Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

***

Riferimenti bibliografici:

M.T.W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, Oxford 1972.

T.D. Barnes, Augustine, Symmachus, and Ambrose, in From Eusebius to Augustine: Selected Papers 1982-1993, Aldershot 1994, 7-13.

S.J.B. Barnish, Transformation, and Survival in the Western Senatorial Aristocracy, C.A.D. 400-700, PBSR 56 (1988), 120-155.

M. Bertolini, Sull’atteggiamento religioso di Q.A. Simmaco, SCO 36 (1987), 189-208.

H. Bloch, The Pagan Revival in the West, in A. Momigliano (ed.), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1964, 199-224.

R. Bonney, A New Friend for Symmachus?, Historia 24 (1975), 357-374.

G.W. Bowersock, Symmachus and Ausonius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 1-12.

P. Bruggisser, Gratia noui saeculi : Symmaque et le siècle de Gratien (Epist. 1, 13), MH 44 (1987), 134-149.

P. Bruggisser, Orator disertissimvs : A propos d’une lettre de Symmaque à Ambroise, Hermes 115 (1987), 106-115.

P. Bruggisser, Symmaque et la mémoire d’Hercule, Historia 38 (1989), 380-383.

P. Bruggisser, Symmaque, ou le rituel épistolaire de l’amitié littéraire. Recherches sur le premier livre de la correspondance, Fribourg 1993.

P. Bruggisser, Rarissimes païens. L’art du persiflage dans le Contre Symmaque de Prudence, Historia 51 (2002), 238-253.

R. Burgess, Quinquennial Vota, and the Imperial Consulship in the Fourth and Fifth Centuries, 337-511, NC 148 (1988), 77-96.

J.-P. Callu, Date et genèse du premier livre de Prudence contre Symmaque, REL 59 (1981), 235-260.

J.-P. Callu, Symmachus Nicomachis Filiis, in in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 17-40.

J.-P. Callu, Deux interpolations au Livre I ͤ ͬ des Lettres de Symmaque, in Y. Lehmann (éd.), Antiquité tardive et humanisme de Tertullien à Beatus Rhenanus: mélanges offerts à François Heim à l’occasion de son 70 Anniversaire, Turnhout 2005, 181-196.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Lettres, voll. I-IV, Paris 1972-2002.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Correspondance, Paris 2003.

J.-P. Callu (éd.), Culture profane et critique des sources de l’antiquité tardive: trente et une études de 1974 à 2003, Rome 2006.

J.-P. Callu (ed.), Symmaque Tome V. Discours – Rapports, Paris 2009.

A. Cameron, The Antiquity of the Symmachi, Historia 48 (1999), 477-505.

A. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011.

A. Cameron, The Origin, Context, and Function of Consular Diptychs, JRS 103 (2013), 174-207.

A. Cameron, Were Pagans Afraid to Speak Their Minds in a Christian World? The Correspondence of Symmachus, in M.R. Salzman, M. Sághi, R. Lizzi Testa (eds.), Pagans and Christians in Late Antiquity Rome: Conflict, Competition, and Coexistence in the Fourth Century, Cambridge 2016, 64-113 = in A. Cameron (ed.), Studies in Late Roman Literature and History, Bari 2016, 223-266.

F. Canfora, Sulla controversia per l’altare della Vittoria tra pagani e cristiani nel IV secolo, in Studi storici in onore di G. Pepe, Bari 1969, 103-126.

F. Canfora (ed.), Simmaco – Ambrogio, L’altare della Vittoria, Palermo 1991.

G.A. Cecconi, Commento storico al libro II dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 2002.

A. Chastagnol, L’évolution de l’ordre sénatorial aux IIIe et IVe siècles de notre ère, RhM 94 (1970), 305-314.

A. Chastagnol, Le Senat dans l’oevure de Symmaque, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 73-96.

A. Chastagnol, L’evoluzione dell’ordine senatorio nei secoli III e IV della nostra era, in S. Roda (ed.), La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 9-21.

R. Chenault, Statues of Senators in the Forum of Trajan and the Roman Forum in Late Antiquity, JRS 102 (2012), 103-132.

R. Chenault, “Thick Clouds and Continuous Cold”: The Date and Political Context of Symmachus’s Embassy to Trier, JLA 14 (2021), 213-228.

E. Colagrossi, Non uno itinere. La disputa tra Simmaco e Ambrogio nel quadro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo d.C., in E. Piazza (ed.), Quis est qui ligno pugnat? Missionari ed evangelizzazione nell’Europa tardoantica e medievale (secc. IV-XIII), Verona 2016, 81-98.

A. Coşkun, Symmachus, Ausonius und der “senex olim Garumnae alumnus”: Auf der Suche nach dem Adressaten von Symm. epist. 9,88, RhM 145 (2002), 120-128.

A. Coşkun, Q. Aurelius Symmachus und die Stadtpraefecten unter Kaiser Valentinian II. (a. 383-87), Prosopon 13 (2003), 1-11.

L. Cracco Ruggini, Simmaco e la poesia, in AA.VV., La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, Atti del V Corso della Scuola Superiore di Archeologia e civiltà medievali presso il Centro di Cultura Scientifica “E. Majorana”, Erice, 6-12 dicembre 1981, Messina 1984, 477-521.

L. Cracco Ruggini, Simmaco: otia e negotia di classe, fra conservazione e rinnovamento, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 97-118.

L. Cracco Ruggini, Rome in Late Antiquity: Clientship, Urban Topography, and Prosopography, CPh 98 (2003), 366-382.

S. Cristo, Quintus Aurelius Symmachus: A Political and Social Biography, Ph.D. diss. Fordham 1974.

S. Cristo, A Judicial Event in the Urban Prefecture of Symmachus, Latomus 36 (1977), 688-693.

I. D’Auria, Polemiche antipagane: Ambrogio (epist. 10, 73, 8) e Prudenzio (c. Symm. 2, 773-909) contro Simmaco (rel. 3, 10), StPatr 85 (2017), 1-14.

F. Del Chicca (ed.), Q. Aurelius Symmachus V.C. Laudatio in Valentinianum seniorem Augustum prior, Roma 1984.

F. Del Chicca, La struttura retorica del panegirico latino tardoimperiale in prosa. Teoria e prassi, AFLC 6 (1985), 79-113.

F. Del Chicca, Simmaco, Oratio 2, 17 e il tema polemica del pattuire pretio coi barbari, RCCM 28 (1986), 131-138.

F. Del Chicca, Per la datazione dell’Oratio 3 di Simmaco, Athenaeum 65 (1987), 534-541.

V. Del Core, Segnali di crisi nei frammenti panegiristici di Simmaco, in R. Angiolillo, E. Elia, E. Nuti (eds.), Crisi: immagini, interpretazioni e reazioni nel mondo greco, latino e bizantino, Atti del Convegno Internazionale dottorandi e giovani ricercatori, Torino, 21-23 ottobre 2013, Alessandria 2015, 73-84.

I. Dionigi, A. Traina, M. Cacciari (eds.), La maschera della tolleranza (Ambrogio, Epistole XVII e XVIII; Simmaco, Terza Relazione), Milano 2005.

S. Döpp, Prudentius’ Gedicht gegen Symmachus. Anlass und Struktur, JAC 23 (1980), 65-81.

O.N. Dorman, A Further Study of the Letters of Symmachus, Based on a New Manuscript of the Florilegium Group, TpAPhA 63 (1932), 45-53.

J.E. Dunlap, The Manuscripts of the “Florilegium” of the Letters of Symmachus, TpAPhA 57 (1926), xxv-xxvi = CPh 22 (1927), 391-398.

J.E. Dunlap, The Earliest Editions of the Letters of Symmachus, CPh 32 (1937), 329-340.

J.V. Ebbeler, C. Sogno, Religious Identity and the Politics of Patronage: Symmachus and Augustine, Historia 56 (2007), 230-242.

R.J. Edgeworth, Symmachus Ep. III.47: Books, Not Children, Hermes 120 (1992), 127-128.

W. Evenepoel, Ambrose vs. Symmachus: Christians and Pagans in AD 384, AncSoc 29 (1998-1999), 283-306.

S. Fascione, Inter sodales Apollinis ac Dianae sectator. Elementi di ripresa pliniana nell’epistolario di Simmaco, IFC 18 (2018/19), 259-276.

M. Forlin Patrucco, S. Roda, Le lettere di Simmaco ad Ambrogio. Vent’anni di rapporti amichevoli, in Ambrosius Episcopus. Atti del Congresso Internazionale di studi ambrosiani, Milano 2-7 dicembre 1974, II, Milano 1976, 284-297.

C.W. Fornara, Studies in Ammianus Marcellinus: I. The Letter of Libanius and Ammianus’ Connection with Antioch, Historia 41 (1992), 328-344.

E. Germino, La Relatio XXVII di Simmaco e l’ordo successionis del collegium archiatrorum di Roma, Koinonia 39 (2015), 249-272.

