Cecilio Stazio, un grande commediografo

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 49-51.

Maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno (VI 12, 2-5), Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
  1. Vita

Come Andronico e Terenzio, Cecilio Stazio era un liberto di origine straniera. Veniva, pare, da Mediolanum ed era perciò un Gallo insubre; dato che l’acme della sua produzione si colloca intorno al 180 a.C., è verosimile che egli sia stato portato a Roma dopo la battaglia di Clastidium del 222. La data di nascita potrebbe, dunque, essere tra il 230 e il 220; la sua attività letteraria colloca Cecilio come contemporaneo prima di Plauto e poi di Ennio. Di quest’ultimo, in particolare, fu amico intimo. Morì un anno dopo di lui, nel 168, e i due poeti furono sepolti vicino.

La notizia che il giovane Terenzio leggesse al vecchio Cecilio la sua prima opera, l’Andria, è probabilmente un falso destinato a meglio riconnettere fra loro i due più stimati successori di Plauto. È noto, invece, che l’Andria andò in scena solo nel 166. Comunque, come Terenzio, anche Cecilio fu strettamente legato all’influente attore e soprattutto impresario teatrale Ambivio Turpione.

  1. Opere

Di Cecilio Stazio restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium (“La collana”). I titoli hanno sia forme greche – ad esempio, Ex hautoù hestòs (“Quello che sta in piedi da sé), Gamos (“Le nozze”), Epikleros (“L’ereditiera”), Synaristòsai (“Le donne a colazione”) e Synépheboi (“I compagni di gioventù”) – sia latine – quali, ad esempio, Epistula (“La missiva”) e Pugil (“Il puglile”) –, ma pure forme doppie, come Obolostàtes/Faenerator (“Lo strozzino”).

  1. Fonti

Informazioni biografiche dell’autore provengono dal Chronicon di San Girolamo e risalgono, in ultima analisi, al De poetis di Varrone. Tra i giudizi più importanti si possono citare: Cicerone, De optimo genere oratorum 1, 2; Orazio, Epistulae 2, 1, 59; Velleio Patercolo 1, 17, 1; Quintiliano 10, 1, 99; Gellio 2, 23 e 15, 24. Cecilio fu letto e apprezzato in tutta l’età repubblicana, ma pure in quella imperiale sino almeno al II secolo d.C.

  1. La fortuna di Cecilio presso gli antichi

Le ragioni per cui Cecilio Stazio è trattato, nei manuali di storia letteraria, come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e profondi conoscitori di letteratura quali Varrone, Cicerone e Orazio valutarono Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto e a Terenzio. Orazio lo elogiava per la serietà dei sentimenti e Varrone approvava i suoi intrecci; solo sulla purezza del suo uso latino permaneva, in Cicerone, qualche riserva (Brutus 258, 3; ad Att. 7, 3, 10). Il canone dei più apprezzati poeti comici di Roma, stilato intorno al 100 a.C. dall’erudito Volcacio Sedigito, pose Cecilio al primo posto, davanti a Plauto. La scomparsa della sua produzione non è dovuta, quindi, a un discredito o ad una manifesta inferiorità rispetto ad altri classici.

  1. Il rispetto dei modelli

La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che sono pervenuti si iscrive perfettamente nell’atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra, in un certo senso, più vicino al modello della Commedia Nea ateniese; quanto meno, i titoli che si hanno sono riproduzioni molto fedeli (a volte letterali: ad esempio, Plocium dal Plokion di Menandro) dei titoli degli originali greci. Inoltre, è assente dai titoli la figura dello schiavo: in Plauto, la passione per questo personaggio dominava anche i titoli (si veda, ad esempio, lo Pseudolus) e andava spesso a trasformare le linee del modello greco per crearsi un maggiore spazio vitale. Si ha, dunque, l’impressione che Cecilio fosse un po’ più rispettoso dei modelli. Inoltre, egli sembra avere una predilezione decisa per Menandro: per quasi metà dei titoli attestati, infatti, si può proporre una derivazione affatto menandrea.

  1. Somiglianze tra Cecilio e Terenzio

Interesse per Menandro e più sorvegliata adesione al modello greco via via adottato (in rapporto con una fase sempre più dotta ed ellenizzante della cultura romana), dunque, sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano da Plauto. Non si ha, invece, alcuna prova che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi e sboccati, l’approfondimento psicologico. Del resto, è noto che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata.

  1. Il vertere di Cecilio: un confronto con il modello

Il relitto più interessante dell’opera ceciliana deriva da un paragrafo delle Noctes Atticae di Gellio (2, 23), in cui l’erudito istituisce un puntuale confronto tra un passo del Plocium e uno corrispondente del modello seguito, il Plokion menandreo: si consideri che – prima della recente scoperta di un papiro del Dis exapatòn di Menandro, confrontabile con i passi delle Bacchides di Plauto – si trattava dell’unica occasione utilizzabile per comparare un brano abbastanza corposo di palliata con il relativo modello greco. Si nota così chiaramente quanto libero sia il rifacimento che i Romani chiamavano vertere: le innovazioni portate da Cecilio sul tessuto della sua fonte sono giudicate da Gellio con una certa severità e sono indubbiamente significative di una poetica comica autonoma. In Menandro si ha un marito che si lamenta perché la moglie bisbetica ha cacciato di casa la giovane ancella: «ha buttato fuori di casa, come voleva, la fanciulla che le dava ombra, perché tutti volgano gli sguardi al volto di lei e sia ben chiaro che è lei la mia padrona…». Nello sviluppo di Cecilio questo è solo un canovaccio: egli inserisce, secondo un suo gusto caratteristico, una massima di carattere generale in apertura: «Quell’uomo, appunto, è un disgraziato che non sa nascondere il suo patire…»; Cecilio, insomma, approfondisce enfaticamente il motivo della “schiavitù” dell’uomo sposato e dà corpo alla frustrazione del marito facendo sì che questi si immagini una colorita scena di donne pettegole, in cui la vecchia e brutta moglie si vanta del suo trionfo. Più in generale, il tranquillo monologo menandreo è stato convertito in un’aria farsesca, in un canticum. Da altri confronti è possibile ravvisare che Cecilio non arretrava di fronte a tinte ancora più forti, caricando sui misurati copioni menandrei anche lazzi e battutacce: «quando rientro a casa, mia moglie mi dà subito un bacio a stomaco vuoto… Non lo fa per sbaglio: vuole che tu vomiti quello che ti sei bevuto fuori casa». Come Plauto, insomma, anche Cecilio non si sforzava tanto di “rinarrare” ciò che era benissimo riuscito a Menandro o a Difilo, quanto di reinventare le storie dei modelli secondo una nuova e autonoma poetica teatrale.

