La civiltà micenea

di BEARZOT C., Manuale di storia greca, Bologna 20112, pp. 15-19.

Diversamente che a Creta, in Grecia il passaggio dal Bronzo Antico al Bronzo Medio, intorno al 2000 a.C., reca tracce di profondi sconvolgimenti: molti villaggi sono distrutti, altri vengono abbandonati; scompaiono le fortificazioni; la casa ad abside semicircolare sostituisce gli edifici di struttura più complessa; scompaiono i magazzini; si generalizza la tomba individuale del tipo «a cista» (sepoltura individuale o collettiva costituita da una cassa, generalmente rettangolare, di lastre di pietra infisse nel terreno) e i corredi, già modesti, quasi scompaiono; compare una ceramica lavorata al tornio di colore grigio uniforme e a superficie liscia, detta «minia»; viene introdotto il cavallo domestico.

Questi cambiamenti sono stati attribuiti all’arrivo di popolazioni parlanti lingue indoeuropee, tra cui un proto-greco; tuttavia, rivolgimenti interni ed evoluzione locale possono spiegare altrettanto bene alcuni mutamenti, tanto più che, come è stato sottolineato, è difficile collegare elementi della cultura materiale con un preciso gruppo linguistico ed etnico. L’interpretazione dei pur significativi cambiamenti intervenuti al passaggio epocale al Bronzo Medio tende quindi a privilegiare (in questo caso come in quello del transito all’Età del Ferro, con la frattura del secolo XI e della cosiddetta «invasione dorica») processi evolutivi di lunga durata rispetto all’idea di un’invasione violenta e massiccia. Il carattere graduale della transizione induce a pensare più probabilmente a infiltrazioni, più che a vere e proprie invasioni, di genti parlanti una lingua greca, che si sovrapposero a un sostrato etnico e linguistico precedente in un momento e con modalità difficili da stabilire per noi: ciò sembra trovare conferma nella tradizione storiografica antica, che mostra coscienza che la civiltà greca era nata da una mescolanza di elementi autoctoni (come i Pelasgi di cui parla Erodoto I, 56-58) e di elementi sopraggiunti in seguito attraverso migrazioni.

Micene, la «porta dei Leoni» (dettaglio) nelle mura, Tardo Elladico III, XIII sec. a.C.

In ogni caso, anche la Grecia del Bronzo Medio, afflitta da gravi turbolenze, non sembra regredire a forme di completo isolamento: sono attestate relazioni con Creta e con l’ambiente insulare, con l’Anatolia, il Levante e addirittura con alcune aree dell’Europa continentale. Anche se della civiltà micenea sono oggi particolarmente valorizzate, senza escludere apporti esterni, le radici continentali, queste relazioni non furono prive di influenza sulle trasformazioni che, nella seconda metà del XVIII secolo (1750-1700 a.C.), si verificarono in Grecia portando alla nascita della civiltà micenea.

Lo sviluppo di quest’ultima mosse dall’Argolide e dalla Messenia, per investire poi altre aree regionali come la Laconia, l’Attica e la Beozia. In Argolide, in particolare, sorsero nel corso del XVIII secolo (1800-1700 a.C.) diversi centri nuovi, come Argo, Tirinto, Midea, Micene. E a partire dalla prima metà del secolo successivo (1700-1650 a.C.), quest’ultima assunse un’eccezionale importanza, come risulta dai ricchissimi corredi delle tombe cosiddette «a pozzo» (sepoltura a cui si accede attraverso un’imboccatura a pozzo, appunto, verticale o orizzontale), proprie di una élite aristocratica di guerrieri che sembrava volersi distinguere dal resto della popolazione, cui erano riservate tombe più povere, del tipo «a fossa» (scavate direttamente nel terreno e di forma generalmente quadrangolare) o «a cista». Particolarmente importanti sono, a Micene, le tombe «a pozzo» dei cosiddetti circoli A e B: il primo, scoperto da Heinrich Schliemann nel 1876 e comprendente sei grandi tombe databili tra il 1570 e il 1500 a.C., giustifica pienamente, con i suoi corredi comprendenti fra l’altro la «maschera di Agamennone», la definizione omerica di Micene come «ricca d’oro»; il secondo, venuto alla luce nel 1952 e più antico, comprende ventiquattro tombe «a fossa», su un arco di tempo che va dal 1650 al 1550 a.C.

I ritrovamenti sono di varia provenienza: materie preziose come oro, argento, elettro (una lega di oro e argento), ambra vengono importate dall’Egitto, dall’Asia Minore, dai Carpazi (soprattutto l’oro), dall’Inghilterra sud-occidentale (ambra lavorata); l’influenza cretese nei manufatti di oreficeria (le maschere d’oro di Micene, le tazze d’oro di Vaphiò in Laconia) risulta preponderante, anche perché Creta fungeva da ponte per il commercio con l’Egitto e l’Oriente; ma una funzione importante era svolta anche dagli empori occidentali (Isole Eolie, golfo di Napoli) e del Mar Nero fino alla Georgia, l’antica Colchide famosa per i suoi giacimenti aurei.

Protome di leone. Rhyton, oro martellato, Periodo Elladico recente I (XVI secolo a.C.), dalla tomba IV del Circolo A (Micene). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

L’eccezionale importanza dei reperti di Micene giustifica l’uso del nome di «micenea» per la civiltà che fiorì a partire dall’Argolide in tutta la Grecia continentale; ma sviluppi del tutto analoghi troviamo anche nel resto del Peloponneso, in Messenia (Tirinto e Pilo), in Attica (Atene ed Eleusi) e in Beozia (Orcomeno). L’ascesa improvvisa dei primi Micenei, con la loro grande ricchezza, si colloca in un periodo che corrisponde alla seconda fase palaziale cretese. Per spiegare le origini di tale ascesa, molto discussa, sono state formulate diverse ipotesi. Le ricche sepolture del tumulo A di Micene sarebbero, secondo alcuni, l’esito di incursioni a Creta, da dove sarebbero stati portati materie prime e artigiani, oppure dalla massiccia invasione di genti indoeuropee; ma altri tendono a privilegiare l’idea di uno sviluppo interno, come nel caso della civiltà minoica (introduzione della «triade mediterranea» e, di conseguenza, aumento della popolazione e sviluppo della metallurgia, dell’artigianato e delle forme di comunicazione). Eventuali apporti esterni potrebbero essere legati al ruolo di intermediazione della Grecia continentale tra il commercio marittimo gestito dai palazzi cretesi e il commercio terrestre verso l’Europa continentale (probabilmente i Micenei rifornivano l’Egeo di stagno e oro).

Tra il XVI e la prima metà del XV secolo (1600-1450 a.C.) si sviluppò l’organizzazione di comunità micenee in vaste aree della Grecia meridionale e centrale. I reperti più significativi sono costituiti da tombe, di tipo a tholos (camera circolare preceduta da un corridoio d’accesso) e con ricchi corredi, come la tomba dei Leoni e la cosiddetta «tomba di Egisto», che nel XVI secolo (1600-1500 a.C.) presero il posto, a Micene, delle tombe «a pozzo» del circolo A; si è discusso se si trattasse di comunità a conduzione monarchica oppure oligarchica, come sembra piuttosto far pensare l’alto numero di tombe monumentali. Il ritrovamento di sigilli suggerisce, anche in assenza di tavolette, lo sviluppo di procedure amministrative di tipo palaziale. In questo periodo l’influenza minoica appare sempre notevole, soprattutto in ambito religioso: tanto che, prima della decifrazione della Lineare B, che ha fornito le prove dell’autonomia della religione micenea, si tendeva a parlare di una religione minoico-micenea. In realtà, molte divinità del futuro Olimpo greco, come Zeus, Era, Atena, Artemide, Ares, Dioniso, erano già note presso i Micenei; fra esse, un ruolo particolare avevano le divinità femminili (le Potniai) e Poseidone; ora la pubblicazione delle tavolette di Tebe ha mostrato l’importanza, nella Beozia micenea, del culto di Demetra e Core.

Piet de Jong, Ricostruzione dell’interno della sala del trono del Palazzo di Nestore a Pilo.

