ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.
Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.
Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.
Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.
Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:
Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν
εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.
Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo
nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.
(Ep. 22 = AP. VII 415)
Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με
ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.
εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων
ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.
οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας
μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.
Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi
che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.
Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito
della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.
Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,
gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.
(Ep. 39 = AP. VII 525)
Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.
Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.
Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.
Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.
Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:
Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ
ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·
ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται
Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.
τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο
τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.
È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:
la più lunga che dice è «vittoria!».
Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:
«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».
Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;
io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.
Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.
Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.
Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:
Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν
ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον
τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ
ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.
Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo
dei poeti, ma direi che l’amico di Soli
ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,
arte sottile, notturna fatica di Arato!
Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.
La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.
Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.
In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.
In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:
Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ
ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι
ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,
ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·
αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων
ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.
Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:
ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo
insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora
tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,
ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,
il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.
Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.
[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.
[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.
[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.
in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 628-636 [con blbliog. aggiornata].
La vita
La figura di Luciano di Samosata si distingue nettamente nel panorama culturale del II secolo, per la brillante personalità, per la vivacità dell’ingegno e per la vastità di interessi, che lo spinsero a una pluralità di ricerche sconosciuta ad altri esponenti della neosofistica. Con questo movimento culturale, inoltre, Luciano ebbe un rapporto assai critico: dapprima seguace entusiasta, se ne allontanò poi in maniera altrettanto decisa, per affrontare una nuova serie di esperienze culturali, nelle quali non mancò di mettere in luce il proprio carattere polemico e il suo stile arguto e mordace.
Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.
Luciano nacque intorno al 120 a Samosata, capitale della Commagene di Siria, figlio di una famiglia piuttosto modesta. Come narrò egli stesso in un’opera autobiografia, il Sogno, quando fu cresciuto abbastanza da dover pensare al proprio avvenire, i suoi genitori, ritenendo che i propri mezzi finanziari non fossero sufficienti per permettere al ragazzo di affrontare studi lunghi e costosi, pensarono di avviarlo all’arte del marmorario, mandandolo alla bottega di uno zio, che già esercitava questo mestiere. Tuttavia, l’apprendistato di Luciano durò assai poco, perché lo zio, infuriato con l’inesperto nipote che gli aveva rovinato un costoso blocco di marmo, lo cacciò in malo modo, con una solenne bastonata. Pesto e disperato, Luciano si addormentò; allora, in sogno, gli apparvero la Statuaria e l’Eloquenza, prospettando i vantaggi che ciascuna di loro avrebbe potuto offrirgli, se egli avesse scelto di dedicare a lei la propria esistenza. L’episodio, che è un’evidente trasposizione della storia di Eracle al bivio, narrata all’inizio del II libro dei Memorabili di Senofonte, segnò la vita di Luciano. Il giovane, infatti, abbracciando la carriera dell’eloquenza, si dedicò allo studio della lingua e della letteratura greca, delle quali acquisì ben presto grande padronanza, imparando con facilità il dialetto attico del periodo classico. Egli, dunque, intraprese la carriera del retore itinerante, che lo portò in varie città dell’Asia Minore, in Gallia e in Italia. A Roma Luciano ebbe modo di conoscere il filosofo Nigrino, che svolse un ruolo abbastanza importante nella sua vita. Trasferitosi per un certo periodo ad Atene, verso il 160 circa, sembra che i suoi interessi filosofici abbiano preso il sopravvento su quelli retorici e che lo abbiano avviato a studi ben più profondi e meditati. Si trattò, invero, di una parentesi piuttosto breve, perché, non molto tempo dopo, Luciano si dedicò di nuovo alla passione di sempre, i viaggi: in questo periodo, infatti, egli fu anche ad Antiochia, dove conobbe personalmente l’AugustusLucio Vero. Dal 165 in poi ritornò ancora ad Atene, che considerava la sua patria di adozione e se ne allontanò soltanto per ricoprire la prestigiosa carica di archistator praefecti Aegypti («segretario del prefetto d’Egitto»), conferitagli, nonostante la proprie origini orientali, grazie a influenti amicizie. Nel 175, però, si dimise dall’incarico – probabilmente per motivi politici, oppure forse per il suo temperamento irrequieto –, ritornando ad Atene. Da quel momento in poi, la sua vita pubblica non conobbe più avvenimenti di rilievo. Secondo le fonti antiche, la morte lo raggiunse non molto tempo dopo, verso la fine del principato di Marco Aurelio, intorno al 180 circa. A questo anno, infatti, risalgono i suoi ultimi scritti di cui si abbia notizia, l’Alessandro e il trattato in forma epistolare Come si deve scrivere la storia. Il lessico Suda, che fornisce di Luciano un giudizio assolutamente negativo, proclamandolo «erede del fuoco di Satana», narra che egli morì tragicamente, sbranato da una muta di cani, «perché fu nemico rabbioso della verità». La notizia, naturalmente, è da considerarsi leggendaria. La produzione letteraria di Luciano, infatti, tutta in prosa, è pervenuta in un corpus di ottanta scritti, alcuni dei quali spuri. La loro cronologia rappresenta per gli studiosi un problema assai complesso, che non sarà affrontato in questa sede; ci si limiterà, invece, per maggiore chiarezza, a suddividere le opere lucianee secondo il genere e i contenuti.
Gli scritti retorici
Al periodo in cui Luciano esercitò la professione di retore itinerante appartengono proemi e declamazioni (μελέται, «esercizi» retorici di vario argomento), fra i quali assume particolare importanza per il suo carattere autobiografico il già citato Sogno; a quest’opera si aggiunge l’Apologia, anch’essa di contenuto autobiografico, che Luciano compose negli anni della maturità, quando era cancelliere in Egitto, per difendersi dall’accusa di brama di onori – comportamento assolutamente inaccettabile in un filosofo cinico, quale egli stesso si professava. Interessante, come esempio di esercitazione retorica tesa a illustrare la potenza della sua dialettica, secondo la migliore tradizione dell’insegnamento sofistico, è il Tirannicida, in cui il protagonista commette un omicidio premeditato, eliminando il figlio di un tiranno. Straziato per il dolore, il padre, a sua volta, si toglie la vita e l’assassinio del ragazzo, nel discorso pronunciato in tribunale per difendersi, sostiene di aver diritto a riconoscimenti e onori per aver liberato la città da quel regime. Allo stesso genere appartiene il Diseredato, storia di un medico che guarisce il proprio padre da un attacco di follia: il genitore, però, rinsavito, disereda il figlio, perché costui rifiuta di prestare le proprie cure alla matrigna, anche lei vittima di un accesso di pazzia.
Ritratto virile. Busto, marmo, terzo quarto del II sec. d.C. Munich, Glyptothek.
Nello stesso gruppo di opere si possono annoverare l’Elogio della mosca e il Tribunale delle vocali. Quest’ultima, in particolare, è una querela esposta dal signor Sigma contro il signor Tau per appropriazione indebita e usurpazione di diritti, di fronte alla giuria delle vocali, perché negli autori attici il Tau ha abusivamente occupato il posto di Sigma nella grafia delle parole. In un altro scritto dal titolo significativo, Sei un Prometeo nei discorsi, l’autore, di fronte all’ammirazione entusiasta, ma un po’ eccessiva, di un suo allievo, ridimensiona obiettivamente le proprie capacità, sottolineando come i contenuti delle proprie opere non propongano alcunché di nuovo, ma il loro valore risieda soltanto nella consumata tecnica formale dell’esposizione.
Un cenno meritano anche le sue προλαλιαὶ o διαλέξεις, le «chiacchierate», che precedevano l’ἐπίδειξις, la «recitazione» vera e propria, e che miravano a suscitare la benevola attenzione del pubblico con il loro tono conversevole e garbato. In tutti questi scritti compaiono già gli elementi tipici dell’arte di Luciano: l’opposizione dialettica di opinioni opposte, la tendenza a un’ironia fine e sagace, lo stile chiaro e gradevole, caratterizzato da osservazioni spiritose e da un vivace umorismo, che spesso scaturisce dalla parodia di situazioni o personaggi, oltre che da un’ottima capacità di sfruttare il linguaggio a fini comici.
Scritti di polemica filosofica e religiosa
In uno dei numerosi scritti lucianei che contengono accenni autobiografici, il Due volte accusato, l’autore presenta se stesso in veste di imputato in un processo che gli è stato intentato dalla Retorica e dal Dialogo platonico. La prima lo accusa di averla abbandonata, mentre il secondo lo considera reo di aver distrutto la serietà e la profondità dei suoi contenuti, contaminandoli con la comicità e con la satira; nella sua difesa, Luciano ammette di aver abbandonato, verso i quarant’anni, la Retorica, che ormai «non aveva più la dignità di donna onesta, come ai tempi di Demostene, ma andava in giro truccata come una prostituta, tutta coperta di belletti». Per questo motivo egli aveva optato per la filosofia; ma seguendo l’impulso indagatore del suo animo inquieto, desideroso di novità e spiccatamente critico, non aveva potuto fare a meno di notare come anch’essa fosse cambiata rispetto al tempo antico. Perciò, egli aveva deciso di approfondire la propria analisi, per scoprire le ragioni di quel peggioramento, servendosi a questo scopo di quell’illustre strumento di dottrina che era stato il dialogo platonico, non senza averlo opportunamente modificato per adattarlo alle proprie esigenze (Due volte accusato, 30-32).
Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.
In effetti, in quel periodo della sua vita, Luciano si dedicò alla ricerca speculativa; il risultato fu una serie di scritti dal tono amaramente satirico contro la degenerazione del pensiero filosofico e della figura del saggio, ricchi di un umorismo pungente e dissacratore, che richiama alla memoria la commedia antica. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, una irriverente e spassosa parodia del Simposio di Platone, contenuta in un dialogo lucianeo con lo stesso titolo. Licino, persona seria e colta (in cui l’autore adombra se stesso), si reca dall’amico Aristeneto per prendere parte a un banchetto offerto per festeggiare le nozze della figlia: purtroppo, però, il padrone di casa ha avuto la malaugurata idea di invitare anche i rappresentanti di tutte le maggiori scuole filosofiche, nell’intento di conferire un tono intellettuale alla lieta occasione. Invece, l’unico risultato che riesce a ottenere è che il banchetto si trasformi in un’indegna gazzarra, durante la quale uno dei cinici, che era riuscito a imbucarsi alla festa senza essere stato invitato, approfitta della confusione per riempirsi la capace bisaccia di ghiotte vivande.
Boulanger Gustave Clarence Rudolphe, Il mercato degli schiavi.
Lo stesso tono umoristico e sarcastico nei confronti della degenerazione della filosofia caratterizza anche altri scritti di Luciano: nei Fuggitivi, ad esempio, i nuovi filosofi sono allegoricamente rappresentati come schiavi fuggiaschi (i pensatori “moderni” che si sono sottratti all’autorità dell’antica dottrina), acciuffati dai loro padroni e sottoposti a meritata punizione. Nelle Vite all’incanto, si immagina che Zeus metta all’asta, per venderli al miglior offerente, i fondatori delle principali scuole filosofiche – l’epicurea, la scettica, la peripatetica, la pitagorica –, ognuno dei quali ha preteso di indicare le direttive su cui gli uomini dovrebbero basare la propria esistenza. Il piacevole umorismo che caratterizza l’operetta scaturisce dal realismo con cui l’autore ha saputo ricostruire il clima di una vera vendita all’asta, con il banditore che magnifica i pregi della sua merce, il pubblico che osserva, chiacchiera, commenta, e i potenziali compratori che vogliono essere bene informati e controllare di persona, prima di fare la propria offerta.
Pittore Ambrogio. Giovane pescatore. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. ca.
Nel Pescatore, seguito dell’opera precedente, il protagonista, Parresiade («Colui che non ha peli sulla lingua») – che poi è l’autore stesso –, si trova coinvolto in una pericolosa situazione: infatti, Zeus ha concesso a tutti gli intellettuali, le cui vite sono state messe all’incanto, di ritornare un giorno tra i vivi per vendicarsi di colui che li ha così crudelmente scherniti. Parresiade, però, tiene una convincente apologia davanti alla Filosofia, dimostrando che quelli da lui perseguitati non sono stati che dei disonesti ciarlatani, colpevoli di aver avvilito a scopo di lucro l’insegnamento degli antichi maestri. In questo modo, Parresiade-Luciano è assolto e può dedicarsi al difficile compito di pescare (di qui il titolo del dialogo) i veri filosofi con la lenza e con l’amo, dall’alto dell’Acropoli di Atene, scartando senza pietà le creature spinose e repellenti che di tanto in tanto abboccano. In questo modo, il dialogo, che era stato con Platone lo strumento per eccellenza del discorso filosofico, con Luciano diviene l’arma prediletta per ridicolizzare gli avversari, criticando, insieme alle varie tendenze culturali, anche le più diffuse credenze religiose.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
Il tono derisorio nei confronti dei filosofastri raggiunge il vertice dell’asprezza in un opuscolo redatto in forma epistolare, la Morte di Peregrino. Costui era un filosofo cinico assai noto a cui si attribuiva anche una certa simpatia per il Cristianesimo e Luciano lo aveva conosciuto quando, di ritorno dall’Oriente, era giunto ad Atene. Nel 165 il filosofo aveva deciso di dimostrare la sua radicale protesta contro il malcostume dei tempi suoi con uno spettacolare suicidio, in occasione dei Giochi olimpici, buttandosi nel fuoco in pubblico. Ma Luciano vide nel gesto di quell’uomo soltanto una manifestazione di fanatismo per lui intollerabile e non esitò a esprimere tutta la propria disapprovazione, accomunando nella sua durissima critica anche la “superstizione” dei cristiani, che andava diffondendosi sempre più ampiamente.
Va, però, aggiunto che la lingua tagliente, ma imparziale, dello scrittore siro non risparmiò nemmeno la divinità suprema del pantheon pagano: in tre dialoghi, Zeus confutato, Zeus tragedo e il Concilio degli dèi, il signore dell’Olimpo si trova coinvolto in situazioni nelle quali la sua autorità appare messa gravemente in dubbio, senza che egli riesca a difenderla degnamente.
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., Tesoro dei Sifni (Delfi). Museo Archeologico di Delfi.
In contrasto con la satira pungente e distruttiva delle opere appena citate, si possono ricordare tre scritti lucianei dal tono meno aspramente polemico e, per certi aspetti, più costruttivo. Il primo, il Nigrino, espone in forma dialogica un incontro dell’autore con il filosofo neoplatonico, il quale si sforza di convertire Luciano alla sua dottrina, convincendolo a dedicarsi alla vita speculativa. A questo scopo, egli magnifica l’antica cultura e la nobiltà intellettuale di Atene, contrapponendola alla rozzezza dei Romani e alla loro indifferenza per le cose dello spirito. Il tono dell’opera è piuttosto violento e retorico e ciò induce a considerarla con un certo spirito critico; tuttavia, occorre riconoscerle almeno la sincerità con cui essa esprime il bisogno di trovare un rifugio nella cultura del passato e nel profondo senso civico e morale che l’animava, per sfuggire alle brutture del presente. Tale intento risulta chiaro anche dal Demonatte, biografia dell’omonimo filosofo cinico, che Luciano conobbe ad Atene e di cui ammirò la semplice e schietta onestà di vita e di pensiero. Altrettanto sereno e pacato è il tono dell’Ermotimo, un dialogo in cui il principale interlocutore è l’autore medesimo che, sotto lo pseudonimo di Licino, dimostra la vanità di ogni ricerca filosofica, fondandosi sui principi dello scetticismo e facendoli propri.
Dialoghi
Nel periodo della maturità, il dialogo rimase quasi esclusivamente il mezzo espressivo usato dallo scrittore siro, che se ne servì per comporre le sue opere più note e più meritatamente famose: le raccolte che comprendono i ventisei Dialoghi degli dèi, i quindici Dialoghi marini, gli altrettanti Dialoghi delle cortigiane e i trenta Dialoghi dei morti.
Nereide e Tritone. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem.
