di Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. III, Milano 201211, pp. 57-67.

Abbiamo visto a suo tempo che alla scansione della felicità concorrono, in funzione strumentale, anche i beni esteriori. Ma – è opportuno ribadirlo – essi vi concorrono in quanto semplici mezzi per la pratica di quell’attività virtuosa in cui la felicità risiede (la ricchezza, ad esempio, è condizione strumentale indispensabile per l’esercizio della magnificenza). Ma per Aristotele vi sono altre due determinazioni le quali, senz’entrare, neppure esse, nella sfera della definizione della felicità, vi si connettono però secondo un legame strettissimo, inerente alla natura stessa dell’uomo come soggetto della felicità. Si tratta dell’amicizia e del piacere, i quali appartengono all’uomo come dimensioni costitutivamente radicate nel suo essere: la prima in quanto egli, a mezzo com’è tra il bruto e ilDio, né partecipa della chiusura di quello ad ogni comunanza spirituale, né dell’assoluta autosufficienza di questo, ma è per natura un animale socievole; il secondo in quanto, conformemente all’espressione aristotelica, «tutti ritengono che è quanto mai proprio al genere umano»[1].
Pertanto la trattazione di quello che è il supremo bene «dell’uomo» non può prescindere dall’esame di queste condizioni propriamente umane*. E, sotto questo riguardo, esse definiscono delle condizioni della felicità in senso ancor più stretto e più marcato di quanto non le definiscano i beni esteriori, attesta appunto la loro costitutiva inerenza alla natura umana.

Una tale inerenza, nel caso dell’amicizia, è a chiare lettere asserita dal filosofo in relazione sia alla sua utilità, sia alla sua convivenza morale, sicché – precisa Aristotele – «l’amicizia non è una cosa soltanto necessaria, ma anche bella». È necessaria ed utile perché nei momenti di bisogno è agli amici che ci si rivolge per avere soccorso, ed è moralmente bella perché tale è il voler bene agli amici. È questa un’istanza che pervade interamente il senso della classicità e che Aristotele riprende ed avvalora nei termini più marcati. Ovviamente l’amicizia è intesa dallo Stagirita nell’accezione più vasta, comprendente sia l’affetto vero e proprio degli amici che ogn’altra forma di bene gli uomini possono provare verso i loro simili: il bene coniugale, quello del padre per i figli e viceversa, quello dei fratelli, quello che intercorre tra i cittadini di una medesima pólis.
La trattazione ruota fondamentalmente intorno a due istanze: l’individuazione delle specie di amicizia e la determinazione delle condizioni in cui l’amicizia si realizza: se abbia luogo tra i simili, come ha sostenuto Empedocle, o tra gli opposti, secondo alcune massime di Euripide e di Eraclito.
Per la soluzione della prima questione Aristotele avvia le mosse dall’analisi di che cos’è amabile. Tale si rivelano il bene, il piacere e l’utile (ancorché quest’ultimo, propriamente, sia soltanto un mezzo in vista degli altri due) [2]. Ma queste determinazioni dell’amabile non danno luogo ad amicizia quanto l’oggetto dell’amabile stesso sia una cosa inanimata, o non vi sia contraccambio d’affetto: caso, questo, in cui si dovrebbe più propriamente parlare di benevolenza[3].
Ma quando vi sia contraccambio, allora, in relazione alle tre anzidette determinazioni dell’amabile, si specificano anche tre forme d’amicizia. Una fondata sul bene e sulla virtù, propria degli uomini che si amano in ragione della loro bontà[4]. È l’amicizia migliore e più duratura in quanto in essa gli amici si amano per se stessi: giacché per chi è buono il bene non cessa di essere amabile e di fatto viene sempre amato, e gli amici di questa specie sono di per se stessi buoni. Di conseguenza, a meno che non venga a mancare la bontà, non può venire a mancare neppure l’affetto reciproco. Ma la durevolezza di questa forma d’amicizia si giustifica anche col motivo che, amando l’amico, si ama in un certo modo se stessi, giacché l’amico è una sorta di alter ego ed è un bene per chi lo ama. E dal momento che ognuno ama quello che per lui è bene, e soltanto nell’amore che i buoni hanno per ciò che è autenticamente ed in se stesso buono risiedono vera parità ed uguale contraccambio, soltanto nell’amicizia di costoro si verifica la condizione di durevolezza.