Nel corso del XV secolo (1500-1400 a.C.) iniziò l’espansione micenea nell’Egeo. Allo sviluppo di centri come Micene, Pilo e Tebe faceva riscontro l’inserimento a Rodi e a Creta, dove l’arrivo dei Micenei è testimoniato dall’archivio di tavolette scritte in Lineare B di Cnosso e dalla ricostruzione del palazzetto di Haghia Triada secondo modelli continentali (l’epoca della conquista micenea corrisponde al periodo neopalaziale della civiltà minoica, che va dal 1450 al 1380 a.C.). A Cipro, in Asia Minore e in Egitto i Micenei sostituirono la loro presenza a quella cretese: accanto ai Keftiu, nei testi egiziani comparvero, dunque, i Tanaja (= Danai?), poi la menzione dei Keftiu venne sostituita da quella degli uomini provenienti dalle «isole in mezzo al mare». In Occidente, ceramica micenea è stata trovata nel Basso Tirreno (isole Eolie, isole del Golfo di Napoli) e nel mar Ionio, dove probabilmente i Micenei cercavano risorse metallifere; i ritrovamenti di ambra baltica a Micene attestano rapporti, almeno mediati, con le zone di origine della materia prima; tuttavia, i ritrovamenti di manufatti di tipo miceneo in Europa sono troppo sporadici per giungere a conclusioni sicure. Nel XIV-XIII secolo (1400-1200 a.C.) la cultura micenea, con lo sviluppo dell’architettura palaziale, giunse ormai al suo apogeo a Micene, Tirinto, Pilo, Atene, Tebe, Orcomeno. Con la conquista di Creta, la cui civiltà declinò dopo la distruzione, nel 1380 a.C. circa, del palazzo di Cnosso, i Micenei subentrarono nella gestione delle rotte commerciali del Mediterraneo orientale. Fu questo il momento della massima espansione della ceramica micenea in Oriente, che preludeva alla sua diffusione anche nel Mediterraneo occidentale.

Sillabario con i segni della Lineare B.

I palazzi micenei, come quelli minoici, del resto, costituivano il centro del potere, della vita religiosa, dell’amministrazione, dell’economia e delle forze militari. Le nostre informazioni sulle strutture della società micenea derivano dalle tavolette, soprattutto quelle di Pilo e di Cnosso. La documentazione che esse offrono è limitata, perché i documenti che ci sono stati conservati (quelle cotte nell’incendio dei palazzi) rappresentano solo una piccola parte degli archivi e riguardano una documentazione mensile o al massimo annuale. Si tratta di registrazioni amministrative, relative a persone legate al palazzo, a razioni di grano o di olio, ad affitti di terreni, alla riscossione dei tributi, alle offerte votive per i santuari, a oggetti e materiali vari (lana, lino, metalli, ecc.). La scrittura, la già ricordata Lineare B, proveniva certamente da Creta, in quanto rappresentava l’adattamento della Lineare A a un dialetto greco; essa fu decifrata nel 1952 da Michael Ventris e John Chadwick.

Caccia al cinghiale. Frammento di affresco parietale, periodo miceneo tardo, XIV-XIII sec. a.C., da Tirinto. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Rispetto ai modelli minoici, si nota la tendenza a collocare gli insediamenti in luoghi ben difendibili, sopraelevati, e a fortificarli: il timore di attacchi esterni era dunque ben presente ai Micenei rispetto ai Cretesi. Il cuore del palazzo, il megaron, in cui si trovava il focolare, era la struttura di rappresentanza del signore, il wanax (wa-na-ka); una struttura analoga, ma secondaria, era riservata al lawagetas (ra-wa-ke-ta), un capo militare il cui nome è collegato con quello del popolo in armi, lawos / laos (ra-wo). Sia il wanax che il lawagetas erano assegnatari di una porzione di terra, il temenos (te-me-no); sotto di loro vi erano altri funzionari assegnatari di terreni, i telestaí (te-ra-ta); sembra che fosse presente anche una aristocrazia di capi militari, «compagni» del re, gli hepetai (e-qe-ta). La base produttiva era garantita da personale dipendente, che comprendeva il damos (da-mo: popolazione residente nelle singole unità territoriali e nei villaggi, che pagava le tasse ed era dotata di una certa autonomia) e i servi o douloi(do-e-ro), ampiamente attestati. La produzione agricola (grano, olio e vino, soprattutto) e l’allevamento (con produzione di lana e di miele) erano controllati rigidamente dal palazzo, così come l’industria tessile (che produceva in abbondanza anche lino) e metallurgica.

Il palazzo fungeva da centro di un sistema economico di tipo ridistributivo, che amministrava un territorio statale ampio, in cui erano integrati principati e regni più piccoli. Le nostre informazioni migliori riguardano Pilo, caso in cui tavolette e reperti archeologici forniscono una serie di dati: il regno di Pilo doveva essere suddiviso in due province, a loro volta divise in otto distretti guidati da un koreter (ko-re-te), che rappresentava il potere centrale. In altri casi le fonti sono lacunose o assenti, ma è comunque possibile tracciare una specie di carta politica della Grecia micenea, comprendente l’Argolide, divisa in due regni – Micene e Tirinto; la Messenia (Pilo); l’Attica (Atene); la Beozia, anch’essa suddivisa in due potentati (Tebe e Orcomeno); la Tessaglia (Iolco). Il controllo del territorio appare più ampio che nel caso dei palazzi minoici: è stato sottolineato che ci troviamo di fronte al primo esempio di una politica a vasto raggio in Grecia, come del resto anche Tucidide mostra di sapere quando, nella cosiddetta «archeologia» (la breve storia della Grecia arcaica tracciata all’inizio delle sue Storie, in I 2-29), parla di un accrescimento della potenza greca sotto il dominio di Agamennone, segnalato dalla capacità di operare interventi comuni fuori dalla Grecia vera e propria, come la guerra di Troia (I 8, 3 ss.).

La «Panoplia di Dendra». Bronzo e avorio, Tardo Elladico IIA-B (XV secolo a.C. ca.), da Dendra (Argolide). Nafplion, Museo Archeologico.

Nel XIV-XIII secolo (che, come si è detto, fu l’epoca di massimo sviluppo della civiltà micenea) i Micenei si proiettarono verso l’esterno, creando progressivamente relazioni complesse e articolate, in modo sempre più sistematico, fino a raggiungere un’area geografica vastissima. Tali relazioni variavano dai contatti occasionali agli scambi sistematici di materie prime e manufatti (documentati nei due sensi sul piano archeologico), fino a forme di interscambio culturale più o meno incidenti sulle comunità locali.

In Asia Minore, dove si giunse, sulla costa, alla totale sovrapposizione della presenza micenea a quella minoica, rari appaiono invece i ritrovamenti nell’interno, in area ittita. In ogni caso, l’ipotesi dell’identificazione degli abitanti della terra denominata Akhiyawa nei testi ittiti fra il tardo XV e la fine del XIII secolo (1400-1200 a.C. ca.) con gli «Achei», quindi probabilmente con gli Achei della Grecia continentale o con gruppi di Micenei stanziati nell’Egeo orientale, pur non potendo essere rigorosamente provata, va ritenuta molto probabile. I testi in questione identificano con Akhiyawa un’entità geografica occidentale rispetto agli Ittiti, politicamente indipendente e dedita ad attività marinare; inoltre, le citazioni ittite sono concentrate in un’epoca che corrisponde alla massima potenza micenea, caratterizzata da intense relazioni con il Mediterraneo orientale.

Ben testimoniate sul piano archeologico sono le relazioni con Cipro (che offre una documentazione micenea ricchissima, dovuta ad attività intense di scambio) e l’area siro-palestinese, l’Egitto e la Libia; contatti con l’Occidente risultano a proposito della Sicilia e dell’Italia meridionale (Puglia, Basilicata, Calabria); vi sono indizi per includere nelle aree di navigazione micenea la Sardegna e la stessa penisola iberica. La complessità delle vie commerciali battute dai Micenei è attestata da relitti di navi contenenti lingotti di rame e di stagno e materiali provenienti da regioni diverse (Mesopotamia, Siria, Cipro, Africa), nonché ambra, spezie e derrate varie.

Testa di figura femminile. Stucco dipinto, Periodo Elladico recente IIIB (1250 a.C. ca.), da Micene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

L’esigenza principale che spinse i Micenei sulle vie del mare è, ancora una volta, la necessità di reperire metalli, materiali preziosi come avorio e ambra, tessuti pregiati, legname per le navi, in cambio dei quali la produzione micenea offriva olio, vino, manufatti di bronzo e di ceramica, tessuti di lana e di lino. Se l’idea di un vero e proprio «impero coloniale» miceneo è stata ridimensionata dalle più recenti ricerche, che hanno rilevato l’assenza di abitati di fondazione e cultura esclusivamente micenee, certo l’estensione delle rotte commerciali e la costituzione di una rete di empori resta indicativa di una grande capacità, da parte della civiltà micenea, di espandere la propria influenza e di interagire con altri soggetti nell’ambito del bacino del Mediterraneo, costruendo una significativa unità culturale.

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Bibliografia

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La civiltà micenea e la sua espansione nel Mediterraneo

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 49-63.

 

Nel rapporto di Creta col mondo miceneo, il 1450 a.C. circa, la data di passaggio dal Tardo Minoico I al Tardo Minoico II, è un momento cruciale. Prima di esso il mondo miceneo ha senz’altro subito influenze culturali dalla Creta minoica. L’età micenea si distingue archeologicamente in tre sottoperiodi che, in riferimento alla regione in questione, si considerano come l’ultimo periodo dell’Elladico. Si distingue dunque tra un Tardo Elladico I (1600/1580-1500 a.C.); II (1500-1425 a.C.); III (1425-1100 a.C.). All’interno di ciascuna di queste ripartizioni se ne usano altre, indicate con lettere.

