L’arte di saper ascoltare

di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].

Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Frederic Leighton, Fatidica. Olio su tela, 1893. Liverpool, National Museum, Lady Lever Art Gallery.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Lottatori degli Uffizi. Marmo, copia romana da originale greco di III sec. a.C. Firenze, Museo degli Uffizi.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.

Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), f. 25r. Canto X, 31-33 Dante incontra Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».

Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).

Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.

Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».

Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.

Un oratore sulla Pnice. Illustrazione di Anna Tzortzi [link].
Plutarco biasima poi l’abitudine di rivolgere a chi parla, fosse anche il più grande oratore di tutti i tempi, complimenti quali “divino”, “ispirato”, “insuperabile”, come se non bastassero i “bene!”, i “bravo!” e i “giusto!” che si riservano ai grandi maestri: un vezzo che oggi è ancora più frequente quando i “personaggi” che appaiono in televisione sono tutti “magnifici”, “stupendi”, “sublimi”, “eccezionali”: attori, cantanti, calciatori e così via. Né bastano gli applausi: spesso, addirittura, tutti si alzano in piedi!

Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).

«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».

Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Louis J. Lebrun, Il discorso di Socrate. Olio su tela, 1867

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.

L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.

Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».

Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.

Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).

Epitteto: la conoscenza del bene come condizione della vera amicizia

Epitteto, Diatrib. II 22 (trad. it. in E. Maggio, Il senso della vita. La filosofia classica ed ellenistica, Roma, Armando Editore, 2003, pp. 119-124).

In questa Diatriba, che costituisce un piccolo trattato sull’amicizia, Epitteto riporta l’amicizia all’interno dell’etica stoica: l’uomo nutre amicizia e amore per ciò che è bene, e quindi vivrà la vera amicizia solo colui, come il saggio, che conosce che cosa sia veramente il bene. Amicizia c’è solo dove c’è anche bene e conoscenza del bene. Al di fuori di ciò, avremo solo apparenza di amicizia e contrasti.

 

Dextrarum iunctio. Cammeo, onice e pasta vitrea, II-III sec. d.C. su un anello d'argento.
Dextrarum iunctio. Cammeo, onice e pasta vitrea, II-III sec. d.C. su un anello d’argento.

 

Περὶ φιλίας.

 

περὶ ἅ τις ἐσπούδακεν, φιλεῖ ταῦτα εἰκότως. μή τι οὖν περὶ τὰ κακὰ ἐσπουδάκασιν οἱ ἄνθρωποι; οὐδαμῶς. ἀλλὰ μή τι περὶ τὰ μηδὲν πρὸς αὐτούς; οὐδὲ περὶ ταῦτα. [2] ὑπολείπεται τοίνυν περὶ μόνα τὰ ἀγαθὰ ἐσπουδακέναι αὐτούς· εἰ δ᾽ ἐσπουδακέναι, καὶ φιλεῖν ταῦτα. [3] ὅστις οὖν ἀγαθῶν ἐπιστήμων ἐστίν, οὗτος ἂν καὶ φιλεῖν εἰδείη· ὁ δὲ μὴ δυνάμενος διακρῖναι τὰ ἀγαθὰ ἀπὸ τῶν κακῶν καὶ τὰ οὐδέτερα ἀπ᾽ ἀμφοτέρων πῶς ἂν ἔτι οὗτος φιλεῖν δύναιτο; τοῦ φρονίμου τοίνυν ἐστὶ μόνου τὸ φιλεῖν.

