L’amicizia come condizione concomitante della felicità

di Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. III, Milano 201211, pp. 57-67.

 

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

Abbiamo visto a suo tempo che alla scansione della felicità concorrono, in funzione strumentale, anche i beni esteriori. Ma – è opportuno ribadirlo – essi vi concorrono in quanto semplici mezzi per la pratica di quell’attività virtuosa in cui la felicità risiede (la ricchezza, ad esempio, è condizione strumentale indispensabile per l’esercizio della magnificenza). Ma per Aristotele vi sono altre due determinazioni le quali, senz’entrare, neppure esse, nella sfera della definizione della felicità, vi si connettono però secondo un legame strettissimo, inerente alla natura stessa dell’uomo come soggetto della felicità. Si tratta dell’amicizia e del piacere, i quali appartengono all’uomo come dimensioni costitutivamente radicate nel suo essere: la prima in quanto egli, a mezzo com’è tra il bruto e ilDio, né partecipa della chiusura di quello ad ogni comunanza spirituale, né dell’assoluta autosufficienza di questo, ma è per natura un animale socievole; il secondo in quanto, conformemente all’espressione aristotelica, «tutti ritengono che è quanto mai proprio al genere umano»[1].

Pertanto la trattazione di quello che è il supremo bene «dell’uomo» non può prescindere dall’esame di queste condizioni propriamente umane*. E, sotto questo riguardo, esse definiscono delle condizioni della felicità in senso ancor più stretto e più marcato di quanto non le definiscano i beni esteriori, attesta appunto la loro costitutiva inerenza alla natura umana.

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene. Affresco, 1509-1511 ca. Stanza della Signatura, Musei Vaticani.

Una tale inerenza, nel caso dell’amicizia, è a chiare lettere asserita dal filosofo in relazione sia alla sua utilità, sia alla sua convivenza morale, sicché – precisa Aristotele – «l’amicizia non è una cosa soltanto necessaria, ma anche bella». È necessaria ed utile perché nei momenti di bisogno è agli amici che ci si rivolge per avere soccorso, ed è moralmente bella perché tale è il voler bene agli amici. È questa un’istanza che pervade interamente il senso della classicità e che Aristotele riprende ed avvalora nei termini più marcati. Ovviamente l’amicizia è intesa dallo Stagirita nell’accezione più vasta, comprendente sia l’affetto vero e proprio degli amici che ogn’altra forma di bene gli uomini possono provare verso i loro simili: il bene coniugale, quello del padre per i figli e viceversa, quello dei fratelli, quello che intercorre tra i cittadini di una medesima pólis.

La trattazione ruota fondamentalmente intorno a due istanze: l’individuazione delle specie di amicizia e la determinazione delle condizioni in cui l’amicizia si realizza: se abbia luogo tra i simili, come ha sostenuto Empedocle, o tra gli opposti, secondo alcune massime di Euripide e di Eraclito.

Per la soluzione della prima questione Aristotele avvia le mosse dall’analisi di che cos’è amabile. Tale si rivelano il bene, il piacere e l’utile (ancorché quest’ultimo, propriamente, sia soltanto un mezzo in vista degli altri due) [2]. Ma queste determinazioni dell’amabile non danno luogo ad amicizia quanto l’oggetto dell’amabile stesso sia una cosa inanimata, o non vi sia contraccambio d’affetto: caso, questo, in cui si dovrebbe più propriamente parlare di benevolenza[3].

Ma quando vi sia contraccambio, allora, in relazione alle tre anzidette determinazioni dell’amabile, si specificano anche tre forme d’amicizia. Una fondata sul bene e sulla virtù, propria degli uomini che si amano in ragione della loro bontà[4]. È l’amicizia migliore e più duratura in quanto in essa gli amici si amano per se stessi: giacché per chi è buono il bene non cessa di essere amabile e di fatto viene sempre amato, e gli amici di questa specie sono di per se stessi buoni. Di conseguenza, a meno che non venga a mancare la bontà, non può venire a mancare neppure l’affetto reciproco. Ma la durevolezza di questa forma d’amicizia si giustifica anche col motivo che, amando l’amico, si ama in un certo modo se stessi, giacché l’amico è una sorta di alter ego ed è un bene per chi lo ama. E dal momento che ognuno ama quello che per lui è bene, e soltanto nell’amore che i buoni hanno per ciò che è autenticamente ed  in se stesso buono risiedono vera parità ed uguale contraccambio, soltanto nell’amicizia di costoro si verifica la condizione di durevolezza.