Inoltre ad una tale amicizia competono anche utilità e piacevolezza in quanto il bene è utile e per chi lo compie e per gli altri, e d’altro chi ama la virtù prova piacere delle azioni virtuose che compie così come di quelle che compiono gli altri. Si danno allora, in questa strutturale implicazione nell’amicizia tra i buoni di tutte le determinazioni dell’amabile, tutte le condizioni di un’amicizia sicura.
Certo, avverte lo Stagirita, queste relazioni ottimali sono rare, giacché sono rare le persone elevate in cui esse s’incontrano. Ed inoltre per stabilirsi esse hanno bisogno di tempo e di lunga convivenza, sì che gli amici possano conoscersi reciprocamente e possa nascere in loro la dovuta, vicendevole fiducia.
Le altre due forme d’amicizia sono quelle fondate sul piacere e l’utile, nelle quali gli amici si amano perché rispettivamente si procurano piacere o si scambiano vantaggi[5]. Ma proprio per questo esse non hanno nessuna garanzia di saldezza, giacché, quando il motivo del legame vien meno, vien meno anche l’amicizia, non avendo i soggetti altra ragione per continuare il rapporto. Una tale fragilità è più radicata nell’amicizia fondata sull’utile, in quanto l’utile è cosa assai mutevole, più mutevole anche del piacere; ma anche l’amicizia fondata su quest’ultimo non ha stabilità, com’è esemplarmente illustrato dal filosofo con il caso degli amanti: essi, quando da una parte la bellezza sia svanita e dall’altra sia conseguentemente venuto meno il piacere dell’elogio, si lasciano.
Queste specie d’amicizia sono tali soltanto per somiglianza con quella fondata sul bene e, a differenza di quest’ultima, esse possono aver luogo anche tra uomini indegni, o tra buoni e malvagi. Per se stessi, invece, sono amici soltanto i buoni, almeno nel senso dell’amicizia perfetta[6].

Per ciò che riguarda la seconda questione va rilevato che per Aristotele l’amicizia tra uguali è migliore di quella tra disuguali, e così quella tra simili lo è rispetto a quella tra contrari. Istanze queste che lo Stagirita comprova mediante l’analisi di una minuta serie di casi dove l’amicizia è in gioco in situazioni particolari diverse.
Tra i temi dell’esame aristotelico ne spiccano due, che è qui opportuno mettere in chiaro. Innanzitutto il rapporto che lo Stagirita istituisce tra amicizia e giustizia nel contesto della società politica. Giustizia ed amicizia hanno infatti – precisa il filosofo – lo stesso oggetto: ché la prima si esplica in seno a delle comunità, e dove vi è comunità di uomini si delinea anche qualche forma d’amicizia[7]. Si danno quindi diversi gradi d’amicizia e per ciascuno di essi le determinazioni del giusto rivestono un’importanza maggiore o minore, a seconda che l’amicizia sia più o meno intensa. Resta comunque che tutte le forme di comunità sono parti della comunità politica e si risolvono in ultima istanza in questa[8]; la quale ha per fine l’utile comune, mentre quelle perseguano forme di utilità particolari, ciascuna diversa dalle altre. È dunque nella comunità politica che per il nostro filosofo devono esser ricercate le condizioni più generali dell’amicizia. O – più esattamente – per ciascun tipo di configurazione assunto da quella si hanno forme diverse d’amicizia, ancorate a tre modelli diversi.