[4] καὶ πῶς; φησίν· ἐγὼ γὰρ ἄφρων ὢν ὅμως φιλῶ μου τὸ παιδίον. [5] — θαυμάζω μὲν νὴ τοὺς θεούς, πῶς καὶ τὸ πρῶτον ὡμολόγηκας ἄφρονα εἶναι σεαυτόν. τί γάρ σοι λείπει; οὐ χρῇ αἰσθήσει, οὐ φαντασίας διακρίνεις, οὐ τροφὰς προσφέρῃ τὰς ἐπιτηδείους τῷ σώματι, οὐ σκέπην, οὐκ οἴκησιν; [6] πόθεν οὖν ὁμολογεῖς ἄφρων εἶναι; ὅτι νὴ Δία πολλάκις ἐξίστασαι ὑπὸ τῶν φαντασιῶν καὶ ταράττῃ καὶ ἡττῶσίν σε αἱ πιθανότητες αὐτῶν· καὶ ποτὲ μὲν ταῦτα ἀγαθὰ ὑπολαμβάνεις, εἶτα ἐκεῖνα αὐτὰ κακά, ὕστερον δ᾽ οὐδέτερα· καὶ ὅλως λυπῇ, φοβῇ, φθονεῖς, ταράσσῃ, μεταβάλλῃ· διὰ ταῦτα ὁμολογεῖς ἄφρων εἶναι. [7] ἐν δὲ τῷ φιλεῖν οὐ μεταβάλλῃ; ἀλλὰ πλοῦτον μὲν καὶ ἡδονὴν καὶ ἁπλῶς αὐτὰ τὰ πράγματα ποτὲ μὲν ἀγαθὰ ὑπολαμβάνεις εἶναι, ποτὲ δὲ κακά· ἀνθρώπους δὲ τοὺς αὐτοὺς οὐχὶ ποτὲ μὲν ἀγαθούς, ποτὲ δὲ κακοὺς καὶ ποτὲ μὲν οἰκείως ἔχεις, ποτὲ δ᾽ ἐχθρῶς αὐτοῖς καὶ ποτὲ μὲν ἐπαινεῖς, ποτὲ δὲ ψέγεις; — ναὶ καὶ ταῦτα πάσχω. [8] — τί οὖν; ὁ ἐξηπατημένος περί τινος δοκεῖ σοι φίλος εἶναι αὐτοῦ; — οὐ πάνυ. — οὐδ᾽ ὁ μεταπτώτως ἑλόμενος αὐτὸν εἶναι εὔνους αὐτῷ; — οὐδ᾽ οὗτος. — ὁ δὲ νῦν λοιδορῶν μέν τινα, ὕστερον δὲ θαυμάζων; [9] — οὐδ᾽ οὗτος. — τί οὖν; κυνάρια οὐδέποτ᾽ εἶδες σαίνοντα καὶ προσπαίζοντα ἀλλήλοις, ἵν᾽ εἴπῃς «οὐδὲν φιλικώτερον;» ἀλλ᾽ ὅπως ἴδῃς, τί ἐστι φιλία, βάλε κρέας εἰς μέσον καὶ γνώσῃ. [10] βάλε καὶ σοῦ καὶ τοῦ παιδίου μέσον ἀγρίδιον καὶ γνώσῃ, πῶς σὲ τὸ παιδίον ταχέως κατορύξαι θέλει καὶ σὺ τὸ παιδίον εὔχῃ ἀποθανεῖν. εἶτα σὺ πάλιν «οἷον ἐξέθρεψα τεκνίον· πάλαι ἐκφέρει». [11] βάλε κορασίδιον κομψὸν καὶ αὐτὸ ὁ γέρων φίλει κἀκεῖνος ὁ νέος· ἂν δέ, δοξάριον. ἂν δὲ κινδυνεῦσαι δέῃ, ἐρεῖς τὰς φωνὰς τὰς τοῦ Ἀδμήτου πατρός·

 

χαίρεις ὁρῶν φῶς, πατέρα δ᾽ οὐ χαίρειν δοκεῖς;

θέλεις βλέπειν φῶς, πατέρα δ᾽ οὐ θέλειν δοκεῖς;

 