Inoltre ad una tale amicizia competono anche utilità e piacevolezza in quanto il bene è utile e per chi lo compie e per gli altri, e d’altro chi ama la virtù prova piacere delle azioni virtuose che compie così come di quelle che compiono gli altri. Si danno allora, in questa strutturale implicazione nell’amicizia tra i buoni di tutte le determinazioni dell’amabile, tutte le condizioni di un’amicizia sicura.

Certo, avverte lo Stagirita, queste relazioni ottimali sono rare, giacché sono rare le persone elevate in cui esse s’incontrano. Ed inoltre per stabilirsi esse hanno bisogno di tempo e di lunga convivenza, sì che gli amici possano conoscersi reciprocamente e possa nascere in loro la dovuta, vicendevole fiducia.

Le altre due forme d’amicizia sono quelle fondate sul piacere e l’utile, nelle quali gli amici si amano perché rispettivamente si procurano piacere o si scambiano vantaggi[5]. Ma proprio per questo esse non hanno nessuna garanzia di saldezza, giacché, quando il motivo del legame vien meno, vien meno anche l’amicizia, non avendo i soggetti altra ragione per continuare il rapporto. Una tale fragilità è più radicata nell’amicizia fondata sull’utile, in quanto l’utile è cosa assai mutevole, più mutevole anche del piacere; ma anche l’amicizia fondata su quest’ultimo non ha stabilità, com’è esemplarmente illustrato dal filosofo con il caso degli amanti: essi, quando da una parte la bellezza sia svanita e dall’altra sia conseguentemente venuto meno il piacere dell’elogio, si lasciano.

Queste specie d’amicizia sono tali soltanto per somiglianza con quella fondata sul bene e, a differenza di quest’ultima, esse possono aver luogo anche tra uomini indegni, o tra buoni e malvagi. Per se stessi, invece, sono amici soltanto i buoni, almeno nel senso dell’amicizia perfetta[6].

 

Pittore di Atene 12778. Un’etera e il suo cliente. Pittura vascolare da un lekythos attico a figure rosse, 460-450 a.C. ca., da Eretria. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Per ciò che riguarda la seconda questione va rilevato che per Aristotele l’amicizia tra uguali è migliore di quella tra disuguali, e così quella tra simili lo è rispetto a quella tra contrari. Istanze queste che lo Stagirita comprova mediante l’analisi di una minuta serie di casi dove l’amicizia è in gioco in situazioni particolari diverse.

Tra i temi dell’esame aristotelico ne spiccano due, che è qui opportuno mettere in chiaro. Innanzitutto il rapporto che lo Stagirita istituisce tra amicizia e giustizia nel contesto della società politica. Giustizia ed amicizia hanno infatti – precisa il filosofo – lo stesso oggetto: ché la prima si esplica in seno a delle comunità, e dove vi è comunità di uomini si delinea anche qualche forma d’amicizia[7]. Si danno quindi diversi gradi d’amicizia e per ciascuno di essi le determinazioni del giusto rivestono un’importanza maggiore o minore, a seconda che l’amicizia sia più o meno intensa. Resta comunque che tutte le forme di comunità sono parti della comunità politica e si risolvono in ultima istanza in questa[8]; la quale ha per fine l’utile comune, mentre quelle perseguano forme di utilità particolari, ciascuna diversa dalle altre. È dunque nella comunità politica che per il nostro filosofo devono esser ricercate le condizioni più generali dell’amicizia. O – più esattamente – per ciascun tipo di configurazione assunto da quella si hanno forme diverse d’amicizia, ancorate a tre modelli diversi.