I primi due gruppi, caratterizzati da un tono umoristico di grande freschezza e vivacità, oltre che da uno stile esemplare per agilità, chiarezza e arguzia di linguaggio, rappresentano scene che hanno come protagonisti gli dèi dell’Olimpo e del mare, colti in umanissimi episodi della loro vita quotidiana, in un’ottica che, a iniziare da Callimaco, rimase tipica del periodo ellenistico e degli anni a esso successivi. Basterà citare, come significativo esempio, la scena famosissima del pomo della Discordia, rivissuta attraverso il racconto di due divinità marine, Panope e Galene, testimoni oculari dell’evento:
Teti e Peleo si erano già ritirati nel talamo accompagnati da Anfitrite e da Poseidone, quando Eris, in quel momento, di nascosto a tutti – poté farlo facilmente, perché alcuni bevevano, altri applaudivano, altri ancora erano intenti ad ascoltare Apollo che suonava la cetra e le Muse che cantavano –, gettò nella sala del banchetto un pomo bellissimo, tutto d’oro, o Galene! E sopra c’era scritto: “Mi prenda la bella”. Ed esso, rotolando, nemmeno a farlo apposta, si fermò dove se ne stavano a mensa Hera, Afrodite e Atena. Dopo che Hermes lo ebbe raccolto ed ebbe letto la scritta, noi Nereidi ammutolimmo. Infatti, che dovevamo fare, in presenza di quelle lì? Esse, invece, se lo contendevano e ciascuna pretendeva che il pomo toccasse a lei; e se Zeus non le avesse divise, la cosa sarebbe arrivata anche alle mani. Ma egli disse: “Non sarò certo io a decidere su quest’affare – eppure quelle pretendevano che fosse lui a giudicare –, andate sull’Ida dal figlio di Priamo, il quale ama la bellezza e sa distinguere il più bello e non sbaglierà certo il verdetto”[1].
Come è ben noto, il giudizio di Paride, che assegnò il pomo ad Afrodite, scatenò il decennale conflitto di Troia, la guerra più famosa di sempre; ma qui, niente lascia supporre la fatali conseguenze del gesto di Eris. L’attenzione dell’autore è tutta presa dall’atmosfera festosa del banchetto nunziale, con musica, canti e laute bevute (poco importa se chi suona è Apollo e se le voci sono quelle immortali delle Muse), e, subito dopo, dall’improvviso scintillio del pomo, che suscita la meraviglia di Panope (la «Tuttocchi»), che racconta l’episodio. Dopo la lettura delle parole incise sull’aureo frutto, nessuna delle Nereidi osa fiatare; non che si sentano meno belle delle altre, ma sono presenti «quelle lì», la sposa e due figlie di Zeus, tutt’e tre con un bel caratterino, visto che per poco non si azzuffano come donnette qualunque. E nemmeno il loro legittimo marito e padre, per quanto fulminante e altitonante, osa esprimere un giudizio che metterebbe a serio repentaglio la tranquillità familiare; preferisce scaricare la propria responsabilità sulle ignari spalle di un comune mortale, con piena indifferenza per ciò che accadrà.
Pieter Paul Rubens, Il giudizio di Paride. Olio su tela, 1601 c. London, National Gallery.
Nei Dialoghi delle cortigiane lo spunto satirico è meno evidente: lo scrittore descrive quel particolare mondo femminile senza troppi moralismi, con uno stile e un gusto che richiama i toni della Commedia Nea, alla quale Luciano si è evidentemente ispirato, ma senza raggiungere l’approfondimento psicologico che caratterizza i personaggi di Menandro.
Pittore Licaone, Odisseo incontra Elpenore nell’Ade. Pittura vascolare a figure rosse su pelike. attica, 440 a.C. ca. da Atene. Boston, Museum of Fine Arts.
Nei Dialoghi dei morti, invece, la satira moraleggiante torna a essere uno degli aspetti più frequenti e approfonditi. Oggetto dell’attenzione dell’autore sono, nella maggior parte dei casi, i falsi miti dell’esistenza umana: la ricchezza, il potere, la fama, la bellezza. Il personaggio-chiave è rappresentato dal filosofo cinico Menippo di Gadara, che porta con sé anche nell’Ade il suo spirito critico e dissacratore, dal quale non si salva niente e nessuno, né Mida né Creso con tutto il loro oro, né Sardanapalo con il fasto della sua regalità. Nireo, l’eroe più bello dopo Achille fra quelli che militarono a Troia, è ormai uguale a Tersite e non c’è più alcuna differenza tra il suo teschio e quello dell’uomo più brutto di tutto l’esercito acheo. E davvero sciocchi furono tutti quelli che, per Elena, presero parte al celeberrimo conflitto, senza riflettere che, entro breve tempo, del fulgido splendore della bellissima donna non sarebbero rimaste che poche ossa nude, uguali a tutte le altre, nello squallido nulla che è l’ultimo traguardo di ogni umana grandezza.
Opere di contenuto vario
Alla fase più tarda della vita e dell’attività di Luciano appartengono alcune opere di contenuto vario e meno facilmente ascrivibili a un genere preciso, anche se per stile e temi non si discostano molto dalla precedente produzione. Fra queste si possono ricordare i Saturnali, in cui lo scrittore medita amaramente sulle ingiustizie che avvelenano il mondo, prendendo spunto dalla solennità romana dei Saturnalia, in occasione della quale, per rievocare la mitica età dell’oro sotto il regno di Saturno (il greco Kronos), venivano momentaneamente abolite tutte le differenze sociali ed erano i padroni a servire i propri schiavi.
Trono di Saturno velato con Amorini. Rilievo, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Nell’Apologia, un opuscolo di carattere giudiziario e autobiografico prima ricordato, Luciano, che era stato molto duro nei confronti di chi accettava incarichi da lui considerati umilianti, anche se ben remunerati, in ricche case romane, tenta di giustificare la propria posizione di funzionario imperiale, mettendo in risalto la differenza fra un dipendente pubblico e chi, invece, si mette al servizio di un privato. Interessante è anche il breve trattato Come si deve scrivere la storia, redatto in forma epistolare e posteriore alla spedizione di Marco Aurelio contro i Parti, condotta nel 180. Prendendo spunto dalle adulatorie esagerazioni con cui gli storici contemporanei narravano le gesta degli imperatori, Luciano esprime una critica molto negativa nei confronti di questo stravolgimento della funzione della Storia e nella seconda parte dello scritto elenca alcune indicazioni per evitare simili errori, desumendole dalle opere degli storiografi ellenistici e, in particolare, da Polibio.
La Storia vera
Nel corpus degli scritti di Luciano è compresa anche un’opera in due libri, intitolata Storia vera. Nell’introduzione, l’autore informa di averla composta per il diletto e il riposo mentale del lettore, prendendo spunto, con una buona dose di ironia, dalle fantasiose storie di poeti e storici a partire da Omero per giungere a Ctesia di Cnido, il medico di Artaserse (metà V sec. a.C.) e ad Antonio Diogene, un romanziere del I secolo, finendo poi con Iambulo, autore di racconti fantastici, collocabile forse nel III sec. a.C. Tuttavia, prima di iniziare il suo racconto, Luciano avverte che l’unica cosa vera della sua storia è che non c’è niente di vero e che, perciò, «è assolutamente necessario che i lettori non ci credano per nulla».
Charles Meynier, Clio, musa della Storia. Olio su tela, 1800. Cleveland Museum of Art.
La narrazione, in prima persona, comincia nel momento in cui il protagonista-scrittore, per curiosità e per puro spirito di avventura, raccolti cinquanta compagni e noleggiata una nave, parte dalle Colonne d’Eracle per esplorare il misterioso Oceano Occidentale. Dopo ottanta giorni, i naviganti approdano a un’isola sconosciuta; in una selva trovano una colonna di bronzo con un’iscrizione in greco, che li informa che quello è il termine ultimo a cui giunsero Eracle e Dioniso. La presenza del dio è tuttora ben visibile nella straordinaria natura dell’isola, in cui scorre un fiume di vino e prospera una strana vigna, le cui piante hanno un solido tronco ben piantato in terra, ma a partire da una certa altezza si sviluppano in bellissimi corpi femminili, dalle cui dita nascono tralci e che hanno in testa, invece di capelli, viticci, pampini e grappoli. Esse accolgono festosamente Luciano e i suoi compagni, ma la loro cordialità cela un’insidia mortale; infatti, i marinai che le abbracciano non possono più staccarsi e divengono viti anch’essi, mettendo radici e tralci.
Partiti da quella terra infausta, i viaggiatori vengono sorpresi da una burrasca e, travolti da un violentissimo turbine di vento, sono sollevati in aria con tutta la nave. Dopo una navigazione “aerea” durata sette giorni e sette notti, essi approdano sulla Luna. Mentre stanno esplorando la grande sfera luminosa, vengono sorpresi e arrestati da guerrieri lunari, gli Ippoghipi, che cavalcano immensi uccelli rapaci, una sola delle cui penne è più lunga di un albero di nave. Condotti dal re, Endimione, che un tempo era stato un uomo e che era tato trasportato lassù perché Selene si era innamorata di lui, ricevono benevola accoglienza. Anzi, il sovrano chiede l’aiuto di Luciano e dei suoi compagni nella guerra che sta conducendo contro gli Elioti, gli abitanti del Sole. Lo scontro è terribile e sanguinoso; l’esercito avversario è comandato da Fetonte, che ha ai suoi ordini gli Aeroconopi (le «Zanzare aeree») e gli Ippomirmeci, enormi formiche alate, a cui si affiancano i mostruosi Nefelocentauri, metà uomini giganteschi e metà cavalli alati. Essi sono alleati del re solare, ma, per fortuna, giungono in ritardo, altrimenti, i Seleniti non avrebbero mai potuto vincere la battaglia.
William Faithorne, Lucian of Samosata. Incisione, 1664. London, National Portrait Gallery
Stipulata la pace, Luciano e i suoi amici si trattengono per un certo tempo sulla Luna, imparando a conoscere lo strano popolo che vi abita; non esistono donne, non si muore, ma ci si trasforma in aria, ci si ciba esclusivamente del fumo di rane arrostite sui carboni, bevendo rugiada liquefatta. I vestiti sono fatti di fili sottilissimi di rame, di cui vi è grande abbondanza e che vengono filati come lana; quando un Selenita si soffia il naso, dalle narici gli esce miele, mentre se suda, espelle latte. Dalle cipolle essi ricavano un olio profumatissimo e dalle viti ricavano l’acqua, prodotta da grappoli i cui acini sono grossi chicchi di grandine. Ma la cosa più strana è che i Seleniti possono riporre nel proprio ventre tutto ciò che vogliono, perché esso è come una bisaccia che si può aprire e chiudere a volontà; e poiché l’interno è foderato di una morbida e calda pelliccia, vi tengono dentro i neonati per ripararli dal freddo, dopo averli dati alla luce dal polpaccio di una gamba. Possono anche estrarsi gli occhi e rimetterseli a piacere; così i ricchi ne hanno molte paia, di vario colore, mentre i poveri non ne possiedono che un solo paio fra i componenti della famiglia e devono servirsene a turno.
Partiti dalla Luna e ripresa la navigazione celeste, Luciano e compagni incontrano, a metà strada fra il cielo e il mare, la città di Lychnopolis, abitata non da uomini ma da lucerne (λύχνοι); dopo una breve sosta, possono finalmente toccare di nuovo la superficie del mare e proseguire il viaggio. Dopo qualche giorno, la nave si imbatte in un numeroso branco di cetacei e balene; e la più grande di esse, un vero mostro marino, spalancate le fauci, si lancia verso l’imbarcazione e la inghiotte tutta intera. Trasferiti di colpo nell’immenso ventre dell’animale, Luciano e i suoi compagni vi scoprono una fitta selva popolata da uccelli marini; inoltratisi nel bosco, trovano un tempietto dedicato a Poseidone, presso il quale scorgono alcune tombe, contrassegnate ciascuna da una colonnina. In lontananza, poi, vedono una fattoria dal cui tetto si alza un filo di fumo e da cui giunge alle loro orecchie il latrato di un cane.
Giona e la Balena (dettaglio) dal Sarcofago «di Giona». Marmo, fine III sec. d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.
Messisi in cammino, incontrano di lì un vecchio e un giovanotto, che coltivano un orto pieno di verdure e di fiori, irrigato da una limpida sorgente che zampilla lì vicino. Ospitalmente accolti, vengono a sapere che il vecchio, di nome Scintaro, e suo figlio Cinira, originari di Cipro, inghiottiti anch’essi dalla balena, vivono nel suo ventre ormai da ventisette anni, nutrendosi di pesci e dei vegetali che vi coltivano. Inoltre, la selva fornisce loro piante di vite che danno un ottimo vino e la possibilità di cacciare gli uccelli che vi si rifugiano. L’unico pericolo è rappresentato dal fatto che in essa si annidano popoli selvaggi e inospitali, ma essi hanno imparato a difendersi e a tenerli lontani, perché costoro non conoscono l’uso delle armi e si servono solo di lische di pesce. Luciano e i suoi amici offrono allora aiuto al vecchio; così, sbarazzatisi una volta per sempre degli incomodi vicini, trascorrono un anno e otto mesi di vita comoda e pacifica nel ventre della balena. Durante questo periodo, hanno la possibilità di assistere, ben nascosti dietro gli enormi denti della balena, a uno scontro fra giganti che navigano su isole spinte a remi. Con la narrazione della battaglia fra isole termina il primo libro della Storia vera.
Il secondo libro riprende con il progetto di Luciano di abbandonare il ventre del cetaceo, perché lui e i suoi compagni si sentono ormai stanchi di quella vita monotona e sedentaria. Così, il vecchio Scintaro e il figlio decidono di seguirli; perciò, dopo aver trasportato la nave fino alla gola del mostro, essi danno fuoco alla selva, uccidendo la balena. Una volta ripreso il mare, però, vengono sorpresi dal gelido Borea, il vento del Nord, che trasforma le acque intorno a loro in un gigantesco lastrone di ghiaccio. I marinai, allora, sono costretti a scavarsi una caverna e a soggiornarvi fino al ritorno di una temperatura più mite, nutrendosi di pesce congelato. Quando, alla fine, i ghiacci si sciolgono, gli avventurosi viaggiatori giungono in un oceano di latte, da cui sorge un’isola di formaggio. Dopo avervi fatto una breve sosta, che offre loro un gradevole cambiamento di dieta, riescono a raggiungere un mare azzurrissimo, di acqua limpida e salata: è il mare dei Sugheropodi, delle strane creature in tutto e per tutto simili agli uomini, tranne che per i piedi di sughero, che permettono loro di correre velocemente sul pelo dell’acqua, senza mai affondare.
Oltrepassate le isole Sugherie, i naviganti giungono in vista di una terra sconosciuta, dalle cui coste si leva una brezza carica di dolcissimi profumi, come quelli che Erodoto aveva narrato che esalassero dall’Arabia Felice. Si tratta dell’Isola dei Beati, dove vivono le ombre dei giusti; essa è immersa in un’eterna primavera, allietata dal canto melodioso degli uccelli e dagli aromi di piante e di fiori meravigliosi. Invitato con i suoi compagni a banchetto, Luciano ha la possibilità di conoscere tutti i grandi personaggi del mito e della storia: poeti, filosofi, statisti, musici, eroi che vivono là in perfetta armonia, conversando, componendo e suonando musica, danzando, cantando e assistendo a giochi. Ma proprio mentre si stanno celebrando le Thanatasie – le festività più solenne per i Beati – organizzate da Achille e Teseo, si sparge l’allarmante voce che gli abitanti del Soggiorno degli Empi, elusa la sorveglianza dei loro custodi, stanno per assalire l’Isola felice, guidati dai più crudeli tiranni, fra i quali si distinguono Falaride d’Agrigento e l’egizio Busiride. Infatti, di lì a poco, ha luogo lo scontro: i Beati hanno la meglio, grazie soprattutto alla presenza di Achille, ma anche Socrate si dimostra un combattente davvero intrepido.
Salvator Rosa, Allegoria della Fortuna. Olio su tela, 1658 c.
Dopo questi fatti, un altro avvenimento, di ben diversa natura, sopraggiunge a turbare la quieta vita dell’Isola: Cinira, il figlio del vecchio Scintaro, giovane bello e aitante, si innamora, ricambiato, di Elena e decide di rapirla. Ma il progetto viene scoperto e Luciano e i compagni vengono cacciati; quando stanno per salpare, Odisseo, di nascosto a Penelope, consegna a Luciano una lettera per Calipso, perché l’isola della ninfa, figlia di Atlante, si trova sulla rotta che essi dovranno percorrere. Ma prima di giungervi, i naviganti approdano al Soggiorno degli Empi, in cui echeggiano continuamente grida e gemiti di dolore; la terra non produce che rovi ed è attraversata da tre fiumi, uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco, assolutamente invalicabile. Abbandonato in fretta quel luogo terribile e inospitale, i viaggiatori giungono all’isola dei Sogni, coperta di distese di papaveri e mandragore, dalla quale provengono tutti i sogni che allietano o rattristano il riposo dei mortali. Di là fanno rotta per l’isola di Calipso. La ninfa li accoglie ospitalmente e, letta l’epistola di Odisseo, scoppia in lacrime, commossa profondamente dal ricordo dell’eroe. Luciano, allora, conforta la ninfa e la rassicura, parlandole dell’affetto che Odisseo nutre ancora per lei; certamente sarebbe già venuto a trovarla, se Penelope non lo tenesse sotto stretto controllo.