Palazzi micenei scavati in Grecia sono: Micene e Tirinto nell’Argolide, Pilo in Messenia, Tebe e Gla in Beozia, Iolco in Tessaglia; resti di strutture di epoca micenea si colgono anche ad Atene e, in Beozia, ad Orcomeno. Già alla I fase del Tardo Elladico sembra risalire il Circolo A delle tombe a fossa (regali o aristocratiche) di Micene. La II e la III fase furono certo di grande espansione per i regni micenei. Tra il 1450 e il 1400 (o, secondo la cronologia più recente, di Popham, fino al 1370) si data un regno miceneo a Cnosso; e tra XIV e XIII secolo si data la maggiore espansione della ceramica micenea in Oriente, a cui si accompagna, ma soprattutto succede, un’espansione in Occidente[1].

Micene, «Tesoro di Atreo» (o «Tomba di Agamennone»). Tomba a tholos, Tardo Elladico II, 1500-1400 a.C. ca. Veduta dell’accesso

È dunque già la seconda fase dalla presenza greca nella penisola greca e nelle isole e regioni adiacenti che così avvertiamo nel Tardo Elladico. Se in Grecia, in corrispondenza con il Medio Elladico, si coglie, sulle tracce della ceramica minia, un’avanzata di popolazione indoeuropea (definibile di “Protogreci”) fino al Peloponneso, con l’età dei palazzi, il cui formarsi e svilupparsi si disloca all’incirca tra il XVI e il XIII secolo, assistiamo invece a profonde trasformazioni delle forme dell’organizzazione sociale ed economica e delle stesse forme del potere. Quelle trasformazioni che si intuiscono tra il periodo prepalaziale e il periodo proto- e neopalaziale nella Creta minoica si verificano, mutatis mutandis, nel continente: sia per sviluppi interni (passaggio dal nomadismo alla sedentarietà e alla pratica di corrispondenti attività produttive), sia per influenze cretesi. Queste si colgono invero molto di meno nell’architettura dei palazzi e nell’edilizia abitativa. Sul continente spicca in primo luogo l’utilizzazione di luoghi forti, come sedi dei palazzi, in continuità con la tradizione elladica (comune al Neolitico greco) dell’insediamento su acropoli di rispettabile altezza (anche 200 o 300 metri). Inoltre è meno individuabile nei palazzi del continente la presenza di ambienti per rappresentazioni di tipo teatrale. I corredi funerari suggeriscono tuttavia l’influenza del modello cretese: le maschere d’oro di Micene o le tazze d’oro di Vaphiò in Laconia (dove non si sono ancora trovati resti di un palazzo di Menelao) non sono concepibili senza l’esperienza dell’oreficeria e della ceramica minoiche. E soprattutto nella scrittura i Micenei di Pilo, come di Micene o di Tirinto, di Tebe e di Orcomeno, si rivelano debitori dei Minoici: la Lineare A, che era stata usata per una lingua non greca, finora non identificata, viene (originalmente, sembra) adattata (Lineare B) all’esigenza di rappresentare graficamente parole greche, di un tipo dialettale di cui in epoca arcaica appare, come più diretto erede, il dialetto arcado-cipriota[2].

Cattura di tori. Tazza d’oro, periodo miceneo antico, c. 1600-1500 a.C., da Vaphiò. Atene, Museo Nazionale.

Ma il 1450 è una data, alla lettera, cruciale nella storia dei rapporti tra Creta minoica e il mondo greco, ché dopo di essa si ha l’insediamento di un dominio miceneo a Cnosso e probabilmente, nella Creta occidentale, a Chanià. L’eredità minoica sopravvive forse a una catastrofe naturale e certo anche a una sovrapposizione di dominio da parte di Micenei (che taluno concepisce come vera invasione, altri come una sorta di rilevamento del sommo potere); ma essa sopravvive oramai come un patrimonio gestito dai Micenei.

Lo straordinario materiale di testi in Lineare B, che ammontano ad alcune migliaia, presenta due punti di addensamento: Cnosso e Pilo. Per i testi di Pilo si adotta una data, 1200 circa, cioè, in termini archeologici, Tardo Elladico IIIB (alla vigilia della catastrofe, questa volta, dei palazzi micenei del continente, che costituisce la cesura appunto tra Tardo Elladico IIIB e IIIC). Per i resti di Cnosso sembra ancora aperta la controversia tra coloro che, sulla scorta di Evans, li datano alla fine del XV (o ormai anche agli inizi del XIV) secolo, cioè alla fase finale del periodo miceneo di Cnosso, e coloro che invece, dopo le contestazioni di Palmer, ritengono di non poter ammettere uno iato di ben due secoli tra le tavolette in Lineare B di Cnosso e quelle di Pilo. Si tratterebbe perciò, anche per Cnosso, di un materiale prodotto alla vigilia di una nuova distruzione storica, non molto distante nel tempo, né determinata da cause molto diverse, dalla distruzione del palazzo miceneo di Pilo (va rilevata l’adesione di massima alla cronologia del Palmer di un conoscitore della realtà cretese come l’archeologo Doro Levi). Il problema è squisitamente archeologico: gli argomenti che possono aiutare a fornire una risposta sono di natura stratigrafica. Certo, appare comunque singolare la profonda affinità nel contenuto dei testi in Lineare B di Cnosso e di Pilo; ma non è detto si debba pensare a una coincidenza cronologica, bastando con ogni probabilità, a spiegare le analogie, la profonda somiglianza, o addirittura l’identità, delle strutture politiche e sociali da cui questi testi emanano[3].

Nell’insieme, sono le tavolette di Pilo (meno numerose delle tavolette di Cnosso, ma contenenti iscrizioni di maggiore lunghezza) quelle che ci forniscono un maggior numero di dati, e perfino di termini, interessanti la struttura della società palaziale di epoca micenea[4].

Elsa in oro di una daga bronzea. Heraklion, Museo Archeologico.

Le tavolette micenee provenienti da Pilo e da Cnosso sono registrazioni relative a un breve arco di tempo (qualche mese, forse, rispettivamente), fra le quali è difficile operare una rigida classificazione e distinzione. In generale, però, sulla scorta di Ventris e Chadwick, si possono distinguere: 1) liste di persone (donne, ragazze, ragazzi), in qualche attinenza col palazzo e forma di subordinazione rispetto ad esso; 2) liste di uomini addetti a servizi di guardia; 3) razioni di grano e di olio distribuite a singoli; 4) registrazioni di obblighi, riguardanti il possesso terriero e coinvolgenti evidentemente il palazzo; 5) affitti di terre, spesso del da-mo (dâmos); 6) liste di tributi vari; 7) liste di oggetti (vasi, armi, mobili); 8) liste di quantità di materiali (tessili, metalli, rispettivamente lana, lino e bronzo in particolare), che il palazzo sembra mettere a disposizione dei soggetti, i quali li restituiscono sotto forma di prodotto lavorato; e così via di seguito. Non tutte le categorie sono ugualmente rappresentate a Pilo e a Cnosso.

Nel quadro di un’economia a fondamento agrario, la struttura politica e sociale si presenta fortemente centralizzata, sottoposta al dominio di un wa-na-ka (wánax, “signore”), affiancato da un comandante militare, ra-wa-ke-ta (lawaghḗtas); al “signore” pare nettamente sottoposta un’aristocrazia di capi militari ma anche, forse, di detentori del possesso di ampie porzioni di terra, spesso con funzioni sacrali; la base produttiva è poi rappresentata da strati di dipendenza, che non è facile definire nella loro interezza, ma che certamente (ad esprimersi con la massima cautela possibile) contengono in sé la possibilità dello sbocco ultimo in forme di vera e propria servitù. Nelle tavolette micenee appaiono inequivocabilmente dei do-e-ro (doûloi) (la parola greca che significa “servi” o “schiavi”); frequenti i te-o-jo do-e-ro (ieroduli, o più propriamente teoduli), uomini e donne. Si obietterà, a limitare il valore della definizione dell’economia micenea come palaziale, che la centralità del palazzo è innanzitutto il portato del dato di fatto che la documentazione stessa è palaziale, trattandosi di testi costituenti gli archivi del potere centrale; ma non è forse un caso che la documentazione abbia questa specifica provenienza.

Guerrieri in marcia (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere miceneo, Tardo Elladico IIIC (XII secolo a.C.), dalla ‘Casa del cratere dei guerrieri’ (Micene). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Nell’insieme, appare abbastanza chiara la struttura di una produzione, in cui la forza-lavoro consiste in larga misura di personale “dipendente”, ed esistono strutture di villaggio, inserite in un’economia verticistica, palaziale. I principali prodotti, che vi s’individuano, attengono all’agricoltura (grano, olio, vino) e all’allevamento (la cui organizzazione sembra rigorosamente controllata dal palazzo): figurano perciò fra i prodotti la lana, e anche il miele; tra i tessili, rilevante anche la produzione di lino. L’artigianato (tessitura, metallurgia, ecc.) assolve una funzione notevole, ed elevato appare il ruolo sociale di almeno alcuni di coloro che sono con esso collegati, in particolare di quei ka-ke-we (chalkḗwes, “bronzieri”), che sembrano lavorare il bronzo per conto del palazzo (cioè, in primo luogo, per le esigenze militari dello Stato); particolarmente forte appare il controllo del palazzo medesimo sull’industria tessile. L’interesse alla navigazione si evince, se non altro, dalla cura della difesa costiera, così ben documentata a Pilo[5].