οἴει ὅτι ἐκεῖνος οὐκ ἐφίλει τὸ ἴδιον παιδίον, [12] ὅτε μικρὸν ἦν, οὐδὲ πυρέσσοντος αὐτοῦ ἠγωνία οὐδ᾽ ἔλεγεν πολλάκις ὅτι «ὤφελον ἐγὼ μᾶλλον ἐπύρεσσον;» εἶτα ἐλθόντος τοῦ πράγματος καὶ ἐγγίσαντος ὅρα οἵας φωνὰς ἀφιᾶσιν. [13] ὁ Ἐτεοκλῆς καὶ ὁ Πολυνείκης οὐκ ἦσαν ἐκ τῆς αὐτῆς μητρὸς καὶ τοῦ αὐτοῦ πατρός; οὐκ ἦσαν συντεθραμμένοι, συμβεβιωκότες, συμπεπωκότες, συγκεκοιμημένοι, πολλάκις ἀλλήλους καταπεφιληκότες; ὥστ᾽ εἴ τις οἶμαι εἶδεν αὐτούς, κατεγέλασεν ἂν τῶν φιλοσόφων ἐφ᾽ οἷς περὶ φιλίας παραδοξολογοῦσιν. [14] ἀλλ᾽ ἐμπεσούσης εἰς τὸ μέσον ὥσπερ κρέως τῆς τυραννίδος ὅρα οἷα λέγουσι·

 

ποῦ ποτε στήσῃ πρὸ πύργων; — ὡς τί μ᾽ † ἐρωτᾷς τῷδ᾽ †; —

ἀντιτάξομαι κτενῶν σε. — κἀμὲ τοῦδ᾽ ἔρως ἔχει.

καὶ εὔχονται εὐχὰς τοιάσδε.

 

[15] καθόλου γὰρ — μὴ ἐξαπατᾶσθε — πᾶν ζῷον οὐδενὶ οὕτως ᾠκείωται ὡς τῷ ἰδίῳ συμφέροντι. ὅ τι ἂν οὖν πρὸς τοῦτο φαίνηται αὐτῷ ἐμποδίζειν, ἄν τ᾽ ἀδελφὸς ᾖ τοῦτο ἄν τε πατὴρ ἄν τε τέκνον ἄν τ᾽ ἐρώμενος ἄν τ᾽ ἐραστής, μισεῖ, προβάλλεται, καταρᾶται. [16] οὐδὲν γὰρ οὕτως φιλεῖν πέφυκεν ὡς τὸ αὑτοῦ συμφέρον· τοῦτο πατὴρ καὶ ἀδελφὸς καὶ συγγενεῖς καὶ πατρὶς καὶ θεός. ὅταν γοῦν εἰς τοῦτο ἐμποδίζειν ἡμῖν οἱ θεοὶ δοκῶσιν, [17] κἀκείνους λοιδοροῦμεν καὶ τὰ ἱδρύματα αὐτῶν καταστρέφομεν καὶ τοὺς ναοὺς ἐμπιπρῶμεν, ὥσπερ Ἀλέξανδρος ἐκέλευσεν ἐμπρησθῆναι τὰ Ἀσκλήπεια ἀποθανόντος τοῦ ἐρωμένου. [18] διὰ τοῦτο ἂν μὲν ἐν ταὐτῷ τις θῇ τὸ συμφέρον καὶ τὸ ὅσιον καὶ τὸ καλὸν καὶ πατρίδα καὶ γονεῖς καὶ φίλους, σῴζεται ταῦτα πάντα· ἂν δ᾽ ἀλλαχοῦ μὲν τὸ συμφέρον, ἀλλαχοῦ δὲ τοὺς φίλους καὶ τὴν πατρίδα καὶ τοὺς συγγενεῖς καὶ αὐτὸ τὸ δίκαιον, οἴχεται πάντα ταῦτα καταβαρούμενα ὑπὸ τοῦ συμφέροντος. [19] ὅπου γὰρ ἂν τὸ «ἐγὼ» καὶ τὸ «ἐμόν», ἐκεῖ ἀνάγκη ῥέπειν τὸ ζῷον· εἰ ἐν σαρκί, ἐκεῖ τὸ κυριεῦον εἶναι· εἰ ἐν προαιρέσει, ἐκεῖνο εἶναι· εἰ ἐν τοῖς ἐκτός, ἐκεῖνο. [20] εἰ τοίνυν ἐκεῖ εἰμι ἐγώ, ὅπου ἡ προαίρεσις, οὕτως μόνως καὶ φίλος ἔσομαι οἷος δεῖ καὶ υἱὸς καὶ πατήρ. τοῦτο γάρ μοι συνοίσει τηρεῖν τὸν πιστόν, τὸν αἰδήμονα, τὸν ἀνεκτικόν, τὸν ἀφεκτικὸν καὶ συνεργητικόν, φυλάσσειν τὰς σχέσεις. [21] ἂν δ᾽ ἀλλαχοῦ μὲν ἐμαυτὸν θῶ, ἀλλαχοῦ δὲ τὸ καλόν, οὕτως ἰσχυρὸς γίνεται ὁ Ἐπικούρου λόγος, ἀποφαίνων ἢ μηδὲν εἶναι τὸ καλὸν ἢ εἰ ἄρα τὸ ἔνδοξον. [22]