S. Giglio, A proposito della “Relatio” 49 di Q. Aurelio Simmaco, ARC 8 (1990), 579-597.

S. Giglio, Intorno alla “Relatio” 23 di Q. Aurelio Simmaco, SDHI 62 (1996), 309-330.

S. Giglio, Giurisdizione e fisco nelle “Relationes” di Q. Aurelio Simmaco, ARC 13 (2001),191-216.

B. Girotti, Nicomaco Flaviano, “historicus disertissimus”?, Hermes 143 (2015), 124-128.

C. Gnilka, Zur Rede der Roma bei Symmachus Rel. 3, Hermes 118 (1990), 464-470.

B. Goldlust, Rhétorique de l’éloge dans le livre 1 de la “Correspondance” de Symmaque: à propos de Symm., “Epist.”, 1,3,2 et de Aus., ap. Symm., “Epist.” 1,32,3, REAP 55 (2009), 215-224.

G. Haverling, Studies on Symmachus’ Language and Style, Göteborg 1988.

J. Hillner, Domus, Family, and Inheritance: The Senatorial Family House in Late Antique Rome, JRS 93 (2003), 129-145.

M. Humphries, Nec metu nec adulandi foeditate constricta: The Image of Valentinian I from Symmachus to Ammianus, in J.W. Drijvers, D. Hunt (eds.), The Late Roman World and its Historian: Interpreting Ammianus Marcellinus, London 1999, 117-126.

G. Ivascu, Clementia principis. An Aspect of the Imperial Power in Symmachus’ Works, C&C 15 (2020), 95-104.

G. Kelly, Pliny, and Symmachus, Arethusa 46 (2013), 261-287.

G. Kelly, The First Book of Symmachus’ Correspondence as a Separate Collection, in F.R. Moretti, R. Ricci, C. Torre (eds.), Culture and Literature in Latin Late Antiquity: Continuities and Discontinuities, Turnhout 2015, 197-220.

B. Kiilerich, Symmachus, Boethius, and the Consecratio Ivory Diptych, AntTard 20 (2012), 205-215.

R. Klein, Symmachus: eine tragische Gestalt des ausgehenden Altertums, Darmstadt 1971.

R. Klein, Der Streit um den Victoriaaltar ; die dritte Relatio des Symmachus und die Briefe 17, 18 und 57 des Mailänder Bischofs Ambrosius, Darmstadt 1972.

R. Klein, Die Romidee bei Symmachus, Claudian und Prudentius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 119-144.

R. Klein, Symmachus. Eine tragische Gestalt des ausgehenden Heidentums, Darmstadt 1986.

R. Klein, Die dritte Relatio des Symmachus. Ein denkwürdiges Zeugnis des untergehenden Heidentums, in U. Schmitzer (ed.), Suus cuique mos: Beiträge zur paganen Kultur des lateinischen Westens im 4. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2004, 25-58.

D. Lassandro, L’altare della vittoria: “letture” moderne di un’antica controversia, in A. Garzya (ed.), Metodologie della ricerca sulla tarda antichità. Atti del Primo Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1989, 443-450.

D. Lassandro, La controversia de ara Victoriae del 384 d.C. nell’età sua e nella riflessione dei moderni, in F. Bessone, E. Malaspina (eds.), Politica e cultura in Roma antica. Atti dell’incontro di studio in ricordo di Italo Lana (Torino, 16-17 ottobre 2003), Bologna 2005, 157-171.

D. Lassandro, Simmaco, Ambrogio e la controversia sull’altare della Vittoria, in B. Luiselli (ed.), Saggi di storia della cristianizzazione antica e altomedievale, Roma 2006, 213-224.

D. Lassandro, Una disputa religiosa tra il prefetto pagano Simmaco ed il vescovo Ambrogio sul finire del IV secolo d.C., Euphrosyne 35 (2007), 231-240.

D. Lassandro, I paradigmi della controversia ‘De ara Victoriae’ tra il senatore pagano Simmaco e il vescovo Ambrogio, in M. Marin, M. Veronese (eds.), Temi e forme della polemica in età cristiana (III-V secolo), Bari 2012, 359-368.

M. Lauria, De ara Victoriae virginibusque Vestalibus, SDHI 50 (1984), 235-280.

D. Liebs, Landraub und Gerechtigkeit in Rom 384 n. Chr.: (Symmachus, Relatio 28), in O. Behrends (ed.), Gerechtigkeit und Geschichte: Beiträge eines Symposions zum 65. Geburtstag von Malte Dießelhorst, Göttingen 1996, 90-106.

R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004.

R. Lizzi Testa, Alla corte dell’imperatore: Quinto Aurelio Simmaco e i suoi amici quaestores, in G. Crifò (ed.), XVI Convegno Internazionale in onore di Manuel J. Garcia Garrido, Napoli 2007, 325-364.

B. Marien, Symmachus’ Epistolary Influence: the Rehabilitation of Nicomachus Flavianus through Recommendation Letters, in K. Choda, M. Sterk de Leeuw, F. Schulz (eds.), Gaining and Losing Imperial Favour in Late Antiquity: Representation and Reality, Leiden 2019, 105-124.

A. Marcone, Commento storico al Libro VI dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1983.

A. Marcone, Simmaco e Stilicone, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 145-162.

A. Marcone, Commento storico al Libro IV dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1987.

A. Marcone, Praesentia tuae imago. Storia e preistoria di un topos epistolare e la corrispondenza di Simmaco, in J.-M. Carrié (éd.), “Humana sapit” : études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Turnhout 2002, 201-208.

A. Marcone, L’ultima aristocrazia pagana di Roma e le ragioni della politica, ITFC 8 (2008-2009), 99-111.

D. Matacotta, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, Firenze 1992.

J.F. Matthews, Symmachus and the “Magister Militum” Theodosius, Historia 20 (1971), 122-128.

J.F. Matthews, Symmachus, and the Oriental Cults, JRS 63 (1973), 175-195.

J.F. Matthews, The Letters of Symmachus, in J.W. Binns (ed.), Latin Literature of the Fourth Century, London-Boston 1974, 58-99.

J.F. Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court, A.D. 364-425, Oxford 1975.

J.F. Matthews, Symmachus and His Enemies, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 163-175.

J.A. McGeachy Jr., Quintus Aurelius Symmachus and the Senatorial Aristocracy of the West, diss. Chicago 1942.

S. McGill, The Right of Authorship in Symmachus’ Epistulae 1.31, CPh 104 (2009), 229-232.

B. Moroni, Il conflitto per l’altare della Vittoria in Ambrogio, De obitu Valent. 19-20, RIL 130 (1996), 237-263.

A.V. Nazzaro, L’utilizzazione di Virgilio nella disputa Simmaco-Ambrogio “De ara Victoriae”, in C. Gallico (ed.), Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, 245-261.

N. Marinone, Il medico Disario in Simmaco e Macrobio, Maia 25 (1973), 344-345.

S. Mazzarino, Tolleranza e intolleranza: la polemica sull’ara della Vittoria, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, 339-377.

G. Mazzoli, Prima fortuna medievale di Simmaco, Sandalion 2 (1979), 235-246.

G. Mazzoli, Corniger Hesperidum (Prud. c. Symm. II 606), CdM 8 (2019), 125-138.

P. Meloni, Il tempo e la storia in Simmaco e Ambrogio, SSR 1 (1977), 103-124.

P. Meloni, Il rapporto fra impegno politico e fede religiosa in Simmaco e Ambrogio, Sandalion 1 (1978), 153-170.

L.R. Miranda, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, CCM 17 (2013), 184-188.

A.F. Norman, On the Dating of Three Letters of Symmachus, ByZ 57 (1964), 1-5.

S. Olszaniec, The Two Prefects of 384 – Symmachus and Praetextatus, in K. Twardowska, M. Salamon, S. Sprawski, M. Stachura, S. Turlej (eds), Within the Circle of Ancient Ideas and Virtues. Studies in Honour of Professor Maria Dzielska, Kraków 2014, 233-242.

A. Pabst (ed.), Quintus Aurelius Symmachus, Reden = Orationes, Darmstadt 1989.

D.C. Pangerl, Von der Kraft der Argumente. Die Strategien des römischen Stadtpräfekten Symmachus und des Bischofs Ambrosius von Mailand beim Streit um den Victoriaaltar im Jahre 384, RQcAK 107 (2012), 1-20.

F. Paschoud, Réflexions sur l’idéal religieux de Symmaque, Historia 14 (1965), 215-235.

F. Paschoud, Symmaque, Jérome et l’Histoire Auguste, MH 57 (2000), 173-182.

A. Pellizzari, Commento storico al libro III dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco: introduzione, commento storico, testo, traduzione, indici, Pisa 1998.

A. Pelttari, Symmachus’ Epistulae 1.31 and Ausonius’ Poetics of the Reader, CPh 106 (2011), 161-169.

M. Petric, Corruption and Elites in Late Antiquity: The Case of Quintus Aurelius Symmachus, Keria 20 (2018), 63-87.

G. Polara, A proposito di Symm. epist. 2, 7, 3, in M. Paladini (ed.), Templa serena. Studi in onore di Enrico Flores, Napoli 2021, 261-266.

S.R. Rebenich, Augustinus im Streit zwischen Symmachus und Ambrosius um den Altar der Victoria, Laverna 2 (1991), 53-75.

S.R. Rebenich, “Pars melior humani generis” – Aristokratie(n) in der Spätantike, in H. Beck, P. Scholz, U. Walter (eds.), Die Macht der Wenigen. Aristokratische Herrschaftspraxis, Kommunikation und “edler” Lebensstil in Antike und Früher Neuzeit, München 2009, 153-175.