Questa rappresentazione tuttavia è ben lungi dall’essere in qualche modo esauriente; ché se queste sono le linee generali della struttura sociale, essa appare poi complicata da elementi che ne costituiscono un’articolazione, di cui è difficile stabilire le interne connessioni. L’esistenza di un lawaghḗtas rinvia ai ra-wo (lawoí, mai però nominati come tali nelle tavolette conservate) sottostanti alla sua guida; ma un altro termine, quello di dâmos (e sarebbe più opportuno parlare di dâmoi, al plurale), sopraggiunge subito a complicare il quadro. Negli studi che distinguono nettamente tra lawoí e dâmoi, i primi rappresentano un’aristocrazia militare e fondiaria strettamente collegata al centro del potere, cioè al wánax e al lawaghḗtas, mentre i dâmoi consistono di popolazione residente nel territorio. Ma se l’agricoltura è la base di vita dei lawoí come dei dâmoi, qual è il rapporto (il rapporto geografico, ma anche quello di “proprietà”) tra le proprietà dei lawoí e le proprietà dei dâmoi? Sono più centrali quelle dei lawoí e più periferiche quelle dei dâmoi, o sono frammiste le une alle altre? E, se è vera la seconda ipotesi, è possibile che non vi sia interferenza alcuna fra la proprietà degli uni (lawoí) e la terra lavorata dagli altri? Ma è dubbia la distinzione stessa.

Tavoletta inscritta con segni in Lineare B. Argilla, Tardo Elladico IIIA (1450-1375 a.C.) da Cnosso. London, British Museum.

Una fondamentale tavoletta di Pilo (Er 312) indica in quantità di semenza di grano l’entità del te-me-no (témenos) rispettivamente del wánax e del lawaghḗtas: il rapporto è di 3:1. Una singola tavoletta non può certo rivelarci il rapporto gerarchico fra le due posizioni: ma già questo documento dovrebbe mettere in guardia dal pensare questo rapporto in termini di una sorta di diarchia, che distingua tra una funzione “politica” del wánax e una separata funzione militare del lawaghḗtas; tanto più che nello stesso testo seguono tre te-re-ta (telestaí), che hanno ciascuno tanta semenza di grano quanto il lawaghḗtas. I telestaí sono forse funzionari o dignitari, meno probabilmente dei “baroni”: certo, da questo e da altri testi, essi appaiono come proprietari o comunque possessori di terreni, in rapporto sia con forme di proprietà che sembra privata, sia con concessioni di terre “comunali”. Eppure molto spesso al lawaghḗtas, solo perché detentore di un témenos, gli studiosi attribuiscono un controllo supremo ed esclusivo delle forze armate, una netta superiorità sugli stessi telestaí, mentre a questi ultimi si tende a riservare l’appartenenza o una connessione esclusiva al dâmos. Sembra piuttosto che il lawaghḗtas sia sì un’autorità rilevante, ma di un livello che può essere condiviso almeno da alcuni telestaí: un “generale”, il quale avrà avuto il comando sui lawoí, cioè su persone che possono ben essere non distinguibili dal dâmos (il che spiega tra l’altro l’assenza della menzione esplicita dei lawoí medesimi), ma, come è frequente in Omero, siano persone del dâmos viste come soldati. Il “capo” dei lawoí è un generale che resta probabilmente del tutto subordinato al generalissimo che è il wánax, il quale d’altronde controlla l’amministrazione attraverso i vari ko-re-te-re, da-mo-ko-ro, ecc. I telestaí sembrano, almeno in parte, appartenere ai livelli più alti della società micenea e non paiono essere in una relazione, almeno esclusiva, col dâmos. Gli e-qe-ta (hépetai?), interpretati come “compagni” del sovrano, svolgono funzioni militari o sacrali, ma essenzialmente di supporto e di raccordo.

Sillabario con i segni della Lineare B.

Termini che sembrano rinviare per il loro significato al lessico omerico e classico sono quelli di qa-si-re-u (basileús) e ke-ro-si-ja (gherousía?). Ma il significato di basiléwes nei testi micenei non è chiaro, al di là di un generico significato di “capi”: si tratta di capi o di personaggi notabili di dâmoi, o capi di corporazioni di artigiani (in alcuni casi li troviamo associati con la menzione di “bronzieri”, e apparentemente investiti di una qualche funzione di controllo delle assegnazioni di bronzo che vengono fatte ai chalkḗwes, in altri associati con la lavorazione di mobili). E se la ke-ro-si-ja è un gruppo di anziani, non è chiaro se sia un vero “consiglio”, e se sia costituito intorno a qualche basileús: certo non è il consiglio del wánax.

Non è facile determinare l’esatto ruolo del dâmos nei confronti del wánax. È il dâmos veramente l’altro polo della società micenea, o è solo un elemento di una struttura piramidale, il quale funge da filtro dell’autorità e sovranità del wánax? Il terreno su cui si dovrebbe poter meglio misurare la struttura della società micenea è naturalmente quella della proprietà terriera. Ma le situazioni non sono del tutto chiare. Qui compare una prima grande distinzione tra due tipi di ko-to-na (ktoînai): le ko-to-na ki-ti-me-na e le ke-ke-me-na ko-to-na: le prime, proprietà coltivate o piuttosto “private”; le seconde, proprietà non coltivate, o piuttosto “lasciate” (in concessione), e perciò proprietà comunali, dei dâmoi (o forse solo gestite dai dâmoi per conto del sovrano). Frequente è del resto la menzione di kekeménai ktoînai, che sono oggetto di o-na-to (cioè di beneficio o usufrutto) pa-ro da-mo (cioè da parte del [o presso il] dâmos). Spesso persone con funzioni sacrali ricorrono in questa assai vasta categoria di onatēres, che intravediamo nella società micenea. Non è dimostrabile, ma comunque neanche da escludere, che sia proprio il wánax il detentore della proprietà formale eminente sui diversi tipi di proprietà e di possesso[6].

Incertezze sussistono, per altro, sempre nell’ambito della terminologia dei rapporti di proprietà e di possesso o usufrutto terriero, anche per ciò che riguarda il significato di ka-ma (una particolare forma di possesso?) o e-to-ni-jo (forse un possesso più stabile?). Si pone anche per questa via il problema dell’esistenza di forme di possesso privato; così come si è ammessa, anche di recente, l’esistenza di forme di proprietà sacra, nel senso di terre appartenenti a santuari di divinità. In realtà, sono tutt’altro che chiariti l’entità, le forme e il quadro di riferimento di queste “proprietà sacre”; ed occorre evitare di proiettare in età micenea quel quadro di rapporti tra “statale”, sacro e privato, che vale per l’epoca classica della storia greca. In un ambito così ipotetico, è più prudente pensare ad un possesso terriero, privato o sacro, fortemente subordinato all’autorità del wánax, in un rapporto “gerarchico” coerente con la struttura generale della società micenea e le caratteristiche dell’epoca.

Guerrieri. Frammento di affresco parietale, periodo medio-cicladico (1700-1600 a.C.), da Akrotiri. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

In definitiva, la complessità della società micenea, che si coglie meglio a Pilo che non a Cnosso o altrove, può riassumersi in questi termini: 1) presenza di un vertice, rappresentato dal wánax e dalla struttura palaziale; 2) presenza del dâmos, o meglio dei dâmoi, cioè delle singole unità territoriali («unità amministrative locali a vocazione agricola», secondo la definizione di M. Lejeune), e di una forza-lavoro dipendente o di tipo servile, sul piano della produzione (ma anche il rapporto fra questi due termini va, a sua volta, chiarito); 3) presenza di elementi che complicano e articolano questa apparente ma non chiara dicotomia, e che sono: il lawaghḗtas, titolare di un suo témenos, e quella fascia sociale intermedia, di titolari di benefici e di posizioni varie, che costituisce l’embrionale “aristocrazia” di cui si è già detto, e a cui vanno aggiunti i beneficiari effettivi di do-so-mo (dosmoí), concessioni, per esempio, a divinità, santuari e rispettivo personale; gli stessi te-o-jo do-e-ro appaiono in una condizione in qualche modo privilegiata, rispetto ai semplici do-e-ro (doûloi); di tutti questi va poi definito il rapporto rispettivamente col palazzo e con il dâmos.