Secondo uno schema ancora platonico[9] Aristotele distingue tre forme di costituzioni rette: la monarchia, l’aristocrazia e la timocrazia; e tre forme di costituzioni degeneri: la tirannide, l’oligarchia e la democrazia[10]. Ed individua nei rapporti d’amicizia che hanno luogo in seno alla famiglia altrettanti modelli dell’amicizia politica che si realizza in queste costituzioni.

Quella che si verifica nel regno assomiglia all’amicizia tra il padre e i figli[11]. Si tratta di un’amicizia tra disuguali, tali essendo rispettivamente il padre ed il re rispetto ai figli e ai sudditi. È opportuno rilevare come nel primo caso la diversità riguardi sia la ragione e, per così dire, il radicamento dell’amore dei genitori verso i figli rispetto alla ragione e al radicamento dell’amore che questi hanno verso quelli, sia la durata dello stesso. «I genitori» spiega Aristotele «amano i figli come essenti qualcosa di loro stessi, ed i figli amano i genitori come vengono da loro più di quanto coloro che sono stati generati sanno che derivano da quelli, ed il principio da cui procede un essere è unito come a cosa propria all’essere che è stato generato più di quanto l’essere che è derivato è unito all’essere che l’ha fatto. Ché, l’essere che deriva da un principio appartiene come cosa propria al principio dal quale deriva (ad esempio un dente, un capello o qualunque altra cosa appartiene come cosa propria a colui che la possiede), invece il principio dal quale un essere deriva non appartiene per nulla come cosa propria all’essere che ne è derivato, o vi appartiene di meno. Ma anche per la quantità di tempo <i genitori amano di più i figli>. I genitori li amano infatti non appena nati, i figli invece li amano dopo che è passato del tempo, quando hanno acquisito intelligenza o per lo meno percezione»[12].
Ora, come l’amore del padre verso i figli è superiore a quello che questi hanno per lui, ed ugualmente sono maggiori anche i benefici che il primo arreca ai secondi, a partire dal bene della vita, che è il più grande di tutti, così anche il monarca verso i sudditi si trova in una condizione di superiorità in ragione dei maggiori benefici che rende loro e della cura che se ne prende, al pari – precisa Aristotele – di un pastore nei confronti del gregge[13]. Il modello pastorale, ricorrente in Platone per denotare la prerogativa del potere monarchico[14], esprime molto eloquentemente l’ancestralità del tipo di governo che qui è in questione. Un’ancestralità, del resto, che è testualmente trasparente dal richiamo di Aristotele dell’appellativo di «pastore di popoli» con cui Omero qualificava i re ed in particolare Agamennone[15].
Nella comunità retta ad aristocrazia l’amicizia assomiglia a quella tra il marito e la moglie, essendo quegli «migliore» di questa. In quanto tale, anche questa è un’amicizia tra disuguali, nella quale vi è «proporzionalità al merito e chi è superiore (scil. il marito) ha una parte più larga di bene, e ciascuno quello che gli è appropriato»[16]. Essa ha il suo radicamento nella natura, anzi, è ancor più naturale ed originaria dello stesso rapporto sociale «giacché per natura l’uomo è un essere più portato a vivere in coppia che un essere politico, quanto la famiglia è cosa anteriore e più necessaria della città e la procreazione dei figli è cosa più comune ai viventi»[17]. Ma – precisa il filosofo – la generazione dei figli, vale a dire la dimensione più propriamente carnale dell’amicizia coniugale, è ben lungi dall’esaurire quest’amicizia stessa, la quale ha invece il suo fondamento nella complementarietà che i coniugi, nel mettere in comune le prerogative «naturali» proprie di ciascuno, si arrecano vicendevolmente in vista sia del far fronte alle necessità della vita, sia, in senso ancor più marcato, dalla costituzione di un rapporto essenzialmente spirituale nel quale l’uno e l’altro, esercitando rispettivamente la «propria» virtù, si migliorano e trovano piacevolezza oltre ad utilità[18]. In questo senso l’amicizia coniugale si palesa come dimensione umana e solamente umana. E, tra i beni che i coniugi mettono in comune, quello maggiore è costituito dai figli (ecco la valenza «non carnale», vale a dire «spirituale» del matrimonio, rilevante anche là dove è necessariamente implicato un atto che attiene l’animalità dell’uomo: i figli non costituiscono soltanto – o, più esattamente, costituiscono solo minimamente – l’effetto di una unione fisica dell’uomo con la donna, ma definiscono essenzialmente il «bene» che essi hanno in comune e realizzano insieme). Per questo, rileva il filosofo, «i coniugi che non hanno figli si dividono più rapidamente»[19]: perché appunto l’amicizia tra il marito e la moglie, che è un’amicizia di natura fondamentalmente spirituale, manca, con la mancanza di figli, del bene spirituale ed umano ad essi proprio, e quindi vien meno nella sua stessa ragione di bene «dell’uomo».