H. Remus, Apuleius to Symmachus (and Stops in Between): Pietas, Realia and the Empire, in S.G. Wilson, M. Desjardins (eds.), Text and Artifact in the Religions of Mediterranean Antiquity: Essays in honour of Peter Richardson, Waterloo 2000, 527-550.

S. Roda, Simmaco nel gioco politico del suo tempo, SDHI 39 (1973), 53-111.

S. Roda, Commento storico al libro IX delle epistole di Simmaco, Pisa 1981.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio?, REA 83 (1981), 273-280.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio? (Nota a proposito di Symm. Ep., IX, 88), in Mélanges à la mémoire de Franco Simone, Genève 1983, 27-37.

S. Roda, Polifunzionalità della lettera comendaticia: teoria e prassi nell’epistolario simmachiano, in La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 225-254.

K. Rosen, Fides contra dissimulationem. Ambrosius und Symmachus im Kampf um den Victoriaaltar, JAC 37 (1994), 29-36.

M.R. Salzman, Travel and Communication in the Letters of Symmachus, in L. Ellis, F.L. Kidner (eds.), Travel, Communication and Geography in Late Antiquity: Sacred and Profane, Aldershot 2004, 81-94.

M.R. Salzman, Symmachus and His Father: Patriarchy and Patrimony in the Late Roman Senatorial Elite, in R. Lizzi Testa (ed.), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica: Atti del Convegno Internazionale, Perugia, 15-16 marzo 2004, Roma 2006, 357-376.

M.R. Salzman, Symmachus’ Ideal of Secular Friendship, in É. Rebillard, C. Sotinel (éds.), Les frontières du profane dans l’Antiquité tardive, Rome 2010, 247-272.

M.R. Salzman, Symmachus’ Varro: Latin Letters in Late Antiquity, BICS 61 (2018), 92-105.

H. Schneider, Der Einspruch des Symmachus, in W. Geerlings, R.M. Ilgner (eds.), Monotheismus – Skepsis – Toleranz, Turnhout 2009, 73-210.

D.R. Shackleton Bailey, Critical Notes on Symmachus’ Private Letters, CPh 78 (1983), 315-323.

J.J. Sheridan, The Altar of Victory: Paganism’s Last Battle, AntClass 35 (1966), 186-206.

O. Seek (ed.), Q. Aurelii Symmachi quae supersunt, MGH AA 6, 1, Berlin 1883.

M. Siedow, Q. Aurelius Symmachus und die Netzwerke der spätrömischen Aristokratie soziale Netzwerkanalyse in der alten Geschichte?, in D. Bauerfeld, L. Clemens (eds.), Gesellschaftliche Umbrüche und religiöse Netzwerke. Analysen von der Antike bis zur Gegenwart, Bielefeld 2014, 13-43.

E. Simon, The Diptych of the Symmachi and Nicomachi: An Interpretation. In Memoriam Wolfgang F. Volbach 1892-1988, G&R 39 (1992), 56-65.

K. Smolak, Simmaco ed Enea. Alcune considerazioni riguardo a Prudenzio, Contra Symmachum 2,583-640, in M.G. Moroni (ed.), Poesia tardoantica e medievale: Atti del 6° Convegno Internazionale di Studi, Macerata, 3-5 dicembre 2013, Pisa 2018, 101-114.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Career between Senate and Court, New Haven 2002.

C. Sogno, Aegidius Beneventanus and the “Epistulae” of Q. Aurelius Symmachus, MJ 40 (2005), 407-416.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Biography, Ann Arbor 2006.

C. Sogno, Age, and Style in Late Antique Epistolography: Symmachus’ Polemics against the Rhetoric of the Old, in A. Classen (ed.), Old Age in the Middle Ages and the Renaissance: Interdisciplinary Approaches to a Neglected Topic, Berlin 2007, 85-102.

C. Sogno, The Letter Collection of Quintus Aurelius Symmachus, in Id., B.K. Storin, E.J. Watts (eds.), Late Antique Letter Collections: A Critical Introduction and Reference Guide, Oakland 2017, 175-189.

J. Straub, Germania Provincia. Reichsidee und Vertragspolitik im Urteil des Symmachus und der Historia Augusta, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 209-230.

C.-M. Ternes, Ambroise, Symmaque, deux cultures pour une Europe?, in R. Poignault, O. Wattel de Croizant (éds.), D’Europe à l’Europe. I. Le mythe d’Europe dans l’art et la culture de l’Antiquité au XVIII ͤ siècle. Actes du colloque tenu à l’ENS, Paris (24-26 avril 1997), Tours 1998, 117-130.

K. Thraede, Concordia Romana in der Antwort des Prudentius auf die dritte Relatio des Symmachus, in Id., E. Dassmann (eds.), Tesserae: Festschrift für Josef Engemann, Münster i. W. 1991, 380-394.

D. Vera, Commento storico alle “Relationes” di Quinto Aurelio Simmaco (Introduzione, commento, testo, traduzione, appendice sul libro X, 1-2, indici), Pisa 1981.

D. Vera, Simmaco e le sue proprietà: struttura e funzionamento di un patrimonio aristocratico del quarto secolo d.C., in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 231-276.

L.M.A. Viola, Quinto Aurelio Simmaco: lo splendore della Romanitas; la perfezione dell’uomo religioso romano-italiano e la costituzione della civiltà universale della Pace, Forlì 2010.

M. Vitiello, Emperor Theodosius’ Liberty, and the Roman Past, HSCPh 108 (2015), 571-620.

C. Vogler, Les médecins dans le Code Théodosien 13.3 et la Relatio 27 de Symmaque, in J.-J. Aubert (éd.), Droit, religion et société dans le Code Théodosien; troisièmes Journées d’Etude sur le Code Théodosien, Neuchâtel, 15-17 février 2007, Genève 2009, 327-373.

E. Walter, Die dritte Relatio des Symmachus und die Entgegnungen des Bischofs Ambrosius von Mailand und des Prudentius. Vorschlag für eine Unterrichts-Einheit, AU 20 (1977), 5-20.

J. Weisweiler, The Price of Integration. State and Élite in Symmachus’ Correspondence, in P. Eich, S. Schmidt-Hofner, C. Wieland (eds.), Der wiederkehrende Leviathan. Staatlichkeit und Staatswerdung in Spätantike und Früher Neuzeit, Heidelberg 2011, 343-373.

G. Wirth, Symmachus und einige Germanen, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 277-300.

J. Wytzes, Der Streit um den Altar der Viktoria: die Texte der betreffenden Schriften des Symmachus und Ambrosius mit Einleitung, Übersetzung und Kommentar, Amsterdam 1936.

P. Zanna, Ambrogio, Simmaco, Agostino: il dialogo tra retorica, religione e pastorale dei pagani, in L. Alici, R. Piccolomini, A. Pieretti (eds.), La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino, Roma 2005, 85-103.

M. Zelzer, Symmachus, Ambrosius, Hieronymus und das römische Erbe, StPatr 28 (1993), 146-160.

Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

***

Riferimenti bibliografici:

G. Amer, M. Gawlikowski, Le sanctuaire impérial de Philippopolis, DaM 2 (1985), 1-17.

C. Ando, Imperial Rome AD 193 to 284: The Critical Century, Edinburgh 2012 [in part. 100-121].

G.R.P. Arca, Filippo l’Arabo: il primo dei principi cristiani o il più tollerante dei pagani?, RSChIt 53 (1999), 383-406.

D. Bălteanu, The Votive Inscriptions for the Roman Emperor Philippus Arabs, JRLS 12 (2017), 654-664.

G.M. Bersanetti, L’abrasione del nome del prefetto del pretorio C. Iulius Priscus in un’iscrizione palmirena e la rivolta di Iotapiano, in Laureae Aquincenses memoriae Valentini Kuzsinsky dicatae 2, Budapest 1941, 265-268.

A. Bianchi, La politica di Filippo l’Arabo, diss. U.C. Milano 1981/1982.

A. Bianchi, Aspetti della politica economica e fiscale di Filippo l’Arabo, Aegyptus 63 (1983), 185-198.

A. Birley, s.v. Claudius, DNP 3 (1997), 19.

B. Bleckmann, s.v. Philippus Arabs, RAC 27 (2015), 599-604.

L. Borhy, D. Bartus, E. Számadó, Die bronzene Gesetztafel des Philippus Arabs aus Brigetio, in L. Borhy et alii (eds.), Studia archaeologica Nicolae Szabó LXXV annos nato dedicata, Budapest 2015, 27-45.

G. Bowersock, Roman Arabia, Cambridge MA 1994³.

G. Brizzi, “Soldatenkaiser”, Illyriciani ed altri problemi, RSA 8 (1978), 89-115.

M.J. Charbonneaux, Aiôn et Philippe l’Arabe, MAHER 72 (1960), 253-272.

M. Christol, L’empire romain du III ͤ siècle : histoire politique, Paris 1997.

P. Coupel, E. Frézouls, Le Théâtre de Philippopolis en Arabie, Paris 1956.

É. Cuq, Note sur Julius Priscus préfect du prétoire de Gordien, CRAI 66 (1922), 184-189.

N. Darrous, J. Rohmer, Chahba-Philippopolis (Hauran) : essai de synthèse archéologique et historique, Syria 81 (2004), 5-41.