Ma al centro è pur sempre la struttura palaziale: con un vertice “politico”, il principe; con un habitat specifico, rappresentato dal palazzo, cioè dai suoi ambienti (per l’esercizio del governo e l’amministrazione, per la vita quotidiana, per le funzioni sacre, per le riunioni, per il divertimento), dalle sue difese, dai suoi magazzini, dai suoi depositi; con un territorio, occupato da villaggi, in cui dei contadini lavorano la terra per il principe e sono in una posizione di dipendenza, che almeno in parte si configura come vera e propria servitù. Attorno s’individuano forme di proprietà, o di possesso, che in piccolo riproducono probabilmente questi stessi rapporti produttivi. Il problema più arduo è forse proprio quello di definire il rapporto che intercorre tra la struttura palaziale e l’aristocrazia che s’intravede. Se questa ha infatti un ruolo meramente satellite, sul piano politico e sociale, e costituisce solo una variante, rispetto alla fondamentale polarità tra despota e dipendenza, allora si fanno preminenti le affinità con almeno alcune società dell’Oriente antico, per le quali si può invocare una qualche forma di produzione asiatica. Più articolato e sfumato dovrà invece essere il giudizio generale sulla società micenea, se altro peso e altra funzione si assegnano all’aristocrazia, al suo ruolo economico, politico, militare, alle sue tradizioni e alla sua stessa capacità di emergere con effetti dirompenti per la struttura generale di cui s’è parlato.

Guerriero. Testina, avorio, periodo miceneo tardo, XIV-XIII sec. a.C., da una tomba a camera dell’Acropoli di Atene.

Occorre comunque evitare una troppo rigida assimilazione alle “regalità idrauliche” della Mesopotamia. Naturalmente, il limite dell’assimilazione deriva innanzitutto dall’assenza in Grecia di condizioni e costrizioni ambientali quali incombono sul mondo mesopotamico. Il problema non è comunque quello di applicare meccanicamente modelli asiatici. L’idea che le monarchie micenee abbiano sviluppato un’amministrazione complessa sull’esempio delle regalità orientali e, più direttamente, di quelle minoiche appare diffusa. Sono stati però anche sottolineati: i limiti numerici del personale del palazzo, rispetto alla quantità presumibile degli abitanti dei regni micenei; la problematicità di un monopolio palaziale nell’importazione del bronzo, a differenza del forte ruolo che si deve attribuire al palazzo nel campo della tessitura e della costituzione del relativo personale (soprattutto femminile); le dimensioni ridotte del témenos del wánax (wa-na-ka-te-ro te-me-no).

D’altra parte un’assoluta equiparazione della monarchia micenea alle regalità omeriche e arcaiche è scongiurata da diverse considerazioni: 1) il carattere ristretto, e assai puntuale, dell’evidenza documentaria disponibile per le monarchie micenee, con la conseguente difficoltà di definire gli esatti rapporti quantitativi sussistenti tra le disponibilità del wánax e quelle degli altri protagonisti della scena micenea, nonché lo stesso grado di controllo del signore su quelle risorse che apparentemente appartengono ad altri; 2) la potenza dell’amministrazione palaziale, con la gestione di quell’importante strumento di controllo che è la scrittura; 3) la presenza di santuari tanto ricchi quanto, apparentemente, soggetti al palazzo, e in particolare l’assenza di un vero consiglio e di un’assemblea[7].

Delfini. Frammento di affresco parietale, dalla cittadella di Gla. Tebe, Museo Archeologico.

Quei centri politici ed economici, che sono i palazzi di età micenea, non vivono isolati dal resto del mondo greco, né da più lontane regioni dell’Oriente mediterraneo. Non mancano produzioni atte allo scambio di merci, anche se si tratta di scambio tra merce e merce, e non esistono ancora forme di economia monetaria (ma, semmai, espressioni di un’economia premonetale, come i famosi lingotti di rame, genericamente definibili “di tipo egeo”, che sembrano assolvere a una fondamentale funzione di tesaurizzazione e, al tempo stesso, costituire una qualche misura di valore).

È stato osservato che gli oggetti d’oro, d’argento, d’avorio provenienti da Cnosso come da Micene, da Tebe come da Tirinto, oltre ad attestare l’alto livello dell’artigianato miceneo, dimostrano l’esistenza di scambi commerciali tra quel mondo ed altre civiltà mediterranee, se non altro perché i Micenei dovevano in qualche modo procurarsi presso altri popoli quei materiali di cui essi non disponevano o disponevano solo in scarsa misura (Godart). L’archeologia documenta, d’altra parte, sempre più ampiamente (e solo in parte per un’epoca posteriore a quella delle tavolette) l’espansione (anche, e significativamente, nelle regioni del Mediterraneo occidentale, dall’Italia, alla Sicilia, alla Spagna) di ceramica micenea[8]. Certo, non è facile definire il preciso rapporto tra questo innegabile e cospicuo dato della ricerca archeologica e l’insieme delle strutture economiche e sociali che trovano la loro più visibile espressione nei palazzi di età micenea. Il fenomeno del commercio è comunque ampiamente documentato; esso fornisce il naturale orizzonte dei dati delle tavolette in Lineare B, dati che accennano: all’esistenza di forme di scambio; all’acquisto di prodotti dall’ambito di forme e strutture economiche extrapalaziali, o marginali rispetto al palazzo, e alla loro introduzione nell’ambito dell’economia palaziale; alla ricerca, forse in primo luogo, di metalli, di cui s’avverte l’esigenza e insieme la scarsità.

Mappa dei reami micenei intorno al 1300 a.C.

Sarebbe, d’altra parte, ingenuo credere che tutto ciò che attiene al commercio e agli scambi si svolga entro l’ambito miceneo, o sia solo attivamente mediato dai Micenei stessi. Altri fattori di scambio sussistono; basti pensare alla funzione di mediazione che può avere avuto la Creta minoica (Creta cioè prima dell’assoggettamento da parte degli Achei, circa il 1450 a.C.)[9], come autentico ponte tra la Grecia e le regioni del Vicino Oriente, dall’Egitto alla Siria; ai contatti che i Micenei si procurano a Oriente, in Asia Minore, come in Siria, o in Occidente; e non va dimenticato quel fattore presente, si può dire, negli interstizi del mondo antico, che sono i popoli mercanti, quali soprattutto i Fenici, che, almeno dalle fasi più tarde dell’età micenea, operano (e nella tradizione greca sono sentiti come attivi e presenti) nelle regioni dell’Egeo e della Grecia stessa, e i Ciprioti, così spesso evidenti nella documentazione archeologica: nello stesso Mediterraneo occidentale (senza affrontare spinose e irrisolvibili questioni di priorità) le loro rotte si intrecciano e fondono con quelle micenee. Con eccessiva disinvoltura ci siamo ormai abituati, per l’autorevole suggestione di Karl O. Müller, di Karl Julius Beloch, o di Martin P. Nilsson, a mettere nell’ombra tutto quello che la tradizione greca ci dice sui Fenici nelle isole dell’Egeo (Rodi, Samotracia, Tera) o nel continente greco (basti pensare alla saga di Cadmo a Tebe).

È proprio durante e dopo il dominio miceneo a Cnosso, forse finito circa il 1370, che si colloca, in base ai dati dell’archeologia, cioè essenzialmente in base ai ritrovamenti di ceramica del Tardo Elladico III A e B, il periodo di massima espansione micenea. Se i dati cronologici sopra indicati sono attendibili, ciò ha una conseguenza storica di interesse sia per la storia dei Micenei a Creta, sia per il problema più generale dell’espansione micenea. Le fonti egiziane non sembrano registrare i Micenei di Creta dopo il 1370; riferimenti a località micenee di Creta stessa come del continente ricorrono nella tavoletta egiziana di Kom el-Heitan, che si data appunto alla prima metà del XIV secolo a.C.[10] Ma la massima diffusione di ceramica, in Egitto, in Siria-Palestina (in moltissimi centri palestinesi, ma soprattutto a Ugarit-Ras Shamra, in Siria), a Cipro (in particolare a Enkomi), sulle coste dell’Asia Minore (dalla Cilicia alla Ionia), e naturalmente nelle isole (a Rodi, a Lesbo), si verifica proprio nel Tardo Elladico III A e B, cioè nel secolo e mezzo contemporaneo e posteriore alla crisi. Sembra dunque verificarsi, quanto meno, un rafforzamento dei processi d’espansione commerciale dopo la crisi del potere politico a Creta; ed allora è legittimo chiedersi quale sia (o quale sia divenuto nel corso del tempo) il rapporto tra l’artigianato e il commercio, da un lato, e il potere centrale (o piuttosto i diversi poteri centrali collegati con i palazzi) dall’altro.

Lista dei toponimi cretesi dal basamento di una statua a Kom el-Heitan. XIV secolo a.C. ca.