  1. Bibliografia

I frammenti sono stati raccolti da O. RIBBECK, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Leipzig 1875 (rist. Hildesheim 1968); inoltre, da T. GUARDI, I frammenti. Cecilio Stazio, Palermo 1974. Alcune informazioni biografiche sono state raccolte da F. SKUTSCH, s.v. Caecilius (25), RE 3, 1 (1897), coll. 1189-1192. Le migliori analisi (dopo F. LEO, Geschichte der römische Literatur, Berlin 1913, pp. 217-226) sono venute da A. TRAINA, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 19742, pp. 41-53, e ID., Comoedia. Antologia della palliata, Padova 19692, pp. 95 ss. Si vedano, inoltre, J. WRIGHT, Dancing in Chiains. The Stylistic Unity of the “Comoedia Palliata”, Roma 1974, pp. 86 ss. e, per il confronto Cecilio-Menandro, L. GAMBERALE, La tradizione in Gellio, Roma 1969.

9. Studi ulteriore [ndr]

G. ARICÒ, Cicerone e il teatro. Appunti per una rivisitazione della problematica, in E. NARDUCCI (ed.), Cicerone tra antichi e moderni. Atti del IV Symposium Ciceronianum Arpinas (Arpino 9 maggio 2003), Firenze 2004, pp. 6-37.

W. BEARE, I Romani a teatro, Roma-Bari,

J. BLÄNSDORF, Caecilius Statius, in W. SUERBAUM (ed.), Die archaische Literatur. Von den Anfängen bis Sullas Tod (= Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, Band 1), München 2002, pp. 229-231.

M. CIPRIANI, Homo homini deus: la malinconica sentenziosità di Cecilio Stazio, PhAnt 3 (2010), pp. 117-160.

W.D.C. DE MELO, Plautus’s Dramatic Predecessors and Contemporaries in Rome, in M. FONTAINE, A.C. SCAFURO (eds.), The Oxford Handbook of Greek and Roman Comedy, Oxford-New York 2014, pp. 447-461.

G.F. FRANKO, Terence and the Tradition of Roman New Comedy, in A. AUGOUSTAKIS, A. TRAILL (eds.), A Companion to Terence, Malden 2013, pp. 33-51.

P. FRASSINETTI, Cecilio Stazio e Menandro, Revue Studi di poesia latina in onore di A. Traglia, pp. 77-86.

A.H. GROTON, Planting Trees for Antipho in Caecilius Statius’ Synephebi, Dioniso 60 (1990), pp. 58-63.

K. KLEVE, Caecilius Statius, «The money-lender», Revue XXII congresso internazionale di papirologia, volume 2 (p. 725.

G. LIVAN, Appunti sulla lingua e lo stile di Cecilio Stazio, Bologne

G. MANUWALD, Roman Republican Theatre, Cambridge 2011, pp. 234-242.

S. MONDA, Le citazioni di Cecilio Stazio nella Pro Caelio di Cicerone, GIF 50 (1998), pp. 23-39.

F. MONTANA, Lamia nella “Collana” di Menandro (fr. 297 Kassel-Austin), in S. BIGLIAZZI, F. LUPI, G. UGOLINI (eds.), Συναγωνίζεσθαι. Studies in Honour of Guido Avezzù, Verona 2018, pp. 585-598.

A. PERUTELLI, Studi sul teatro latino, a cura di G. PADUANO e A. RUSSO, Pisa 2011.

R. PIERINI, Caecilius Statius, in Enciclopedia oraziana, Roma 1996, vol. I, p. 684.

C. RIEDWEG, Menander in Rom – Beobachtungen zu Caecilius Statius Plocium fr. I (136-53 Guardì), in N.W. SLATER, B. ZIMMERMANN (eds.), Intertextualität in der griechisch-römischen Komödie, Stuttgart 1993, pp. 133-159.

L. RYCHLEWSKA, Caecilius Statius, poeta vetus novusque, RE 78 (, pp. 297-314

M. VON ALBRECHT, Geschichte der römischen Literatur von Andronicus bis Boethius und ihr Fortwirken. Band 1. 3., verbesserte und erweiterte Auflage, Berlin 2012, pp. 177-183.

W. YOUNG SELLAR, The Roman Poets of the Republic, Cambridge 2011.

Cortesie (e scortesie) per gli ospiti

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 702 sgg.

 

Catullo invita l’amico Fabullo a cena, avvertendolo però che dovrà portarsela per suo conto, assieme a tutto quanto potrà allietarla (ivi compresa una bella ragazza); il poeta infatti è – o meglio si dichiara – in bolletta. La contropartita che il poeta propone a Fabullo è immateriale ma non per questo inconsistente: è la sua stessa amicizia, unita a un unguento di Lesbia dal profumo irresistibile.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Si tratta di un carme d’occasione e l’occasione è ghiotta, ma solo se il destinatario sarà disposto a collaborare: Catullo invita a cena Fabullo (un amico nominato anche altrove nel Liber), ma lo avverte che dovrà portarsi il necessario; il poeta infatti ha le tasche vuote e non può offrire altro che la propria amicizia e un profumo di Lesbia, per annusare il quale Fabullo dovrà chiedere agli dèi che lo facciano «tutto naso». Com’è evidente, la confidenza e l’ironia sono le caratteristiche salienti del componimento, in cui almeno due volte si fa ricorso all’effetto a sorpresa, per ribaltare sia le aspettative dell’amico sia quelle del lettore (che anche in questo carme scorge la compresenza di una forma poetica tradizionale e di uno «spirito» – inteso anche come tono spiritoso – nuovo).