L. de Blois, The Reign of the Emperor Philip the Arabian, Talanta 10-11 (1978-1979), 11-43.

R. Devreesse, Le Christianisme dans la province d’Arabie, VeP 2 (1942), 110-146.

S. Dušanić, The End of the Philippi, Chiron 6 (1976), 427-439.

F. Elia, Ancora sul Cristianesimo di Filippo l’Arabo, QCCM 1 (1979), 267-283.

S. Faro, La coscienza della crisi in un anonimo retore del III secolo, Athenaeum 68 (1980), 406-428.

V. Fiorani Piacentini, Roman Fortification in Southern Ḥawrān: Notes from a Journey and Historical Working Hypotheses, OrMod 3 (1984), 121-140.

T. Franke, s.v. Iotapianus, DNP 5 (1998), 1093.

R. Göbl, Der Triumph des Sāsāniden Šahpuhr über Gordian, Philippus und Valerianus, Wien 1974.

J. Guey, T. Pekáry, Autour des “Res gestae Divi Saporis”, Syria 38 (1961), 261-283, in part. 275-283.

H. Halfmann, Itinera principum: Geschichte und Typologie der Kaiserreisen im Römischen Reich, Stuttgart 1986.

R. Hanslik, s.v. Iotapianus, KlP 2 (1967), 1444.

K.W. Harl, The Coinage of Neapolis in Samaria, A.D. 244-53, MN 29 (1984), 61-98.

F. Hartmann, Herrscherwechsel und Reichskrise. Untersuchungen zu den Ursachen und Konsequenzen der Herrscherwechsel im Imperium Romanum der Soldatenkaiserzeit (3. Jahrhundert n. Chr.), Frankfurt a. M.-Bern 1982.

H. Hatoum, L’antique Chahba-Philippopolis, BEO 52 (2000), 135-141.

T. Hauken, Petition and Response: an Epigraphic Study of Petitions to Roman Emperors, 181-249, Bergen 1998 [in part. 150-153].

G.F. Hill, The Mints of Roman Arabia and Mesopotamia, JRS 6 (1916), 135-159.

E. Honigmann, s.v. Philippopolis, RE 19 (1938), 2263.

L.L. Howe, The Praetorian Prefect from Commodus to Diocletian (A.D. 180-305), Chicago 1942 [in part. 79-80, n° 47].

D. Kienast, Römische Kaisertabelle. Grundzüge einer römischen Kaiserchronologie, Darmstadt 1996.

A. Kindler, The Coinage of Bostra, Warminster 1983.

H. Kloft, Philippus Arabs, in M. Clauss (ed.), Die römischen Kaiser. 55 historische Portraits von Caesar bis Iustinian, München 1997, 210-215.

J. Kolendo, Plat avec representation du cirque lors des jeux séculaires de Philippe l’Arabe, BV 50 (1985), 463-474.

C. Körner, Ein neuer Papyrus zur römischen Verwaltung im Osten des Reiches unter Kaiser Marcus Iulius Philippus Arabs (244-249 n. Chr.), in U. Pfister, M. de Tribolet (eds.), Sozialdisziplinierung – Verfahren – Bürokraten. Entstehung und Entwicklung der modernen Verwaltung, Basel 1999, 289-293.

C. Körner, Philippus Arabs: ein Soldatenkaiser in der Tradition des Antoninisch-Severischen Prinzipats, Berlin 2001.

C. Körner, Der Perserfriede von 244 n. Chr. und Meilensteinfunde aus Kappadokien, in R. Frei-Stolba (ed.), Siedlung und Verkehr im Römischen Reich, Frankfurt-am-Main 2004, 317-329.

C. Körner, Philippus Arabs – ein Araber auf dem römischen Kaiserthron?, AW 3 (2009), 73-78.

X. Loriot, Chronologie du règne de Philippe l’Arabe (244-249 après J.C.), ANRW II.2 (1975), 788-797.

X. Loriot, D. Nony, La crise de l’empire romain, 235-285, Paris 1997.

D. MacDonald, The Death of Gordian III: Another Tradition, Historia 30 (1981), 502-508.

A. Magioncalda, Testimonianze sui prefetti di Mesopotamia (da Settimio Severo a Diocleziano), SDHI 48 (1982), 167-238.

A. Mastino, Absentat(us) Sardinia. Nota sulla missione di un distaccamento della II Cohors vigilum Philippiana presso il procuratore P. Aelius Valens il 28 maggio 245 d.C., in M.B. Cocco, A. Gavini, A. Ibba (eds.), L’Africa romana XIX, Roma 2012, 2211-2224.

I. Mennen, Power and Status in the Roman Empire, AD 193-284, Leiden-Boston 2011.

G. Migliorati, Forme di controllo locale del territorio sotto Filippo l’Arabo e Decio, RSM 4 (2015), 8-20.

S. Mitchell, The Administration of Roman Asia from 133 BC t0 AD 250, in W. Eck, E. Müller-Luckner (eds.), Lokale Autonomie und römische Ordungsmacht in den kaiserzeitlichen Provinzen vom 1. bis 3. Jahrhundert, München 1999, 17-46.

A. Mócsy, s.v. Pannonia, RE suppl. 9 (1962), 567.

A. Mócsy, Pannonia and Upper Moesia. A History of the Middle Danube Provinces of the Roman Empire, London-Boston 1974.

F. Nasti, Il prefetto del pretorio di CIL VI, 1638 (= D. 1331) e la sua carriera, ZPE 117 (1997), 281-290.

D. Nony, La «nobilitas» de Philippe l’Arabe, RN 152 (1997), 47-51.

D. Nony, De la tranquillitas de Philippe l’Arabe à l’hippopotame d’Otacilia, CCGG 10 (1999), 261-267.

B. Palme, Die Reform der ägyptischen Lokalverwaltung unter Philippus Arabs, in U. Babusiaux, A. Kolb (eds.), Das Recht der ‘Soldatenkaiser’: Rechtliche Stabilität in Zeiten politischen Umbruchs?, Berlin-München-Boston 2015, 192-208.

P.J. Parsons, Philippus Arabs and Egypt, JRS 57 (1967), 134-141.

M. Peachin, Which Philip?, ZPE 73 (1988), 98-100.

M. Peachin, Philip’s Progress: From Mesopotamia to Rome in A.D. 244, Historia 40 (1991), 331-342.

M. Peachin, Iudex vice Caesaris. Deputy Emperors and the Administration of Justice during the Principate, Stuttgart 1996.

T. Pekáry, Le tribut aux Perses et les finances de Philippe l’Arab, Syria 38 (1961), 275-283.

H.-G. Pflaum, Les gouverneurs de la province romaine d’Arabie de 193 a 305, Syria 34 (1957), 128-144.

H.A. Pohlsander, Philip the Arab and Christianity, Historia 29 (1980), 463-473.

H.A. Pohlsander, Did Decius Kill the Philippi?, Historia 31 (1982), 214-222.

G. Poma, Nota su OGIS, 519: Filippo l’Arabo e la pace coi Persiani, Epigraphica 43 (1981), 265-272.

D.S. Potter, Prophecy and History in the Crisis of the Roman Empire, Oxford 1990.

D.S. Potter, The Roman Empire at Bay: AD 180-395, New York 2004.

C. Prickartz, Philippe l’Arabe (244-249), civilis princeps, AntClass 64 (1995), 129-153.

M.-H. Quet, La mosaïque dite d’Aîon de Shahba-Philippopolis, Philippe l’Arabe et la conception hellène de l’ordre du monde, en Arabie, à l’aube du christianisme, CCGG 10 (1999), 269-330.

A. Retzleff, Near Eastern Theatres in Late Antiquity, Phoenix 57 (2003), 115-138.

A. Segal, Roman Cities in the Province of Arabia, JSAH 40 (1981), 108-121.

I. Shahîd, Rome and the Arabs: a Prolegomenon to the Study of Byzantium and the Arabs, Washington DC 1984.

P. Southern, The Roman Empire from Severus to Constantine, London-New York 2001.

J. Spijkerman, The Coins of the Decapolis and Provincia Arabia, Jerusalem 1978.

L. Stefanini, L’ascesa al trono di Filippo l’Arabo, diss. UC Milano a.a. 1979/80.

A. Stein, s.v. Iotapianus, RE 9 (1916), 2004-2005 [].

A. Stein, s.v. Iulius 340, RE 10 (1918), 669-670 [].

A. Stein, s.v. Iulius 409, RE 10 (1918), 781-782 [].

A. Stein, s.v. Marcius 127, RE 14 (1930), 1607-1608 [].

A. Stein, Die Legaten von Moesien, Budapest 1940.

E. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10 (1918), 755-770 [].

E. Sylviane, L’empereur Silbannacus. Un second antoninien, RN 151 (1996), 105-117.

I. Syvänne, Gordian III and Philip the Arab: The Roman Empire at a Crossroads, Yorkshire-Philadelphia 2021.

D. Tudor, Aquae en Dacie inférieure, Latomus 25 (1966), 847-854.

D.E. Trout, Victoria Redux and the First Year of the Reign of Philip the Arab, Chiron 19 (1989), 221-233.

L.C. West, Gold and Silver Coin Standard in the Roman Empire, NNM 94 (1941), 1-199.

S. Wood, Subject and Artist: Studies in Roman Portraiture of the Third Century, AJA 85 (1981), 59-68.

S. Wood, The Bust of Philip the Arab in the Vatican: a Case for the Defense, AJA 86 (1982), 244-247.

J.M. York, The Image of Philip the Arab, Historia 21 (1972), 320-332.