Dopo aver lasciato l’isola, Luciano e i suoi vengono assaliti dai Colocintopirati, che navigano su enormi zucche svuotate e seccate, servendosi delle foglie delle zucche stesse come vele e dei semi come proiettili; e si troverebbero a malpartito, se non intervenissero, sui loro gusci di noce, i Carionauti, acerrimi nemici dei Colocintopirati: infatti, mentre gli equipaggi avversari si scontrano, Luciano e amici ne approfittano per svignarsela senza dare nell’occhio. Scampati alla battaglia, dopo altre mirabolanti avventure, essi incontrano le terre dei selvaggi Bucefali e quelle abitate dalle terribili Onoskelee: queste sono donne bellissime, che hanno, però, al posto delle gambe, zampe d’asino abilmente nascoste da lunghe vesti; inoltre, si nutrono di carne umana, attirando i viaggiatori con le loro lusinghe per poi ucciderli e divorarli. Allontanatisi in fretta, i naviganti arrivano in vista del continente australe, che sta agli antipodi del mondo conosciuto. Ringraziati gli dèi per aver finalmente raggiunto la meta, essi si accingono a sbarcare; ma ecco scatenarsi una violenta tempesta, che fracassa la nave e li costringe a salvarsi a nuoto, con le sole armi e qualche suppellettile. A questo punto, il racconto si chiude e Luciano si accomiata dai suoi lettori, promettendo di narrare in altri libri le nuove avventure.
Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Cabinet des médailles.
Opera di puro divertimento, la Storia vera non conosce limiti di spazio né di tempo, proprio come la fantasia del suo autore. La terra, il mare, il cielo, il mondo dei vivi e quello dei morti e perfino il ventre di un cetaceo mostruoso fanno da sfondo alle mirabolanti avventure del protagonista, sempre in moto, ma senza una meta precisa. Benché si affrontino tempeste e battaglie, si incontrino dèi e giganti, Seleniti marsupiali e donne-viti, in uno scenario di fenomeni naturali non meno strabilianti, il senso del drammatico o del pauroso sono completamente assenti, così come manca del tutto il tema della magia. Perfino i luoghi più strani e la dimensione ultraterrestre non appaiono altro che come un vario e inconsueto spettacolo, offerto agli occhi di un viaggiatore-narratore, che si compiace di raccontare, con un divertimento che prevale sullo stupore.
Al genere delle storie incredibili appartiene un altro romanzo, contenuto nel corpus lucianeo, ma considerato spurio; esso è intitolato Lucio o l’asino ed è scritto, invece che in attico, nel greco della koiné. Vi si narrano le avventure del giovane Lucio, il quale appassionato di magia, spia, con l’aiuto di un’ancella, una famosa maga che si sta trasformando in uccello, grazie a un unguento miracoloso di cui si cosparge il corpo. Dopo che la metamorfosi si è compiuta, la maga vola via; e Lucio, desideroso di imitarla, si spalma a sua volta di unguento: ma nella fretta, sbaglia contenitore e viene così mutato in asino, riuscendo a riacquistare l’aspetto umano soltanto dopo molte peripezie.
Secondo Fozio, patriarca di Costantinopoli (IX sec.), esisteva anche un’altra opera che trattava lo stesso argomento, le Metamorfosi di Lucio di Patrai, di cui però non si sa nulla; invece, lo spunto narrativo della trasformazione di Lucio in asino è stato sviluppato nei Metamorphoseon libri XI dello scrittore madaurese Apuleio (125 c.-post 170 c.). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con chiarezza i rapporti fra le due opere greche e quelli di entrambe con il romanzo di Apuleio, che si differenzia dalle prime per la maggiore ampiezza, per la ricchezza degli episodi collaterali e soprattutto per il contenuto, caratterizzato da evidenti riferimenti al culto misterico di Iside.
Pensiero, stile e fortuna di Luciano
Sebbene Luciano non abbia mai raggiunto una grande profondità speculativa e non possa essere considerato un pensatore originale, egli rimane tuttavia una delle personalità più significative del suo tempo. A lui è dovuta la creazione di un nuovo genere di dialogo, che ha saputo unire in modo singolarmente piacevole i contenuti del pensiero filosofico all’umorismo della commedia ed è servito a denunciare, con intelligente arguzia, molti degli aspetti negativi della vita e della cultura del tempo, a un pubblico certamente assai vasto. La dissacrante ironia dell’autore non ha risparmiato nessuna manifestazione della debolezza umana, ma ha stigmatizzato soprattutto le mistificazioni dei falsi maestri e dei falsi filosofi, nel tentativo di limitare il diffondersi di un dogmatismo che la sua mente razionale non poteva accettare e che lo ha portato ad accomunare nella sua critica anche qualunque forma di religione (Cristianesimo compreso). Infatti, pur dimostrando simpatia per gli epicurei e per i cinici, Luciano non ha mai accettato completamente il pensiero di nessuna scuola, fedele a uno scetticismo di fondo che scaturiva naturalmente dal suo ingegno mobile e vario. Incline per indole a un’ironia beffarda e corrosiva, questo intellettuale siro ha avuto, tuttavia, il suo più grande limite nel non saper proporre soluzioni alternative, limitandosi a distruggere senza creare: ma, ciononostante, è difficile sottrarsi al fascino di questo spirito arguto e versatile, ricco di capacità di osservazione e di espressione, dotato di un’eccezionale sensibilità linguistica e di una altrettanto straordinaria cultura, che lo ha portato a spaziare con felice eclettismo e con gusto sempre sicuro da Omero a Esiodo, da Euripide ad Aristofane, da Erodoto a Tucidide e a Platone, che gli offrì lo spunto formale per i suoi dialoghi.
La fortuna di Luciano fra i suoi contemporanei non fu grandissima; soltanto in epoca bizantina egli fu riscoperto da Fozio, che lo apprezzò per il suo stile e per il suo atteggiamento critico nei confronti di vari aspetti del mondo pagano. A partire dal XV secolo, Luciano fu ammirato e tradotto anche in Italia, quando le sue opere fornirono suggestioni a poeti come il Boiardo e ispirarono la pittura, attraverso l’arte di Botticelli e Mantegna. Soprattutto la Storia vera ha avuto grande importanza nella cultura europea, in vari periodi e a diversi livelli, perché a essa si rifecero Rabelais, Swift e Voltaire; e sia Le avventure del Barone di Münchhausen di Gottfried Bürger sia le ben note Avventure di Pinocchio sono in buona misura debitrici alla sua geniale e sbrigliata fantasia.
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Caccia al cervo. Mosaico, III-IV sec. da Conimbriga.
L’incontro con il cacciatore
I passi presi in esame sono tratti dall’opera più originale di Dione, una lunga orazione intitolata Euboico o il cacciatore. Essa ha tutte le caratteristiche di un ampio racconto autobiografico, in cui, peraltro, è difficile distinguere la realtà oggettiva dal processo di idealizzazione al quale sono stati sottoposti molti particolari. L’autore, vittima di un naufragio, fu costretto ad approdare in una zona della costa meridionale dell’isola Eubea, particolarmente solitaria e impervia, nei pressi del promontorio Cafareo. Qui egli fu accolto cortesemente da un cacciatore incontrato per caso. La semplice e cordiale ospitalità dello sconosciuto permise così a Dione di venire per qualche tempo a contatto con uno stile di vita ormai lontano da quello, più lussuoso, ma certo meno tranquillo, delle grandi città.
[1] Vi racconterò tutto questo avendolo vissuto io stesso in prima persona, non avendolo udito raccontare da altri. Infatti, forse, l’aver da narrare molte cose e il non lasciarsi distogliere facilmente da nessuno dei discorsi che vengono in mente non è proprio solo della vecchiaia; oltre che caratteristico degli anziani potrebbe esserlo anche dei giramondo. Il motivo è che entrambi rievocano con piacere le molte avventure che si sono trovati a vivere. Vi racconterò dunque quali uomini incontrai quasi nel cuore della Grecia e che genere di vita conducevano.
[2] Per caso, dunque, verso la fine dell’estate, ero salpato da Chio insieme ad alcuni pescatori a bordo di un’imbarcazione molto piccola. Ma, scoppiata una tempesta, con difficoltà e fatica riuscimmo a scamparla presso le Grotte d’Eubea; gli uomini, dopo aver diretto la barca verso un aspro tratto di costa sotto alcuni scogli dirupati, la sfasciarono; essi, invece, si rifugiarono presso alcuni pescatori di porpora, ormeggiati in una baia vicina e pensarono, rimanendo lì, [3] di lavorare insieme a quelli. Lasciato da solo e non avendo una città in cui rifugiarmi, mi aggiravo senza meta lungo il litorale, se per caso riuscissi a vedere qualcuno che navigava o che fosse ormeggiato nei pressi. Ma dopo aver camminato a lungo, non incontrai anima viva; mi imbattei, però, in un cervo che era da poco precipitato giù dai dirupi proprio sulla spiaggia, bagnato dalle onde e che respirava ancora. E dopo un po’ mi parve di sentire, seppur con difficoltà, a causa del rumore della risacca, un latrato di cani, che proveniva dall’alto.
[4] Dopo essere andato avanti ed essermi arrampicato a fatica su un rialzo, vidi i cani che cercavano e correvano qua e là, e mi immaginai che l’animale fosse caduto giù dalla scogliera, spinto a forza da loro; e poco dopo, anche un uomo, un cacciatore, dall’aspetto e dall’abbigliamento, con le guance colorite e con i capelli non tirati indietro in modo trascurato – come Omero racconta che gli Euboici giunsero a Troia, prendendoli in giro, credo, e deridendoli, perché, mentre gli Achei erano ben acconciati, [5] essi avevano soltanto metà capigliatura[1]. Costui mi domandò: «Ehi, straniero, hai visto per caso un cervo che fuggiva per di qua?». Io, allora, gli risposi: «Quello ormai è giù nella risacca»; e, dopo averlo accompagnato, glielo mostrai. Tiratolo fuori dall’acqua, lo scuoiò con un coltello, mentre io lo aiutavo come potevo. Poi, dopo aver tagliato i quarti posteriori delle zampe, se li portava via insieme alla pelle. Invitò anche me ad accompagnarlo e a banchettare insieme a lui con quella carne; infatti, egli non abitava molto lontano.
[6] Poi aggiunse: «Domani all’alba, dopo aver dormito da noi, tornerai sul mare, perché ora non è il momento di imbarcarsi. Non ti preoccupare; vorrei anch’io che il vento cessasse, magari fra cinque giorni; ma non è facile, quando le cime dell’Eubea sono così oppresse dalle nubi, fittamente coperte come le vedi ora». Poi mi chiese anche da dove e in che modo mi fossi spinto fin là, e se la mia barca fosse andata in pezzi. Io risposi: «Era molto piccola, di alcuni pescatori che andavano per mare; e io solo navigavo insieme a loro, per affari miei. Appena ha toccato terra, si è sfasciata».
[7] «Non era facile che accadesse diversamente», rispose lui; «guarda com’è aspra e dirupata la costa dell’isola in direzione del mare aperto. Queste sono le cosiddette Grotte d’Eubea e una nave che sia stata spinta qua non potrebbe mai salvarsi; raramente si salvano alcuni degli uomini, a meno che, come voi, non navighino su un’imbarcazione molto leggera. Ma vieni, e non temere nulla; ora ti riprenderai da quella brutta avventura. Poi, domani, per quanto sarà possibile, ci preoccuperemo di come sistemarti, dopo che avremo fatto conoscenza.
[8] Mi sembra che tu venga dalla città e non un marinaio o un contadino; e dalla magrezza mi pare anche che tu soffra di qualche malessere fisico». Io lo seguii volentieri; infatti, non temevo che mi tendesse qualche insidia, non avendo altro che una povera veste.
[9] Spesso, in altre occasioni, mi ero trovato in simili circostanze, poiché ero sempre in viaggio e avevo sperimentato, come in quel caso, che la miseria è sacra e inviolabile, e nessuno ti fa torto, molto meno che a quelli che portano le insegne di araldo; perciò, anche allora lo seguii fiducioso.
Cacciatore e cane (part.). Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. Roma, Museo di S. Sebastiano.
L’orazione dalla quale proviene il passo preso in esame è considerata, in genere, l’opera più originale e interessante di Dione di Prusa: […] essa è probabilmente ispirata da una vicenda autobiografica, un’avventura di viaggio che costrinse l’autore a trascorre qualche giorno presso una piccola comunità di agricoltori e cacciatori d’Eubea, un’isola prossima alle coste della Beozia e dell’Attica, che i Romani avevano annesso alla provincia di Macedonia. La descrizione del naufragio denota, tra l’altro, una buona conoscenza della geografia dei luoghi; infatti, nella parte di costa ricordata da Dione l’approdo è difficilissimo e, a causa della conformazione accidentata di tutta la zona, non vi furono mai fondate città, ma solo piccoli villaggi litoranei. Inoltre, le scogliere del promontorio Cafareo, prossimo alle Grotte d’Eubea menzionate dall’autore, erano tristemente famose per l’alto numero di naufragi che vi si verificavano, il più celebre dei quali (a parte quello, mitico, dell’armata achea di ritorno da Troia) era avvenuto durante la Seconda guerra persiana, quando duecento navi, inviate da Serse a circumnavigare l’isola, erano perite in una volta sola, infrangendosi sulle rocce a causa di una violenta burrasca, e che i Greci avevano interpretato come un segno del favore di Poseidone nei loro confronti[2].
Tuttavia, se la topografia si distingue per la sua concreta precisione, il racconto del naufragio assume subito le tinte avventurose del romanzo, con la descrizione della sconsolata solitudine del protagonista, abbandonato dai suoi occasionali compagni, e poi inaspettatamente rassicurato dall’arrivo del buon cacciatore, vero e proprio deus ex machina giunto al momento opportuno per risolvere una situazione difficile. L’abilità retorica di Dione, letterato di raffinata cultura, si nota appunto nella sapiente gradualità con cui egli – narratore e protagonista – prepara l’incontro fra il naufrago e il suo salvatore: prima, la squallida solitudine della spiaggia rocciosa battuta dai marosi e l’ansioso scrutare alla ricerca di una presenza umana o di un’imbarcazione; poi, il cervo ferito, precipitato dall’alto della scogliera; subito dopo, il latrato dei cani, a mala pena udibile in mezzo allo scroscio delle onde; infine, l’arrivo del cacciatore, un uomo forte, dall’aspetto sano, la cui schietta cordialità rassicura subito il povero naufrago.
La scena dell’offerta e della pronta accettazione dell’ospitalità riconduce a uno dei concetti etici più antichi e più profondamente radicati nell’animo greco: quello della sacralità dell’ospite, oggetto, per sua stessa natura, di αἰδώς, di «rispetto» reverenziale. Tale condizione si fondava su motivi religiosi (lo sconosciuto in difficoltà poteva essere un dio sotto false sembianze, sceso in terra per saggiare l’animo degli uomini), ma anche sulla necessità di instaurare rapporti sociali stabili e duraturi anche al di fuori della propria patria, perché la πολιτεία («lo Stato») non garantiva in alcun modo la sicurezza di chi si allontanasse dalla protezione delle leggi cittadine. Ma, se in altri tempi il forestiero avrebbe seguito il suo ospite con piena fiducia nella sua lealtà, ora le certezze non sono più così solide; nel cuore del narratore non manca un’inquietante punta di diffidenza, che lo induce a dichiarare ai lettori di essere pronto a seguire lo sconosciuto non tanto perché creda alla sua sensibilità verso i tradizionali valori della ξενία («ospitalità»), quanto perché sa di avere un aspetto talmente miserando da scoraggiare qualunque tentazione.
***
Serenità campestre e miseria urbana
[…] Strada facendo, il cacciatore racconta all’ospite occasionale la storia della sua famiglia e di quella di un suo vicino di casa, entrambi di stirpe libera, discendenti da pastori salariati, trasformatisi, dopo la morte del loro signore, in cacciatori e coltivatori. Le due famiglie hanno dato origine a una minuscola comunità autosufficiente, soddisfatta di un genere di vita estremamente semplice, ma sereno e tranquillo; lo dimostra la familiare affabilità con cui è accolto il forestiero, invitato a banchettare con la carne di cervo.
[65] Dopo essere entrati, banchettammo per il resto della giornata, noi distesi su un alto giaciglio fatto di frasche e coperto di pelli, la moglie seduta presso il marito. Una figlia in età da sposarsi serviva a tavola e versava da bere vino nero dolce. I figli cucinavano la carne ed essi stessi, imbandendola, partecipavano al pranzo, così che io consideravo fortunate quelle persone e ritenevo che conducessero una vita felice più di tutte quelle che avevo conosciuto.
