nr. 1519; Kernos 13, 2000, p. 195 nr. 246; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), pp. 27, 146-147, nr. 49 pp. 371-372; M.P. DE HOZ, Die lydische Kulte irti Lichte der griechischen Inschriften, Bonn 1999, nrr. 5.26 e 5.26*, pp. 161-162; H. MOLLER, Der hellenistische Archiereus, cit. (nota 22). Questo documento sul culto di Apollo Pleurenos può indurre a riferire a età attalide, e non al I secolo a.C., l’iscrizione pubblicata da L. ROBERT, Apollon Pleurenos et le lac, BCH 106, 1982, pp. 361-367 = Documents d’Asie Mineure, Paris 1987, pp. 323-329. Le due iscrizioni che attestano il culto di Apollo Pleurenos in Lidia potrebbero essere considerate in sequenza e distanti fra loro il tempo di una generazione (dunque entrambe databili nell’età di Eumene III, se Kadoas, l’autore del memorandum a Nicanore e a Eutidemo, è lo stesso che nella dedica in onore di Euxeno figura come padre di Apollonio sacerdote di Apollo Pleurenos. Nell’ipotesi, dunque, che le due iscrizioni siano di età attalide e che il Kadoas sacerdote dell’iscrizione pubblicata nel 1996 sia stato il Kadoas padre del sacerdote Apollonio della iscrizione pubblicata da L. ROBERT, l. cit., si dovrebbe dedurre che la carica di sacerdote di Apollo Pleurenos era ereditaria; una ulteriore conseguenza dell’ipotizzato rapporto fra le due iscrizioni è che l’archiereus Ermogene, in carica all’epoca della dedica di Apollonio, dovrebbe essere considerato il successore di quell’Eutidemo al quale Kadoas indirizza il suo memorandum.

[26] H. MOLLER, Der hellenistische Archiereus, cit. (nota 22), p. 530 nota 62, ritiene che il Demetrio ricordato in una iscrizione di Apollonia della Salbake con la funzione di ὁ τεταγμένος ἐπὶ τῶν ἱερῶν poco prima del 190 a.C. (L. e J. ROBERT, La Carie. II. Le plateau de Tabaì et ses environs, Paris 1954, nr. 166 11. 11-12, pp. 285-302; p. 294: « prepose à l’administration des sanctuaires ») debba essere considerato il successore di Nicanore. Ma il titolo della carica di Demetrio non obbliga a riconoscervi anche la funzione di archiereus che è invece esplicitamente attribuita a Nicanore.

[27] I. OPELT – E. KIRSTEN, Eine Urkunde der Gründung von Arsinoe in Kilikien, ZPE 77, 1989, pp. 55-66; C.P. JONES – CHR. HABICHT, A Hellenistic Inscription from Arsinoe in Cilicia, Phoenix 48, 1989, pp. 317-346; PH. GAUTHIER, Bull. Épigr. 1990, nr. 304; SEG 39, 1989, nr. 1426; A. CHANIOTIS, Ein diplomatischer Staathalter nimmt Rucksicht auf den verletzten Stoltz zweier hellenistischer Kleinpoleis (Nagidos und Arsinoe), EA 21, 1993, pp. 33-42; S.L. AGER, Interstate Arbitrations in the Greek World, 337-90 B.C, Berkeley-Los Angeles-London 1996, nr. 42 pp. 126-129; A. MAGNETTO, Gli arbitrati interstatali greci II, Pisa 1997, nr. 40 pp. 244-251; P. BRIANT, Colonizzazione ellenistica, cit. (nota 7), pp. 315-317; G. PETZL, Das Inschriften Dossier zur Neugründung von Arsinoe in Kilikien: Textkorrekturen, ZPE 139, 2002, pp. 83-88.

[28] GIUSEPPE, Antichità Giudaiche, XII, 138144. E.J. BICKERMAN, La charte séleucide de Jérusalem, REJ 100, 1935, pp. 4-35 = Studies in Jewish and Christian History II, Leiden 1980, pp. 44-85.

[29] Y.H. LANDAU, A Greek Inscription Found Near Hefzibah, IEJ 16. 1966, pp. 54-70; TH. FISCHER, Zur Seleukideninschrift von Hefzibah, ZPE 33, 1979, pp. 131-138; J.M. BERTRAND, Sur l’inscription d’Hefzibah, ZPE 46, 1982, pp. 167-174; F. PIEJKO, Antiochus III and Ptolemy Son of Thraseas: the Inscription of Hefzibah Reconsidered, AC 60, 1991, pp. 245-259; J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1970, nr. 627; 1971, nr. 73; 1974, nrr. 642-642.a; 1979, nr. 619; 1983, nr. 455.a; SEG 29, 1979, nr. 1613 * e nr. 1808; 41, 1991, nr. 1574; 47, 1997, nr. 2056; F. PAPAZOGLOU, Laoi et paroikoi. Recherches sur la structure de la société hellénistique, Belgrade 1997, Τ 8 pp. 57-61, 111-112; S. SHERWIN-WHITE – A. KUHRT, From Samarkhand to Sardis, cit. (nota 7), pp. 48-50; M. SARTRE, D’Alexandre à Zénobie. Histoire du Levant antique IVe siécle av. J.-C III siécle ap. J.-C, Paris 2001, p. 209; B. VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora2, cit. (nota 1), nr. 28 pp. 286-291. Cfr. B. LIFSHITZ, Scythopolis. L’histoire, les institutions et les cultes de la ville de l’epoque hellénistique et imperiale, Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II.8, Berlin-New York 1977, pp. 262-294; J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), pp. 27 nota 5, 82-83, nr. 21 pp. 321-323. Su Tolomeo e i componenti della famiglia, originari di Aspendos in Panfilia, alti funzionari al servizio dei Tolomei e dei Seleucidi, cf. L. BOFFO, Iscrizioni, cit. (nota 16), nr. 6 pp. 80-86; L. CRISCUOLO, Il dieceta Apollonios e Arsinoe, in Le culte du souverain dans l’Égypte ptolémaïque au IIIe siécle avant notre ère. Actes du Colloque International, Bruxelles 10 mai 1995, édités par H. Melaerts, Leuven 1998, pp. 61-72.