G. Zecchini, Asinio Quadrato storico di Filippo l’Arabo, ANRW II.34.4 (1998), 2999-3021.

Arbogaste e l’usurpazione di Eugenio (392-394)

Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.

Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.

La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.

Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).

Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).

L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.

Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).

È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).

Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).

Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).

I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).

Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).

La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.

***

Riferimenti bibliografici:

H. Bloch, The Pagan Revival in the West at the End of the Fourth Century, in A. Momigliano (ed.), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963, 193-218.

R. Bratož, La battaglia del Frigidus (394 d.C.) nelle ricerche degli ultimi vent’anni, in S. Cavazza (ed.), Studi e ricerche per il LXXXIX Convegno della Deputazione Patria per il Friuli, Udine 2019, 9-60.

P.R.L. Brown, Aspects of the Christianisation of the Roman Aristocracy, JRS 51 (1961), 1-11.

T.S. Burns, Barbarians within the Gates of Rome: A Study of Roman Military Policy and the Barbarians, ca. 375-425 A.D., Bloomington 1994.

A. Cameron, The Late Roman Empire, A.D. 284-430, Cambridge 1993, 66-84.

A. Cameron, P. Garnsey (eds.), The Cambridge Ancient History, XIII – The Late Empire, A.D. 337-425, Cambridge 2007, 108-110.

A. Coṣkun, Virius Nicomachus Flavianus, Der Praefectus und Consul des “Carmen contra paganos”, VChr 58 (2004), 152-178.

P. Crawford, The Battle of Frigidus River, AW 43 (2012), 33-52.

B. Croke, Arbogast and the Death of Valentinian II, Historia 25 (1976), 235-244.

B. Croke, The Editing of Symmachus’ Letters to Eugenius and Arbogast, Latomus 35 (1976), 533-549.

R.M. Errington, The Praetorian Prefectures of Virius Nicomachus Flavianus, Historia 41 (1992), 439-461.

G. Ferri, The Last Dance of the Salians: the Pagan Élite of Rome and Christian Emperors in the Fourth Century AD, in AA.VV., Millennium. Jahrbuch zu Kultur und Geschichte des ersten Jahrtausends n. Chr., Berlin-Boston 2015, 117-153.

T. Grünewald, Arbogast und Eugenius in einer Kölner Bauinschrift. Zu CIL XIII 8262, KJ 21 (1988), 243-253.

A.H.M. Jones, The Decline of the Ancient World, London 1966.

A.H.M. Jones, J.R. Martindale, J. Morris, The Prosopography of the Later Roman Empire, I, Cambridge 1971.

N.Q. King, The Emperor Theodosius and the Establishment of Christianity, London 1961.

M. Kulikowski, The “Notitia Dignitatum” as a Historical Source, Historia 49 (2000), 358-377.

A. Lippold, Theodosius der Grosse und seine Zeit, Stuttgart 1980².

R. Lizzi Testa, The Strange Death of Pagan Rome: Reflections on a Historiographical Controversy, Turnhout 2014.

J.F. Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court, A.D. 364-425, Oxford 1975.

S. Mazzarino, La conversione del Senato, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, 378-397.

M.A. McEvoy, Rome and the Transformation of the Imperial Office in the Late Fourth-mid-fifth Centuries AD, PBSR 78 (2010), 151-192.

C. Müller (ed.), Fragmenta Historicorum Graecorum, IV, Paris 1870.

J.J. O’Donnell, The Career of Virius Nicomachus Flavianus, Phoenix 32 (1978), 129-143.

I.M. O’Flynn, Generalissimos of the Western Roman Empire, Edmonton 1983, 7-13, 22-24.

U. Roberto, Il barbaro e il potere: storiografia e ideologia nel frammento 187 di Giovanni di Antiochia, in M. Rotili (ed.), Memoria del passato, urgenza del futuro: il mondo romano fra V e VII secolo. Atti delle VI giornate di studio sull’età romanobarbarica (Benevento, 18-20 giugno 1998), Napoli 1999, 157-165

M.R. Salzman, The Making of a Christian Aristocracy. Social and Religious Change in the Western Roman Empire, Cambridge-London 2002.

M.R. Salzmann, Symmachus and the “Barbarian” Generals, Historia 55 (2006), 352-367.

M.R. Salzmann, Ambrose and the Usurpation of Arbogastes and Eugenius: Reflections on Pagan – Christian Conflict Narratives in the Fourth Century, JECS 18 (2010), 191-223.

O. Seeck, G. Veith, Die Schlacht am Frigidus, Klio 13 (1913), 451-467.

J. Szidat, Die Usurpation des Eugenius, Historia 28 (1979), 487-508.

L’𝐸𝑑𝑖𝑐𝑡𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑡𝑖𝑖𝑠 𝑟𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑣𝑒𝑛𝑎𝑙𝑖𝑢𝑚

Salito al potere nel 284, Diocleziano ereditò un impero economicamente al collasso: nel precedente mezzo secolo di anarchia militare, infatti, il valore nominale delle monete romane aveva subito una costante e progressiva svalutazione a causa della presenza di molteplici candidati alla porpora e altrettanti usurpatori, i quali non avevano esitato a battere nuova moneta per consolidare la propria posizione, corrompendo senatori, funzionari e militari e per farsi propaganda. Di conseguenza, l’eccessivo esubero di moneta in circolazione aveva provocato la riduzione del potere d’acquisto del denaro, a cui parallelamente, si sommavano altri fenomeni perniciosi, come l’aumento dei prezzi, a sua volta prodotto in parte da periodiche carestie e dai conflitti e in parte da una speculazione selvaggia; insomma, si trattava di segnali di quella che gli economisti oggi chiamano inflazione.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Testa, marmo, c. 284-305, da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Diocleziano, dunque, concepì un progetto di riforma su vasta scala con il quale intese risanare l’economia e le finanze imperiali, revitalizzare il sistema monetario e soprattutto garantire la regolare corresponsione degli stipendia ai quadri amministrativi e militari. L’imperatore, poste fuori corso le emissioni dei predecessori, dal 294 introdusse nuovi tipi monetali e dal 1 settembre 301 attuò una serie di misure volte a rifondare l’apparato monetario, cercando di renderlo nuovamente coerente e affidabile, quale era stato al tempo di Nerone; in altre parole, l’imperatore imperniò il sistema sul rapporto tra l’aureus (5,45 g = 1/60 di libbra) e i nuovi coni: l’argenteus, il cui peso e il valore nominale lo rendevano in tutto e per tutto comparabile al denarius del principato, deteneva un contenuto di metallo prezioso pari a più del 90% e un peso teorico che si aggirava attorno ai 3 g o poco più, equivalenti a 1/96 di libbra – come riportato sui rovesci delle monete (XCVI); il follis (o nummus) era una grossa moneta di bronzo (∅ c. 30 mm), rivestita di una sottile patina d’argento (al 4%), avente un peso compreso tra i 9 e i 13 g (= 1/32 di libbra). Il rapporto di cambio tra queste monete erano i seguenti: per un argenteus ci volevano 8 folles; per un aureus 25 argentei. A causa, però, di un’eccessiva tesaurizzazione da parte della popolazione, queste nuove emissioni ebbero una circolazione di breve durata: entro il 307 scomparvero gradualmente.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Argenteus, Sciscia c. 294. AR 2,879 g. Obversus: Virtus – militum. Porta turrita di un castrum con i tetrarchi intenti a prestare un solenne giuramento.

Oltre alla riforma monetaria, Diocleziano cercò di fissare un tetto massimo, imponendo un calmiere, sui salari, sui prezzi delle merci, sulle prestazioni d’opera e sui servizi in genere. Il provvedimento fu varato attraverso il cosiddetto Edictum de pretiis rerum venalium tra il novembre e il dicembre del 301, sotto il consolato di Tito Flavio Postumio Tiziano e Virio Nepoziano, a nome degli Augusti, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano e Marco Aurelio Valerio Massimiano, e i loro Caesares, Flavio Valerio Costanzo Cloro e Galerio Valerio Massimiano. Mentre la politica monetaria, perseguita per abbattere l’inflazione imperante, si limitava a introdurre nuove emissioni in sostituzione di quelle svalutate, per difendere il potere d’acquisto della moneta “buona” i tetrarchi stabilirono una relazione unica tra le singole voci di spesa e il loro valore, fissando un massimale per ogni elemento. I prezzi imposti dal decreto, dunque, furono calcolati in base al valore dell’oro (di cui una libbra corrispondeva a 72.000 denarii) e a quello dell’argento (di cui una libbra valeva 6.000 denarii), metalli il cui rapporto era di 12:1. Onde evitare confusione, è bene specificare che, dopo il crollo della monetazione argentea nel III secolo, il denarius sopravvisse come unità di calcolo nella riforma dioclezianea.

Il testo dell’Editto sui prezzi è noto, seppur in forma incompleta, dalla documentazione epigrafica, che fra Ottocento e Novecento ha restituito all’incirca 150 frammenti delle copie del rescritto, sia in latino sia in greco, provenienti per lo più dalla pars Orientis. Tra i reperti più significativi si possono menzionare, per esempio, il frammento di una stele di marmo proveniente da Platea (Achaia), contenente la copia del preambolo dell’editto (CIL III, p. 1913 = AE 1980, 66) e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene, e i lacerti di un pannello marmoreo scoperti tra i resti della facciata della basilica civile di Afrodisiade in Caria (CIL III, pp. 2208-2209 = CIL XII 69 = IAphr. 231 = ILS 642).