 

Cenabis[1] bene, mi Fabulle, apud me

paucis, si tibi di favent, diebus[2],

si tecum attuleris bonam atque magnam

cenam, non sine[3] candida[4] puella

et vino et sale et omnibus cachinnis[5].

haec si, inquam, attuleris, venuste noster[6]

cenabis bene; nam tui Catulli

plenus sacculus est aranearum[7].

sed contra accipies meros amores

seu quid suavius elegantiusve est:

nam unguentum dabo, quod meae puellae

donarunt Veneres Cupidinesque,

quod tu cum olfacies, deos rogabis

totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

 

Che cena, Fabullo mio, da me,

tra pochi giorni, se gli dèi vorranno,

e se porti una cena buona e abbondante

non senza una bellissima ragazza

e vino e spirito e risa in quantità.

Con questo contributo, bello mio,

dico: che cena! Sì, perché la borsa

del tuo Catullo è piena di ragnatele!

Ricambierò con sinceri affetti

e con quanto c’è di più elegante e raffinato,

cioè un profumo[8], che alla mia ragazza

hanno donato le Veneri e gli Amorini,

il quale se lo annuserai, pregherai gli dèi

di farti diventare tutto naso[9]!

(tr. it. E. Mandruzzato)

 

L’invitatio ad cenam è elemento topico che si trova nella letteratura latina in più generi letterari. La frequenza di tale elemento, che nasce comunque da situazioni reali, lascia intravvedere quanto era diffusa la pratica conviviale, nella quale era ricercato soprattutto il piacere dello stare assieme.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

Cicerone, nell’invitare l’amico Peto ad aver cura della propria salute, prendendo a frequentare gli amici e ad accettare quegli inviti a cena fuori, che invece rifiuta, afferma (Ad fam. IX 24, 3):

Nihil est aptius vitae, nihil ad beate vivendum accomodatius. Nec id ad voluptatem refero sed ad communitatem vitae atque victus remissionemque animorum, quae maxime sermone efficitur familiari, qui est in conviviis dulcissimus…

Dunque «la prassi alimentare non è solo la soddisfazione di un bisogno naturale, ma è condizionata da fattori culturali, è un atto socializzato e ritualizzato, basato su un proprio linguaggio, quindi anche simbolico…». E un simbolico valore comunicativo assume il cibo così come l’etichetta: è dunque in questo quadro che si inserisce, con le sue convenzioni sociali, la partecipazione al convito, preceduta da «formale» invito. «Il biglietto di invito, come quello di risposta, doveva menzionare gli elementi costitutivi che sono il tempo, il luogo, l’apparato, le persone che rendono ospitale l’ambiente, il menu, che adombra in sé una scelta di vita» (F. Citti). In Catullo tutti questi elementi sono presenti, ma il suo è uno scanzonato e goliardico invito: sarà invitato a portare con sé quel che serve per la riuscita della serata, limitandosi Catullo ad indicare tempo (paucis diebus) e luogo (apud me). Né mancano gli usuali elementi formali: l’uso del futuro, il vocativo del nome dell’invitato (Fabulle), la presenza del verbo cenare, proprio della formula stereotipa d’invito.

Oltre al celeberrimo invito a cena a Mecenate di Odi I 20, il poeta venusino propone il «biglietto» inviato all’amico Torquato e, come spesso nella sua poesia, «protagonista» del carme è il vino: non mancano tutti gli elementi propri dell’invitatio ad cenam che abbiamo già enucleato e l’invito alla frugalitas proprio della musa oraziana.

Epist. I 5

Se ti contenti di giacere ospite su divani fabbricati da Archia

né sdegni di mangiare erbaggi d’ogni sorta in un modesto piatto,

al tramonto in casa ti aspetterò, o Torquato,

berrai vino versato nei dogli fra Petrino di Sinuessa e Miturna

5   palustre quando Tauro fu per la seconda volta console.

Se ne hai di migliore, fallo pure venire, se no accontentati del mio.

Da un pezzo splende il fuoco e le stoviglie brillano per te,

lascia da parte le futili speranze e la corsa al denaro

il processo di Mosco: domani, compleanno di Cesare, giorno festo,

10 darà riposo e sonno; sarà lecito senza colpa

prolungare la notte estiva chiacchierando.

A che mi serve la Fortuna, se non m’è consentito usufruirne?

Chi risparmia pensoso all’erede ed è troppo severo

somiglia a un pazzo; voglio incominciare a bere

15 e spargere fiori, e lascerò pensare che ho perduto il senno.

Che cosa non sprigiona mai l’ebbrezza? Manda fuori i segreti,

rende evidenti le speranze, spinge in guerra l’imbelle,

scuote il peso dell’angoscia, ispira le arti.

A chi non donano fervida parlantina i calici?

20 Chi non risollevano, ridotto in povertà?

A me, convenientemente e non forzatamente, è richiesto di preoccuparmi

di queste cose: che la coperta sia decente, nitido il tovagliolo

perché non ti venga la nausea, né che il bicchiere e il piatto

non ti rispecchino, né vi sia qualcuno fra i fidi amici

25 che vada in giro a propalare i discorsi, e che ciascuno stia

con un compagno che gli sia pari. Inviterò per te Butra e Septicio

e anche Sabino, a meno che non lo trattenga una compagnia preferibile

alla nostra: una ragazza. C’è posto per parecchi seguaci,

ma se stiamo troppo stretti si sente puzza di becco.

30 Tu scrivimi in quanti sarete e, dimessi gli affari,

pianta in asso i clienti nell’atrio e scappa dalla porta sul retro[10].

Mosaico pavimentale con Bacco, Arianna, Sileno e Satiro a banchetto. II secolo d.C. Tunisi, Musée du Bardo.

«La differenza di tono da Catullo è anche troppo facile a segnarsi: Catullo si abbandona tutto al suo gioco, Orazio è anche qui contenuto e sorvegliato; l’epistola si apre con uno dei motivi più costanti sia dell’Orazio satirico sia dell’Orazio lirico, con un richiamo alla sua metriotes: la cena sarà spoglia di inutile fasto» (A. La Penna). Anche altrove (Sat. 2) Orazio biasima la ricercatezza dei cibi offerti non per la loro gustosità ma perché prescritti dalla moda del momento e contrappone ai banchetti lussuosi quelli più frugali della tradizione romana; è un richiamo ai valori del mos maiorum e, insieme, una scelta di vita: lo spazio del simposio è spazio dell’amicizia.

