L’Historia Augusta

L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal

Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).

C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.

Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.

Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).

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Gordiano III, un principe troppo giovane

La crisi economica del III secolo non investì allo stesso modo tutte le regioni dell’Impero romano. A soffrirne maggiormente furono le province occidentali e in particolar modo le aree di confine, più esposte agli attacchi dei razziatori alamanni, franchi e burgundi. Spesso i coloni abbandonavano le proprie terre per trovare rifugio in città o all’interno delle fortezze e, di conseguenza, diminuivano drasticamente le eccedenze alimentari da importare a Roma. Nonostante i ripetuti tentativi da parte del governo centrale di creare nuovi insediamenti agricoli e di incentivare il reperimento di manodopera anche fra i prigionieri di guerra, vastissimi territori e non solo nelle zone di frontiera furono definitivamente abbandonati.

Due leoni sbranano un cinghiale. Mosaico, III sec. da Thysdrus (od. El-Jem).

Questo stato di cose non tardò a far sentire forti ripercussioni, con esiti ancor più drastici, anche nei comparti dell’artigianato e del commercio. Se, infatti, i contadini erano facilmente rimpiazzabili, trovare un buon fabbro o un esperto scalpellino divenne sempre più difficile. Nelle Galliae e nelle regioni lungo i grandi fiumi di confine a poco a poco scomparvero le secolari tradizioni artigianali e pare che i commerci abbiano subito un improvviso arresto: nessuno si arrischiava a percorrere grandi distanze se non in ambito strettamente locale.

La situazione si fece tanto seria che i funzionari imperiali per sopperire agli equipaggiamenti militari dovettero improvvisare dal nulla fabricae tessili e d’armi, obbligando talvolta con la forza gli artigiani locali a collaborare.

Diversamente, le province orientali e quelle africane, meno esposte agli attacchi delle popolazioni esterne, riuscirono a conservare ancora per un po’ un certo grado di prosperità. Ciononostante, nel 237, il terzo anno di principato di Massimino il Trace, proprio in Africa proconsularis si verificò un’importante sollevazione. Il procurator fisci inviato in quella provincia, un uomo rapace e di pochi scrupoli, conscio del fatto che il sistema delle confische avrebbe rimpinguato enormemente le casse imperiali, impose un’onerosa ammenda ad alcuni giovani esponenti dell’aristocrazia locale, privandoli di gran parte del loro patrimonio. Il provvedimento innescò una violenta reazione: nei tre giorni di dilazione concessi dal funzionario, i fautori della rivolta misero in piedi un piccolo esercito di servi e contadini, armati di scuri e bastoni, e, approfittando di un’udienza ufficiale, gli insorti eliminarono fisicamente il procuratore e occuparono Thysdrus (od. El-Jem), considerata la «capitale dell’olio» nel commercio mediterraneo (SHA Max. 14, 1).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Sesterzio, Roma 238. Æ 18, 47 g. Recto: Imp(erator) Caes(ar) M. Ant(onius) Gordianus Afr(icanus) Aug(ustus). Busto laureato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Come atto supremo della loro sollevazione i giovani ribelli acclamarono Augustus il loro governatore, Marco Antonio Sempronio Gordiano. Questi, che aveva da poco oltrepassato gli ottant’anni e si trovava al culmine di una brillante carriera politica, fu scosso dall’improvvisa ascesa alla porpora imperiale. Accettato l’incarico dopo un’iniziale riluttanza, come suo primo atto ufficiale Gordiano elevò il proprio figlio al suo stesso rango (SHA Gord. 5-9; Hdn. VII 5).

Il biografo Giulio Capitolino informa che i due neo-imperatori inviarono a Roma una legatio cum litteris per informare il Senato sui recenti sviluppi in Africa e sulle loro intenzioni di governo: la generosità, l’umanità e la limitata pressione fiscale furono opposte alla durezza di Massimino (SHA Gord. 9, 7). La risposta della plebe urbana alla diffusione della notizia fu immediata: l’uccisione dei fautori del Trace da parte della cittadinanza e il subito riconoscimento dei due Gordiani come veri imperatori Senatus consulto lascerebbero sospettare l’ipotesi di un complotto ben orchestrato, o comunque che nell’Urbe alcuni esponenti dell’aristocrazia abbiano seguito con particolare sollecitudine gli eventi africani.