È evidente, almeno per l’orizzonte cretese del problema, che il dominio miceneo non si presenta come una talassocrazia: innanzitutto, l’espansione commerciale per i Greci non è di per sé una talassocrazia, e quindi da sola la ceramica non dimostra un dominio sul mare, e poi, nei fatti, sembra esserci un certo scompenso tra il momento della potenza politica e quello della diffusione della ceramica micenea. Il problema diventa ancora più urgente, se si considera la diffusione di ceramica, o persino di forme architettoniche micenee, in Occidente. Punti di addensamento  sono le isole Eolie (Lipari), la Sicilia orientale (Tapso), l’Italia ionia (dallo Scoglio del Tonno a Taranto, a Termitito tra Metaponto ed Eraclea), in definitiva l’Italia del Mar Ionio e del basso Tirreno: la presenza di ceramica micenea in punti più settentrionali è sporadica, e in parte può corrispondere a fatti di irradiazione e diffusione indiretta, mediata da altri vettori. Già le quantità di ritrovamenti micenei in Occidente, persino nei luoghi di maggiore addensamento, non sono comparabili con quelli dei siti del Mediterraneo orientale che documentano presenze, attività commerciali e artigianali, persino insediamenti micenei[11]. E poi, se la tradizione letteraria può suggerire qualcosa in proposito, si tratta di indicazioni che singolarmente concordano con la situazione di décalage tra il momento e il ruolo del potere politico e quello del commercio miceneo, per altra via evidenziato. La tradizione infatti, quando evoca mitici fondatori di epoca micenea per località occidentali, li riferisce, o li immagina, come esuli, fuggiaschi, o reduci sbandati della guerra di Troia. Siamo, in termini archeologici, ai periodi Tardo Elladico III B e III C, o addirittura a ceramica submicenea[12].

Statua colossale del faraone Amenhotep III, uno dei due «Colossi di Memnone». Pietra calcarea, 1350 a.C. ca. (XVIII dinastia). Necropoli di Tebe.

Se così stanno le cose, è ragionevole, per i problemi dell’espansione di questa prima fase della storia greca che è l’epoca micenea, delineare uno sviluppo di questo tipo: 1) dopo l’invasione del continente e l’assestamento, che si svolge nei secoli del Medio Elladico, si raggiungono assetti nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica, che corrispondono alla fioritura dei palazzi nell’Elladico recente; 2) a metà del XV secolo a.C. questo assestamento, politico, economico e anche demografico, ha portato all’espansione anche nell’Egeo, a cui corrisponde l’insediamento di un principato miceneo a Cnosso (durato forse meno di un secolo) e forse anche a Rodi (se gli Ahhija-wa dei testi ittiti fossero da identificare con dominatori Achaioí dell’isola); 3) in parte in coincidenza con questo momento di sviluppo politico, ma (se valgono le cronologie sopra indicate per la storia di Cnosso) anche indipendentemente e successivamente, si verifica un poderoso fenomeno d’espansione commerciale, che segue vie proprie. È un fenomeno determinato da una crescita di popolazione greca che continua, anzi perfeziona, la grecizzazione della penisola, fino a delineare i contorni di quella immensa diaspora greca, che noi chiamiamo “mondo greco”, “grecità”, e che è un vivaio di espressioni analoghe e diverse fra loro. Sono le vie suggerite dallo scompenso tra le risorse e i bisogni; vi si mette in luce la capacità dei Greci di portare proprie conoscenze tecniche ed espressioni artistiche, di contrarre relazioni di ogni tipo, da quelle di amicizia e di ospitalità a quelle proprie di più stabili scambi (legami matrimoniali, intese commerciali, ecc.); e, in generale, va tenuto presente il ruolo del commercio ambulante. Vi si esprime la grande mobilità greca, cioè la straordinaria capacità di spostarsi, adattarsi a situazioni nuove, inserirsi in quadri sociali ed economici diversi. Se si guarda insomma al fenomeno dell’espansione micenea nel suo complesso, la sua matrice di appare il bisogno, più che la potenza; la potenza era stata invece la matrice dell’espansione minoica. Proprio per questa ragione, quest’ultima è più circoscritta e più definita nel tempo, cioè è una vera talassocrazia; l’espansione micenea è invece solo una realtà diffusa, che poi, alla periferia della vasta area che investe, è soltanto soffusa.

Ricostruzione ipotetica di un armata Ahhijawa guidata da Tawagalawa con il suo mercenario Piyamaradu durante i negoziati con il signore di Wilusa-Ilio (Alaksandu?) e un ambasciatore ittita. Tavola ideata da A. Salimbeti e R. D’Amato e realizzata da G. Rava per Osprey Publishing n. 153 (Bronze Age Greek Warrior, 1600-1100 BC).

La controprova di questo aspetto di risposta a un bisogno che i poteri politici micenei non sono in grado di soddisfare, è proprio nella diversa entità e qualità dell’espansione greca, rispettivamente in età micenea e in età arcaica, nonché in Oriente e in Occidente. Si può dire che nel II millennio (che è anche quello dell’esistenza dei principati micenei) i Greci cerchino soprattutto interlocutori validi, società in grado di accoglierli e di fare uso dei prodotti o delle tecniche o dei servizi e delle funzioni di cui essi sono portatori; essi si appoggiano a società evolute insediate sulle coste del Mediterraneo. Ecco perché l’espansione micenea in Oriente ha valori così cospicui. In Occidente i Greci cercano qualcosa di analogo, e lo trovano, certo, ma necessariamente di meno. L’espansione di epoca arcaica (che sembra in gran parte riassorbita nell’orizzonte cittadino, cioè nella capacità delle póleis di programmare una propria espansione, in un momento di nuovo sviluppo demografico del mondo greco), anche per il suo carattere più sistematico, e la sua finalità di creazione di vere e proprie nuove póleis, cerca spazi vuoti: non vuole tanto inserirsi in società organizzate preesistenti, quanto contrastarle e sostituirle; cerca spazi vuoti per sé, non spazi occupati, regolati, civilizzati dagli altri.

Frammenti di vaso ittita raffiguranti un guerriero, presumibilmente acheo/miceneo. Periodo Tardo Elladico IIIA (1350 a.C. ca.).

La certezza dell’espansione commerciale micenea nel Mediterraneo non rende dunque superflua la ricerca di altri vettori delle merci che segnalano, con la loro presenza, scambi all’interno di quel mondo. Si potrebbe, per economia di ipotesi, immaginare che gli oggetti siriani, anatolici, egiziani, ciprioti, fenici (?), che si trovano sul continente o a Creta o in altre isole in età micenea siano stati portati dai Micenei nei loro viaggi di ritorno; e molte volte sarà stato anche così. Eppure questa tesi è economica solo nel senso del risparmio di ipotesi che permette; ma è un dato di fatto che, nella storia del commercio, almeno quanto questa diventa per noi evidente, i vettori delle merci di esportazione e d’importazione di una determinata regione non sono sempre gli stessi; un commercio di andata e di ritorno che si incarichi di svolgere tutte le operazioni relative non è mai verificabile, quando si disponga di un minimo di documentazione; ci potrà essere prevalenza di una sola delle due correnti, ma esse non si riducono mai ad una sola, che si svolga in due movimenti contrari[13].

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Bibliografia

 

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Note

[1] Cfr. Popham M.R., The Destruction of the Palace at Knossos. Pottery of the Late Minoan III A Period, Göteborg 1970; Godart L., La caduta dei regni micenei a Creta e l’invasione dorica, in Musti D. (a cura di), Le origini dei Greci. Dori e mondo Egeo, Bari 1985, 173-200. Vd. ulteriormente la bibliografia.

[2] Sulle influenze cretesi nello sviluppo della Lineare B nel continente, cfr. Godart L., op. cit., 174-175. Per una nuova testimonianza di scrittura sillabica greco-cipriota (su un obelós di bronzo), rinvenuta a Skales (Palaepaphos) e risalente addirittura al sec. XI a.C., cfr. Karageorghis V., Palaepaphos-Skales. An Iron Age Cemetery in Cyprus, Konstanz 1983.

[3] Circa 1200 sono le tavolette in Lineare B di Pilo, circa 4000 quelle di Cnosso. Sul problema della cronologia delle tavolette cretesi, Godart L., op. cit., 177-178; L.R. Palmer, in vari studi (p. es. Mycenaeans and Minoans, London 19652), ha preso posizione contro il divario di circa 200 anni che si ammette tra le tavolette di Cnosso e quelle di Pilo; Levi D., Festòs e la civiltà minoica, II, 1, Roma 1981, 79-80, ne condivide i dubbi. Mentre da Micene e Tirinto le tavolette si contano solo a decine, da Tebe ne possediamo circa 300, caratterizzate da una cospicua presenza di toponimi beotici (con cui sono congrui gli sviluppi territoriali di età classica in Beozia) nonché da interessanti dati culturali.