Ma non per tutti a Roma era così, come lasciano intravvedere i numerosi epigrammi di Marziale che parlano di «inviti a cena» e la Satira 5 di Giovenale che, rivolgendosi al cliens che riceve l’invito, mette in evidenza la stessa realtà.

Un momento che dovrebbe essere dedicato alla celebrazione dell’amicizia rivela, attraverso i cibi offerti, l’arroganza del patronus che a sé riserva cibi raffinati e prelibati ed al cliens concede cibi di poco pregio o addirittura ripugnanti andandosi così ad iscrivere l’offerta di cibo in un simbolico rituale che sottolinea la differenza di classe sociale.

 

Marziale, Epigr. III 60

Siccome m’inviti a cena e ormai non mi dai più denaro come prima,

perché non mi vengono servite le tue stesse pietanze?

Tu t’ingozzi di ostriche ingrassate nello stagno Lucrino,

Io mi succhio un mitilo dopo averne rotto la conchiglia:

5   tu mangi boleti, io funghi porcini;

tu sei impegnato con i rombi, io invece con piccoli spari;

tu ti rimpinzi di grasse cosce di tortora dal color dell’oro,

a me viene presentata una gazza morta in gabbia.

Perché io ceno senza di te, pur cenando con te, o Pontico?

10 Non si dà più la sportula, approfittiamone: mangiamo gli stessi cibi[11].

(trad. it. G. Norcio)

 

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Un gatto che azzanna un uccello e anatre, uccelli, pesce e conchiglie. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Giovenale, Satire V, passim

[…] Anzitutto, piantati bene in testa che, invitato a cena,

non fai che ricevere il saldo completo dei tuoi passati servizi.

Il pasto è il frutto di un’ininfluente amicizia: il padrone te lo mette in conto,

e anche se avviene raramente, tuttavia te l’addebita […]

E che cena poi! Un vino che non vorrebbe assorbire

la lana greggia […]

Lui stesso beve vino travasato quanto i consoli avevano i capelli

e tiene uva pigiata al tempo delle guerre sociali.

[…] Osserva quella lampreda che vien portata al padrone:

come adorna il bacile col suo lungo corpo e come, circondata attorno

dagli asparagi, pare spregiare i convitati con la coda,

mentre arriva tenuta alta sulle palme di un altissimo schiavo.

Ma a te viene servito, in un piccolo piatto, un gamberetto

circondato da mezzo uovo, vera cena mortuaria.

Quello lì, invece, innaffia il suo pesce con olio di Venafro, ma a te,

poverino, verrà portato un livido cavolo che puzza

di lucerna […]

Del padrone sarà una triglia inviata dalla Corsica

o dalle scogliere di Taormina […]

A Virrone si serve una murena enorme che viene

dai gorghi di Sicilia […]

Per voi è pronta un’anguilla parente dell’affilata biscia

o un pesce del Tevere macchiettato †dal ghiaccio† e

abitatore delle sponde, impinguato dal flusso della cloaca

ed uso risalire la fogna della Suburra fino al centro città.

[…] Agli amici di bassa risma verranno serviti funghi sospetti,

al padrone un boleto, ma di quelli che Claudio mangiò

prima di quello della moglie, dopo il quale non mangiò più nulla!

Virrone, per sé e per gli altri Virroni, farà portare

quelle mele, delle quali soltanto l’odore basterebbe a nutrirti,

di quelle che produceva il perenne autunno dei Feaci:

potresti credere che siano state sottratte alle sorelle africane.

Tu invece mangi una mela imbozzacchita, quale rosicchia

sui bastioni lo scimmione che, coperto di scudo e di elmo,

timoroso della sferza, impara a vibrare la lancia dall’alto d’un’irsuta capretta.

(trad. it. P. Frassinetti)

 

Scena di banchetto. Mosaico, V sec. d.C. da Aquileia. Musée de le Château de Boudry

In modo simile dunque, attraverso una continua antitesi tra ciò che mangia il patronus e ciò che è da lui offerto ai clientes sia Marziale sia Giovenale enfatizzano la differenza fra le portate che, per chi invita, è giusta rimarcatura di diversa posizione sociale, per chi è invitato, è frutto di discriminazione e fonte di umiliazione.

Che questi comportamenti nella società romana, soprattutto in età imperiale, dovessero essere frequenti risulta anche dall’epistolario di Plinio il Giovane.

Riportiamo, ad esempio, Epist. II 6, 1-4:

Lungo sarebbe, e neppur ne vale la pena, risalire molto indietro per dire come sia avvenuto ch’io cenassi in casa di un tale che non era affatto mio intimo: uomo, a sentir lui, magnifico insieme ed economo, ma a parer mio tanto sontuoso quanto gretto. A se stesso e ad alcuni faceva servire vivande squisite, agli altri cibi comuni e scarsi. Anche i vini aveva fatto disporre entro piccole fiale di tre qualità diverse, non per lasciare libertà di scelta ma perché non si potesse opporre rifiuto: una qualità per sé e per noi, un’altra per gli amici minori (ché ha amici di gradi diversi), e l’altra per i suoi e nostri liberti.

Quegli che giaceva al mio fianco notò la cosa e mi domandò se io l’approvassi. Risposi di no. «E tu» fece «come ti regoli?». «Faccio servire a tutti le stesse cose; a una cena io invito, non a un affronto; e tratto in modo eguale quelli che ho fatto miei eguali nella mensa e nel triclinio». «Anche i liberti?». «Anche i liberti; perché in tale occasione li considero commensali, e non liberti». E quello: «Ti deve costar caro». «Oh, niente affatto». «Come mai?». «Come? Perché i miei liberti non bevono il vino che bevo io, ma bevo io quello che bevono anche i liberti»[12].

(trad. it. G. Vitali)

 

È evidente l’atteggiamento di disgusto da parte di Plinio che «esprimendo il suo ideale antitetico di uguaglianza assoluta di tutti i convitati – liberti compresi – resa possibile dalla parsimonia nella scelta delle vivande, prende le distanze e stigmatizza questi eccessi tipici dei nuovi ricchi» (G. Migliori).