Senonché, appena tre settimane dopo l’avvento dei due Gordiani, il governatore della Numidia, un certo Capelliano, forse per motivi personali fedele a Massimino, avanzò con le sue truppe e un contingente di Mauri contro Cartagine, sede provvisoria dei nuovi Augusti. Il giovane Gordiano morì in combattimento, mentre suo padre, alla notizia della caduta dell’amato figlio, si tolse la vita (Hdn. VII 9, 11; SHA Max. 19, 20, Gord. 15-16; Zon. 12, 17; ILS 8499).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Denario, Roma 238. AR. 3,4 g. Obverso: Romae aeternae. Personificazione dell’Urbe, voltata a sinistra, assisa con scudo, elmo, lancia e palladio.

Nel marzo del 238 i senatori, preoccupati del vuoto di potere e soprattutto delle possibili reazioni delle forze armate, presso le quali da tempo serpeggiava un certo malcontento, e di Massimino, ormai dichiarato decaduto e hostis publicus, in maniera del tutto insospettata e con grande decisione assunsero la direzione del governo, attraverso la commissione speciale dei XXviri rei publicae curandae (Hdn. VII 7, 2-7; SHA Max. 15, 2; Gord. 9-11; Aur. Vict. Caes. 26; ILS 1186).

Il venerando consesso, riunito nel tempio di Giove Capitolino, dopo un confronto concitato, espresse i suoi candidati all’imperium nelle persone di Pupieno Massimo e Calvino Balbino, attribuendo loro i medesimi poteri e concedendo la stessa titolatura. Le fonti antiche e soprattutto l’Historia Augusta li presentano assai differenti fra loro per indole e attitudine: Balbino vantava nobili natali, era uno stimatissimo oratore e un consolare che con liberalità e rettitudine aveva governato diverse province; Pupieno, invece, era di estrazione sociale più bassa, un rude militare che si era guadagnato il rispetto e gli onori della nobiltà sui campi di battaglia contro Sarmati e Germani; di lui la plebe urbana apprezzava soprattutto la semplicità dei modi, che non aveva mai abbandonato nemmeno dopo aver raggiunto il rango senatorio. Insomma, si trattava di due uomini diversissimi, ma complementari, nei quali il Senato riconosceva l’importanza di coniugare la mitezza nella giurisdizione civile a una maggiore decisione nel potere militare.

Nel momento stesso in cui la Curia conferiva in Campidoglio la porpora ai due patres, una sedizione popolare turbò la cerimonia, costringendo a cooptare insieme a Pupieno e Balbino il tredicenne Gordiano, nipote dei due Africani, nominandolo Caesar (Hdn. VII 10; AE 1951, 48).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto, marmo, c. 238-242. Berlin, Altes Museum.

Raggiunto dalle notizie degli eventi, Massimino, che non si era mai degnato di visitare Roma, si mise alla testa del suo esercito e marciò alla volta della capitale. Rimase, tuttavia, invischiato nell’assedio di Aquileia, dove trovò la morte per mano dei suoi stessi soldati della legio II Parthica (Hdn. VII 8; 12, 8; VIII 1-5; SHA Max. 21-23; Balb. 11, 2; Zos. 1, 15). La morte del comune nemico, però, non sortì effetti benefici, ma peggiorò la situazione, aumentando i contrasti tra i due imperatori eletti dal Senato e seminando il malcontento nella guardia, i cui membri temevano di restare esclusi dai giochi. Così, assassinati i due contendenti, i pretoriani acclamarono imperatore Gordiano III (SHA Gord. 22, 5; Hdn. VIII 8).

L’ascesa al trono di Gordiano III fu salutata come l’inizio di una nuova era di pace, giustizia e stabilità, soprattutto dalle classi agiate, sia italiche sia provinciali, per le quali l’eliminazione di Massimino il Trace rappresentava la migliore garanzia di un ritorno alla normalità. Alle spalle del giovanissimo imperatore ci fu una folta schiera di eminenti personalità politiche, tra le quali spiccava l’energico praefectus praetorio (dal 241) C. Furio Sabinio Aquila Timesiteo: a suggellare l’intesa politica e i comuni intenti, Gordiano ne prese in sposa la figlia, Furia Sabina Tranquillina (CIL XIII 1807 = ILS 1330; SHA Gord. 23, 5; 6; 24, 2; 25, 1). Ma la tanto sospirata pace ebbe brevissima durata; all’orizzonte si profilavano oscure e minacciose nubi: sul fronte danubiano facevano la loro ricomparsa Daci, Carpi e Goti, mentre a Oriente i Sassanidi, guidati da Šāpūr I, premevano lungo la linea di confine, mettendo in serie crisi la stabilità dell’Impero.