[4] Per i testi: Ventris M., Chadwick J., Docuements in Mycenaean Greek (2a ed., a c. di Chadwick J.), Cambridge 1973; Morpurgo A., Mycenaeae Graecitatis Lexicon¸ Romae 1963; Sacconi A., Corpus delle iscrizioni in Lineare B di Micene, Roma 1974; Ead., Corpus delle iscrizioni vascolari in Lineare B, Roma 1974; Godart L., Sacconi A., Les tablettes en Linéaire B de Thèbes, Rome 1978; Bennett E.L., Olivier J.P., The Pylos Tablets Transcribed I-II, Rome 1973-1976; Chadwick J., Godart L., Killen J.T., Olivier J.P., Sacconi A., Sakellarakis I.A., Corpus of Mycenaean Inscriptions from Knossos I, Cambridge-Rome 1986; Olivier J.P., Godart L., Seydel C., Sourvinou C., Index généraux du Linéaire B, Rome 1973.

[5] Godart L., L’economia dei Palazzi, in Maddoli G. (a cura di), La civiltà micenea. Guida storica e critica, Roma-Bari 1977, 97-114.

[6] Sul problema, sempre valida l’impostazione di Ventris M., Chadwick J., op. cit., 232-233; 443-444; utile anche De Fidio P., I «dosmoi» pilii a Poseidon. Una terra sacra di età micenea, Roma 1977 [in part., 132-175] (con la tesi, da verificare, dell’identificazione di una rilevantissima proprietà del sacerdote di Poseidone, e delle offerte intese come tributi al detentore della proprietà eminente).

[7] Sui poteri del wánax miceneo (che concepisce fondamentalmente come semplici privilegi), Carlier P., La royauté en Grèce avant Alexandre, Strasbourg 1984, in part. 44-134 (vd. anche Musti D., Recenti studi sulla regalità greca: prospettive sull’origine della città [vd. Carlier P., La royauté en Grèce avant Alexandre; Drews R., Basileus. The Evidence for Kingship in Geometric Greece], RFIC 116 [1988], 99-121). Sui due distretti del regno miceneo di Pilo (la provincia citeriore e la provincia ulteriore), Chadwick J., The Two Provinces of Pylos, Minos 7 (1961), 123-141.

[8] Stubbings F.H., Mycenaean Pottery from the Levant, Cambridge 1951; Taylour W., Mycenaean Pottery in Italy and Adjacent Areas, Cambridge 1958; Id., I Micenei, Milano 1966; Vagnetti L. (a cura di)., Magna Grecia e mondo miceneo. Nuovi documenti, Taranto 1982; e altre indicazioni in bibliografia.

[9] A Cnosso si verifica una continuità di impronta micenea, dal 1450 al 1370 circa (cioè sino alla fine del Tardo Minoico III A 2); in questo periodo Cnosso sembra dominare sull’intera isola; alla caduta di Cnosso micenea pare sopravvivere per qualche tempo un regno autonomo di Chanià. Cfr. Godart L., op. cit., 176-177; in generale, Milani C., I palazzi di Creta, Milano 1981. Per le iscrizioni cretesi in Lineare A, cfr. Godart L., Olivier J.P., Recueil des Inscriptions en Linéaire A, 5 voll., Paris 1976-1985.

[10] Per la possibile identificazione, nel testo egiziano di Kom el-Heitan dell’inizio del XIV secolo a.C., di centri micenei (Messene, Micene, Nauplia, Citera, Tebe, Pisa, Helos), cfr. Sergent B., La liste de Kom El-Hetan et le Péloponnèse, Minos 16 (1977), 126-173; Edel E., Die Ortsnamenlisten aus dem Totentempel Amenophis III, Bonn 1966. Ci sono anche nomi di località cretesi e forse di Ilio.

[11] Cfr. Taylour W., opp. citt. n. 8.

[12] La diffusione della ceramica in Occidente è soprattutto del periodo Tardo Elladico (Miceneo) III B e C (1300-1075 a.C. circa).

[13] Cfr. Bass G.R., A Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun (Kaş): 1984 Campaign, AJA 90 (19869, 269- (ruolo mediatore di Cipro).

 

 

La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 64-72.

 

È dalla fine del XIII secolo, fino alla metà circa del secolo successivo, che il mondo miceneo (quello che è preferibile considerare l’insieme dei regni micenei piuttosto che un impero unitario) conosce innegabili segni di declino. I fatti archeologicamente più evidenti sono le distruzioni dei palazzi di Micene, di Tirinto, di Pilo alla fine del Miceneo IIIB (1300-1200 a.C.). Già il fatto che esista un periodo Miceneo IIIC (1200-1050 a.C.) significa comunque che a queste distruzioni non si accompagna una scomparsa repentina della civiltà (e perciò verosimilmente della popolazione) micenea: la ceramica, e il livello di vita del IIIC, si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente o esclusivamente ad un cambiamento di popolazione.

Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometricco, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico. Musée du Louvre.
Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometrico, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico (Atene). Paris, Musée du Louvre.

Le distruzioni dei palazzi, prese per sé, possono avere le cause più diverse. Cause naturali (terremoti disastrosi, accompagnati da incendi) sono da chiamare in causa certamente per Tirinto e forse anche per Pilo e Micene. Ma in quest’ultimo caso gli incendi potrebbero essere anche opera umana, cioè di invasori o/e distruttori. Distruzioni conseguenti a ribellioni interne non sono da escludere, benché questo presupponga una vasta diffusione del moto di ribellione, una sua lata sincronicità, una sua radicale efficacia nel produrre rivolgimenti socio-politici, che non è facile ammettere nelle condizioni del mondo antico, e che difficilmente avrebbe mancato di lasciare una qualche traccia nella stessa tradizione greca.

La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: sono i Dori nel Peloponneso, sono i Tessali in Tessaglia, e fra questi popoli sono anche talora ammessi stretti rapporti[1]. E tuttavia è facile osservare come, nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (in Argolide, in Messenia e nella stessa Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione con i popoli precedenti.

A questa tradizione gli storici in prima istanza e poi, sulla loro scorta, gli archeologi, hanno contrapposto la difficoltà di dare l’attributo “dorico” a specifici oggetti o monumenti, appartenenti all’epoca in cui l’invasione dorica del Peloponneso dovrebbe aver avuto luogo (nella tradizione cronografica ellenistica, il 1104 a.C., ottant’anni dopo la fine della guerra di Troia)[2].

Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.
Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.

Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. La verità è che la stessa tradizione greca stenta a ricollegare determinate distruzioni del II millennio con il nome dei Dori: fatta la tara delle azioni violente inevitabilmente legate ai processi della conquista, si può dire che i Dori non appaiano (e a ben ragione) nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori (le mura antichissime di città doriche vengono attribuite ai Ciclopi, non ai Dori!). La penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente (il mito del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso è un segno del voler accompagnare la memoria di una penetrazione di popolazioni dai distretti montuosi della Grecia centrale nel Peloponneso con il mito della riacquisizione da parte dei discendenti di Eracle, gli Eraclidi, di una regione che apparteneva al loro trisavolo).

Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un'anfora attica a figure nere (Lato A), dall'Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), dall’Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Ma non soltanto i Dori non appaiono nella tradizione come autori di spietate e radicali distruzioni e di stermini indiscriminati; c’è anche, positivamente, traccia di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea già alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide. Del palazzo di Pilo sarebbe stato distruttore Eracle, trisavolo dei mitici capi della conquista dorica (Temeno, Cresfonte e i figli del loro fratello Aristodemo, cioè Euristene e Procle). Nella generazione successiva ad Eracle avrebbe luogo la guerra di Troia (1194-1184 per Eratostene e per Apollodoro: ma la tradizione conosce date più alte, fino al 1340 circa per Duride e Timeo, un millennio prima della nuova spedizione “greca” contro l’Asia, quella di Alessandro Magno contro i Persiani; altri autori assumono date intermedie). Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei principi achei reduci da Troia. Sarà forse la proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come semplice fatto naturale e necessario, un dato di semplice routine dell’esistenza): sta di fatto che quella dei Greci sui Troiani è una strana vittoria, e l’épos che la celebra, e il complesso dei riecheggiamenti letterari, non hanno nulla di una trionfalistica celebrazione. Al racconto epico della guerra di Troia si accompagna tutta una memoria di fatti di contorno, che parla di nóstoi, di ritorni degli eroi, accompagnati da lutti, seguiti da dissidi, da esili, da profonde convulsioni del mondo dei regni micenei, di cui è primo e validissimo interprete proprio lo storico Tucidide (I, 10 ss.): e tutto questo è di circa tre generazioni anteriore all’epoca della presunta invasione dorica del Peloponneso.