Calco cartaceo della copia del tariffario dell’Edictum de pretiis (CIL III, p. 1913 = AE 1890, 66 [], []) da Platea (Achaia) [].

La denominazione di edictum fu ricavata dal Mommsen (1850) dalla presenza del verbo tecnico dicunt nell’esordio (praef. 4); tuttavia, nello stesso testo si fa riferimento al dispositivo anche nei termini di lex (ibid. 15) e statutum (15; 18-20). A ogni modo, si tratta di un documento complesso e per meglio comprenderlo è opportuno leggerne un passo della lunga premessa (ibid. 15), nella quale si dichiarano le ragioni e gli scopi del provvedimento:

his omnibus, quae supra conprehensa sunt, iuste ac merito | permoti, cum iam ipsa humanitas deprecari videretur, non pretia venalia rerum – neque enim fieri id iustum putatur, cum | plurimae interdum provinciae felicitate optatae vilitatis et velut quodam afluentiae privilegio glorientur – sed modum statuen|dum esse censuimus, ut, cum vis aliqua caritatis emergeretquod dii omen averterint! – avaritia, quae velut campis quadam immensitate diffusis teneri non poter‹at›, statuti nostri finibus vel moderaturae legis terminis stringeretur.

“A buon diritto, spinti da queste motivazioni, che sopra sono state passate in rassegna, siccome l’umanità stessa sembrava chiederlo con insistenza, abbiamo deciso di fissare non i prezzi delle merci in vendita – infatti, ciò non può avvenire nel modo giusto, poiché parecchie province di solito si vantano della felicità dei desiderati prezzi bassi e, per così dire, di un certo privilegio di abbondanza – bensì un loro tetto massimo, in modo tale che, nel caso in cui dovesse capitare una qualche carestia – che gli dèi allontanino un simile presagio! – l’avidità, la cui diffusione non poteva essere frenata, sarà costretta entro i limiti della nostra normativa e nei termini consentiti dalla legge”.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II secolo, da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Il passo mostra chiaramente la distanza ideologica del pensiero economico antico dalla moderna dottrina: l’aumento incontrollato dei prezzi e l’inflazione galoppante erano attribuiti all’avaritia di mercatores e negotiatores, che non si erano fatti scrupolo a speculare sul costo delle merci, arrivando persino a ottuplicarne il valore di mercato; non si tenevano in conto altre concause, come guerre, carestie ed epidemie, ma si addossava interamente la responsabilità della situazione al comportamento sconsiderato di una particolare categoria economico-sociale, che nel mercato aveva parte attiva. Insomma, le ragioni dell’intervento pianificato degli imperatori sembra più morale che altro. Di contro, infatti, si presumeva che in condizioni ordinarie la sovrabbondanza e il benessere procurassero non solo la felicità della popolazione ma anche la riduzione dei costi.

Allo stato attuale, è difficile formulare una valutazione complessiva di questo provvedimento, ma è comunque interessante osservare gli indicatori numerici dei prezzi calmierati, raccolti in sessantanove categorie (più un’appendice) a comporre un vero e proprio tariffario – una testimonianza utile a ricostruire il quadro economico e sociale del tempo. Vale dunque la pena di fare qualche esempio, cominciando dalle professioni (VII de mercedibus operariorum): si stabilì che un bracciante agricolo potesse ricevere fino a 25 denarii al giorno, che i lavoratori impegnati nell’artigianato (lapidarii, fabri, calcis coctores, ecc.) potessero ottenere una paga massima di 50 denarii. Secondo le disposizioni imperiali, gli oratori sive sophistae potevano incassare fino a 250 denarii al mese per ogni studente al loro seguito, mentre più contenuto era l’onorario dei grammatici (200 denarii) e dei pedagogi (50 denarii). Un avvocato, a seconda del servizio fornito ai clienti, poteva godere di una parcella fino a 250 denarii per tenere un’accusa (in postulatione) oppure fino a 1000 denarii per sostenere una difesa (in cognitione).

Frammenti di lastra marmorea iscritta (IAphr. 231) con le tariffe sui trasporti dell’Edictum de pretiis (301) da Afrodisiade (Caria). Aphrodisias Museum.

Quanto ai beni, ecco il costo massimo di alcuni generi alimentari: una libbra italica (circa poco più di 300 g) di carne di maiale ammontava fino a 12 denarii, una libbra di carne bovina valeva al massimo 8 denarii e un paio di polli era venduto a 60 denarii complessivi. Vari, a seconda della qualità e della specie, i prezzi del pesce e della verdura, come pure quelli del vino: per esempio, un sestario (circa 0,5 l) di ottimo Falerno era ceduto a 30 denarii, più del triplo del valore del comune vino da tavola (vinum rusticum). Insomma, mezzo litro di vino di qualità valeva più della paga giornaliera di un operaio agricolo.

Che l’editto non abbia conseguito i risultati auspicati è noto, dato che le sue disposizioni furono spesso ampiamente aggirate, incrementando il mercato nero. A dimostrare comunque l’importanza della prescrizione era la pesantissima sanzione prevista per i trasgressori: in caso di sovrapprezzo, contrattazioni non autorizzate o altri comportamenti illeciti, i contravventori erano puniti con la pena capitale. Nonostante le numerose condanne comminate e l’eccessivo rigore dei giudici, le merci calmierate sparirono rapidamente dal mercato, l’inflazione riprese la sua corsa e molti prodotti si vendettero sotto banco a prezzi ancora più alti, dato che i commercianti più coraggiosi si facevano pagare una sorta di indennizzo per i rischi corsi.

Un macellaio (Tib. Giulio Vitale) e il suo servo (Marco). Rilievo sepolcrale con iscrizione (CIL VI 9501), marmo, c. metà del II secolo. Roma, Villa Albani.

A proposito degli effetti negativi delle misure dioclezianee parla Lattanzio nel suo De mortibus persecutorum, la fonte più polemica nei confronti della persona e dell’operato dell’imperatore. Nonostante la tradizione storiografica ricordi Diocleziano come un grande riformatore e restauratore, pur con tutti gli errori, i fallimenti e le contraddizioni, l’apologeta lo presenta non solo come un empio e sanguinario persecutore di cristiani ma anche come un uomo debole, pieno di vizi e pessimo governante; ne denuncia il malgoverno, a causa del quale trionfano illegalità, prepotenza e arbitrio, e lo accusa di essere responsabile perfino della crisi economica del cinquantennio precedente. Quanto all’Editto sui prezzi, il prosatore cristiano rinfaccia all’imperatore gli effetti e le modalità di attuazione (Lactant. De mort. pers. 7, 6-7):

idem cum variis iniquitatibus immensam faceret caritatem, legem pretiis rerum venalium statuere conatus est; tunc ob exigua et vilia multus sanguis effusus, nec venale quicquam metu apparebat, et caritas multo deterius, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur.

“E siccome le sue malefatte avevano prodotto un’enorme inflazione, egli cercò di fissare per legge i prezzi delle merci; al che avvenne che per cose insignificanti e senza valore il sangue scorresse a fiumi, il timore faceva sparire tutte le merci e l’inflazione subì una forte impennata, finché la legge per forza di cose non decadde, non prima di aver provocato la morte di tante persone”.

Come gli interventi in ambito monetario, dunque, anche l’Edictum de pretiis alla lunga si rivelò un fallimento: la crescita del mercato nero assunse forme così vistose e il meccanismo sanzionatorio divenne tanto insostenibile da costringere le autorità imperiali ad abrogare il provvedimento e ritornare al mercato libero.

I quattro tetrarchi con le loro famiglie. Bassorilievo su fregio, marmo, inizi IV secolo. Salonicco, Arco di Trionfo di Galerio.

***

Riferimenti bibliografici:

R. Allen, How prosperous were the Romans? The Evidence of Diocletian’s Price Edict (AD 301), in A.K. Bowman, A. I. Wilson (eds.), Quantifying the Roman Economy: Methods and Problems, Oxford 2009, 327-345.

R. Alston, Roman Military Pay from Caesar to Diocletian, JRS 84 (1994), 113-123.

P. Arnaud, Diocletian’s Prices Edict: the Price of Seaborne Transport and the Average Duration of Maritime Travel, JRA 20 (2007), 321-336.

―, L’Afrique dans le chapitre XXXV de l’Edit du Maximum de Dioclétien, in J.M. Candau Morón, F.J. González Ponce, A.L. Chávez Reino (eds.), Libyae Lustrare Extrema: Realidad y literatura en la visión grecorromana de África. Homenaje al Prof. Jehan Desanges, Sevilla 2008, 127-144.

T.D. Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge MA-London 1982.

H. Blümner, s.v. Edictum Diocletiani, RE V, 2 (1905), 1948-1957.

H. Böhnke, Ist Diocletians Geldpolitik gescheitert?, ZPE 100 (1994), 473-483.

A.K. Bowman, A. Cameron, P. Garnsey (eds.), The Cambridge Ancient History, Vol. 12: The Crisis of Empire, AD 193-337, Cambridge 2005.