L’amicizia che si realizza nelle timocrazie è simile invece a quella che ha luogo tra i fratelli. Si tratta di un’amicizia tra uguali, come attesta la sua stessa somiglianza con quella tra compagni. Infatti tra i fratelli vigono parità di condizione e, in virtù dell’età pressoché uguale, gli stessi sentimenti e gli stessi interessi, oltreché gli stessi costumi[20]. Ora, nelle timocrazie «i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi. Pertanto si comanda a turno ed in ugual misura»[21].

In tutte le forme anzidette di costituzione politica, in ogni tipo di amicizia si realizza una forma specifica di giustizia. Il re, come del resto il padre, riceve maggiore onore, quanto maggiormente dà in benefici. Lo stesso avviene nelle aristocrazie: chi regge lo Stato riceve in cambio onore e possibilità di comando, offrendo egli le sue cure al bene dei cittadini. Questi invece nelle timocrazie hanno pari dignità, dando ciascuno alla comunità politica tanto bene quanto da essa riceve[22].
Nelle costituzioni degeneri, come non si ha giustizia, così non si ha neppure amicizia, se non a quel livello minimale che riguarda, propriamente, non già la dimensione del rapporto politico in quanto tale, ma quella del rapporto umano. È questo, esemplarmente, il tipo di rapporto che si verifica nella relazione tra padrone e schiavo: verso quest’ultimo, in quanto schiavo, non può esserci giustizia e quindi neppure amicizia, ancorché esse possano sussistere verso di lui in quanto uomo, giacché esiste un vincolo capace di toccare ogni essere umano. Ora, il rapporto tra il tiranno ed i sudditi è assimilabile a quello tra il padrone e gli schiavi, sicché «nella tirannide nulla o scarsa è l’amicizia»[23]. Infatti – precisa il filosofo – non può esserci rapporto umano, in termini sia di amicizia sia di giustizia, tra coloro tra i quali nessuna umanità è in comune, e tra il tiranno e i suoi sudditi, così come tra il padrone e lo schiavo, sussiste un rapporto puramente strumentale, come quello di un artigiano verso i suoi arnesi di lavoro, o quello dell’anima verso il corpo; e di questa stessa natura è anche l’amicizia.
L’altra questione emergente dalla trattazione aristotelica concerne l’amicizia verso se stessi[24]: un’amicizia che a tutta prima appare aporetica, in quanto, se per un verso si biasimano coloro che amano soprattutto e assolutamente se stessi e si riscontrano nel loro amore egoistico i medesimi tratti del comportamento del malvagio, il quale sembra compiere i misfatti che compie soltanto per amore verso di sé; per altro verso però viene considerata amicizia per eccellenza quella nella quale l’amico ama l’amico «come se stesso», donde sembrerebbe che l’uomo debba amare innanzitutto se stesso.
Aristotele risolve l’aporia distinguendo tra l’«egoismo» del virtuoso e l’egoismo del malvagio, e rilevando come soltanto questo secondo in realtà sia biasimato. Si biasima infatti l’egoismo di coloro che vorrebbero soltanto per sé ogni ricchezza ed ogni piacere, anche causando inimicizie e cadendo nei vizi. Ma non si biasimano coloro che, attuando sempre la giustizia, si appropriano e vogliono per sé il bene e il bello, esercitandosi nella virtù.