Una teoria dei due tempi (o di più tempi) nel declino del mondo miceneo si impone dall’interno stesso della tradizione greca, ed è naturale che vi siano oggi storici ed archeologi che, più o meno consapevolmente, riproducono questo plausibile modello di svolgimento degli eventi. A una prima crisi interna al mondo miceneo succede una progressiva trasformazione, in alcune aree vitali del mondo greco (Peloponneso, Tessaglia, Creta, Sporadi meridionali e altre isole), delle condizioni di popolamento. Vi si accompagna anche un rapporto diverso col territorio, che, prima oggetto del dominio di signori dell’epoca micenea, di una società a vertice palaziale, diventa proprietà di tribù di invasori, organizzate in una forma molto meno gerarchica e verticistica. Le fertili pianure, un tempo dominate dai palazzi, diventano ora l’oggetto della spartizione delle nuove tribù. I nuovi centri politici sono più immediatamente correlati ai territori coltivabili (ciò vale per Argo in Argolide, per Steniclaro e vari centri della Messenia orientale, per Gortina rispetto a Festo, a Creta, per Larissa e altre città rispetto a Iolco in Tessaglia, ecc.). è solo un’ipotesi, che le nuove popolazioni praticassero un’economia di tipo pastorale, e che avessero un atteggiamento negativo nei confronti dell’agricoltura, che si manifesterebbe proprio nell’adozione di forme di proprietà collettiva o comunque nel rifiuto dell’esercizio dell’agricoltura, affidato al lavoro di popolazioni asservite[3]. Forse l’atteggiamento di fondo dei Dori verso l’agricoltura è più positivo di quel che questo schema consente di ammettere, e proprio il declino demografico delle ultime età micenee può aver attirato nuovi coltivatori; certamente i rapporti di proprietà della terra sono ben diversi da quelli di epoca palaziale, perché altri (cioè molti di più e in forma diversa) sono ormai i titolari della proprietà. L’adozione del modulo della servitù rurale è forse soltanto un adattamento delle possibilità di “dipendenza” che la vecchia, obliterata struttura socio-economica in se stessa portava (non tanto il frutto di un’originaria avversione per l’esercizio dell’agricoltura come attività produttiva).

Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Milano 2010, p. 68
Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, p. 68.

Ma com’è da immaginare il primo tempo del declino miceneo? Le stesse cause interne di conflitti sociali tra strati diversi della popolazione, o tra il sovrano e un’embrionale aristocrazia, potrebbero essere state accompagnate dall’irrompere di fattori distruttivi esterni, che non sarebbero però ancora i Dori, benché quei fattori possano aver preparato, anche dal punto di vista della creazione di zone di richiamo per movimenti di popoli, l’invasione dorica dei regni micenei. In generale gli storici fanno allora riferimento ai Popoli del Mare, di cui testi egiziani dalla metà del XIII agli inizi del XII secolo a.C. attestano la presenza, i movimenti, l’attività turbolenta, che appoggia tentativi d’invasione da parte libica, ma poi sconvolge soprattutto l’Oriente anatolico e siro-palestinese, per arrestarsi contro il muro della resistenza dei faraoni egiziani (Ramses II, Merneptah, Ramses III). Vero è che i Popoli del Mare, secondo alcuni, comprendono gli stessi Micenei, e quindi le egittocentriche e trionfalistiche rappresentazioni egiziane potrebbero significare movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività distruttiva.

Ma dal XIII secolo le regioni del Mediterraneo orientale conoscono modificazioni, nelle condizioni del popolamento e nella distribuzione e organizzazione del potere, che potrebbero essere in rapporto con le stesse trasformazioni interne al mondo miceneo, trasformazioni che abbiamo visto essere riflesso di crescita del mondo miceneo da un lato, ma anche espressione di inquietudini interne, di bisogni cui non corrispondono le risorse, dall’altro: un singolare intreccio di aspetti positivi e di fattori negativi e di declino. Particolarmente suggestiva, in questo senso, la coincidenza tra le tradizioni e i dati archeologici relativi alla miceneizzazione di Cipro. Frequentazioni di mercanti e artigiani risaliranno già al XIV secolo, ma è solo dall’ultimo trentennio del XIII secolo, quando cioè sta già passando il momento della fioritura dei palazzi e dei regni micenei, che a Cipro si comincia a registrare una presenza stabile e si potrà parlare di insediamenti micenei (a Enkomi, a Kition, e così via di seguito). Ne risulterà una civiltà micenea molto mescolata di elementi propri delle culture del Vicino Oriente, ma prima di quella data questi ultimi sono del tutto dominanti. Ebbene, la tradizioni concepisce la migrazione degli Achei a Cipro, con la conseguente fondazione di Salamina sulla costa orientale dell’isola (non lontano da Enkomi), come un fenomeno tardivo dell’espansione achea, un contraccolpo di fatti luttuosi che accompagnano il rientro dei due figli di Telamone, Aiace e Teucro, dalla guerra di Troia, e come opera dell’esule Teucro.

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre
Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’epoca che la tradizione letteraria connette con l’arrivo dei Dori nel Peloponneso e nelle isole dell’Egeo è dunque obiettivamente contrassegnata da trasformazioni notevoli, archeologicamente documentate. Tuttavia sarebbe indimostrabile e forse anche improbabile considerare queste novità culturali come il portato di un nuovo popolo. Ad una connessione così rigida e meccanica si potrebbero muovere molte obiezioni. Ci sono trasformazioni che investono non solo l’area dorica, ma anche, e prima che quella dorica, altre aree che, pur se toccate dal movimento dei Dori, non ne furono il principale teatro né la destinazione definitiva (ciò vale, ad esempio, per la ceramica proto-geometrica che ha la sua prima diffusione in Attica, anche se investe regioni doriche come l’Argolide e altre ancora; ciò vale anche per il rituale funerario dell’incinerazione). L’uso delle tombe a cista non appare così innovativo, come un tempo si è sostenuto, rispetto all’epoca micenea. I fatti di continuità tra miceneo, sub-miceneo e geometrico sono verificabili sia in Argolide sia a Creta. Viceversa la fine dei palazzi riguarda, oltre le aree poi dorizzate, anche la stessa Attica.

C’è un grande mutamento nell’area mediterranea, a cominciare dalle sue regioni orientali, che riguarda l’uso dei metalli, di particolare, ma non esclusiva, destinazione militare: il cambiamento segna anche, dall’Età del Bronzo a quella del Ferro. Ciò presuppone da un lato, e produce dall’altro, cambiamenti di ordine economico e di civiltà in genere, e cambiamenti di ordine socio-politico; vi sono collegate innovazioni nelle linee di comunicazione, di scambio, di traffico. Entrano così in gioco, in un più stretto rapporto col mondo greco, quelle regioni dell’Anatolia orientale e dell’entroterra siro-anatolico, ove si estrae e da cui s’importa il ferro.

La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142
La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142.

Ma la maggiore disponibilità naturale di tale metallo significa anche un ruolo diverso, nella società, dei possessori e degli artigiani di quel metallo: la scarsità stessa del rame aveva assegnato ai suoi possessori e artigiani una posizione particolare nelle società palaziali, che ci sono note attraverso le tavolette che ne registrano la contabilità. Inoltre, la stessa possibilità di un uso più ampiamente diffuso di armi nel nuovo metallo si accompagna a una nuova organizzazione militare. Furono i Dori portatori della cultura che fa uso del nuovo metallo, o di nuovi tipi di armi? Questa sembra una connessione troppo schematica, rispondente ad una positivistica equazione tra popoli e armi o oggetti, insomma tra soggetti ed oggetti storici. Certamente, nella storia dei secoli oscuri delle città che in piena luce di storia figureranno come doriche saranno da ammettere novità di ordine sociale e politico, connesse con le istituzioni che i Dori portarono, o si diedero, nella conquista; a queste novità socio-politiche si adattano innovazioni che sono della tecnica metallurgica, della organizzazione e tattica militare, del rituale funerario, delle espressioni artistiche, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori né i soli fruitori. In comune, sul piano socio-politico, c’è una diffusione di valori collettivi, di espressioni di massa, di tendenze ugualitarie, tutte cose da intendere non come momento di democrazia, che sarebbe gravissimo anacronismo, ma come riflesso di un crollo di precedenti forme di potere, più accentrato, di tipo monarchico e palaziale.

 

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Note

 

[1] Per la tradizione sulla provenienza dei Tessali dalla Tesprozia, cfr. Hdt. VII 176; Sordi M., La lega tessala fino ad Alessandro Magno, Roma 1958, 1-3; per i collegamenti con le Sporadi meridionali e in part. con Cos, v. Il. II 676 ss., e autori ellenistici (Apollodoro, Filita, Teocrito, Dosiade, Diodoro); cfr. Sordi M., op. cit., 3 ss. Sul problema, v. Musti D., Le origini dei Greci: Dori e mondo egeo, Torino 19912, 57-59.

[2] Cfr. per la cronologia della guerra di Troia e del “ritorno degli Eraclidi”, Apollod. FGrHist. 244 F 61-62.

[3] Cfr. Kirsten E., Gebirgshirtentum und Seßhaftigkeit – Die Bebeutung der Dark Ages für die griechische Staatenwelt: Doris und Sparta, in Deger-Jalkotzy S. (Hg.), Griechenland, die Ägäis und die Levante während der „Dark Ages“ vom 12. bis zum 9. Jh. v. Chr. Akten des Symposions von Stift Zwettl (NÖ) 11.-14. Oktober 1980, Wien 1983, 355-445, per la concezione qui esposta.