H. Brandt, Geschichte der römischen Kaiserzeit : von Diokletian und Konstantin bis zum Ende der Konstantinischen Dynastie (284-363), Berlin 2014.

J.-P. Callu, La politique monétaire des empereurs romains de 238 à 311, Paris 1969.

G. Caputo, R. Goodchild, I.A. Richmond, Diocletian’s Price-Edict at Ptolemais (Cyrenaica), JRS 45 (1955), 106-115.

F. Carlà, Il sistema monetario in età tardoantica: spunti per una revisione, AIIN 53 (2007), 155-218.

―, L’oro nella tarda antichità: aspetti economici e sociali, Torino 2009.

M. Cassia, Διχθᾶς nell’Edictum de pretiis dioclezianeo: un’ipotesi interpretativa, Hormos 12 (2020), 176-195.

J. Chameroy, Réformes monétaires tardo-romaines à la lumière des dépôts enfouis en Gaule (c. 274-c. 310), in Id., P.-M. Guihard (eds.), Produktion und Recyceln von Münzen in der Spätantike, Mainz 2016, 47-68.

A. Chaniotis, G. Preuss, Neue Fragmente des Preisedikts von Diokletian und weitere lateinische Inschriften aus Kreta, ZPE 80 (1990), 189-202.

―, T. Fujii, A New Fragment of Diocletian’s Currency Regulation from Aphrodisias, JRS 105 (2015), 227-233.

L. Chioffi, Caro: il mercato della carne nell’Occidente romano, Roma 1999.

L.H. Cope, Diocletian’s Price Edict and Second Coinage Reform in the Light of Recent Discoveries, NC 137 (1977), 220-226.

S. Corcoran, Diocletian, in A Barrett. (ed.), Lives of the Caesars, Malden-Oxford 2008, 228-254.

―, s.v. Edict on prices, Diocletian’s, in R.S. Bagnall, K. Brodersen, C.B. Champion, A. Erskine, S.R. Huebner (eds.), The Encyclopedia of Ancient History, Chichester 2013, 2312-2313.

―, The Empire of the Tetrarchs: Imperial Pronouncements and Government, AD 284-324, Oxford 1996.

―, The Heading of Diocletian’s Prices Edict at Stratonicea, ZPE 166 (2008), 295-302.

M.H. Crawford, J.M. Reynolds, The Aezani Copy of the Prices Edict, ZPE 34 (1979), 163-210.

―, ―, The Publication of the Prices Edict. A New Inscription from Aezani, JRS 65 (1975), 160-163.

―, Discovery, Autopsy, and Progress: Diocletian’s Jigsaw Puzzles, in T.P. Wiseman (ed.), Classics in Progress: Essays on Ancient Greece and Rome, London 2002, 145-163.

E. Culasso Gastaldi, A. Themos, Nuovi frammenti dell’Edictum Diocletiani: i testi di Lemnos e di Sparta a confronto, AnnSAIA 95 (2017), 371-382.

A. Demandt, Die Spätantike römische Geschichte von Diocletian bis Justinian, 284-565 n. Chr., München 2007.

G. Depeyrot, Le système monétaire de Dioclétien à la fin de l’Empire, RBN 138 (1992), 33-106.

E.J. Doyle, Two New Fragments of the Edict of Diocletian on Maximum Prices, Hesperia 45 (1976), 77-97.

R.P. Duncan-Jones, Pay and Numbers in Diocletian’s Army, Chiron 8 (1978), 541-560.

K.T. Erim, J.M. Reynolds, J.P. Wild, M.H. Ballance, The Copy of Diocletian’s Edict on Maximum Prices from Aphrodisias in Caria, JRS 60 (1970), 120-141.

―, ―, The Aphrodisias Copy of Diocletian’s Edict on Maximum Prices, JRS 63 (1973), 99-110.

P. Flemestad, M. Harlow, B. Hildebrandt, M.L.B. Nosch, Observations on the Terminology of Textile Tools in the Edictum Diocletiani on Maximum Prices, in M.L.B. Nosch, S. Gaspa, C. Michel (eds.), Textile Terminologies from Orient to the Mediterranean and Europe, 1000 BC to 1000 AD, Lincoln 2017, 256-277.

T. Frank, An Economic History of Rome, Kitchener 2004.

Giacchero M. (ed.), Edictum Diocletiani et collegarum de pretiis rerum venalium, 2 voll., Genova 1974.

―, Il valore delle monete dioclezianee dopo la riforma del 301 e i prezzi dell’oro e dell’argento nei nuovi frammenti di Aezani dell’edictum de pretiis, RIN 22 (1974), 145-154.

E.R. Graser, The Edict of Diocletian on Maximum Prices, in T. Frank (ed.), Economic Survey of Ancient Rome, vol. 5, Baltimore 1940, 305-421.

―, The Significance of the Two New Fragments of the Edict of Diocletian, TAPhA 71 (1940), 157-174.

M.J. Groen-Vallinga, L.E. Tacoma, The Value of Labour. Diocletian’s Price Edict, K. Verboven, C. Laes (eds.), Work, Labour, and Professions in the Roman World, Leiden 2017, 104-132.

K.W. Harl, Marks of Value on Tetrarchic Nummi and Diocletian’s Monetary Policy, Phoenix 39 (1985), 263-270.

―, Roman Economy, 300 B.C. to A.D. 700, Baltimore-London 1996.

M. Hendy, Mint and Fiscal Administration under Diocletian, His Colleagues, and His Successors A.D. 305-24, JRS 62 (1972), 75-82.

D. Hollard, La crise de la monnaie dans l’Empire romain au 3e siècle après J.-C. Synthése des recherches et résultats nouveaux, Annales 50 (1995), 1045-1078.

J. Jahn, Zur Geld- und Wirtschaftspolitik Diokletians, JNG 25 (1975), 91-105.

A. Jelocnik, The Sisak Hoard of Argentei of the Early Tetrarchy, Ljubljana 1961.

R.G. Kent, The Edict of Diocletian Fixing Maximum Prices, UPLR 69 (1920), 35-47.

F. Kolb, Diocletian und die Erste Tetrarchie, Berlin 1987.

A. Kropff, Diocletian’s Currency System after 1 September 301: an Inquiry into Values, RBN 163 (2017), 167-188.

E. Kurzke, Das Preisedikt des Diokletian: Ein Spiegel für soziale Strukturen im römischen Reich?, Hausarbeit 2007.

G. Leiner, W. Leiner, Kleinmünzen und ihre Werte nach dem Preisedikt Diokletians, Historia 29 (1980), 219-241.

S. Lauffer, Diokletians Preisedikt: Texte und Kommentare, Berlin 1971.

W. Loring, A New Portion of the Edict of Diocletian from Megalopolis, JHS 11 (1890), 299-342.

I. Lukanc, Diokletianus: der römische Kaiser aus Dalmatien, Wettern 1991.

R. MacMullen, Diocletian’s Edict and the «castrensis modius», Aegyptus 41 (1961), 3-5.

I.W. Macpherson, A Synnadic Copy of the Edict of Diocletian, JRS 42 (1952), 72-75.

A. Marcone, Il mondo tardo antico: antologia delle fonti, Roma 2000.

H. Michell, The Edict of Diocletian: a Study of Price Fixing in the Roman Empire, CJEPS 13 (1947), 1-12.

T. Mommsen, Das Edict Diocletians de pretiis rerum venalium vom J. 301, Leipzig 1850.

―, The Plataian Fragment of the Edict of Diocletian, AJA 7 (1891), 54-64.

―, H. Blümner (eds.), Der Maximaltarif des Diokletian, Berlin 1893 (rist. 1958).

H.C. Montgomery, Diocletian’s Ceiling Prices, CO 21 (1944), 45-46.

F. Morelli, Tessuti e indumenti nel contesto economico tardoantico: i prezzi, AnTard 12 (2004), 55-78.

K.L. Noethlichs, Spätantike Wirtschaftspolitik und «adaeratio», Historia 34 (1985), 102-116.

J.H. Oliver, The Governor’s Edict at Aezani after the Edict of Prices, AJPh 97 (1976), 174-175.

A. Polichetti, Costo del lavoro e potere d’acquisto nell’editto dei prezzi, in L. De Blois, J. Rich (eds.), The Transformation of Economic Life under the Roman Empire, Amsterdam 2002, 218-231.

M. Prantl, Diocletian’s Edict on Maximum Prices of 301 AD: a Fragment Found in Aigeira, HistScrib 3 (2011), 359-398.

L. Radulova, Osservazioni sulla pubblicazione dell’Edictum de pretiis rerum venalium ad Odessos, Orpheus 23-24 (2016-2017), 93-102.

J.M. Reynolds, The Aphrodisias Copy of Diocletian’s Edict on Maximum Prices, ZPE 33 (1979), 46.

―, Diocletian’s Edict on Maximum Prices: the Chapter on Wool, ZPE 42 (1981), 283-284.

―, Imperial Regulations, in C. Roueché (ed.), Aphrodisias in Late Antiquity: The Late Roman and Byzantine Inscriptions Including Texts from the Excavations at Aphrodisias Conducted by Kenan T. Erim, London 1989, 252-318.

J.C. Rolfe, F.B. Tarbell, Discoveries at Plataia in 1889. I. A New Fragment of the Preamble to Diocletian’s Edict, “De Pretiis Rerum Venalium”, AJA 5 (1889), 428-439.