Contro le popolazioni che premevano sulla frontiera danubiana Gordiano poté valersi del governatore della Moesia inferior, Tullio Menofilo, che con le armi e con la diplomazia riuscì a scacciare Carpi e Goti dalle province balcaniche (FGH IV, pp. 186-187).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto corazzato, marmo, c. 242, da Gabii. Paris, Musée du Louvre.

Ancora nel 241 l’imperatore, consigliato dal suocero, apprestò un’armata per avviare una campagna militare sul fronte orientale: a Roma fu solennemente riaperto il tempio di Giano, a indicare l’inizio delle ostilità (SHA Gord. 23, 6-7). L’anno seguente fu ripresa la Syria e, oltrepassato l’Eufrate, fu riconquistata Carrhae e liberata la provincia di Mesopotamia dai Persiani (SHA Gord. 26, 4-6; 27, 2-8). La spedizione si stava rivelando un vero successo e il giovane imperatore stava pianificando un’offensiva diretta al cuore del territorio nemico, quando Timesiteo, sulla via per Ctesifonte, cadde malato e morì in circostanze non chiare (SHA Gord. 28, 1).

Il vertice del praetorium passò a un suo stretto collaboratore Marco Giulio Filippo, originario della provincia d’Arabia. La campagna militare non subì battute d’arresto, ma proseguì secondo i piani prestabiliti: l’obiettivo ora era la conquista di Ctesifonte, ma l’esercito romano venne sbaragliato nella battaglia di Mesiche (od. Falluja, Iraq), dove trovò la morte lo stesso Gordiano III. Secondo certe fonti, l’imperatore sarebbe stato assassinato dallo stesso Filippo, che, non appena acclamato dalle truppe come successore, si sarebbe preoccupato di stipulare un frettoloso trattato di pace con i nemici (SHA Gord. 29; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 27).

Sembra tuttavia più attendibile la versione che vuole Gordiano III morto in battaglia: la fine iniqua e poco dignitosa sarebbe una leggenda costruita a posteriori per screditare Filippo. Un dato certo è piuttosto lo sfruttamento da parte del nuovo Augustus della memoria del predecessore: infatti, responsabile o meno della sua scomparsa, Filippo fu molto attento a onorarne in modo consono la memoria, lasciandone intatte le immagini e impedendone la damnatio memoriae. Non solo: Filippo acconsentì che Gordiano ricevesse la massima onorificenza per un imperatore defunto, l’apoteosi.

Gordiano III (dettaglio). Rilievo, marmo, c. 238, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Quanto ai soldati, essi celebrarono il loro giovane condottiero innalzandogli un cenotafio nel luogo stesso in cui cadde. Il testo dell’iscrizione è tramandato dalle fonti, ma sembra che sia stato inventato di sana pianta, ma non per questo meno arguto. Vi sarebbe infatti stato scritto: Divo Gordiano victori Persarum, victori Gothorum, victori Sarmatarum, depulsori Romanarum seditionum, victori Germanorum, sed non victori Philipporum («Al divo Gordiano, vincitore dei Persiani, dei Goti, dei Sarmati, di ogni sedizione romana, dei Germani, ma non dei Filippi», SHA Gord. 34, 2; cfr. Amm. Marc. XXIII 5, 7).