 

 ***

 

[1] Formula convenzionale di invito, dove il futuro ha un valore iussivo, ossia di comando, nell’ambito di una proposizione che viene ad essere l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi compare a sorpresa nel v.3; la cena per i Romani era il pasto principale della giornata ed iniziava intorno alle tre del pomeriggio.

[2] L’indeterminatezza della data da un lato contrasta con la perentorietà dell’invito e con la certezza della sua accettazione, dall’altro sembra alludere ironicamente alle incerte condizioni di ospitalità di cui apprenderemo nei versi successivi; e l’espressione si tibi di favent («se gli dèi ti sono favorevoli»), inciso proprio della lingua d’uso, rinforza il dubbio che non si tratterà di una cena comune.

[3] È litote per cum, rispetto a cui è più efficace.

[4] Indica la luminosità e la grazia della puella (probabilmente un’intrattenitrice musicale.

[5] Ecco l’aprosdóketon, ovvero la cosa inattesa, in questo caso il fatto che la condizione della cena è che Fabullo porti la cena stessa – concetto ben reso dal richiamo tra il cenabis dell’incipit e cenam del v.4, entrambi a inizio di verso –, o meglio i suoi ingredienti (qui enumerati anche con il polisindeto del v.5).

[6] È detto con affetto ma anche con una sfumatura ironica.

[7] Espressione proverbiale, come proverbiale – da Ipponatte alla letteratura ellenistica – è l’idea del poeta pitocco e male in arnese (che qui non va certo presa sul serio).

[8] Si tratta di un profumo oleoso; quella di profumarsi durante i banchetti era un’usanza importata dall’Oriente.

[9] Altro motto di spirito, che da una parte enfatizza il valore del profumo, dall’altra ridimensiona l’intervento divino.

[10]    Si potes Archiacis conviva recumbere lectis/nec modica cenare times holus omne patella,/supremo te sole domi, Torquate, manebo,/vina bibes iterum Tauro diffusa palustris/inter Minturnas Sinuessanumque Petrinum./si melius quid habes, arcesse, vel imperium fer./iamdudum splendet focus et tibi munda supellex,/mitte levis spes et certamina divitiarum/et Moschi causam: cras nato Caesare festus/dat veniam somnumque dies; impune licebit/aestivam sermone benigno tendere noctem./Quo mihi fortunam, si non conceditur uti?/parcus ob heredis curam nimiumque severus/adsidet insano, potare et spargere flores/incipiam, patiarque vel inconsultus haberi./quid non ebrietas dissignat ? operta recludit,/spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem,/sollicitis animis onus eximit, addocet artes. /fecundi calices quem non fecere disertum?/contracta quem non in paupertate solutum?/Haec ego procurare et idoneus imperor et non/invitus, ne turpe toral, ne sordida mappa/corruget naris, ne non et cantharus et lanx/ostendat tibi te, ne fidos inter amicos/sit qui dicta foras eliminet, ut coeat par/iungaturque pari. Butram tibi Septiciumque,/et nisi cena prior potiorque puella Sabinum/detinet, adsumam. locus est et pluribus umbris:/sed nimis arta premunt olidae convivia caprae,/tu quotus esse velis rescribe et rebus omissis/atria servantem postico falle clientem.

[11]  Cum vocer ad cenam non iam venalis ut ante,/Cur mihi non eadem, quae tibi, cena datur?/Ostrea tu sumis stagno saturata Lucrino,/Sugitur inciso mitulus ore mihi:/Sunt tibi boleti, fungos ego sumo suillos:/Res tibi cum rhombost, at mihi cum sparulo:/Aureus inmodicis turtur te clunibus implet,/Ponitur in cavea mortua pica mihi./Cur sine te ceno, cum tecum, Pontice, cenem?/Sportula quod non est, prosit: edamus idem.

[12] Longum est altius repetere nec refert, quemadmodum acciderit, ut homo minime familiaris cenarem apud quendam, ut sibi videbatur, lautum et diligentem, ut mihi, sordidum simul et sumptuosum. Nam sibi et paucis opima quaedam, ceteris vilia et minuta ponebat. Vinum etiam parvolis lagunculis in tria genera discripserat, non ut potestas eligendi, sed ne ius esset recusandi, aliud sibi et nobis, aliud minoribus amicis – nam gradatim amicos habet –, aliud suis nostrisque libertis. Animadvertit qui mihi proximus recumbebat, et an probarem interrogavit. Negavi. «Tu ergo» inquit «quam consuetudinem sequeris?». «Eadem omnibus pono; ad cenam enim, non ad notam invito cunctisque rebus exaequo, quos mensa et toro aequavi». «Etiamne libertos?». «Etiam; convictores enim tunc, non libertos puto». Et ille: «Magno tibi constat». «Minime». «Qui fieri potest?». «Quia scilicet liberti mei non idem quod ego bibunt, sed idem ego quod liberti».

Un’analisi linguistica del “carpe diem”

di V. Felici, Riflessioni sulla lingua poetica il carpe diem oraziano, Chaos e Kosmos, VII (2006) [online].

 