L’«egoismo» del virtuoso è dunque lodevole, in quanto questi desidera per sé i beni migliori ed appaga la parte più eccellente della sua anima, vale a dire l’intelletto, nella quale egli è tangente al Dio e seguendo la quale l’uomo realizza appieno la sua natura di essere razionale e […] da mortale si fa immortale. Insomma, nell’apprezzamento aristotelico dell’amicizia verso di sé è sostanzialmente messo in risalto il motivo del dialogo interiore di sé con se stessi. Per questo – precisa Aristotele – il virtuoso ama vivere con se medesimo, perché prova piacere del ricordo delle belle azioni compiute e della speranza di operarne altre parimenti belle, come prova gioia dedicandosi alla meditazione teoretica[25]. Molto opportunamente ha scritto a questo riguardo il Berti che un tale apprezzamento «rinvia direttamente all’ideale di vita del sapiente col quale, sappiamo, Aristotele identifica la felicità»[26].
Del resto l’«egoismo» del virtuoso, ben lungi dal comportare una chiusura verso gli altri, si risolve invece anche in un agire a loro vantaggio. Ché – precisa lo Stagirita – amando se stesso il virtuoso realizza assieme il suo interesse e quello altrui, tanto che, se tutti fossero egoisti in questo modo, si assisterebbe ad un’altruistica gara di azioni moralmente belle e si avrebbe la maggior garanzia di bene privato e comune. Lo attesta il fatto che, agendo per amor di sé, vale a dire del bene morale che gli è proprio il virtuoso agisce a favore degli amici e della patria, e sa offrire loro, quando l’occasione lo richiede, anche la sua vita. E proprio per l’amore del bene, sul quale si radica l’amore di sé, egli non si occupa delle ricchezze e dell’onore, in genere di tutti i beni che costituiscono motivo di lotta tra gli uomini, e preferisce una vita breve ma dignitosa ad una lunga ma vile, ed offrirà onori e cariche ai suoi amici, ed anzi lascerà che siano costoro ad agire, se gli sembrerà opportuno che siano gli amici a compiere belle azioni[27].
Note
*Qui, in particolare, si tratterà appunto dell’amicizia.
[1] Eth. Nic. X 1, 1172 b 19.
[2] Eth. Nic. VIII 2, 1155 b 18-21.
[3] Ibid., 1155 b 27 sgg.
[4] L’analisi di questa specie d’amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 4.
[5] L’analisi di queste due specie di amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 3.
[6] Il confronto tra l’amicizia fondata sulla virtù e le altre due specie di amicizia è il tema di Eth. Nic. VIII 5.
[7] Eth. Nic. VIII 11, 1159 b sgg.
[8] Ibid., 1160 a 8-9.
[9] Cfr. Politico, 297 C – 303 B.
[10] Eth. Nic. VIII 12, 1160 a 31 sgg.
[11] Ibid., 1160 b 23 sgg.
[12] Eth. Nic. VIII 14, 1161 b 18 sgg.
[13] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 10 sgg.
[14] Cfr. a riguardo K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. it., vol. I, Roma 1973, pp. 36 sgg.
[15] Cfr. Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 14.
[16] Ibid., 1161 a 22 sgg.
[17] Eth. Nic. VIII 14, 1162 a 17 sgg.
[18] Ibid., 1162 a 20 sgg.
[19] Ibid., 1162 a 27-28.
[20] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 22 sgg.
[21] Ibid.
[22] Su questi rapporti cfr. Eth. Nic. VIII 13.
[23] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 31.
[24] Eth. Nic. IX 4; 8.
[25] Eth. Nic. IX 4, 1166 a 23 sgg.
[26] E. Berti, Profilo di Aristotele, Roma 1979, p. 274.
[27] Eth. Nic. IX 8, 1169 a 11 sgg.
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