[66] Eppure, conoscevo le case e le mense dei ricchi, non solo di cittadini privati, ma anche di satrapi e di sovrani, e allora, come già altre volte, mi sembravano ancora più miseri, vedendo qui povertà e generosità, e constatando che non mancava loro niente del piacere del mangiare e del bere, ma che anzi, in un certo senso, ne abbondavano veramente.
[67] Quando ne avevamo già avuto a sazietà, giunse anche l’altro cacciatore. Lo accompagnava il figlio, un bel ragazzo che portava una lepre. Appena entrò, subito arrossì; e mentre suo padre ci salutava, egli diede un bacio alla fanciulla e le diede la lepre. Allora la ragazza smise di servire a tavola e si sedette accanto alla madre, [68] mentre il giovane serviva in sua vece. E io, allora, chiesi al mio ospite: «È lei la figlia alla quale togliesti la tunica per darla al naufrago?[3]». Ed egli: «No», mi rispose ridendo; «quella è andata a marito da tempo, a un uomo ricco del villaggio e ha già dei figli grandi». «Allora», feci io, «vi aiutano, quando ne avete bisogno?». «Ma noi», [69] intervenne la moglie, «non abbiamo bisogno di nulla; loro, piuttosto, ricevono da noi cacciagione, quando ce n’è, frutta di stagione e ortaggi; essi, infatti, non dispongono di un orto. L’anno scorso abbiamo comprato del frumento, proprio per seme, ma subito, al raccolto, lo abbiamo restituito». «E allora?», dissi, «pensate di dare in moglie a un ricco anche costei, perché lei vi presti il frumento?». A questo punto tutti e due, la fanciulla e il ragazzo, arrossirono.
[70] Allora il padre di lei disse: «Prenderà un uomo povero, un cacciatore come noi»; e sorridendo guardò verso il giovane. Allora io: «Perché dunque non gliela date? O bisogno che lo sposo arrivi dal villaggio?». «Io credo», rispose quello, «che non sia lontano; anzi, è già qui dentro. Celebreremo le nozze dopo aver scelto un giorno propizio». E io: «In che modo scegliete un giorno di buon auspicio?». E lui: «Quando la luna non è all’ultimo quarto; [71] è opportuno che l’aria sia pura, e il sereno limpidissimo». E io, di nuovo: «Allora? È davvero un bravo cacciatore?». «Io sì!», rispose il ragazzo, «sono capace di stancare un cervo e di affrontare un cinghiale. Lo vedrai domani, se vorrai, o straniero». E io: «Hai preso tu anche questa lepre?». «Certo», mi rispose ridendo, «stanotte, con la rete; era, infatti, un sereno splendido e la luna tanto grande come non era mai stata».
Caccia alla lepre. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem. Tunis, Musée du Bardo.
L’Euboico era composto da due parti, diverse per contenuto e per finalità; la prima, descrittiva, si concludeva con il passo qui riportato, l’annuncio delle nozze imminenti tra la figlia del cacciatore e il cugino; la seconda, di tono riflessivo, affrontava il grave problema della povertà nei grandi centri urbani dell’Impero, che nessun intervento filantropico o autoritario era mai stato in grado davvero di risolvere. Bisogna osservare che, nella prima sezione, Dione capovolgeva il tradizionale atteggiamento che, secoli prima, Omero e i tragici (soprattutto Euripide) avevano mostrato nei confronti dell’ospitalità, della ricchezza e della povertà. Essi, infatti, erano apparsi convinti che il povero, anche se lo desiderava, non fosse in grado di ospitare decorosamente un forestiero, perché gliene mancavano i mezzi: basterebbero, a questo proposito, le parole con cui Eumeo, accogliendo Odisseo nella propria capanna, si scusa di non potergli offrire una mensa più ricca e di essere costretto a dargli il mantello soltanto in prestito, perché non ne possiede un altro per sé[4].
Al contrario, chi era ricco poteva donare con larghezza e, se non l’avesse fatto, oltre ad attirarsi biasimo e critiche, si esponeva alla collera delle divinità. Nell’Euboico, invece, l’esperienza personale dell’autore conduce a conclusioni diametralmente opposte: non solo i poveri offrono generosamente tutto ciò che possono donare agli ospiti occasionali, ma appaiono pure soddisfatti del proprio stile di vita e non mostrano di desiderare alcun cambiamento nella propria tranquilla esistenza – assai simile a quella descritta negli Idilli di Teocrito o, più ancora, in alcune scene aristofanesche (Acarnesi, Pace), in cui si ricorda con nostalgia il quieto vivere dei contadini dell’Attica, reso impossibile dalla Guerra del Peloponneso.
La descrizione di Dione presenta molte caratteristiche che contribuiscono a farla considerare un quadro idealizzato e lontano dalla realtà; ma, nell’intenzione dell’autore, l’utopistica serenità del cacciatore e dei suoi parenti, isolati dal resto del mondo nella loro isola aspra ma non avara per chi sa scoprirne le agresti ricchezze, doveva servire a evidenziare, per contrasto, la miseria materiale e morale delle plebi cittadine – oggetto di riflessione nella seconda parte dell’orazione. L’autore, infatti, conosceva bene la situazione delle grandi metropoli imperiali, in cui il fasto di pochi appariva in stridente contrasto con la miseria di una massa innumerevole che, strumentalizzata da demagoghi privi di scrupoli, poteva divenire in qualunque circostanza un elemento capace di mettere drammaticamente in crisi l’equilibrio politico.
Per questo, Dione suggeriva di favorire con ogni mezzo possibile l’allontanamento dalla città di chi non disponesse di sufficienti mezzi di sussistenza, offrendo terre da coltivare, anche gratis, in modo da diminuire, se non da cancellare del tutto, le due massime cause di instabilità sociale e di degrado morale: l’ozio e la miseria, che già intorno al 360 a.C. erano stati additati come due gravi problemi di ordine economico ed etico, oltre che politico, da Isocrate nell’Areopagitico. Questi motivi giustificavano, almeno in parte, il nostalgico quadro di un’esistenza immersa nella pace agreste, fondata sulla semplicità, la schiettezza e la solidarietà, che però traeva origine da una precisa ottica programmatica, non dall’osservazione della vita reale. Tuttavia, in esso traspariva anche quel desiderio di quiete e di serenità dello spirito che, fino alla prima età ellenistica, era apparso come il sogno e il rimpianto dell’uomo di città, consapevole di aver sacrificato al benessere materiale la parte migliore di sé. Da questo punto di vista, il motivo del contrasto fra la lieta povertà della vita campestre e le ricchezze della città, ingiustamente distribuite e fonte di ansie e di intrighi, capaci di corrompere ogni più nobile sentimento, sarebbe divenuto topico nella letteratura posteriore, latina e italiana; per non citarne che un solo, illustre esempio, basterà ricordare l’episodio di Erminia fra i pastori nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VII, ott. 1-22, vv. 1-176).
***
Note
[1] In Il. II 541-544 Omero descrive gli Abanti, antichi abitatori dell’Eubea, che si rasavano la parte anteriore del capo per impedire che gli avversari li afferrassero per i capelli, combattendo corpo a corpo. Essi, infatti, sono detti ὄπιθεν κομόωντες («con le chiome fluenti all’indietro»).
[3] Nella parte omessa del racconto, il cacciatore ha raccontato al suo ospite di aver accolto in casa un altro naufrago; e, non avendo di che vestirlo, aveva tolto la veste alla figlia, per darla a lui.
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Intorno al cielo, intorno agli astri è questo scritto: non proprio intorno agli astri né proprio intorno al cielo, ma alla divinazione e alla verità che da essi viene nel mondo. Con questo discorso io non voglio dare precetti né spacciare insegnamenti su come si possa venire in fama per questa divinazione, ma biasimo coloro che, pur essendo sapienti, tutt’altro studiano, di tutt’altro ragionano con tutti, e la sola astrologia né pregiano né studiano. Eppure questa è antica sapienza, né venne da poco fra noi, ma è opera di antichi re cari agli dèi. I moderni per ignoranza, per dappocaggine e per infingardaggine ancora tengono opinione contraria a quelli; e quando incappano in indovini bugiardi, accusano gli astri, sprezzano l’astrologia e la credono una sciocchezza, un’impostura, un vento di parole vane. La quale opinione a me non pare giusta: difatti, non perché il falegname sbaglia, dirai che l’arte sua non valga; non perché il flautista stona, allora la musica non è buona; ma è l’artefice quello ignorante, mentre l’arte per se stessa è sapiente.
Statua del vecchio (forse un indovino). Marmo, 454 a.C. ca. opera del ‘Maestro di Olimpia’, dal frontone orientale del Tempio di Zeus Olimpico. Museo Archeologico di Olimpia.
Per primi tra gli uomini a istituire questa dottrina furono gli Etiopi, sia perché essi sono un popolo ingegnoso e in molte cose ne sanno più degli altri, sia perché essi abitano in un paese felice, dove il cielo è sempre sereno e tranquillo, non vi è diversità di stagioni, ma sempre la stessa temperatura. Vedendo dunque la Luna non apparire sempre la stessa, ma variare aspetto e prendere ora una forma ora un’altra, parve loro una cosa degna di meraviglia e di considerazione. Così, messisi a indagare, ne trovarono la spiegazione, e cioè che la sua luce non è sua propria, ma le viene dal Sole. Inoltre, trovarono il moto degli altri astri, che noi chiamiamo “pianeti”, perché essi soli tra i corpi celesti a muoversi, e la loro natura e potenza e le opere che ciascuno di essi compie. E posero loro dei nomi, e non a caso – come pareva, beninteso – , ma simbolici.
E questo nel cielo osservarono gli Etiopi: poi agli Egiziani, loro vicini, trasmisero imperfetta quest’arte. Gli Egiziani, infatti, ricevuta da quelli mezza fatta la divinazione, la ingrandirono di più, misurarono e segnarono il moto di ciascun astro e ordinarono il numero degli anni, dei mesi, delle ore. Misura del mese fu per loro la Luna e il suo rinnovamento; dell’anno il Sole e il suo giro. Un’altra cosa ancora immaginarono molto maggiore di questa: di tutto l’aere e degli altri astri che non si muovono e sono fissi tagliarono dodici parti per i pianeti e a ciascuna di esse assegnarono un animale, che figurarono di diversa specie: dove furono pesci, dove uomini, dove belve, dove volatili, dove giumenti.
Va da sé, allora, che la religione egiziana esprime diverse specie di riti, dacché non tutti gli Egiziani da tutte e dodici le parti facevano i loro pronostici: invero, c’era chi usava di una e chi di un’altra; infatti, adorano l’ariete quelli che riguardavano nell’ariete, non mangiano pesci quelli che simboleggiarono nei pesci, non uccidono il capro quelli che onorarono il capricorno; e ciascuno a suo modo, secondo la sua divozione. Adorano anche il toro in onore del toro celeste, e Api è cosa santissima per loro – va pascolando per il paese – e gli hanno eretto un tempio dov’è un oracolo, segno della divinazione del toro celeste.
Lisimaco. Tetradramma, Magnesia al Menandro 305-281 a.C. ca. Ar. 17, 19 gr. Dritto: testa diademata di Alessandro divinizzato, con le corna di Ammone.
Dopo non molto anche i Libi vennero a quest’arte: e il libico oracolo di Ammone fu anch’esso trovato a imitazione del cielo e della sapienza celeste, in quanto che fanno Ammone con la faccia di ariete. Tutte queste cose furono conosciute dai Babilonesi ed essi – dicono – prima degli altri: ma a me pare che molto di poi giunse quest’arte a loro.
I Greci né dagli Etiopi né dagli Egizi appresero l’astrologia: ma fu Orfeo, figlio di Eagro e di Calliope, il primo che insegnò loro queste cose, non apertamente, né divulgò quest’arte, ma la chiuse negli incantesimi e nella religione, come era suo umore. Avendo composta la lira, celebrava orge e cantava inni sacri; e la lira, essendo di sette corde, simboleggiava l’armonia dei sette pianeti. Queste cose investigando Orfeo e a queste ripensando, tutto dilettava, tutto vinceva. Non guardava egli alla lira che aveva in mano né si curava di altra musica, ma la gran lira d’Orfeo era questa. E i Greci per questa cagione onorandola, le assegnarono un posto in cielo e un gruppo di stelle si chiama “lira di Orfeo”.
Se mai dunque vedrai in mosaico o in pittura rappresentato Orfeo, che siede in atto di cantare, tenendo in mano la lira, e intorno a lui stare animali moltissimi, tra i quali l’uomo, il toro, il leone e altri – quando vedrai questo – ricordati che vuol dire quel canto e quella lira e quale toro e quale leone stanno ad ascoltare Orfeo.
Franz von Stuck, Orfeo e le bestie. Olio su tela, 1891.
Se tu conoscessi i principi di cui parlo, anche tu vedresti nel cielo ciascuna di queste cose. Raccontano che Tiresia di Beozia, che ebbe gran fama di indovino, diceva tra i Greci che alcuni dei pianeti sono maschi, altri femmine, e che non producono gli stessi effetti: e, però, favoleggiano anche che egli abbia avuto due nature e abbia vissuto due vite, e cioè che una volta fu femmina, una volta maschio. Quando Atreo e Tieste contendevano per il regno paterno, i Greci ormai attendevano pubblicamente all’astrologia e alla scienza celeste: così gli Argivi in assemblea decretarono che sarebbe stato re chi dei due avesse vinto l’altro quanto a conoscenza. Così Tieste, disegnando l’ariete che è nel cielo, lo spiegò a essi: onde nacque la favola che Tieste possedesse un ariete d’oro. Atreo, invece, parlò del Sole e del suo vario levarsi e di come non si muovano nello stesso verso il Sole e il mondo, ma tengano un corso contrario tra loro, e quello che pare sia l’Occidente del mondo sia l’Oriente per il Sole. Esponendo questo discorso, dunque, fu fatto re dagli Argivi e acquistò fama di grande sapienza.
Quanto a me, la penso così anche di Bellerofonte. Che egli abbia avuto un cavallo alato non me ne persuado: ma credo che egli, questi studi coltivando, a sublimi cose pensando e con gli astri conversando, in cielo salì non con il cavallo, bensì con la mente. E così dico ancora di Frisso, figliolo di Atamante, che fu portato per aria sopra un ariete d’oro, come si favoleggia. Anche Dedalo ateniese, dirò cosa strana, penso che non fu alieno all’astrologia, anzi vi attese molto e la insegnò a suo figlio. Icaro, poi, giovane e temerario, ricercando ciò che non era permesso e sollevandosi con la mente al cielo, cadde dalla verità, uscì dalla via della ragione e precipitò in un pelago infinito di cose. I Greci ne raccontano altrimenti e da lui chiamano Icario un seno di questo mare.
Frederic Leighton, Dedalo e Icaro. Olio su tela, 1869.
Forse ancora Pasifae, avendo udito Dedalo parlare del toro che risplende tra gli astri, s’innamorò dell’astrologia; perciò credono che Dedalo le fece da mezzano con il toro.
Ci sono ancora quelli che divisero in parti questa scienza e ciascuno di loro ne studiò qualcuna: chi raccolse osservazioni intorno alla Luna, chi intorno a Giove, chi intorno al Sole, chi al loro corso, al loro movimento, alla loro potenza. Endimione ordinò le osservazioni fatte sulla Luna, Fetonte segnò il corso del Sole, ma non esattamente e, lasciando imperfetta la sua opera, si morì. Gli ignoranti di queste cose credono che Fetonte fosse figlio del Sole e narrano di lui una favola incredibile: che egli andò dal Sole, suo padre, e gli chiese di guidare il carro della luce; che quello glielo concesse e gli insegnò a guidare i cavalli; ma che Fetonte, come montò sul carro, giovane e inesperto, ora scendeva presso la Terra, ora si alzava ai celesti; onde che gli uomini per il freddo e per il caldo insopportabile morivano. Infine, che Zeus, sdegnato, con un grande fulmine percosse Fetonte, che cadde e le sorelle gli furono intorno e lo piansero con molto dolore, finché mutarono forma, e ora sono pioppi che piangono sopra di lui lacrime d’ambra. Non fu niente di tutto questo né se ne deve credere niente, né che il Sole abbia mai avuto figli, né che un figlio gli morisse.