Ciò che verrà proposto in questa sede è un’applicazione dei principi teorici di Jakobson a un’espressione poetica celebre quanto intraducibile: il carpe diem di Orazio. Credo sia utile prendere in considerazione le motivazioni esclusivamente linguistiche che hanno condotto Orazio a formulare questa espressione, poiché, come vedremo tra breve, uno dei principi della poetica oraziana riguarda proprio l’attenzione alla combinazione di parole adeguate.
Orazio mostra di avere un perfetto dominio dell’arte poetica e, per usare una felice definizione di Marchesi, può a ragione ritenersi «l’orafo della lirica latina»: egli è un modellatore, un incisore che alla materia nota conferisce una nuova forma. Al di là di qualsiasi interpretazione critica, è Orazio stesso ad affermare i precetti del suo modo di fare poesia nell’Epistula ad Pisones (composta probabilmente tra il 15 e il 13 a.C.). Già Quintiliano, nell’Institutio oratoria (VIII 3, 60), intese l’epistola come un vero trattato, dando ad essa il titolo con il quale viene citata tuttora: Ars poetica.
La scelta del termine ars, equivalente del greco technḗ, da un lato rimanda all’idea di una trattazione manualistica in cui vengono elencati i fondamenti della poetica, dall’altro indica che la poesia è intesa come una creazione che avviene attraverso il lavoro “manuale” e la padronanza della tecnica (il termine “poesia” viene proprio dal greco poiéō che significa in prima istanza «fare, fabbricare, costruire»). Quello del poeta è pertanto un mestiere in cui si coniugano delle doti innate, l’ingenium, con una perfetta padronanza dell’ars/technḗ. La poesia nasce dalla cura, dal limae labor et mora, dalla multa dies et multa litura, dal lucidus ordo (Ars poetica, vv. 261, 41, 291 e ss.). L’uso della lima serve proprio a dar forma la lingua poetica proprio come un artigiano dà forma alla materia.
Come nasce dunque un’espressione poetica per Orazio? Attraverso una combinazione di parole particolarmente accurata: la callida iunctura.
Nell’Ars poetica ai vv. 47-48 leggiamo: In verbis etiam tenuis cautusque serendis / dixeris egregie, notum si callida verbum / reddiderit iunctura novum («Moderato e cauto anche nella scelta delle parole, ti esprimerai in modo personale se un’accorta combinazione renderà nuova una parola usata»). In questi versi Orazio fornisce delle indicazioni sulla scelta delle parole, utilizzando una forma molto accurata (non dimentichiamo che l’Ars poetica è in primo luogo un testo poetico!). Basterà notare la costruzione a-b-a-b-a: notum (si) callida verbum / (reddiderit) iunctura novum. L’aggettivo callida sta a indicare l’astuzia, la furbizia, l’accortezza del poeta, tutte qualità intese in senso positivo. Il sostantivo iunctura è attestato qui per la prima volta e come ha suggerito Ruch (1963) si tratta di un conio oraziano, adattato all’esametro e volto a evitare termini come verba iuncta o continuata, iunctio o coniunctio che riproducono l’espressione greca sýnthesis onomátōn e sono sentiti da Orazio come tecnicismi della retorica.

Giacomo Di Chirico, Ritratto di Q. Orazio Flacco.

Dunque la callida iunctura, perno della poetica oraziana, viene messa in atto nel momento stesso della sua enunciazione. Credo, inoltre, che questo precetto si accordi perfettamente con quanto è stato detto in merito alla funzione poetica nella teoria di Jakobson. Non resta che precisare quali sono le parole da combinare. Orazio parla di parole note che devono essere usate e rese in modo nuovo, ma a quali parole si riferisce? La scelta del poeta è dettata anche (e non solo) dall’appartenenza a una precisa tradizione poetica, sia linguistica che letteraria, e direi, in senso più ampio, a una particolare cultura.
Con “lingua poetica” non intendiamo, pertanto, semplicemente qualcosa di individuale e neppure la somma di forme linguistiche individuali di un poeta, ma piuttosto un possesso linguistico collettivo, nel quale la peculiarità e lo stile del singolo poeta sono determinati dalla sua scelta tra le forme offerte all’interno di un sistema e dalle innovazioni create in aggiunta ad esso.
Come scrive Leumann (1980: 135): «La lingua poetica è dunque un rampollo laterale sull’albero della lingua, essa conduce una mezza esistenza speciale con tradizione propria». L’eternità, per così dire, della lingua poetica è data proprio dalla contiguità con la tradizione letteraria e culturale precedente. Ciò vale soprattutto per l’antichità, in quanto nelle letterature antiche vigono due principi basilari: la costanza della forma linguistica all’interno dei generi letterari e l’accettazione dei modelli. L’imitatio è sentita, dunque, come una norma e non come vizio o difetto. Attraverso la callida iunctura il poeta può innovare nel solco della tradizione attraverso una perfetta padronanza dell’arte poetica.

Veniamo ora a considerare l’espressione carpe diem, alla luce di quanto detto finora. Questa callida iunctura appare nel Carmen 11 del I libro, anche se espressioni simili appaiono disseminate in tutta la produzione, poetica e non, di Orazio.
Riporto di seguito il testo latino con la traduzione italiana di Tommaso Marciano, che lascia in latino la iunctura suddetta proprio perché, come vedremo, è pressoché impossibile fornirne una traduzione italiana adeguata:

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc opposites debilitate pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vine liques et spatio breui
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit inuida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

 

Tu non chiedere (è un sacrilegio saperlo!) quale termine di vita,
o Leuconoe, gli dèi hanno concesso a me e quale a te
e non interrogare i calcoli babilonesi.
Come sarebbe meglio affrontare con serenità il futuro!
Sia che Giove abbia concesso parecchi inverni,
sia che abbia concesso, come ultimo,
quello che ora sconvolge il mar Tirreno
contro le opposte scogliere: sii saggia, filtra i vini
e tronca una lunga speranza in uno spazio breve,
poiché breve è la durata della vita.
Mentre noi parliamo il tempo invidioso sarà fuggito:
carpe diem, fiduciosa il meno possibile nel domani.

(HOR., Carm. I, 11, Trad. Tommaso Marciano a.s. 1995/1996)

 