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Severo Alessandro: la fine di una dinastia

Elagabalo, che, divenuto imperatore nel 218, si era autoproclamato figlio naturale di Caracalla, di cui aveva assunto i nomi, si era rivelato un vero fallimento: il giovane imperatore scandalizzava Roma e gli ambienti più conservatori del Senato comportandosi da bardassa anche in pubblico; avevano suscitato maggiore ripulsa e sdegno le grottesche cerimonie religiose che Elagabalo voleva imporre a tutto l’Impero, approfittando della sua posizione al vertice dello Stato per estendere a tutti i popoli l’unico culto del dio Sole di Emesa. Sua nonna, Giulia Mesa, aveva cercato invano di intercedere per lui presso il Senato e il popolo di Roma, ma il giovane, eludendo la linea seguita dall’augusta parente, si era perfino macchiato di blasfemia, prendendo in sposa una vestale (DCass. LXXIX 5, 1 ss.; Herodian. V 6, 1). Alla fine, l’anziana matrona convinse Elagabalo ad adottare come legittimo erede e a nominarlo Caesar l’altro nipote, figlio della figlia Giulia Mamea e del procuratore Gessio Marciano, Gessio Giulio Bassiano Alessiano (Herodian. V 7, 1-3; 8, 3-4; DCass. LXXIX 19, 1-4): la scusa era che una spartizione del fardello imperiale avrebbe consentito a Elagabalo di avere più tempo per dedicarsi al culto solare (SHA Alex. Sev. 1, 2; DCass. LXXVIII 30, 3).

M. Aurelio Antonino Augusto Elagabalo. Busto, marmo, inizi III sec. d.C. ca. Roma, Musei Capitolini.

Alessiano era nato ad Arca Caesarea in Phoenicia (CIL I 255; 274; Herodian. V 7, 4; Aur. Vict. Caes. 24, 1; SHA Alex. Sev. 1, 2) e a Emesa, come suo cugino, aveva esercitato la dignità di sacerdote del dio Sole (El-Gabal). L’adozione e la sua associazione al trono imperiale avvenne nel giugno del 211: Alessiano assunse il nome di Marco Aurelio Alessandro Severo (DCass. LXXIX 17-18). Elagabalo comprese in ritardo il raggiro della nonna e stava per ordinare l’esecuzione del cugino, quando Giulia Mesa e Giulia Mamea pagarono lautamente ai pretoriani l’assassinio di lui e della madre Soemia, il 13 marzo 222 (DCass. LXXIX 19-21; SHA Heliogab. 16, 5-17, 2; SHA Alex. Sev. 1, 1-3).

Giulia Mamea. Dupondio, Roma 228. Æ 10,04 g. Recto: Iulia Mamaea Augusta, busto diademato e drappeggiato dell’imperatrice, voltato a destra.

L’indomani dell’uccisione di Elagabalo, Alessiano ricevette dal Senato i titoli di Augustus, pater patriae e pontifex maximus e assunse ufficialmente il nome di Severo Alessandro, figlio del Divus Magnus Antoninus. Siccome, però, aveva solo tredici anni e un’indole insicura, egli divenne docile strumento di mamma e nonna, la cui politica congiunta consentì loro di tenere insieme Senato ed esercito e a consolidare il potere della dinastia severiana. Per assistere l’augusto figlio negli affari di Stato fu istituito un consilium, di cui si ignora l’effettiva composizione quanto al numero dei membri e alla loro estrazione sociale, ma il potere fu effettivamente esercitato dalle due donne (Herodian. VI 1, 2).

Ad Alessandro è attribuito un gran numero di riforme di tipo istituzionale, amministrativo, economico e tributario. La fonte principale di queste informazioni è la biografia dell’imperatore contenuta nell’Historia Augusta, ma è scarsamente attendibile: se non inventa, l’autore Elio Lampridio distorce e travisa le questioni in modo da rendere davvero difficile comprendere la natura o la portata di tali provvedimenti.

Giulia Mamea. Busto, marmo, III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

In ogni caso, di sicuro resta che il primissimo periodo di governo di Severo Alessandro è dominato dalla figura del grande giurista Domizio Ulpiano, al quale erano stati delegati diversi incarichi pubblici in precedenza. Stimatissimo dal giovane imperatore, a questo giureconsulto spetta l’indubbio merito di aver compilato, divulgato e pubblicato opere di insigni predecessori; di lui, in particolare, restano due imponenti compilazioni: gli oltre ottanta libri sugli editti pretori e i cinquanta libri di commentarii ad Sabinum. Divenuto praefectus praetorio nel 222 per volontà di Giulia Mesa (Cod. Iust. IV 65, 4, 1), Ulpiano non ebbe però il sostegno dei militari, che lo assassinarono l’anno successivo (DCass. LXXX 1, 1-2,2; P. Oxy. 2565). In seguito, nel 226, sarebbe venuta a mancare anche Giulia Mesa, la figura più importante per la stabilità dinastica: la figlia Giulia Mamea, madre dell’imperatore, ne ereditò in parte la funzione, non certo le capacità (cfr. Herodian. V 8, 10; VI 1, 1-10; SHA Alex. Sev. 14, 7; 26, 9; 60, 2).