Selene e Endimione. Affresco, I sec. a.C. dalla Casa dei Dioscuri (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Raccontano i greci altre favole assai, alle quali io non do troppa fede. E, invero, come si potrebbe credere mai che Enea sia nato da Afrodite, Minosse da Zeus, Ascalafo da Ares, Autolico da Ermes? Ciascuno di loro fu certo caro a un dio e chi nacque sotto l’influenza di Venere, chi di Giove, chi di Marte. Il pianeta dominante, appunto, nella generazione, come fanno i genitori, rende gli uomini a sé somiglianti nel colore, nell’aspetto, nelle opere, nell’animo. Fu re Minosse perché dominava Giove, bello Enea perché così volle Venere, ladro Autolico perché le ladronerie gli vennero da Mercurio. E così Giove non legò Saturno né lo cacciò nel Tartaro né si brigò di tutte quelle cose che gli uomini credono. Ma Saturno gira nell’ultima orbita e più lontana da noi, ha un moto lento e non si vede facilmente dagli uomini, perciò dicono che egli non può muoversi e sta come incatenato. E poi la gran profondità del cielo si chiama Tartaro.
Specialmente in Omero poeta e nei versi di Esiodo si possono vedere antichi riscontri con l’astrologia: così, quando Omero parla della catena di Zeus, dei buoi del Sole, che i credo che siano i giorni, e della città che Efesto fece nello scudo, e del coro e della vigna. E ciò che egli dice di Afrodite e dell’adulterio di Ares, senza dubbio, non l’ha preso da altro che da questa scienza: che l’incontro del pianeta Venere con Marte fece nascere la poetica invenzione d’Omero. Il quale, poi, in altri versi distingue le opere dell’una e dell’altro; di Afrodite dice:
Tu tratti le soavi opere d’amore;
e le opere della guerra:
Stanno a cuore al celere Ares e ad Atena.
In effetti, a ben guardare, gli antichi usavano molto delle divinazioni e non tenevano in poco conto l’astrologia; anzi, non fabbricavano città, né le accerchiavano con mura, né muovevano guerra, né prendevano moglie prima di consultarne gli indovini. né gli oracoli erano per loro senza astrologia. In Delfi profeteggia una vergine, simbolo della vergine celeste: un dragone di sotto al tripode risponde, giacché tra gli astri risplende anche il dragone; e a Didime l’oracolo di Apollo mi pare detto così dai celesti Gemelli. Così sacra cosa parve loro la divinazione! E Odisseo, quando fu stanco del suo lungo errare, volendo sapere qualche certezza dei fatti suoi, discese nell’Orco non per vedere «la gente morta e la region del pianto», ma per parlare con Tiresia. E, dopo che egli venne al luogo che Circe gli aveva indicato ed ebbe scavata la fossa e sgozzate le pecore, essendovi accorse molte ombre desiderose di bere il sangue, fra le quali quella di sua madre, non permise a nessuna, neppure a lei, prima che non ne avesse gustato Tiresia ed egli non lo avesse costretto a dargli l’oracolo: ed ebbe il coraggio di vedere assetata anche l’ombra di sua madre!
Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.
Ai Lacedemoni Licurgo ordinò la cittadinanza secondo la scienza celeste: e promulgò loro una legge che proibiva di uscire in campo innanzi al plenilunio, perché credeva che non avessero eguale potenza la Luna crescente e quella calante e che ogni cosa fosse governata dalla Luna. I soli Arcadi non accettarono questo e spregiarono l’astrologia, dicendo, nella loro stoltezza e ignoranza, che essi sono nati prima della Luna.
Tanto i nostri antichi erano amanti della divinazione! I moderni, al contrario, alcuni dicono essere impossibile agli uomini trovare certezza nella divinazione, perché essa non è credibile né vera; che Giove e Marte non si muovono in cielo per noi, che non si danno un minimo pensiero dei fatti degli uomini, che non hanno nulla a che vedere con noi e che non vogliano mescolarsi con noi, ma stiano per i fatti loro e per loro necessità si volgano nei loro giri; altri non definiscono l’astrologia bugiarda, ma inutile sì, perché non si muta per divinazione il destino delle Moire. Agli uni e agli altri io posso rispondere così. Gli astri nel cielo girano per la loro via, ma accidentalmente nel loro moto hanno un potere sulle cose nostre. Vuoi tu quando un cavallo corre, quando uccelli o uomini si muovono, che le pietre si scuotano, che le paglie siano agitate dal vento cagionato dalla corsa, e non vuoi che il girare degli astri non produca alcun effetto? Da ogni fuocherello viene in noi un’influenza, eppure il fuoco non brucia per noi, e non si cura di noi se abbiamo caldo: e dagli astri non riceviamo noi alcuna influenza? È vero che l’astrologia non può far bene ciò che è male, né mutarne le conseguenze che ne derivano: ma chi la usa, si ha questa utilità; che conoscendo il bene futuro ne gode molto prima e sopporta più agevolmente il male, il quale non venendo all’insaputa, ma preveduto e aspettato, pare più facile e lieve. E questa è la mia opinione intorno all’astrologia.
di I. BIONDI, Callimaco, in Storia e antologia della letteratura greca. 3. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, pp. 155-167.
Callimaco: la voce più significativa della poesia ellenistica
Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.
Callimaco nacque a Cirene, colonia greca di Thera, a nord della Grande Sirte, negli anni fra il 315 e il 310 a.C., da famiglia aristocratica. I suoi si vantavano di discendere dal fondatore stesso della città, un figlio di Polimnesto, il quale aveva mutato il proprio nome, Aristotele, in quello di Batto, che nel dialetto libico locale significava «sovrano». Il padre di Callimaco portava lo stesso nome dell’antico capostipite; e proprio negli anni in cui nacque il poeta, la famiglia godeva di grande fama e prosperità grazie all’appoggio di Ofella, generale del re Tolemeo I, che nel 322 a.C. aveva conquistato Cirene. È probabile che Callimaco abbia trascorso a Cirene gli anni della giovinezza e vi abbia completato la prima fase della propria formazione culturale; verso il 290 o il 285 a.C. (nessuna delle due date è certa!), egli lasciò la città per trasferirsi ad Alessandria, dove, verso il 270 a.C., ebbero inizio la sua vita a corte e la sua attività nella Bibliotheca, destinata a continuare fino alla sua morte.
Il poeta ebbe così a disposizione il materiale raro ed erudito che tanto lo appassionava e che lasciò un’impronta indelebile in tutta la sua produzione; gli anni dal 270 al 245 a.C. furono forse i più fecondi della sua vita. Il poeta continuò a godere del favore di Tolemeo II Filadelfo, che governò l’Egitto fino al 246 a.C. e, in seguito, di Tolemeo III Evergete, sposo di Berenice, figlia di Megas e originaria di Cirene, dalla quale Callimaco ottenne una particolare protezione. In questo periodo (246-245 a.C.) il poeta ebbe modo di conoscere un altro grande intellettuale del suo tempo, Apollonio Rodio, con il quale intrattenne un rapporto assai complesso e, a quanto sembra, anche polemico. La data della scomparsa di Callimaco ci è sconosciuta, ma non dovrebbe essere di molto posteriore al 244 a.C.
Tolomeo III Evergete. Busto, copia romana in marmo da originale ellenistico di III sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La tradizione dei testi
La maggior parte della vastissima opera di Callimaco è andata perduta; degli scritti eruditi rimangono solo pochi frammenti, mentre ci è giunta completa – a parte qualche trascurabile lacuna – la raccolta dei sei Inni (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Per i lavacri di Pallade, A Demetra). Ciò fu dovuto a un anonimo grammatico che li inserì, verso il VI secolo d.C. (o, secondo altri, nel X secolo), in una raccolta che iniziava con gli inni omerici. L’Anthologia Palatina, compilata intorno alla metà dell’XI secolo, ci ha conservato sessantatré epigrammi (cinque derivano da altre fonti), che, pur non rappresentando l’intera produzione callimachea in questo genere, ne sono comunque un significativo esempio. Per gli Aitia, i Giambi, l’Ecale e altri componimenti abbiamo a disposizione un congruo numero di papiri, alcuni dei quali sono posteriori di pochi anni alla morte del poeta, mentre altri giungono fino al VII secolo d.C.
L’opera poetica di Callimaco fu anche oggetto di commenti grammaticali e storici da parte di un valido studioso della poesia ellenistica, Teone di Artemidoro, vissuto sotto il principato di Augusto e di Tiberio. Al suo lavoro si aggiunse, verso la fine del I secolo, quello di Epafrodito; da questi commenti derivano le διηγήσεις («argomenti», «riassunti») delle opere del poeta, contenute nel Papiro Milanese 18, che risale al II secolo. A questa tradizione si affianca quella indiretta, proveniente dagli scritti di dotti bizantini come Areta e Costantino Cefala (entrambi del X secolo) e Michele Choniates (fine del XII secolo), allievo di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, ai quali la produzione poetica callimachea era ben nota. La perdita della tradizione diretta può essere spiegata come conseguenza del bellum Latinum (IV Crociata) e del barbaro saccheggio che devastò Costantinopoli nel 1204, distruggendo l’esemplare o i pochi esemplari delle opere del poeta fino ad allora sopravvissuti.
P. Oxy. XI, 1362 (II sec.). Pagina manoscritta del fr. 178 Pf. dagli Aitia di Callimaco.
Opere di erudizione e di critica
Il vastissimo insieme delle opere erudite di Callimaco, andato quasi completamente perduto, può essere in parte ricostruito nelle linee e nei contenuti essenziali attraverso l’elenco dei titoli, tramandatoci dal lessico Suda. Possiamo così distinguere un gruppo di opere a carattere geografico (Sui fiumi dell’Europa, Sui fiumi dell’ecumene), forse ricollegabili con la polemica che divise Callimaco e Apollonio Rodio a proposito dell’itinerario seguito dagli Argonauti nel loro viaggio di ritorno. Una paradossografia, il primo testo di questo genere giunto fino a noi, che contiene la descrizione delle «cose strane e meravigliose» (παράδοξα καί θαυμάσια) del Peloponneso, dell’Italia e di tutta la terra. Un gruppo di opere di interesse naturalistico, che però rivela anche intenti nomenclatorii e storici (Sugli uccelli, Sui venti, Sui nomi dei mesi per popoli e per città, Sulla fondazione di isole e città). In un ambito più strettamente letterario, la massima testimonianza dell’erudizione di Callimaco furono i Pinakes (πίνακες τῶν ἐν πάσῃ παιδείᾳ διαλαμψάντων καὶ ὧν συνέγραψαν, «registri» o «tavole di tutti coloro che si distinsero in ogni settore della cultura e di ciò che scrissero»), una monumentale bibliografia ragionata, a carattere enciclopedico, di tutti i principali scrittori in lingua greca, suddivisa in vari settori, a seconda del genere. Nell’ambito delle varie sezioni, che erano almeno dieci (lirica, tragedia, filosofia, ecc.), gli autori erano catalogati in ordine alfabetico; ogni nome era accompagnato da una sintetica biografia (ampliata in seguito da Ermippo di Smirne), seguita dai titoli delle opere, corredati, quando era possibile, dall’incipit di ciascun testo. Allo stesso genere apparteneva anche un’altra opera, una «lista» (ἀναγραφή) di tutti i poeti drammatici, disposti in ordine cronologico, che si fondava forse su un analogo lavoro di Aristotele, le Didascalie. Tutti questi scritti, frutto delle ricerche di Callimaco nella Biblioteca di Alessandria, contribuirono a conferire anche alla sua poesia un carattere di straordinaria preziosità culturale e formale, che sarebbe poi divenuto elemento peculiare dell’intera letteratura ellenistica.
Gli Aitia: struttura e contenuti
I quattro libri degli Aitia, l’opera principale di Callimaco, rappresentano anche la testimonianza più completa e significativa della sua poesia e della sua poetica, che, nei secoli successivi, avrebbe avuto vasta risonanza nella letteratura latina. L’opera comprende un numero notevole di componimenti in distici elegiaci (finora ne sono stati identificati una quarantina), nei quali si narrano le «cause» (αἴτια) di miti, riti sacri, festività, eventi storici o ritenuti tali, appartenenti alla cultura del mondo ellenico o, più genericamente, a quella dell’area mediterranea. Quasi certamente, i due libri inziali furono composti in periodi diversi dal III e dal IV, che presentano differenti caratteristiche e sembrano perciò appartenere alla fase più matura, o addirittura tarda, della produzione di Callimaco.
Il I libro, dopo un’elegia autobiografica a carattere introduttivo (Elegia contro i Telchini), in cui Callimaco espone i punti chiave della sua poetica, contiene la descrizione dell’incontro del poeta con le Muse e il racconto di una di esse, Clio, su riti sacrificali in uso a Paro e sulla nascita delle Cariti. Trattando poi dei sacrifici in onore di Apollo, che si celebravano ad Anafe, un’isola del Mare Cretico, Callimaco vi inserisce una breve digressione, dedicata al viaggio degli Argonauti, di ritorno dalla Colchide a Iolco. La narrazione diverge in modo significativo da quella di Apollonio Rodio (Argonautiche IV); e non è escluso che proprio da ciò abbia avuto origine la polemica fra i due, di cui parlano le fonti antiche (se pure ci fu veramente). In seguito, Callimaco paragona i riti di Anafe a quelli di Lindos in onore di Eracle. Anche in questo caso, Apollonio Rodio (Argonautiche I, 1218-1220) appare in disaccordo con Callimaco nel descrivere il personaggio di Eracle; il poeta di Cirene, tuttavia, riconfermò in seguito le proprie scelte nell’Inno ad Artemide (vv. 159-161). Sempre nel I libro, Callimaco descrive anche la storia di Lino e Corebo, un mito poco noto di origine argiva, l’origine del culto di Diana Leucadia, quella dell’offerta espiatoria ad Aiace e gli avvenimenti connessi con la fondazione di Mallos, antichissima città della Cilicia.
Clio. Mosaico delle Nove Muse (dettaglio). Rodi, Palazzo dei Gran Maestri di Rodi.
Il contenuto del II libro, a causa della perdita delle διηγήσεις, i brevi «riassunti» delle varie composizioni in esso raccolte, ci è meno noto; esso comprendeva, in una successione che non conosciamo, le elegie sulla fondazione di alcune città della Sicilia, la storia di Busiride, il crudele re egizio ucciso da Eracle, e quella di Falaride, tiranno di Agrigento.
Il III libro, nella sistemazione definitiva, si apriva con l’Epinicio per Berenice, in cui era esposto l’αἴτιον dell’istituzione dei Giochi Nemei da parte di Eracle, che confermava la volontà di Callimaco di trattare l’impresa dell’eroe in toni diversi dall’epos. Seguivano poi gli αἴτια delle Tesmoforie, feste in onore di Demetra, quelli riguardanti il sepolcro di Simonide, e i miti delle fonti di Argo, dell’ospite di Isindo, di Artemide Ilitia, di Frigio e di Euticle di Rodi.
Il IV libro, che iniziava con un’invocazione del poeta alle Muse, comprendeva una serie di sedici αἴτια, di cui non ci è giunto quasi altro che l’incipit. L’ultimo di essi trattava un episodio del mito argonautico; in questo modo, l’intera opera si chiudeva con una struttura ad anello, riallacciandosi al già ricordato episodio del I libro. In seguito, però, probabilmente nello stesso periodo in cui inserì all’inizio degli Aitia l’Elegia contro i Telchini e all’inizio del III libro l’Epinicio per Berenice, Callimaco pose a chiusura dell’opera la Chioma di Berenice, che pure aveva avuto una tradizione autonoma come elegia celebrativa.
Un certo numero di frammenti, quasi tutti brevi e non sempre ben leggibili, come pure l’αἴτιον sul culto di Peleo e quello sugli Iperborei, non hanno ancora trovato sistemazione definitiva all’interno dell’opera.
La struttura di base degli Aitia sembra essere un colloquio del poeta con le Muse; egli, infatti, racconta di essere stato trasportato in sogno in Beozia, sul monte Elicona, là dove un tempo Esiodo, intento a pascolare il suo gregge, aveva incontrato anch’egli le Muse (Teogonia, vv. 22 sgg.). Qui il giovane Callimaco avrebbe conversato con le dee presso la fonte Castalia, interrogandole sui più svariati argomenti e facendo tesoro delle risposte ottenute dalle figlie di Zeus, divine depositarie di ogni memoria. Il motivo del sogno, esplicito riferimento all’opera esiodea, ebbe poi fortuna anche nella letteratura latina, tanto che fu ripreso da Ennio nei proemi del I e del VII libro degli Annales.
Accanto all’espediente narratologico del colloquio con le Muse, ben evidente nel I e del II libro, compaiono però altri accorgimenti per introdurre nuovi temi: una diretta apostrofe al protagonista dell’αἴτιον, accompagnata da un invito al racconto; un dialogo a domanda e risposta, tecnica che forse compare qui per la prima volta in un’opera in versi; una conversazione fra amici a simposio; il monologo di un oggetto che racconta la propria storia, come accade anche nella tradizione epigrammatica. Infine, soprattutto nel III e nel IV libro, il poeta sembra abbandonare ogni preoccupazione di organicità narrativa e si limita a una semplice giustapposizione degli episodi, come accade con l’Epinicio per Berenice, che apre il III libro, e con la Chioma di Berenice, che conclude il IV.
Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.
La Chioma di Berenice, forse la più nota fra le composizioni di Callimaco, ci è giunta solo parzialmente nell’originale greco; possiamo disporre però della sua “versione” latina, composta da Catullo (Carmen LXVI) in distici elegiaci e tradotta nel 1803 da Ugo Foscolo. Lo spunto per la Chioma fu offerto a Callimaco da un evento accaduto poco dopo l’ascesa al trono di Tolemeo III Evergete, nel 244: appena assunto il potere, il sovrano dovette abbandonare l’Egitto per prendere parte a una campagna militare in Siria. In quell’occasione la sposa del re, Berenice, appartenente alla casa regale di Cirene, fece voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua bellissima chioma, se il marito fosse tornato sano e salvo. Così, al rientro di Tolemeo, la regina mantenne la promessa e offrì i suoi capelli nel tempio di Arsinoe-Afrodite. Tuttavia, dopo qualche tempo, la chioma recisa della donna scomparve dal santuario e l’astronomo di corte, Conone, credette di identificarla in un nuovo gruppo di stelle da lui osservato, a cui diede appunto il nome di “Chioma di Berenice”. In questo modo, egli intendeva significare che gli dèi avevano voluto compensare, oltre all’amore coniugale, anche la pietas religiosa della regina, con il καταστερισμός (la «trasformazione in astro») dei suoi riccioli. Nella composizione di Callimaco è la chioma stessa a parlare, fiera dell’onore accordatole dagli dèi, ma anche rattristata per essere stata per sempre separata dal capo regale di Berenice. La bella sposa di Tolemeo era infatti solita prendersi grande cura dei suoi capelli, cospargendoli di preziosi profumi; ma come avrebbero potuto opporsi, le morbide ciocche della regina, al taglio crudele del ferro?
τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ’ οὔρεα τοῖα σιδή[ρῳ
εἴκουσιν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος,
γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφηναν
50 πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφρασαν ἐργασίην.
ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεσκον ἀδε[λφεαί,
καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος
ἵετο κυκλώσας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης,
ἵππο[ς] ἰοζώνου Λοκρίδος Ἀρσινόης,
55 ἤ[λ]ασε δὲ πνοιῇ με, δι’ ἠέρα δ’ ὑγρὸν ἐνείκας
Κύπρ]ιδος εἰς κόλπους ἔθηκε
Cosa faremo noi trecce, se monti sì grandi cedono
al ferro? Possa perire la stirpe dei Càlibi,
che, mala pianta, sorgente da terra, lo rivelarono
50 per primi, e mostrarono l’arte dei magli!
Da poco, recisa di fresco, mi rimpiangevan le chiome sorelle,
ed ecco il fratello di Memnone l’Etiope
si slanciava ruotando le ali screziate, vento ferace,
destriero della Locride Arsinoe, cinta di viole:
55 con il soffio mi [spinse], e, portandomi per l’umido aere,
Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice). Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.
La raffinata eleganza del brano citato, la grazia gentile dell’omaggio che non ha niente di ostentato né di servile, la preziosità dei riferimenti eruditi (il vento leggero «fratello di Memnone l’Etiope» è Zefiro, i «monti sì grandi» sono i massicci dell’Athos, attraverso cui Serse fece scavare un canale, per permettere il passaggio alla sua flotta da guerra, nel 480 a.C.) ci offrono un’eloquente testimonianza dello stile di Callimaco e di quella poetica alla quale egli rimase fedele per tutta la vita, a noi nota attraverso i numerosi accenni presenti in varie opere. Da questo punto di vista, ci appare particolarmente significativa l’elegia autobiografica che Callimaco, ormai vecchio, premise, in forma di prologo, al I libro degli Aitia. In essa il poeta respinge le critiche che sono state mosse alla sua arte, bollando gli avversari con il nome di “Telchini”, i maligni demoni figli di Ponto, il mare, e di Gea, la terra, il cui sguardo era carico di un potere malefico, che furono fulminati da Zeus per aver cercato di rendere sterile l’isola di Rodi, bagnandola con l’acqua infernale dello Stige.
Callimaco si difende dalle accuse dei suoi avversari, che gli rinfacciano, per velenosa invidia di non essere mai stato capace di affrontare composizioni poetiche veramente impegnative, ma di essersi limitato a “giocare” con i versi, come un ragazzo, benché la sua età sia ormai più che matura. Ma egli può addurre a suo sostegno la più autorevole delle testimonianze, quella del dio stesso della poesia, che gli è stato prodigo di consigli fin dal momento in cui il poeta si accinse per la prima volta a scrivere, dopo aver appoggiato la tavoletta sulle ginocchia. Il particolare non è privo di importanza; infatti, al poema di vasto respiro, non sostenuto da un’adeguata cura formale e destinato all’ascolto, si sostituisce la composizione di breve dimensione, perfetta nel suo nitore, destinata alla lettura e al giudizio di un pubblico scelto per sensibilità e cultura; doctus non meno dell’autore, come lo definiranno i poeti latini che, a partire da Catullo, assimilarono a fondo la lezione di Callimaco. Quest’ultimo ribadì i concetti-base della sua poetica anche in altre opere; leggiamo, ad esempio, l’epigramma XXVIII:
ἐχθαίρω τὸ ποίημα τὸ κυκλικόν, οὐδὲ κελεύθωι
χαίρω τίς πολλοὺς ὧδε καὶ ὧδε φέρει,
μισέω καὶ περίφοιτον ἐρώμενον, οὐδ᾽ ἀπὸ κρήνης
πίνω· σικχαίνω πάντα τὰ δημόσια.
Odio il poema ciclico, né una strada
mi piace che molti porti qui e lì.
Non sopporto un amante vagabondo, né dalla pubblica fonte
La metafora della κρήνη, la «fontana pubblica», richiama, per contrasto, un’altra immagine: quella della sorgente purissima, limpida e remota, che la massa non può contaminare:
105 L’Invidia furtiva all’orecchio disse ad Apollo:
«Non apprezzo il poeta che non canta neanche quanto il mare».
Apollo l’Invidia col piede scacciò, e disse così:
«Grande è il flutto del mare d’Assiria, ma spesso
sozzure di terra e molto fango sull’acqua trascina.
110 Ma a Deò non da ogni dove recano acqua le api,
ma quella che pura e incontaminata zampilla
da sacra sorgiva, piccola stilla, è l’offerta migliore»[3].
Il tono deciso dei testi fin qui citati testimonia assai bene l’asprezza della polemica che divideva i letterati di Alessandria e che li spingeva a un dissidio intellettuale senza esclusione di colpi. Un ulteriore documento di questo acceso scontro fra eruditi proviene da un commento antico al prologo degli Aitia, in cui si elencano addirittura i nomi di alcuni dei personaggi contro cui erano diretti gli strali di Callimaco; e probabilmente anche l’Ibis, un poemetto andato perduto, notissimo ai poeti romani e soprattutto a Ovidio, che forse lo ebbe come modello per la sua omonima composizione, altro non era che un virulento attacco contro Apollonio Rodio. Tale almeno era l’opinione comune dei grammatici antichi, che però non siamo in grado di verificare, a causa delle scarsissime notizie in nostro possesso.
Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco (dettaglio), 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.
Ma l’atteggiamento polemico di Callimaco non riguardava solamente l’accurato labor limae formale, da lui ritenuto indispensabile e che non sarebbe stato possibile in scritti di vasta mole; l’erudizione e la novità dovevano risaltare con brillante evidenza nella scelta, oltre che nella trattazione dei contenuti. È questa la «fonte intatta», il «sentiero non calpestato da alcuno» a cui il poeta allude più volte, per sottolineare l’originalità delle sue composizioni. In quest’ottica, egli affrontò spesso l’arduo compito di superare e di rovesciare tradizioni poetiche ormai ben consolidate e rese insigni da grandi nomi, compreso quello di Omero, utilizzando la tecnica dell’oppositio in imitando, tanto ardita quanto geniale. Ne abbiamo un esempio nell’Epinicio per Berenice, che ci è giunto grazie a due diversi ritrovamenti papiracei, pubblicati uno nel 1941 e l’altro nel 1977. Il tono generale della lirica ricorda Pindaro, un autore con cui Callimaco condivideva sia l’alto concetto di sé che quello dell’originalità della propria arte; inoltre, il poeta tebano aveva anche esaltato, nella Pitica IV, il trionfo di Arcesilao, un sovrano che aveva svolto un ruolo preminente nell’antica storia di Cirene, patria amatissima di Callimaco.
Il nucleo centrale dell’epinicio callimacheo trattava il mito di fondazione dei giochi Nemei da parte di Eracle. Ma il poeta si rifiutò di celebrare la parte più nota della vicenda, l’uccisione del leone, figlio di Ortro e di Echidna, che l’eroe dovette strangolare con le mani nude, perché la terribile belva era invulnerabile. Secondo il suo gusto, Callimaco rifuggì dai toni epici e si soffermò invece a descrivere il soggiorno di Eracle presso Molorco, l’umile campagnolo che avrebbe voluto sacrificare il suo unico montone per onorare degnamente l’ospite; e frugando con sguardo attento e curioso nelle zone più inesplorate di un’illustre tradizione (l’accoglienza di Molorco a Eracle ha il suo archetipo in quella di Eumeo a Odisseo, nel XIV libro dell’Odissea), il poeta celebrò, insieme all’αἴτιον delle solennità panelleniche, anche l’ingegnosa abilità con cui il pastore costruiva le trappole per i topi, flagello delle sue magre provviste.
Leone. Statua, marmo bianco pario, 400-390 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
Allo stesso modo, nel III libro degli Aitia, Callimaco si accinse a narrare la storia dell’antico e nobile γένος degli Acontiadi, collegato alle più remote vicende della città di Iuli, nell’isola di Ceo. Ben presto, però, la fantasia del poeta fu attratta, più che da una ricostruzione erudita, ma forse un po’ arida, dal piacere di raccontare una bella e drammatica storia d’amore, coronata, dopo molte peripezie, dall’immancabile lieto fine: la vicenda di Acontio e Cidippe.
La favola gentile fu trattata da Callimaco con la consueta originalità. Egli non si dedicò tanto a un preciso racconto dei fatti, quanto alla descrizione di ciò che più attraeva la sua fantasia: la straordinaria bellezza dei due protagonisti, la passione immediata e profonda di Acontio, la malattia oscura e crudele di Cidippe, la gioia del sogno d’amore finalmente coronato. A conclusione del racconto, il poeta, desideroso di garantirne ai suoi lettori la veridicità, citò anche la sua fonte, l’opera di Xenomede, uno studioso del V secolo a.C., autore di una storia locale dell’isola di Ceo; in questo modo, Callimaco volle dare risalto non solo alla sua capacità creativa, ma anche alla sua attenta fatica di ricercatore erudito, evidente, per altro, in ogni momento della narrazione.
I Giambi
Sotto questo titolo sono raccolti tredici componimenti in dialetto ionico, caratterizzato da alcuni dorismi, nei quali Callimaco sperimentò vari tipi di versi giambici. Il contenuto e le occasioni delle singole liriche sono assai vari e anche la cronologia non è sempre ben determinabile. Tuttavia, la raccolta trova un motivo di unità nella sua struttura ad anello, poiché la prima e l’ultima composizione hanno come protagonista Ipponatte e sono scritte in giambi scazonti (coliambi), il metro di cui l’antico giambografo del VI secolo fu ritenuto inventore. Nel giambo I, Callimaco immagina infatti che Ipponatte, ritornato dal regno dei morti, perduto ormai interesse alla «guerra» contro Bupalo, il suo odiato avversario, si rivolga ai letterati del Serapeo, perennemente in discordia fra loro, per esortarli alla modestia e alla concordia, con l’edificante storia della coppa di Baticle. Costui, uomo di grandi ricchezze, in punto di morte consegnò al proprio figlio Anfalce una coppa d’oro con l’incarico di consegnarla al più saggio fra i sette sapienti. Il giovane offrì allora il prezioso oggetto a Talete, che, però, lo mandò a Biante, ritenendolo più meritevole. Biante, a sua volta, ne fece dono a Periandro e così via, finché l’ultimo, Cleobulo di Lindos, restituì la coppa a Talete, che la consacrò ad Apollo Didimeo. In questo modo, ciascuno dei sette diede prova di un’umiltà e di un senso della misura che sembrano essere scomparse del tutto dal cuore dei letterati moderni, perennemente rosi dall’orgoglio e dall’invidia.
Anche il giambo II, che ha forma di favola esopica, affronta il tema della polemica letteraria. In esso si narra che un tempo anche gli animali avevano avuto da Zeus il dono della favella; ma poiché ne abusarono con sfacciata petulanza, il dio, irritato, li rese muti e aggiunse le loro voci a quelle che gli uomini già possedevano; per questo motivo Filtone si esprime come un cane ed Eudemo come un asino. Purtroppo, la mancanza di più ampie notizie su questi due personaggi ci impedisce di appurare con certezza la loro identità e di comprendere a fondo il senso dell’ironia di Callimaco.
Banchetto sul fiume. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
Il giambo III ha carattere morale e contiene un’aspra critica contro la corruzione dei tempi e degli uomini, che preferiscono il denaro alla virtù; di carattere analogo è il giambo V, in cui si rimprovera il comportamento scorretto e violento di un maestro di scuola nei confronti dei suoi allievi.
Il giambo IV riprendeva un tema antichissimo, quello della contesa fra piante. Un esempio di questo tipo di favola compare già nella letteratura assiro-babilonese: ne sono protagonisti la palma e il tamerisco, che, in un vivace battibecco, esaltano ciascuno le proprie qualità. In Callimaco, che afferma di narrare una favola lidia, i contendenti sono l’alloro e l’olivo, che rivendicano ciascuno per sé il primato assoluto; la parte finale del componimento, gravemente mutila, ci impedisce di comprenderne la conclusione.
Da quanto si è detto fin qui, appare evidente come, al di là della forma metrica, la poesia giambica di Callimaco abbia assai poco in comune con l’antico carattere di questo genere letterario; un’ulteriore testimonianza ci viene fornita dagli altri componimenti della raccolta, in cui il poeta trattò argomenti del tutto estranei al giambo tradizionale.
Il giambo VI, ad esempio, è una descrizione (ἔκφρασις) della statua crisoelefantina di Zeus Olimpio, opera di Fidia; i giambi VII, VIII, X e XI hanno invece carattere eziologico: nel VII, la statua stessa di Hermes illustrava una forma particolare del culto del dio, onorato in Tracia con l’appellativo di Perpheraios; nell’VIII si spiegava l’origine di una gara di corsa, attribuendone l’istituzione agli Argonauti; il X narrava le vicende dell’eroe Mopso, per spiegare il motivo per cui, in Panfilia, Afrodite veniva onorata con il sacrificio di un cinghiale. Il rito, infatti, traeva origine dalla promessa fatta da Mopso di offrire alla dea il primo animale che avrebbe ucciso a caccia. Nell’XI, Callimaco ricostruiva l’αἴτιον di un’espressione proverbiale.
Il giambo IX riprende i temi moraleggianti del III e del V, mentre nel XII, classificabile come poesia d’occasione, Callimaco, per festeggiare la bambina dell’amico Leonte, giunta al suo settimo giorno di vita, descrive i doni offerti dagli dèi alla piccola Ebe, la dea della giovinezza, figlia di Era e di Zeus, nella stessa circostanza. Particolarmente significativo è quello di Apollo: il dio della musica e della poesia compone infatti un canto in onore della fanciulla, sicuro che il trascorrere del tempo distruggerà i doni di tutti gli altri dèi, ma non il suo, che è il più bello perché è destinato a durare per sempre. Con queste parole, Callimaco riprende il tema dell’eternità della poesia, già trattato dai lirici del VI secolo (da Saffo, soprattutto), che passerà poi, con largo successo, nella letteratura latina: il celebre incipit oraziano Exegi monumentum aere perennius (Odi III 30) ne è forse l’esempio più noto.
Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.