[30] M. ROSTOVTZEFF, Πρόγονοι, cit. (nota 6); A. MASTROCINQUE, Manipolazioni della storia in età ellenistica: i Seleucidi e Roma, Roma 1983, pp. 114-116.

[31] Eriza: M. HOLLEAUX, Nouvelles remarques sur l’édit d’Ériza, BCH 54, 1930, pp. 245-262 = Études d’épigraphie et d’histoire grecques III, Paris 1942, pp. 165-181 (revisione e nuova edizione del documento, con attribuzione del próstagma ad Antioco III, anno 108° dell’era seleucidica = 204 a.C.; nelle prime edizioni di P. PARIS – M. HOLLEAUX, Inscriptions de Carie, BCH 9, 1885, pp. 324-348, particol. 324-330, e di M. HOLLEAUX, Édit du roi Antiochos II, BCH 13, 1889, pp. 523-529 e 562, l’editto era stato attribuito ad Antioco II Theos; L. ROBERT, Nouvelles remarques sur l’édit d’Ériza, BCH 54, 1930, pp. 262-267 e 351 = OMS II, pp. 966-971; Eriza e Nahavand: L. ROBERT, Inscriptions séleucides de Phrygie et d’Iran, in Hellenica VII, Paris 1949, pp. 5-29 (con Hellenica VII, Paris 1950, pp. 73-75); Kermanshah: L. ROBERT, Encore une inscription grecque de l’Iran, CRAI 1967, pp. 281-296 = OMS V, pp. 469-484. Cf. J. MA, Antiochos III, cit. (nota 10), nr. 37 pp. 354-356 (Eriza); B. VIRGILIO, Lancia, diadema e porpora2, cit. (nota 1), nr. 10 pp. 239-241 (Nahavand). Cf. inoltre S. SHERWIN-WHITE – A. KUHRT. From Samarkhand to Sardis, cit. (nota 7), pp. 203-206.

[32] A. AYMARD, Du nouveau sur Antiochos III d’après une inscription grecque d’Iran, REA 51, 1949, pp. 327-345, particol. 339-342 = Études d’histoire ancienne, Paris 1967, pp. 212-229, particol. 223-226.

[33] Eriza, ll. 21-28; Nahavand, ll. 20-26; Kermanshah, ll. 4-13.

[34] M. SEGRE, Iscrizioni di Licia. I. Tolomeo di Telmesso, Clara Rhodos 9, 1938, pp. 181-208, particol. 184-189, 198-199, 208; L. ROBERT, Inscriptions séleucides de Phrygie et d’Iran, cit. (nota 31), pp. 17-18 (Eriza, 11. 30-31); ID., Encore une inscription grecque de l’Iran, cit. (nota 31), pp. 287-288 = OMS V, pp. 475-476; M. WÖRRLE, Epigraphische Forschungen zur Geschichte Lykiens. II. Ptolemaios II. und Telmessos, Chiron 8, 1978, pp. 201-246, particol. 218-225.

[35] J. e L. ROBERT, Bull. Épigr. 1971, nr. 621 p. 507; PH. GAUTHIER, Nouvelles inscriptions de Sardes, cit. (nota 10), p. 61.

[36] ATENEO VI, 6264, 252 f-253 a-f = DEMOCARE, FGrHist 75, FF 1-2, e DURIDE DI SAMO, FGrHist 76, FF 13-14; H. KOTSIDU, Τιμή και δόξα, cit. (nota 1), nr. 12 [L] pp. 49-52. Cfr. L. CERFAUX – J. TONDRIAU, Un concurrent du Christianisme. Le eulte des souverains dans la civilisation grécoromaine, Tournai 1957, pp. 173-187; CHR. HABICHT, Gottmenschentum, cit. (nota 2), pp. 41-55; ID., Athen. Die Geschichte der Stadt in hellenistischer Zeit, München 1995, pp. 76-103 = Athènes Hellénistique. Histoire de la cité d’Alexandre le Grand à Marc Antoine, Paris 2000, pp. 85-113*; G. MARASCO, Democare di Leuconoe. Politica e cultura in Atene fra IV e III sec. a. C., Firenze 1984.