διὰ ταύτην τὴν ἄγνοιαν καὶ Ἀθηναῖοι καὶ Λακεδαιμόνιοι διεφέροντο καὶ Θηβαῖοι πρὸς ἀμφοτέρους καὶ μέγας βασιλεὺς πρὸς τὴν Ἑλλάδα καὶ Μακεδόνες πρὸς ἀμφοτέρους καὶ νῦν Ῥωμαῖοι πρὸς Γέτας καὶ ἔτι πρότερον τὰ ἐν Ἰλίῳ διὰ ταῦτα ἐγένετο. [23] ὁ Ἀλέξανδρος τοῦ Μενελάου ξένος ἦν, καὶ εἴ τις αὐτοὺς εἶδεν φιλοφρονουμένους ἀλλήλους, ἠπίστησεν ἂν τῷ λέγοντι οὐκ εἶναι φίλους αὐτούς. ἀλλ᾽ ἐβλήθη εἰς τὸ μέσον μερίδιον, κομψὸν γυναικάριον, καὶ περὶ αὐτοῦ πόλεμος. [24] καὶ νῦν ὅταν ἴδῃς φίλους, ἀδελφοὺς ὁμονοεῖν δοκοῦντας, μὴ αὐτόθεν ἀποφήνῃ περὶ τῆς φιλίας τι αὐτῶν μηδ᾽ ἂν ὀμνύωσιν μηδ᾽ ἂν ἀδυνάτως ἔχειν λέγωσιν ἀπηλλάχθαι ἀλλήλων. [25] οὐκ ἔστι πιστὸν τὸ τοῦ φαύλου ἡγεμονικόν: ἀβέβαιόν ἐστιν, ἄκριτον, ἄλλοθ᾽ ὑπ᾽ ἄλλης φαντασίας νικώμενον. [26] ἀλλ᾽ ἐξέτασον μὴ ταῦθ᾽ ἃ οἱ ἄλλοι, εἰ ἐκ τῶν αὐτῶν γονέων καὶ ὁμοῦ ἀνατεθραμμένοι καὶ ὑπὸ τῷ αὐτῷ παιδαγωγῷ, ἀλλ᾽ ἐκεῖνο μόνον, ποῦ τὸ συμφέρον αὐτοῖς τίθενται, πότερον ἐκτὸς ἢ ἐν προαιρέσει. [27] ἂν ἐκτός, μὴ εἴπῃς φίλους οὐ μᾶλλον ἢ πιστοὺς ἢ βεβαίους ἢ θαρραλέους ἢ ἐλευθέρους, ἀλλὰ μηδ᾽ ἀνθρώπους, εἰ νοῦν ἔχεις. [28] οὐ γὰρ ἀνθρωπικὸν δόγμα ἐστὶ τὸ ποιοῦν δάκνειν ἀλλήλους καὶ λοιδορεῖσθαι καὶ τὰς ἐρημίας καταλαμβάνειν ἢ τὰς ἀγορὰς † ὡς τὰ ὄρη καὶ ἐν τοῖς δικαστηρίοις ἀποδείκνυσθαι τὰ λῃστῶν· οὐδὲ τὸ ἀκρατεῖς καὶ μοιχοὺς καὶ φθορεῖς ἀπεργαζόμενον οὐδ᾽ ὅσ᾽ ἄλλα πλημμελοῦσιν ἄνθρωποι κατ᾽ ἀλλήλων δι᾽ ἓν καὶ μόνον τοῦτο δόγμα, τὸ ἐν τοῖς ἀπροαιρέτοις τίθεσθαι αὑτοὺς καὶ τὰ ἑαυτῶν. [29] ἂν δ᾽ ἀκούσῃς, ὅτι ταῖς ἀληθείαις οὗτοι οἱ ἄνθρωποι ἐκεῖ μόνον οἴονται τὸ ἀγαθὸν ὅπου προαίρεσις, ὅπου χρῆσις ὀρθὴ φαντασιῶν, μηκέτι πολυπραγμονήσῃς μήτ᾽ εἰ υἱὸς καὶ πατήρ ἐστι μήτ᾽ εἰ ἀδελφοὶ μήτ᾽ εἰ πολὺν χρόνον συμπεφοιτηκότες καὶ ἑταῖροι, ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τοῦτο γνοὺς θαρρῶν ἀποφαίνου, ὅτι φίλοι, ὥσπερ ὅτι πιστοί, ὅτι δίκαιοι. [30] ποῦ γὰρ ἀλλαχοῦ φιλία ἢ ὅπου πίστις, ὅπου αἰδώς, ὅπου δόσις τοῦ καλοῦ, τῶν δ᾽ ἄλλων οὐδενός;