Questa varietà di contenuti, in contrasto con le consuetudini ormai consolidate, dovette attirare qualche critica a Callimaco da parte di altri letterati, che avrebbero preferito una più tradizionale unità di argomenti. Ce lo dimostra il giambo XIII, in cui il poeta si difese dall’accusa di πολυείδεια, presentando l’«eterogeneità» dei temi come un pregio e non come un difetto e confermandone la legittimità con l’esempio di Ione di Chio, un versatile poeta amico di Sofocle, vissuto fra il 490 e il 421 a.C., autore di tragedie, ma anche di componimenti epici, elegiaci, lirici e filosofici. Come abbiamo già detto, nel giambo XIII, l’ultimo della raccolta, compariva di nuovo il personaggio di Ipponatte; ma le lacune del testo ci impediscono di comprenderne con chiarezza il motivo e la funzione. Con questa sua produzione, Callimaco iniziò un nuovo genere letterario, detto σπουδογέλοιον, «seriocomico»; la critica moderna lo ha giudicato assai significativo, non solo perché ci offre un’ulteriore dimostrazione del multiforme ingegno del poeta, ma anche perché esso ebbe una notevole risonanza nella letteratura latina. Infatti, nonostante l’affermazione di Quintilianosatura…tota nostra est (Institutio oratoria X 1, 93), si è ormai giunti alla convinzione che Callimaco abbia contribuito, insieme ai giambografi del VI secolo a.C. e alla commedia antica, a offrire temi e modelli alla poesia satirica latina e al genere letterario della satura, che da lui assimilò il carattere composito dei contenuti e la tendenza a esprimere concetti di elevata e perfino severa moralità con piglio disinvolto e faceto.
Serapide. Tavola, affresco, II-III sec. d.C. dall’Egitto.
Le poesie liriche
Callimaco compose anche un certo numero di poesie liriche, in cui compaiono, ancor più accentuate, quelle caratteristiche di raffinatezza formale e di ricercata varietà del metro che già si notano nella produzione giambica. A quanto pare, egli non le raccolse in un corpus a parte, distinto dalle altre opere; perciò, nel volumen che servì a un ignoto grammatico del I secolo come fonte per le διηγήσεις del Papiro Milanese 18, queste liriche sono inserite dopo gli Aitia e i Giambi.
La prima di esse era composta in endecasillabi faleci, il metro che diverrà così caro a Catullo; ne rimangono soltanto l’incipit e l’argomento, dal quale si può comprendere che il poeta cantava la storia delle donne dell’isola di Lemno, assassine dei loro uomini.
La seconda lirica era intitolata Παννυχίς, «festa notturna», ed era composta in un metro asinarteto spesso usato da Euripide, formato da un dimetro giambico unito a un verso itifallico; l’argomento ci informa che, nella parte centrale, il carme trattava le vicende dei Dioscuri e di Elena.
La terza composizione, della quale rimangono interi poco più di venti versi, era la già ricordata Apoteosi di Arsinoe, scritta poco dopo la morte della sposa di Tolemeo II Filadelfo, avvenuta nel 270 a.C. In essa il poeta dava ancora una volta prova di rara erudizione, usando un metro anapestico piuttosto inconsueto, l’archebuleo; il contenuto era caratterizzato da toni alti e patetici, soprattutto nella descrizione del lutto che aveva colpito le città d’Egitto per la morte della regina.
Arsinoe II con le fattezze di Iside-Selene. Busto, marmo, III secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Nel quarto carme, di cui restano circa dieci versi, in pentametri coriambici catalettici, Callimaco cantava il mito di Branco, un bellissimo pastorello di Mileto amato da Apollo, che aveva avuto dal dio il dono della profezia, trasmesso poi a tutti i suoi discendenti, la casta sacerdotale dei Branchidi.
A questi quattro componimenti lirici se ne possono aggiungere alcuni altri, di varia estensione, dei quali è rimasta traccia nei reperti papiracei e nella tradizione indiretta. Uno di essi, intitolato Γραφεῖον («Lo stilo», con cui si incidevano le parole sulla superficie cerata delle tavolette), era composto in distici elegiaci e, a quanto ci è dato sapere, trattava dello stile pungente e aggressivo della poesia satirica di Archiloco.
Berenice II. Alessandria d’Egitto, post 241 a.C. ca. Emidramma, AV 2, 13 g. Obverso: ΒΕΡΕΝΙΚΗΣ-ΒΑΣΙΛΙΣΣΗΣ, cornucopia, diadema e stella (simbolo dei Dioscuri).
L’Ecale
Questo poemetto in esametri è la prima testimonianza sicura di un nuovo genere letterario, l’epillio (ἐπύλλιον). Prima di Callimaco, il termine fu usato da Aristofane con il valore di «piccolo verso» e, in seguito, dal retore Ateneo, nel III secolo d.C., con il significato di «poemetto epico» di breve lunghezza, in cui predominano aspetti descrittivi o contenuti amorosi, piuttosto che storie di dèi e di eroi. Con questo tipo di composizione, Callimaco volle dimostrare la possibilità di una poesia diversa e più adatta ai mutati gusti del pubblico, scegliendo un argomento poco noto e sviluppandolo con grande perizia formale, oltre che con la consueta originalità e autonomia dalla tradizione. Il poemetto, che in origine doveva constare di un migliaio di versi (forse anche meno), ci è noto attraverso numerosi frammenti di varia estensione e attraverso le διηγήσεις del già citato Papiro Milanese 18. In esso Callimaco raccontava un’impresa di Teseo, la cattura del Toro di Maratona.
Sfuggito alle insidie di Medea, la terribile maga della Colchide divenuta moglie di Egeo, allora re di Atene, Teseo era tenuto sotto strettissima sorveglianza dal genitore, che temeva per la sua vita. L’eroe, però, eluso il controllo del padre, si mise in viaggio per affrontare il Toro di Maratona, un animale gigantesco e feroce che desolava la regione. Sorpreso dalla sera e da un violento temporale, Teseo fu costretto a chiedere ospitalità in un casolare, appartenente a una vecchia contadina, Ecale. Ella accolse cortesemente l’eroe e lo ricolmò di affettuose premure, offrendogli il meglio delle sue povere provviste. Dopo aver trascorso la notte in piacevole conversazione, l’eroe ripartì al sorgere dell’alba. In seguito, catturato e domato il terribile toro, Teseo ritornò dalla sua ospite per ringraziarla e per rassicurarla sul felice esito dell’impresa. Purtroppo, Ecale nel frattempo era morta; a Teseo, addolorato per la sua scomparsa, non restò che onorarne la memoria dando alla località il nome di Ecale e fondandovi un tempio dedicato a Zeus Ecalesio, con una festività annuale, in cui aveva luogo una gara di corsa.
Il poemetto, che ha carattere eziologico, testimonia l’erudizione di Callimaco non solo nella scelta dell’argomento, ma anche nei sottili collegamenti che legano il mito di Teseo a quello di Eracle, trattato nell’Epinicio per Berenice. Sappiamo infatti che per gli antichi le due figure di Eracle, di origine dorica, e di Teseo, l’eroe attico per antonomasia, erano contrapposte e complementari, come dimostra anche il fatto che si dicessero l’uno nato da Zeus, il dio del cielo, e l’altro da Poseidone, il signore del mare. Fra le fatiche di Eracle è compresa la cattura del toro di Creta; ma l’animale, una volta raggiunta l’Ellade, sfuggì all’eroe o fu liberato da lui, trovando dimora nelle campagne di Maratona, dove poi fu nuovamente catturato, questa volta da Teseo. Inoltre, il racconto dell’ospitalità offerta a Eracle da Molorco, che rappresenta una digressione descrittiva nella struttura dell’epinicio, appare molto simile, come intenti e come toni, al brano dell’epillio in cui Callimaco si sofferma a descrivere il povero casolare di Ecale, i vari utensili domestici, i rustici ma gustosi cibi da lei imbanditi all’eroe; un mondo semplice e sereno, contemplato con nostalgia dal cittadino di una grande e raffinata metropoli, che però rimpiange talvolta un genere di vita duro e povero, ma di più umana misura.
La “Vecchia mercantessa” (Old Market Woman). Dettaglio del volto. Statua, copia romana di età Giulio-Claudia da originale ellenistico di II sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Oltre all’Ecale, Callimaco aveva composto anche un altro epillio in esametri, la Galatea, di cui restano un frammento e la διήγησις. In esso, il poeta narrava il mito della Nereide Galatea e di suo figlio Galato, capostipite del popolo dei Galati, gli stessi che, nel 278 a.C., si spinsero fino all’Ellesponto, con un’impresa che colpì vivamente i contemporanei e che avrebbe potuto fornire al poeta lo spunto per la sua opera. Se così fosse, la Galatea sarebbe da considerare una delle opere giovanili di Callimaco.
Gli Inni
Dell’opera di Callimaco fanno parte anche sei inni, di varia estensione, metro e lingua; i primi quattro, infatti, furono composti in esametri e in dialetto epico ionico; il quinto è in distici elegiaci, con una coloritura dorica di carattere spiccatamente letterario, che richiama assai da vicino il linguaggio di un altro grande poeta ellenistico, Teocrito. Callimaco si servì dello stesso dialetto anche nell’ultimo inno, che, però, è in esametri. Tali deviazioni dagli aspetti tradizionali del genere non devono però stupirci, perché non fanno altro che confermare un carattere della poetica callimachea, la πολυείδεια, a cui abbiamo prima accennato. Gli Inni devono essere considerati composizioni letterarie, non cultuali; e se anche alcuni di essi, come il primo, il terzo e il quarto, conservano un’impostazione che richiama l’innografia omerica, essi furono destinati certo alla recitazione, forse in ambiente simposiale. Ciò si può dedurre dalla struttura del secondo, del quinto e del sesto, che hanno carattere espositivo, con un narratore che si rivolge al pubblico, durante lo svolgimento di un rito. Questa particolarità ha indotto alcuni studiosi a stabilire un raffronto con Teocrito, tentando di ricavarne anche delle indicazioni per la datazione, che si rivela però un problema piuttosto difficile. È certo infatti che gli Inni vennero composti in un arco di tempo assai lungo; elementi interni ad essi ci permettono di stabilire che il più antico è l’inno A Zeus, databile forse fra il 283 e il 280 a.C., mentre il più tardo è quello Ad Apollo, che potrebbe risalire al periodo fra il 258 e il 247 a.C. Un accenno all’invasione dei Galati (274 a.C.) e all’apoteosi di Tolemeo Filadelfo, scomparso nel 246, ci sono utili per datare l’inno A Delo; per gli altri tre, purtroppo, non abbiamo indicazioni sufficienti.
Il contenuto degli Inni presenta un’evidente fusione di antico e di nuovo; insieme a tracce della remota tradizione rapsodica compaiono aspetti tipici della cultura ellenistica: alla celebrazione degli dèi si affianca quella del sovrano, considerato come il protagonista di sfarzose cerimonie di gusto più orientale che greco; il mondo divino è descritto con una certa vena umoristica, che ha dei precedenti in Omero (Odissea VIII 266 sgg.), come il racconto boccaccesco ante litteram degli amori di Ares e Afrodite, sorpresi da Efeso, imprigionati in una rete ed esposti al ludibrio degli altri dèi. Ma in Callimaco compare anche il gusto per la descrizione precisa e concreta, per il particolare prezioso o quotidiano, assolutamente assente nella tradizione più antica; di conseguenza, la vita degli dèi si colora, nei versi nel nostro poeta, di toni molto più umani e “borghesi”, mentre sarebbe inutile cercarvi sentimenti di autentica religiosità, ormai estranei al mondo alessandrino.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Recto: Testa diademata e barbata di Zeus-Ammone, voltata a destra.
L’inno I, A Zeus, sembra riprendere, all’inizio, schemi tradizionali, narrando la nascita e l’infanzia di Zeus con forme e linguaggio di stampo epico, a cui si unisce però la tendenza a digressioni descrittive del tutto nuove. Così, quando il poeta racconta come Rea, dopo aver partorito Zeus, cercasse invano dell’acqua per purificarsi e per lavare il neonato, la sua attenzione si sofferma a lungo, con erudizione, ma anche con vivo realismo, sull’arido paesaggio dell’Arcadia, che non ha ancora ricevuto dal grembo di Gea il dono delle acque. Prima che Rea colpisca con lo scettro il fianco sassoso del monte, per farne scaturire le impetuose fiumane prigioniere nelle viscere della terra, l’occhio del poeta coglie tutti i particolari dell’ambiente desolato dalla calura: i lecci dalle chiome disseccate dalla siccità, i segni lasciati dalle ruote dei carri nella polvere delle vie, le petraie assolate popolate di serpi, il viandante sitibondo che cerca ansiosamente un filo d’acqua, ignorando che, sotto i suoi piedi, nel seno profondo della terra, ne scorrono rapinosi torrenti. La dimensione temporale del racconto è quella arcaica del mito; ma la descrizione del paesaggio prende spunto da un’esperienza concreta, che ci richiama alla mente l’ardente estate mediterranea già descritta da Esiodo e da Alceo. Ma l’infanzia di Zeus, allattato dalla capra Amaltea e affidato da Rea alle Ninfe, fu di breve durata; divenuto precocemente adulto, il giovane dio spartì con giustizia il potere con i suoi fratelli maggiori e assegnò a tutti gli altri dèi il controllo sulle attività umane, riservando per sé solo il compito di proteggere i re, «perché non c’è niente di più divino dei sovrani, stirpe di Zeus» (Inni I, 79-80). A questo punto, all’esaltazione della potenza di Zeus si ricollega l’omaggio a Tolemeo Filadelfo, esempio terreno di regalità, che il dio supremo ha voluto subito mettere alla prova, per saggiarne le capacità. Quest’allusione, prima di qualunque tono servile o bassamente adulatorio, permette di datare l’inno con una certa sicurezza al 283 o al 282 a.C., quando Tolemeo, appena salito al trono, dovette fronteggiare la ribellione provocata dai suoi fratelli maggiori e quando forse Callimaco non era ancora stato accolto a corte; si tratterebbe perciò del più antico fra gli Inni.
Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. British Museum.
L’inno II, Ad Apollo, può invece essere considerato il più tardo della raccolta, perché è databile agli anni in cui Cirene ritornò sotto il potere dei Tolemei, con le nozze fra Berenice e Tolemeo III Evergete. In esso, Callimaco, dopo aver esaltato il dio e i suoi benefici nei confronti dell’umanità, secondo gli schemi dell’innologia sacra, lo celebra con l’epiteto Κάρνειος, che il poeta considera «avito», perché tipico della città di Cirene, fondata dal suo antenato Batto proprio per volere del dio. Ma oltre a questa allusione alle glorie di famiglia, l’inno contiene un altro importante accenno autobiografico, che abbiamo già preso in esame: la scena finale in cui l’Invidia, che sussurra all’orecchio di Apollo calunnie contro il poeta, viene sdegnosamente allontanata dal dio con un calcio; il tono è analogo a quello dell’Elegia contro i Telchini, che, come abbiamo visto, appartiene agli anni senili del poeta.
Statua di Artemide. Bronzo, IV secolo a.C. ca. Museo Archeologico del Pireo.
L’inno III, Ad Artemide, è uno dei più estesi e anche dei più vari nel contenuto, tanto da sembrare privo di unità; ma questa caratteristica, presente anche negli Aitia, ci fa supporre che Callimaco abbia scelto deliberatamente tale struttura, nel desiderio di sperimentare una nuova tecnica narrativa, applicandola a un genere letterario così antico. L’inno è databile solo approssimativamente al periodo centrale dell’attività di Callimaco (forse dopo il I libro degli Aitia). Fra i passi degni di nota per l’erudizione, possiamo ricordare un accenno al mito di Eracle e Teodamante, in polemica con il modo in cui l’aveva trattato Apollonio Rodio, e uno sfogo di preziosa dottrina nella parte finale del componimento, in cui compare un elenco di luoghi e personaggi legati al culto di Artemide, forse un po’ troppo lungo e monotono per il nostro gusto. Al contrario, ci attraggono per la loro grazia e la loro perfezione formale alcune scenette, in cui il poeta descrive con una straordinaria freschezza l’infanzia di Artemide. All’inizio, il poeta ci mostra la dea, ancora bambina, mentre cerca di convincere il padre ad accontentare i suoi desideri, standogli seduta sulle ginocchia e accarezzandogli il volto, e, anche se questo padre è Zeus, il dio supremo ci appare come un qualunque genitore affettuoso, schiavo delle moine della figlioletta e assolutamente incapace di rifiutarle qualche cosa (Inni III, 4-40). D’altra parte, che Artemide sia una bambina decisa e capace di ottenere tutto ciò che vuole, lo dimostra il suo comportamento di fronte ai Ciclopi che devono fabbricarle l’arco e le frecce. Ben lontana dall’essere spaventata dai mostruosi giganti monocoli, che le altre dee minacciano di chiamare per intimorire i loro figli quando fanno i capricci, la piccola si arrampica sulle ginocchia poderose di uno di essi, Bronte, e aggrappandosi con le manine al folto pelo che copre il petto del Ciclope, ne strappa un ciuffo lasciandogli per sempre una chiazza depilata al centro del torace (Inni III, 72-86). In questo modo, Callimaco offre un magistrale esempio del gusto alessandrino, temperando la solennità del tema con un garbato umorismo; ne è riprova la scena in cui Eracle, perennemente affamato, esorta la futura cacciatrice a non perdere tempo con piccole prede, ma a dedicare la sua attenzione soltanto a cinghiali e a tori, suscitando così il riso di tutti gli dèi, che ben conoscono il formidabile appetito del fortissimo eroe (Inni III, 144-157).