In questa ode, Orazio si rivolge a Leuconoe, la donna dalla mente candida secondo il significato del suo nome (dal greco leukós, “bianco”, e nóos, “mente”). Questo destinatario fittizio incarna tutti coloro i quali si interrogano affannosamente sul loro futuro. Orazio inizia la sua ode proprio con un ammonimento: è un sacrilegio sapere (come viene sottolineato dalla iunctura nel coriambo scire nefas) e interrogarsi sulla fine della nostra vita. Il v. 3 si conclude proprio con l’invito ad accettare serenamente il futuro, il verbo pati si riferisce la sopportazione serena. Nel v. 4 il perfetto tribuit sta ad indicare la puntualità dell’azione compiuta da Giove nel momento in cui ha stabilito il termine di vita di ciascuno. Nel v. 5 viene proposta un’immagine paesaggistica piuttosto singolare in cui l’inverno debilitat (verbo raro prima di Orazio) il mar Tirreno. Nei versi seguenti, continuano gli ammonimenti attraverso i congiuntivi esortativi: sapias, liques e reseces. La saggezza risiede nel purificare il vino e nel recidere (resecare è verbo agricolo che sta a significare “potare i rami più lunghi”) una speranza lunga in uno spazio breve. Spatio brevi potrebbe avere anche una sfumatura causale e assieme a spem longam potrebbe esprimere un ossimoro. Nel v. 7 il pessimistico futuro anteriore fugerit sta proprio a indicare la rapidità con cui il tempo scorre e la sua inafferrabilità. Il termine usato per indicare il tempo è aetas, vale a dire il tempo biologico nella sua continuità (da confrontare con il greco aeí “sempre” e con l’aggettivo latino aeternus) che si contrappone al tempus, inteso come tempo segmentato (cfr. il greco témnō “tagliare”). Si deve notare che l’aggettivo invida ha una funzione predicativa più che attributiva; esso si riferisce al sintagma verbale, in dipendenza dal futuro anteriore: letteralmente potremmo tradurre «il tempo sarà fuggito invidioso».
L’ode si conclude con un ultimo ammonimento: carpe diem. Questa volta Orazio impiega l’imperativo presente, le cui caratteristiche semantiche sono proprio la presenza del “tu” e l’immediatezza di esecuzione della prescrizione (a livello formale non abbiamo suffissi specifici per questa forma verbale ma soltanto il puro tema).

 

Anton von Werner, Ritratto immaginario di Quinto Orazio Flacco.

 

In Orazio la quasi totalità degli imperativi può essere classificata secondo tre diversi impieghi. Possiamo trovare imperativi cultuali, che esprimono invocazioni o richieste agli dei; imperativi conviviali, che riguardano i gesti del convito come comandi al servo o inviti agli amici; imperativi gnomici, volti a indicare comportamenti ritualizzati che rassicurano contro la minaccia dell’imprevisto e dell’ignoto. A quest’ultimo gruppo appartengono molti esempi di imperativo negativo, che risponde all’esigenza di Orazio di inibire l’azione, ricercando la saggezza nella rinuncia e nel rifugio dall’angoscia del tempo e del morte, chiudendosi nell’oggi per non pensare al domani. Questa rappresenta una delle maggiori differenze rispetto a Catullo, in cui l’imperativo ha sempre un contenuto preciso e attuale, profondamente radicato nell’hic et nunc.
Carpe diem è uno dei pochi imperativi gnomici non espressi nella forma negativa, anche se anticipato nell’ode da una serie di ammonimenti “negativi” che invitano a non compiere determinate azioni (v. 1 Tu ne quaesieris, vv. 2-3 nec Babylonios temptaris numeros). Molte sono state le proposte di traduzione, ne cito solo alcune: «afferra l’oggi» (Canali), «cogli la giornata» (Mandruzzato), «goditi il presente» (Ramous). Tuttavia, come ho già detto, è difficile trovare un’espressione italiana che possa corrispondere adeguatamente alla iunctura oraziana.
In un articolo del 1973, Alfonso Traina illustra la semantica del carpe diem, a partire dalla sfera semantica del “prendere” in Orazio, rappresentata dai verbi: rapio, capio e sumo. Gli ammonimenti oraziani paragonabili a quello del Carmen I, 11 sono i seguenti:

…Rapiamus, amici,
occasionem de die, dumque uirent genua
et decet, obducta soluatur fronte senectus.

(Epod. 13, vv. 3-5)

Dona praesentis cape laetus horae:
linque seuera…

(Carm. III, 8, vv. 27-28)

Tu quamcumque deus tibi fortunauerit horam
grata sume manu neu dulcia differ in annum.

(Ep. I, 11 vv. 22-23)

Nel primo esempio tratto dagli epodi, rapiamus … occasionem de die «strappiamo l’occasione dal giorno (prima che esso fugga)», il verbo rapio indica il prendere con rapidità e violenza (basti pensare al significato delle parole italiane derivate da esso: rapire, rapina e simili). Negli altri esempi, si fa riferimento a un dono. Nei versi del Carmen III, 8, Orazio dice per l’appunto: «Cogli lieto i doni dell’ora presente, lascia i gravi pensieri». Nell’Epistola I, 11 si legge: «Ogni ora fortunata che un dio ti assegna, tu prendila con mano riconoscente e non rimandare da un anno all’altro la gioia».
Il verbo capio indica il prendere per avere, quindi il possesso (come in captivus “prigioniero”). Il verbo sumo indica il prendere qualcosa per usarne (cfr. il composto perfettivo consumo) e ricorre molto spesso negli imperativi conviviali in cui assume come oggetto termini relativi al cibo e alle bevande. In questo caso l’oggetto è meno materiale, horam, ma è sempre un bene di cui godere immediatamente. Inoltre, la scelta di sumo è dettata anche dall’associazione con manu, quasi a voler visualizzare il gesto che unisce l’uomo e dio.
Il verbo carpo si pone tra due campi semantici del “prendere” e del “cogliere”. Come ha sottolineato Traina (1973: 9-11), nelle traduzioni proposte si dà per scontato il riferimento all’accezione figurata di questo termine, vale a dire l’azione del “godere” o del “gustare”. In questo modo, il significato letterale di carpo (“cogliere”) viene immediatamente investito di sfumature semantiche che rappresentano il punto di arrivo della concezione oraziana. In realtà, il valore semantico di carpo deve essere analizzato prima al di fuori dell’ode di Orazio, proprio per poter comprendere effettivamente quale fosse il significato originario e il motivo della scelta di Orazio.
Innanzitutto, bisognerà notare che tale termine è piuttosto raro nelle fonti letterarie precedenti Orazio. In secondo luogo, ritengo utile evidenziare quali significati assume la radice indoeuropea da cui deriva carpo, *(s)kerp- che ha valore generico di «dividere, separare», nelle lingue storiche. Possiamo confrontare il verbo latino anche con altre forme come il greco karpós “frutto” e keírō “tagliare” ma anche “tosare, radere”, l’indiano antico krnati “ferire”, il germanico *harbista- “raccolto” da cui si è avuto il tedesco Herbst “autunno” e l’anglosassone hoerfest “autunno”, il lituano kirpti “tagliare con le forbici”, l’iberico cirrid “lacerare”. Oltre a questi esempi, non va trascurato il verbo italiano carpire, il cui significato letterale è “afferrare, strappare via, cogliere (con astuzia, di sorpresa)”, da cui si sono sviluppati gli usi figurati come “afferrare con lo sguardo”, “scorgere di sfuggita” o ancora “afferrare con la mente” fino al significato di “riuscire a ricordare”.
In latino, il primo significato di carpo è “cogliere” nel senso di staccare fiori, erba o frutti, di qui il significato “prendere a spizzico” con un movimento lacerante e progressivo che va dal tutto alle parti, come sfogliare una margherita o mangiare un carciofo. Sul versante sintagmatico l’accostamento di carpo con dies sta a indicare che dies è la parte da staccare, da cogliere. Secondo Traina (1973: 16-17), il dies è la parte dell’aetas, il tempo nella sua continuità. A questo tempo ostile (invida) bisogna strappare l’oggi, un frammento che ci è dato di godere prima che la fuga del tempo lo cancelli.