[31] «ἀλλὰ τεθεράπευκέ με τοσούτῳ χρόνῳ· καὶ οὐκ ἐφίλει με;» πόθεν οἶδας, ἀνδράποδον, εἰ οὕτως τεθεράπευκεν ὡς τὰ ὑποδήματα σπογγίζει τὰ ἑαυτοῦ, ὡς τὸ κτῆνος; πόθεν οἶδας, εἰ τὴν χρείαν σ᾽ ἀποβαλόντα τὴν τοῦ σκευαρίου ῥίψει ὡς κατεαγὸς πινάκιον; [32] «ἀλλὰ γυνή μου ἐστὶ καὶ τοσούτῳ χρόνῳ συμβεβιώκαμεν». πόσῳ δ᾽ ἡ Ἐριφύλη μετὰ τοῦ Ἀμφιαράου καὶ τέκνων μήτηρ καὶ πολλῶν; [33] ἀλλ᾽ ὅρμος ἦλθεν εἰς τὸ μέσον. τί δ᾽ ἐστὶν ὅρμος; τὸ δόγμα τὸ περὶ τῶν τοιούτων. ἐκεῖνο ἦν τὸ θηριῶδες, ἐκεῖνο τὸ διακόπτον τὴν φιλίαν, τὸ οὐκ ἐῶν εἶναι γυναῖκα γαμετήν, τὴν μητέρα μητέρα. [34] καὶ ὑμῶν ὅστις ἐσπούδακεν ἢ αὐτός τινι εἶναι φίλος ἢ ἄλλον κτήσασθαι φίλον, ταῦτα τὰ δόγματα ἐκκοπτέτω, ταῦτα μισησάτω, ταῦτα ἐξελασάτω ἐκ τῆς ψυχῆς τῆς ἑαυτοῦ. [35] καὶ οὕτως ἔσται πρῶτον μὲν αὐτὸς ἑαυτῷ μὴ λοιδορούμενος, μὴ μαχόμενος, μὴ μετανοῶν, μὴ βασανίζων ἑαυτόν· [36] ἔπειτα καὶ ἑτέρῳ, τῷ μὲν ὁμοίῳ παντὶ ἁπλῶς, τοῦ δ᾽ ἀνομοίου ἀνεκτικός, πρᾷος πρὸς αὐτόν, ἥμερος, συγγνωμονικὸς ὡς πρὸς ἀγνοοῦντα, ὡς πρὸς διαπίπτοντα περὶ τῶν μεγίστων: οὐδενὶ χαλεπός, ἅτ᾽ εἰδὼς ἀκριβῶς τὸ τοῦ Πλάτωνος, ὅτι πᾶσα ψυχὴ ἄκουσα στέρεται τῆς ἀληθείας. [37] εἰ δὲ μή, τὰ μὲν ἄλλα πράξετε πάντα ὅσα οἱ φίλοι καὶ συμπιεῖσθε καὶ συσκηνήσετε καὶ συμπλεύσετε καὶ ἐκ τῶν αὐτῶν γεγενημένοι ἔσεσθε· καὶ γὰρ οἱ ὄφεις· φίλοι δ᾽ οὔτ᾽ ἐκεῖνοι οὔθ᾽ ὑμεῖς, μέχρις ἂν ἔχητε τὰ θηριώδη ταῦτα καὶ μιαρὰ δόγματα.