Guerriero galata. Statuetta, terracotta, 200 a.C. ca. dall’Egitto.
L’inno IV, A Delo, il più ampio di tutti, riprende all’inizio un tema già trattato nell’inno omerico Ad Apollo Delio. In esso si narra che, quando Latona stava per partorire, nessuna delle terre voleva accoglierla, per timore della vendetta di Hera, gelosa della rivale. Questa parte iniziale del mito offre a Callimaco l’opportunità per un’ampia digressione geografica, che evoca agli occhi del lettore un vasto quadro di paesaggio, delineato con grande novità espressiva, oltre che con profonda erudizione. Infine, Latona, disperatamente in cerca di un rifugio che il mondo intero sembra negarle, giunge all’isola di Cos; e qui avviene il più straordinario dei miracoli: Apollo, ancora chiuso nel seno materno, fa sentire la sua voce profetica, dando così prova di una precocità superiore a quella di qualunque altro dio. Prima di Callimaco, il tema della precocità divina era stato trattato solo nell’inno omerico A Hermes, ben noto e assai apprezzato dai lettori ellenistici. In questo modo, il poeta entrò in competizione con il suo illustre modello e se ne distaccò, sviluppando l’argomento in modo completamente diverso. Apollo, infatti, consiglia alla madre di non fermarsi a Cos, perché non è conveniente che egli venga alla luce in quell’isola, che pure è fertile e bella; «ma un altro dio le Moire destinano a lei [sc. a Cos], / eccelsa prole di dèi Salvatori» (Inni IV, 165-166), che governerà fino all’estremo Occidente, dove a sera riposano i cavalli del Sole. La profezia di Apollo continua alludendo all’invasione dei Celti, designati qui con il nome di “Galati”, che la Grecia dovette fronteggiare intorno al 280 a.C. Questi popoli, emigrati verso sud in cerca di nuove terre, attaccarono dapprima la Macedonia, uccisero in battaglia il re Tolemeo Cerauno e dilagarono poi nel cuore dell’Ellade. Le loro orde giunsero in prossimità del santuario di Delfi, probabilmente con l’intenzione di spogliarlo dei ricchissimi doni votivi; ma furono respinti dagli Etoli. Questo accenno permette una datazione abbastanza precisa dell’inno; e l’invenzione poetica della profezia apollinea a proposito dell’isola di Cos, mentre contribuisce, in quanto parola divina, a dare un tono di ineludibile verità al presagio della futura grandezza di Tolemeo, ne attenua al tempo stesso il tono evidentemente encomiastico.
Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
L’inno V, Per i lavacri di Pallade, è scritto in distici elegiaci e non presenta alcun elemento interno che possa permettere una collocazione cronologica anche approssimativa. Oltre ad avere una metrica inconsueta per un inno, questo componimento è anche un esempio di poesia «mimetica», una forma innovativa portata a perfezione da Callimaco e da Teocrito, che conferisce all’inno la struttura di un discorso diretto, pronunciato dai protagonisti di un cerimonia rituale. In questo caso, il poeta rievoca la festa annuale di Pallade Atena ad Argo, durante la quale la statua della dea viene posta su un carro e portata a bagnarsi nelle acque del fiume Inaco. La voce narrante è quella di un banditore sacro, che invita le devote e dà loro istruzioni per il rito. Poiché l’apparizione della statua della dea rappresenta un’autentica epifania, nessun occhio maschile si deve posare sul suo simulacro, immerso nel bagno rituale; perciò, affinché nessun uomo sia tentato di cedere a una curiosità sacrilega, l’araldo narra il mito di Tiresia.
Un giorno, Pallade e la ninfa tebana Cariclo, sua inseparabile compagna e madre di Tiresia, vollero trovare sollievo alla calura pomeridiana, bagnandosi nelle fresche acque della fonte Ippocrene; Tiresia raggiunse quel luogo sacro per dissetarsi:
75 Τειρεσίας δ᾽ ἔτι μῶνος ἁμᾶ κυσὶν ἄρτι γένεια
περκάζων ἱερὸν χῶρον ἀνεστρέφετο·
διψάσας δ᾽ ἄφατόν τι ποτὶ ῥόον ἤλυθε κράνας,
σχέτλιος· οὐκ ἐθέλων δ᾽ εἶδε τὰ μὴ θεμιτά.
Ma ancora Tiresia solo coi cani, la guancia appena da barba
scurita, si aggirava per il luogo sacro;
mosso da sete indicibile giunse alle acque della fonte,
sciagurato: e, senza volerlo, vide la proibita visione[4].
Pallade Atena, adirata, alza un grido; una tenebra improvvisa, profonda come la notte, cade sugli occhi di Tiresia, che rimane immobile e muto. Ma sua madre Cariclo, disperata per il destino del figlio, invoca pietà dalla dea, che le ha finora dimostrato affetto e amicizia. Atena, pur senza mutare la legge irrevocabile che condanna alla cecità l’uomo che posi gli occhi su una nudità divina, si lascia impietosire e promette a Cariclo che suo figlio sarà compensato della perdita della vista con il dono della profezia. I suoi occhi mortali saranno ciechi per sempre, ma egli avrà la capacità di comprendere il misterioso linguaggio dei segni mandati dagli dèi, vivrà una vita lunghissima e conserverà le sue capacità di veggente anche dopo la morte.
L’inno, dunque, sviluppa anche il tema eziologico, caro a Callimaco; ma quello che maggiormente colpisce la nostra attenzione è la straordinaria capacità di suggestione che emana dai versi centrali dell’inno: la profonda calma meridiana, l’acqua della fonte, la quiete suprema che domina la montagna evocano nella fantasia del lettore un paesaggio carico di sacro mistero, in cui il sovrumano silenzio prelude a un’epifania divina, inviolabile dall’occhio umano. L’avventura di Tiresia è delineata in pochissimi versi, con tratti di una sobrietà scarna e stupendamente efficace: la visione involontaria, il grido di Pallade, l’improvvisa notte che piomba sugli occhi del giovane, suggellandovi per sempre l’immagine della dea; poi, l’immobilità di Tiresia e il suo silenzio, che lo assimilano all’incanto del paesaggio. Dopo questo momento di altissima poesia, l’inno riprende il suo ritmo più discorsivo e disteso, fino al commiato finale, quando la statua della dea, terminata la cerimonia, si appresta a far ritorno nel tempio, in mezzo alla schiera delle sue fedeli.
Iside-Demetra con spiga e scettro. Stele con rilievo, III-II sec. a.C. ca. dal Tempio di Iside. Dione, Museo Archeologico.
L’inno VI, A Demetra, è anch’esso un saggio di poesia «mimetica»; come nel precedente, la voce narrante è quella di un addetto alla cerimonia sacra, che si rivolge alle fedeli della dea, in attesa di celebrare le Tesmoforie dopo un giorno di digiuno rituale. Dopo il preludio, in cui si indicano alle donne le prescrizioni da seguire, mentre aspettano che giunga la processione della dea, il narratore inizia il racconto delle affannose peregrinazioni di Demetra in cerca di sua figlia Persefone, rapita da Hades. Ma la triste rievocazione delle pene della dea si chiude quasi subito: tutta la parte centrale dell’inno, che non è fra i più estesi, è dedicata al mito di Erisictone, l’eroe tessalo, figlio di re Triopa, che, per aver tentato di abbattere un bosco sacro a Demetra, fu punito da lei con una fame insaziabile. Il giovane intendeva usare il legname degli alberi consacrati per costruirsi una sala da banchetto nel suo palazzo; ma non appena ebbe vibrato il primo colpo d’ascia contro il tronco di un altissimo pioppo, la pianta emise un doloroso grido, che giunse alle orecchie della dea. Demetra, allora, assunte le sembianze di un’anziana sacerdotessa, cercò di distogliere Erisictone dal suo proposito; ma l’eroe la trattò con prepotenza e disprezzo, minacciando di colpirla con l’ascia, se avesse continuato a importunarlo. Allora Demetra riprese il suo vero, terribile aspetto e condannò il giovane sacrilego a essere tormentato implacabilmente dalla fame e dalla sete.
A questo punto, la funzione eziologica dell’inno sarebbe già compiuta, perché la punizione di Erisictone si ricollega, per contrasto, al digiuno rituale delle fedeli della dea, ormai giunta al termine. Ma Callimaco sente ancora il bisogno di dare libero sfogo alla sua fantasia e alla sua straordinaria capacità fabulatoria; il poeta, così sobrio e incisivo nel narrare l’avventura di Tiresia, cede qui al piacere del racconto. Erisictone è un principe di sangue reale e i suoi familiari non vorrebbero che il suo stato recasse loro disonore agli occhi dell’intera città; perciò, tentano in ogni modo di tener nascosta la sua terribile disgrazia, adducendo le più varie giustificazioni per le assenza del principe.
L’insaziabile voracità di Erisictone lo spingerà, dopo aver divorato tutte le scorte della reggia, a elemosinare il cibo per strada, rendendo così manifesta a tutti la sua terribile punizione.
Callimaco descrive la pena dell’eroe senza suscitare alcun senso di orrore religioso, ma inserendola nel contesto quotidiano di una realtà familiare, in cui essa crea umanissimi sentimenti di disagio e di vergogna. L’inno si chiude con un’invocazione a Demetra, perché conceda alle sue fedeli abbondanza e felicità.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Obverso: ΠΤΟΛEMAIOY- BAΣΙΛΕΩΣ, Aquila stante verso sinistra, sopra un fascio di saette, una cornucopia e il diadema reale.
Gli Epigrammi
La produzione poetica di Callimaco comprende anche un corpus di oltre sessanta epigrammi di vario argomento e di diversa estensione (dal monodistico, formato da due soli versi – un esametro e un pentametro – alla breve elegia), di cui non è possibile stabilire una cronologia interna, benché alcuni di essi contengano riferimenti storici o autobiografici. In base all’argomento trattato, essi possono essere suddivisi in quattro categorie: epigrammi funerari, votivi, erotici e letterari. Grazie a essi, Callimaco occupò una posizione di preminenza nell’ambito della prima generazione dei poeti appartenenti alla cosiddetta scuola ionico-alessandrina, per lo stile raffinato, la grazia elegante, la capacità di esprimere sia il pathos sincero che l’omaggio garbato, senza cadere mai in toni lacrimevoli o servili.
Gli epigrammi più interessanti per noi sono forse quelli letterari, in cui compaiono accenni alla poetica dell’autore, che arricchiscono e completano quelli presenti in altre opere. Grazioso e significativo, a questo proposito, l’epigramma I, Anthologia Palatina VII, 89, che ha come protagonista Pittaco, uno dei sette sapienti già ricordati nel giambo I. Il saggio vegliardo, mentre siede tranquillo in una piazzetta nella quale alcuni bambini giocano con le trottole, vene interrogato da un giovanotto in procinto di sposarsi. Poiché gli sono state offerte due possibilità, quella di unirsi a una ragazza ricca e di condizione sociale superiore alla sua, e quella di prendere in moglie una fanciulla di rango più modesto e di mezzi pari a quelli del futuro marito, il giovane vorrebbe conoscere l’opinione di Pittaco, prima di impegnarsi con l’una o con l’altra. Ma, mentre il saggio sta per rispondere, uno dei bambini, vedendo che un suo compagno sta per colpirgli la trottola, gli grida: τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα («Prendi quella alla tua portata!». Pittaco, allora, invita il giovane a considerare le parole del fanciullo come la risposta giusta ai suoi dubbi. Lo spirito della favoletta è simile a quello dei Giambi; e la critica è concorde nel riconoscere in essa un’ulteriore riconferma delle scelte letterarie e stilistiche di Callimaco, ben consapevole di ciò che si adattava maggiormente alla sua vena poetica.
Alla categoria degli epigrammi letterari di contenuto encomiastico appartiene il LI, scritto probabilmente dopo il 246 a.C., quando si celebrarono le nozze fra Tolemeo III Evergete e Berenice, figlia di Megas. Alludendo a una statua che raffigurava la giovane e bella sovrana, Callimaco afferma, con elegante omaggio cortigiano, che le Cariti ormai non sono più tre, ma quattro e senza la quarta «neanche le Cariti stesse sarebbero Cariti».
La stessa sorridente finezza toglie ogni senso del dramma alle sofferenze d’amore e riduce il rapporto fra innamorati a un gioco di schermaglie e di ripicche, in cui il rifiuto o l’abbandono possono causare malinconia, ma non certo profonde crisi esistenziali. Ne è esempio l’epigramma LXIII, dedicato a una ragazza di nome Conopio («Zanzaretta»), che sa essere pungente e dispettosa come il suo nome:
Ragazza in fuga. Parte della decorazione acroteriale, pietra locale, dalla Casa Sacra di Eleusi.
Il tema è quello del παρακλαυσίθυρον (il «lamento dell’amato presso la porta chiusa»), caro ai poeti erotici alessandrini e destinato a grande fortuna nella poesia lirica latina. La raffinatezza formale, evidenziata dall’insistito gioco delle anafore (vv. 1 e 3, 4-5), dà alla breve lirica un tono di elegante intellettualismo, assolutamente privo di dramma. Anche l’accenno finale all’inesorabile vicinanza della vecchiaia – un topos in questo genere di letteratura – esprime qui soltanto una ripicca un po’ stizzosa, unica possibilità di rivincita dell’amante respinto, non certo l’angosciosa premonizione della caducità della gioventù, della bellezza, dell’amore e della vita stessa, che rende così intense le poesie di Mimnermo.
Ma questa poesia tanto leggera e sorridente può anche trovare le espressioni più pure e intense di una mestizia raccolta e dignitosa, come accade in alcuni epigrammi sepolcrali, a cui la brevità conferisce un più profondo senso di composto dolore:
Δωδεκέτη τὸν παῖδα πατὴρ ἀπέθηκε Θίλιππος
ἐνθάδε, τὴν πολλὴν ἐλπίδα, Νικοτέλην.
Dodicenne il bambino ha qui deposto il padre Filippo,
Una fortuna grandissima, dall’antichità ai giorni nostri
Dopo Omero e Menandro, Callimaco è forse il poeta greco che ha avuto più fortuna, dall’antichità ai giorni nostri. Nella letteratura latina arcaica, Ennio si ispirò al proemio degli Aitia per comporre quello degli Annales, in cui, con evidente riferimento al testo callimacheo, narra che Omero gli apparve in sogno sul monte Parnaso. Anche il genere letterario dell’epillio, ripreso da Mosco, un poeta siracusano della seconda metà del II secolo a.C., ebbe una straordinaria fortuna: i maggiori fra i poetae novi, come Elvio Cinna, Licinio Calvo e lo stesso Catullo (Carmen LXIV) si ispirarono a esso; a Catullo appartiene anche la già ricordata versione della Chioma di Berenice.
In età augustea, il poeta elegiaco Properzio considerò titolo d’onore essere definito «il Callimaco romano» e anche Orazio, Ovidio (il personaggio di Bauci, Metamorphoseon VIII, 620 sgg. si ispira a quello di Ecale) e lo stesso Virgilio si rifecero speso a temi della poesia e della poetica callimachee; perfino la Ciris, poemetto di non sicura attribuzione, che apparterrebbe agli anni giovanili di Virgilio, risente di questa influenza. Dell’importanza di Callimaco per comprendere a fondo tono e contenuto della satira latina si è già parlato.
Tuttavia, ancora più notevole della sua influenza diretta di questo autore, fu quella esercitata per molti secoli dal suo canone stilistico: della subtilitas callimachea e delle sue continue esortazioni al labor limae fecero tesoro non solo la letteratura latina, ma anche la letteratura italiana rinascimentale e neoclassica. Agnolo Poliziano, nella Giostra, e Ugo Foscolo, nelle Grazie, ebbero senza dubbio presenti il testo e lo stile del poeta cirenaico che, in tempi più vicini a noi, non mancò di ispirare anche Pascoli (Poemi conviviali) e D’Annunzio (Alcyone) con la sua elegante preziosità, frutto di erudizione e di attenta ricerca filologica.
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Note:
[1] Callim. Aitia IV, fr. 110 Pf., 47-56, tr. G.B. D’Alessio.
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