B. Salway, «Mancipium rusticum sive urbanum»: the Slave Chapter of Diocletian’s Edict on Maximum Prices, in U. Roth (ed.), By the Sweat of Your Brow: Roman Slavery in Its Socio-Economic Setting, London 2010, 1-20.

M.A. Speidel, Wirtschaft und Moral im Urteil Diokletians: Zu den kaiserlichen Argumenten für Höchstpreise, Historia 58 (2009), 486-505.

M. Spinelli (ed.), Lattanzio. Come muoiono i persecutori, Roma 2005.

K. Strobel, Anmerkungen zum Währungsedikt Diocletians vom 1.9.301 n. Chr. aus Aphrodisias, Philia 2 (2016), 816-827.

A. Wassink, Inflation and Financial Policy under the Roman Empire to the Price Edict of 301 A.D., Historia 40 (1991), 465-493.

L.C. West, Notes on Diocletian’s Edict, CPh 34 (1939), 239-245.

D. Whitehouse, Glass in the Price Edict of Diocletian, JGlassS 46 (2004), 189-191.

J.P. Wild, The Edict of Diocletian, Aria and Cashmere, Saitabi 64-65 (2014-2015), 11-23.

S. Williams, Diocletian and the Roman Recovery, London-New York 2000.

R. Wolters, Nummi Signati: Untersuchungen zur römischen Münzprägung und Geldwirtschaft, München 1999.

Vespasiano

Tito Flavio Vespasiano fu acclamato imperatore nel luglio del 69. Uno dei suoi primi atti ufficiali, una volta insediatosi in Roma e dopo aver lasciato al figlio maggiore Tito il compito di gestire la rivolta giudaica, fu di ridurre il numero delle coorti pretorie da sedici a nove. La prima preoccupazione del nuovo princeps fu quella di ridimensionale l’ingerenza dei militari nella vita politica dello Stato, impendendo, in sostanza, che si ripresentasse quella stessa situazione che lo aveva portato al potere. Vespasiano non dimenticò mai, tuttavia, il debito che aveva nei confronti delle legioni di Syria, Aegyptus e Moesia, tra le prime a prestargli giuramento, tant’è che per festeggiare la propria ascesa all’impero, egli scelse il giorno in cui era stato acclamato dai soldati, piuttosto che quello della ratifica del Senato. Da parte loro, i militari vedevano nel nuovo principe uno di loro, un homo novus, di origini non nobili, che aveva saputo elevarsi proprio grazie alla sua abilità guerresca.

Un altro problema che Vespasiano volle dirimere il prima possibile fu quello dei disordini scoppiati ai confini dell’Impero, soprattutto sul Reno. Qui doveva essere ancora sedata la ribellione provocata tra i Batavi da Giulio Civile, insurrezione che si era estesa a macchia d’olio, creando un effimero governo “separatista” nelle Galliae. Vespasiano inviò otto legioni, al comando di Petilio Ceriale e Giulio Sabino, che in poco tempo, verso la fine del 70, ebbero ragione dei rivoltosi e riportarono la situazione alla normalità. Nel frattempo, nel settembre dello stesso anno, il giovane Tito poneva fine alla rivolta giudaica con la presa di Gerusalemme. Ristabilita la pace e sedate le sollevazioni nelle province, era ora necessario dare stabilità a un Impero scosso dalla guerra civile del longus et unus annus (Tac. Dial. 17, 3).

T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo bianco, c. 70, da Napoli. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Per quanto concerne la politica interna, era evidente che proprio le origini dell’imperatore, che lo rendevano caro agli eserciti, potesse costituire un problema per l’ordine senatorio. Anche i più conservatori e intransigenti tra gli esponenti dell’alto consesso si erano ormai adeguati alla “necessità” del principato; ma, in fin dei conti, il princeps era pur sempre stato un rampollo di una delle più antiche e gloriose genti patrizie: un Giulio o un Claudio.

Era necessario, dunque, per Vespasiano giustificare il proprio potere, consolidarlo e garantirne la continuità. Richiamandosi ai suoi più autorevoli predecessori, già alla fine del 69 l’imperatore aveva promulgato un documento importantissimo, noto come lex de imperio Vespasiani (ILS 244): il rescritto, sancito da un Senatus consultum e ratificato pro forma dalle assemblee comitali, stabiliva una serie di prerogative, diritti e doveri del principe nei confronti della res publica, come la facoltà di convocare il Senato, di non essere vincolato a leggi e plebisciti, di intervenire nell’elezione dei magistrati. Più che di una nuova definizione “costituzionale” dei poteri dell’imperatore, si trattava probabilmente di una pubblicazione sistematica di quelli già esercitati dai predecessori.

Inoltre, nel 71, Vespasiano si associò nell’impero il figlio maggiore Tito, conferendogli la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare. Facendo questo, l’imperatore sabino intendeva richiamarsi direttamente ad Augusto, assumendolo a modello della propria propaganda. Nei coni monetali, che facevano il giro dell’Impero, per esempio, venivano ripetuti, in forme lievemente diverse, i rassicuranti simboli del potere augusteo: Aeternitas, Salus, Victoria. Accanto a queste astrazioni personificate, che restituivano alla gente fiducia nella stabilità del governo e nel benessere dello Stato, primeggiava soprattutto un’altra, che costituì la chiave di volta di tutta l’ideologia flavia: la Pace. Rappresentata come una figura muliebre con cornucopia e ramo d’ulivo, la Pax Augusti fu diffusa su ogni mezzo comunicativo. Non solo sulle monete, quindi, ma in suo onore fu progettato ed edificato il nuovo Foro, limitrofo a quello di Augusto. Inoltre, l’accorta politica di Vespasiano portò a una “rinascita” augustea anche nella letteratura, nelle arti e negli studi liberali. I poeti che gravitavano intorno alla corte flavia, in particolare Publio Papinio Stazio, trovarono in Virgilio il modello ideale dell’indimenticata età dell’oro della cultura romana.

T. Flavio Vespasiano. Dupondius, Roma c. 71. Æ 12, 81 g. Verso: Felicitas – publica – S(enatus) c(onsulto). La dea Felicitas stante, voltata a sinistra, con caduceo e cornucopia.

Per garantire alla gens Flavia il prestigio di cui era priva, Vespasiano rivestì il consolato quasi ininterrottamente, spesso insieme ai figli Tito e Domiziano. Sempre a Tito, con un’abile mossa politica, l’imperatore affidò anche l’incarico di prefetto del pretorio, da una parte per assicurarsi l’incolumità e dall’altra per inorgoglire e avvicinare i membri della classe equestre. Attraverso l’istituto della censura, che tenne insieme al figlio maggiore nel 73, Vespasiano poté anche intervenire nella composizione del venerando consesso, espellendone i senatori più scomodi e introducendo nuovi patres conscripti, esponenti delle aristocrazie provinciali d’Occidente.

Proprio nel campo dell’amministrazione delle province, Vespasiano dimostrò grande interesse e particolare attenzione. Molte delle opere pubbliche e delle infrastrutture commissionate e le nuove riorganizzazioni amministrative da lui intraprese avevano certamente scopi economici e fiscali, ma, di fatto, le iniziative del principe impressero un nuovo, fondamentale impulso allo sviluppo di quei territori. La massiccia concessione dello ius Latii o della Romana civitas e l’istituzione di numerosi municipia Flavia, soprattutto nelle Hispaniae, accelerarono il processo di romanizzazione del Paese e la formazione di un’alta aristocrazia locale, che col tempo avrebbe affiancato e poi soppiantato quella italica. Diversamente, le province orientali non godettero della medesima benevolenza: in particolare, l’Achaia, che Nerone aveva gratificato concedendo l’immunitas, fu reintegrata pienamente nel regime fiscale dell’Impero. In Cappadocia e Syria Vespasiano ordinò la costruzione di nuove fortezze legionarie e altre infrastrutture militari, concepite a scopi offensivi più che difensivi.

Nonostante l’epurazione, la destituzione e la sostituzione di alcuni eminenti personaggi dal Senato, è emblematico del mutare dei tempi che Vespasiano non sia stato rappresentato come un acerrimo nemico o un persecutore dell’oligarchia. L’opposizione a lui si limitò, a quanto sembra, ad alcuni circoli filosofici. L’unico complotto di un certo rilievo che sia stata tramandata fu quella che portò alla rovina Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, uno dei “martiri” dell’opposizione a Nerone.

Per cancellare le testimonianze della megalomane attività edilizia di quest’ultimo, Vespasiano si preoccupò di restituire al godimento pubblico molte aree di Roma, ampliando il pomerium e dando inizio alla costruzione dell’Amphitheatrum Flavium. Anche in altre città d’Italia e delle province l’imperatore incoraggiò in tutti i modi l’edilizia pubblica.

La morte lo colse nella nativa Sabina il 24 giugno del 79, quando era ancora impegnato negli affari di Stato.

Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.

***

Bibliografia minima:

F. Coarelli (ed.), Divus Vespasianus: il bimillenario dei Flavi. Catalogo della mostra (Roma, 27 marzo-10 gennaio 2010), Milano 2010.

B. Levick, Vespasian, London-New York 1999.

S. Pfeiffer, Die Zeit der Flavier: Vespasian – Titus – Domitian, Darmstadt 2009.