Nel frattempo, problemi esterni di ordine geopolitico contribuivano ad accelerare la crisi in cui da tempo allignava l’Impero romano: in Oriente, nel cuore del Regno dei Parti, negli stessi anni (224-228), la casata degli Arsacidi veniva rovesciata dalla ribellione di un feudatario iranico, Ardašīr. Costui si proclamò “Re dei Re” e, assunto il potere, diede inizio alla dinastia dei Sassanidi. Il nuovo sovrano impresse al dominio persiano un’impronta fortemente accentratrice ed espansionistica.

Ardaxšīr I. Dracma, Hamadan 224-238. AR 4,23 g. Recto: busto del sovrano voltato a destra, diademato e indossante il korymbos.

Si trattò di un cambiamento epocale: la frantumata compagine orientale si andava consolidando sotto un potere centrale forte e aggressivo. Forse, in un periodo meno caotico e convulso, il mondo romano avrebbe potuto comprendere il pericolo e correre ai ripari. Nel 230, consolidato il suo potere, Ardašīr mosse alla testa dei suoi eserciti e attaccò prima il Regno d’Armenia, quindi invase le province romane di Mesopotamia e Syria, superando la frontiera sull’Eufrate. Le autorità imperiali furono colte del tutto impreparate: ci volle quasi un anno intero per organizzare una controffensiva e recuperare i territori occupati dai Persiani.

Severo Alessandro e sua madre mossero contro il nemico nel 231 (Herodian. VI 4): una battaglia sull’Eufrate agli inizi dell’anno seguente consentì ai Romani di ricacciare i Sassanidi entro i loro confini (Herodian. VI 5-7). L’esito della spedizione orientale fu, però, piuttosto modesto: l’imperatore, in realtà, aveva trascorso gran parte della campagna nel quartiere generale di Antiochia; come generale, del resto, non fu granché apprezzato dai quadri dell’esercito, perché si era rivelato troppo giovane e indeciso, troppo debole. Ciononostante, l’intervento militare aveva riportato le province occupate sotto il controllo romano e il giovane imperatore si era potuto fregiare del titolo di Persicus Maximus.

Legionario degli eserciti di epoca severiana. Illustrazione in Mattesini (2006).

Mentre era impegnato in Oriente, Severo Alessandro fu raggiunto da notizie ancora più inquietanti dall’altro confine vulnerabile dell’Impero: gli Alamanni, i Marcomanni e i Franchi stavano rinnovando la loro pressione sulla frontiera renano-danubiana. Ancora una volta Alessandro diede prova di tentennamenti e scarsa iniziativa, ancora una volta i tempi per organizzare una spedizione furono lenti e macchinosi. La propaganda ufficiale trasmette notizie di ingenti preparativi militari, ma è possibile che i ritardi fossero in realtà volti a cercare una via d’uscita diplomatica. Tra le legioni, comunque, serpeggiava il malumore: la politica filo-senatoria perseguita anche da Giulia Mamea aveva destato non poche inquietudini presso i militari, mentre lo stesso Alessandro aveva bruciato in poco tempo l’immenso patrimonio di consenso e fiducia dell’esercito, legato a una dinastia che aveva fondato il suo potere proprio sulla fedeltà e la dedizione dei soldati. Nella crisi generale le forze armate romane si strinsero attorno a un “uomo forte”, Giulio Vero Massimino, un ufficiale di origine tracia.

Il 19 marzo 235 un ammutinamento delle legioni sul Regno, a Mogontiacum (od. Mainz), depose Severo Alessandro e innalzò alla porpora Massimino Trace. Il giovane imperatore e sua madre poco dopo furono eliminati (Herodian. VI 9, 7; SHA Alex. Sev. 59, 6).

M. Aurelio Antonino Augusto Severo Alessandro. Busto, bronzo, 222-235 d.C. Dion, Αρχαιολογικό Μουσείο.

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