Muse e letterati (part.). Rilievo, marmo, metà III sec. d.C. da sarcofago asiatico. Roma, Museo Nazionale.

Credo che si possano aggiungere ulteriori osservazioni all’analisi di Traina. Mi riferisco in particolare all’uso del termine dies, che a mio avviso non si limita a indicare semplicemente una parte dell’aetas. Nel lessico oraziano di Boll vengono elencati gli usi di dies, distinguendo tra un uso proprio (generico oppure definito) e gli usi figurati in cui è sinonimo di tempus o di lux. L’esempio del carpe diem è riportato negli usi generici, in cui dies si riferisce al giorno in senso astratto. Tuttavia, penso che sia possibile approfondire questa classificazione attraverso un’interpretazione più ampia di questo termine a partire dall’indoeuropeo.
Dalla radice indoeuropea *djē- “brillare, risplendere” si è avuta una forma *dje(w)- “giorno”’, che ricorre in molte lingue indoeuropee antiche come l’osco (zicolo– “giorno”), il greco (éndios “a mezzogiorno”), l’armeno (tiw “giorno”), l’ittita (sīwatt- “giorno”), l’indiano antico (dívā “durante il giorno” e divasá– “giorno”). Sylvie Vanséveren (1997) ha presentato un’analisi accurata di tutti i termini indoeuropei derivati da questa radice e utilizzati per denominare “il cielo” e “il giorno”. Questa interpretazione, volta a mettere in luce i caratteri formali (che saranno qui tralasciati) di questa radice, fornisce degli interessanti spunti per capire la semantica di dies. Il tema *dje(w)- presenta in epoca storica due valori distinti e ben attestati: un valore spaziale, quello di “cielo”, e un valore temporale, quello di “giorno”, che rappresenta la parte diurna del giorno. In latino possiamo spiegare in questo modo le forme Iūpiter (*djēu p∂ter vocativo “padre del giorno/cielo”, attestato anche nella forma Diēspiter) e Vēdiūs, rappresentazione divinizzata del cielo (al pari del greco Zeus), così come il termine deus “dio”. Allo stesso modo le forme avverbiali diū (da confrontare con l’irlandese indíu) “di giorno” e hodiē (forma nominale cristallizzata paragonabile al vedico adyā) riguardano “il giorno”, ossia con significato temporale “l’oggi”.
A mio parere, nell’ode di Orazio si può rintracciare una rappresentazione metaforica del dies, ora identificata con la divinità, personificazione del cielo (v. 2 di “dei”, v. 4 Iuppiter, che molto spesso in Orazio ricorre anche nella forma Diēspiter), ora intesa come “giorno”. Nel corso dell’ode, è come se la localizzazione spazio-temporale del giorno passasse dalla sfera divina a quella umana: attraverso il carpe diem, l’uomo è dunque esortato ad afferrare una parte della luce divina. Se questo è vero, dies va inteso in senso temporale, in quanto indica “la parte diurna del giorno”, che per l’uomo viene a coincidere con il giorno stesso. In tal modo, dies esprime la luce attraverso una sua parte: il giorno. Potremmo concludere che carpe diem si presenta come un’espressione metonimica, in cui la parte sta a rappresentare il tutto. Orazio ci invita a “cogliere il giorno”, ossia quella porzione di luce appropriandosi della quale gli uomini possono vivere, anche se solo per un tempo limitato, nello stesso modo in cui vivono gli dèi.
L’analisi formale e linguistica proposta qui si accorda con il significato filosofico più profondo del carpe diem: esso non è un’esortazione al godimento effimero di un momento fugace, ma al modo di vita del saggio epicureo il quale, come ha bene osservato Alessandro Linguiti, gode «pienamente dell’unica vita che abbiamo a disposizione, e per questo ogni momento di essa, ogni sua frazione, diviene preziosa e degna di essere assaporata fino in fondo». Già Epicuro paragonava il modo di vita del saggio a quello degli dèi: «vivrai come un dio tra gli uomini; poiché in nulla è simile ad un essere vivente vita mortale, uomo che viva fra immortali beni» (Epistola a Meneceo, § 135, trad. E. Bignone). Questa assimilazione a dio non avviene, come nella tradizione platonica, attraverso la fuga dal mondo sensibile verso una realtà trascendente: al contrario, il saggio epicureo si assimila agli dèi perché vive, nella ristretta porzione di vita che gli è concessa, con la stessa imperturbabile serenità propria degli dèi. A questo terreno afferrare parte della luce divina allude il carpe diem…Sicuramente intraducibile.

Bibliografia:

LINGUITI A., Il valore dell’istante presente nelle filosofie ellenistiche,
Chaos e Kosmos 2 (2001) [www.chaosekosmos.it ISSN 1827-0468].

LEUMANN M., La lingua poetica latina, in LUNELLI A. (ed.), La lingua poetica latina, Bologna 1980, pp. 133-178 [trad. it. da Die lateinische
Dichtersprache, in Kleine Schriften, Stuttgart 1959, pp.
131-156].

RUCH M., Horace et les fondements de la iunctura dans l’ordre de la
création poétique (A.P. 46-72), REL 41 (1963), pp. 246-269.

TRAINA A., Semantica del carpe diem, RFIC 101 (1973), pp. 1-21.