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Pittore di Castelgiorgio. Due giovani a colloquio. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.
Pittore di Castelgiorgio. Due giovani a colloquio. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

 

Sull’amicizia

 

[1] L’oggetto in cui si mette il proprio zelo, com’è naturale, lo si ama. Gli uomini mettono forse il loro zelo in quel che è male? Nient’affatto! Forse in ciò che non ha alcuna relazione con loro? Neppure in questo. [2] Resta, pertanto, che mettono il loro zelo solo nelle cose buone; e se vi mettono il loro zelo, le amano. [3] Di conseguenza, chiunque è conoscitore di quel che è buono saprebbe anche amarlo; al contrario, chi non è in grado di distinguere, gli uni dagli altri, i beni, i mali e gli oggetti che non sono né beni né mali, come potrebbe anche amarlo, quel che è buono? Pertanto, è prerogativa del solo saggio amare.

[4] «Perché mai?» dice l’interlocutore. «Io, infatti, senza essere un saggio, nondimeno amo mio figlio».

[5] Mi stupisco, per gli Dèi, che tu ammetta, fin dal principio, di non essere un saggio. Che cosa non hai del saggio? Non usi i sensi, non distingui le rappresentazioni, non dai al tuo corpo gli alimenti di cui ha bisogno, non gli dai vestiti e una casa? Come fai, allora, a riconoscere di non essere saggio? [6] Perché spesso, per Zeus, sei sconvolto dalle rappresentazioni e confuso per causa loro e sei vinto dalla loro capacità di persuasione. E a volte queste cose le ritieni buone, poi, le medesime, le ritieni cattive e, in seguito, né buone né cattive, con la conseguenza di essere preda del dolore, della paura, dell’invidia, della confusione e della volubilità. Ecco perché riconosci di non essere saggio. E nell’amicizia non sei volubile? [7] La ricchezza, il piacere e, insomma, le cose medesime indipendenti da noi, ora le supponi dei beni ora dei mali; e gli uomini, i medesimi uomini, non li consideri ora buoni ora cattivi, e non li tratti ora familiarmente ora con ostilità, ora lodandoli ora rimproverandoli?

«Sì, è proprio quel che sento».

[8] «E che? Ti pare che l’uomo che si è ingannato sul conto di un altro possa essergli amico?».

«Per niente!».

«E quello che è incostante nello scegliere gli amici, ti pare che possa essere benevolo verso di loro?».

«Nemmeno costui».

[9] «E allora? Non hai mai visto dei cagnolini scodinzolare e giocare tra loro, così da osservare: “Non c’è niente di più affettuoso?”. Ma, perché tu veda cos’è l’amicizia, getta della carne in mezzo a loro, e capirai. [10] Getta tra te e tuo figlio un campo, e saprai quanta fretta ha tuo figlio di sotterrarti, e come tu stesso preghi che muoia. E poi dirai: “Che razza di figlio ho tirato su: da un pezzo vorrebbe vedermi al cimitero”. [11] Getta tra voi una bella ragazza e amatela, tu, vecchio, e il tuo ragazzo; o, se vuoi, un po’ di gloria. Qualora, poi, ci fosse un pericolo da affrontare, ripeterai le parole del padre di Admeto: “Tu vuoi vedere la luce: non pensi che anche il padre lo voglia?” (Eurip. Alc. 691). [12] Credi che quello non avesse affetto per suo figlio, quando era piccolo; quando aveva la febbre, non fosse in ansia e non dicesse spesso: “Oh! Avessi piuttosto io la febbre!”?. Infine, quando viene il momento del pericolo ed esso è imminente, guarda quali parole grida! [13] Eteocle e Polinice non avevano lo stesso padre e la stessa madre? Non erano stati allevati insieme, non avevano passato la vita insieme, non avevano mangiato alla stessa tavola e dormito nello stesso letto, spesso non si erano abbracciati l’un l’altro? Di conseguenza, chi li avesse visti, credo che avrebbe deriso i filosofi per le loro tesi paradossali sull’amicizia. [14] Ma quando la tirannide cadde in mezzo a loro come un pezzo di carne, guarda che frasi si scambiano:

Eteo.: “Dove mai ti porrai davanti alle mura?”.

Poli.: “Perché me lo chiedi?”.

Eteo.: “Bramo di scontrarmi con te e di ucciderti!”.

Poli.: “Anch’io ho questo desiderio” (Eurip. Phoen. 621).

[15] In generale, infatti – non ingannatevi – ogni essere vivente niente ricerca per sé con tanto interesse quanto il suo utile particolare. Qualunque cosa gli paia d’impaccio al suo utile, si tratti di un fratello, del padre, di un figlio, di un essere amato o amante, lo odia, lo respinge, lo maledice. [16] Perché niente ama per natura quanto il suo proprio utile: questo è per lui padre, fratello, parente, patria e Dio. [17] Quando ci sembra che gli Dèi ci intralcino il cammino per conseguirlo, ingiuriamo anche loro, ne rovesciamo le statue e ne incendiamo i templi, come fece Alessandro, che ordinò di bruciare il tempio di Asclepio perché era morto il suo amato. [18] Perciò, se si fa coincidere l’utile con il santo, il bello, la patria, i genitori e gli amici, tutto ciò è salvaguardato; se, invece, si pone altrove l’utile e altrove gli amici, la patria, i parenti e la giustizia stessa, tutto questo va in rovina, oppressato dal peso dell’utile. [19] Dove, infatti, si trovano l’“io” e il “mio”, lì necessariamente piega l’essere vivente: se si trovano nella carne, lì si trova ciò che ci domina; se sono nella scelta morale, il potere dominante è lì; se sono negli oggetti esterni, sarà in essi. [20] Pertanto, solo se il mio “io” coincide con la scelta morale, sarò un amico, un figlio e un padre quale dev’essere. Perché, allora, mi sarà utile salvaguardare l’uomo fedele, rispettoso, tollerante, moderato e solidale, e custodire le relazioni sociali. [21] Ma se pongo il mio “io” da una parte, e dall’altra il bello, in tal caso prende valore la sentenza di Epicuro, secondo la quale il bello non è niente o, se è qualcosa, è stima del volgo.

[22] Dall’ignoranza di tutto ciò derivano i contrasti tra gli Ateniesi e gli Spartani, tra i Tebani e i precedenti, tra il Gran Re e l’Ellade, tra i Macedoni e i due ultimi, e, ai nostri giorni, tra i Romani e i Geti; e, ancora prima, gli avvenimenti di Ilio sorsero per la medesima causa. [23] Alessandro era ospite di Menelao; e chi li avesse visti così benevoli l’uno verso l’altro, non avrebbe creduto, se gli avessero detto che erano amici. Ma fu gettata tra loro una cosetta da poco, una bella donna, e per lei scoppiò la guerra. [24] E, adesso, quando vedi degli amici, dei fratelli che sembrano andare d’amore e d’accordo, non affermare subito che tra loro c’è amicizia, neppure se giurano, né se dicono che è impossibile che si separino mai. [25] Non è leale la parte dominante di un uomo dappoco: non è salda, non è in grado di discernere, si lascia vincere ora da una rappresentazione ora da un’altra. [26] Non andare a vedere, come fanno gli altri, se sono figli degli stessi genitori, se sono stati allevati insieme e dallo stesso pedagogo, ma esamina solo questo: dove pongono il loro utile, se fuori di loro o nella scelta morale. [27] Se fuori, non considerarli amici e neppure leali, coraggiosi o liberi, e nemmeno uomini, se sei assennato. [28] Non è, infatti, un giudizio umano quello che induce gli uomini a mordersi reciprocamente, a insultarsi e ad occupare i luoghi deserti o le piazze come i briganti occupano le montagne, e a rivelare davanti ai tribunali gesta di briganti; non è un giudizio umano neppure quello che rende intemperanti, adulteri e seduttori, e provoca tutti gli altri crimini con cui gli uomini si danneggiano reciprocamente; e ciò è causato da questo solo giudizio, cioè dal porre, negli oggetti che non dipendono dalla scelta morale, se stessi e quel che è proprio. [29] Se, invece, senti dire che questi uomini credono veramente che il bene si trova unicamente ove si trova la scelta morale e il retto uso delle rappresentazioni, non affaticarti più a cercare se sono padre e figlio o fratelli, se sono stati per molto tempo a scuola insieme e sono compagni, ma, avendo saputo quest’unica cosa, non esitare ad affermare che sono amici, come anche leali e giusti. [30] Dov’è, infatti, l’amicizia, se non ove si trova la lealtà, il rispetto, la devozione al bello e nient’altro?».

[31] «Ma si è curata di me per tanto tempo, e non mi amava?».

«Come fai a sapere, schiavo, se si curava di te come pulisce le sue calzature, come striglia l’asino? Come fai a sapere se, quando perderai la tua utilità di vaso da cucina, non ti getterà via come un piatto rotto?».

[32] «Ma è mia moglie, e abbiamo vissuto insieme per tanto tempo!».

«E quanto tempo non aveva vissuto Erifile con Anfiarao, e non era madre di molti più figli? Ma una collana venne a mettersi tra i due. [33] Che cos’è una collana? Il giudizio delle cose di tal genere. Fu quello la forza brutale, fu esso a rompere l’amicizia, fu esso che non consentì a una donna di essere moglie e ad una madre di essere madre. [34] Chi di voi si è dato davvero pensiero di essere amico di un altro o di procurarsi l’amicizia di un altro, elimini questi giudizi, li odi e li scacci dalla sua anima. [35] In tal modo, innanzitutto, non avrà più ad insultare se stesso, a pentirsi, a torturarsi; [36] in secondo luogo, non lotterà con il suo prossimo, per niente con chi gli somiglia; e, quanto a chi gli dissimile, invece, sarà tollerante, condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con uno che s’è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: “è contro sua voglia che l’anima viene privata della verità”. In caso contrario, voi agirete in tutto come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avrete quei giudizi selvaggi e perversi».