Secondo uno schema ancora platonico[9] Aristotele distingue tre forme di costituzioni rette: la monarchia, l’aristocrazia e la timocrazia; e tre forme di costituzioni degeneri: la tirannide, l’oligarchia e la democrazia[10]. Ed individua nei rapporti d’amicizia che hanno luogo in seno alla famiglia altrettanti modelli dell’amicizia politica che si realizza in queste costituzioni.

Statua di Ercole con suo figlio Telefo. Copia romana in marmo del I-II secolo da originale greco di IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Quella che si verifica nel regno assomiglia all’amicizia tra il padre e i figli[11]. Si tratta di un’amicizia tra disuguali, tali essendo rispettivamente il padre ed il re rispetto ai figli e ai sudditi. È opportuno rilevare come nel primo caso la diversità riguardi sia la ragione e, per così dire, il radicamento dell’amore dei genitori verso i figli rispetto alla ragione e al radicamento dell’amore che questi hanno verso quelli, sia la durata dello stesso. «I genitori» spiega Aristotele «amano i figli come essenti qualcosa di loro stessi, ed i figli amano i genitori come vengono da loro più di quanto coloro che sono stati generati sanno che derivano da quelli, ed il principio da cui procede un essere è unito come a cosa propria all’essere che è stato generato più di quanto l’essere che è derivato è unito all’essere che l’ha fatto. Ché, l’essere che deriva da un principio appartiene come cosa propria al principio dal quale deriva (ad esempio un dente, un capello o qualunque altra cosa appartiene come cosa propria a colui che la possiede), invece il principio dal quale un essere deriva non appartiene per nulla come cosa propria all’essere che ne è derivato, o vi appartiene di meno. Ma anche per la quantità di tempo <i genitori amano di più i figli>. I genitori li amano infatti non appena nati, i figli invece li amano dopo che è passato del tempo, quando hanno acquisito intelligenza o per lo meno percezione»[12].

Ora, come l’amore del padre verso i figli è superiore a quello che questi hanno per lui, ed ugualmente sono maggiori anche i benefici che il primo arreca ai secondi, a partire dal bene della vita, che è il più grande di tutti, così anche il monarca verso i sudditi si trova in una condizione di superiorità in ragione dei maggiori benefici che rende loro e della cura che se ne prende, al pari – precisa Aristotele – di un pastore nei confronti del gregge[13]. Il modello pastorale, ricorrente in Platone per denotare la prerogativa del potere monarchico[14], esprime molto eloquentemente l’ancestralità del tipo di governo che qui è in questione. Un’ancestralità, del resto, che è testualmente trasparente dal richiamo di Aristotele dell’appellativo di «pastore di popoli» con cui Omero qualificava i re ed in particolare Agamennone[15].

Nella comunità retta ad aristocrazia l’amicizia assomiglia a quella tra il marito e la moglie, essendo quegli «migliore» di questa. In quanto tale, anche questa è un’amicizia tra disuguali, nella quale vi è «proporzionalità al merito e chi è superiore (scil. il marito) ha una parte più larga di bene, e ciascuno quello che gli è appropriato»[16]. Essa ha il suo radicamento nella natura, anzi, è ancor più naturale ed originaria dello stesso rapporto sociale «giacché per natura l’uomo è un essere più portato a vivere in coppia che un essere politico, quanto la famiglia è cosa anteriore e più necessaria della città e la procreazione dei figli è cosa più comune ai viventi»[17]. Ma – precisa il filosofo – la generazione dei figli, vale a dire la dimensione più propriamente carnale dell’amicizia coniugale, è ben lungi dall’esaurire quest’amicizia stessa, la quale ha invece il suo fondamento nella complementarietà che i coniugi, nel mettere in comune le prerogative «naturali» proprie di ciascuno, si arrecano vicendevolmente in vista sia del far fronte alle necessità della vita, sia, in senso ancor più marcato, dalla costituzione di un rapporto essenzialmente spirituale nel quale l’uno e l’altro, esercitando rispettivamente la «propria» virtù, si migliorano e trovano piacevolezza oltre ad utilità[18]. In questo senso l’amicizia coniugale si palesa come dimensione umana e solamente umana. E, tra i beni che i coniugi mettono in comune, quello maggiore è costituito dai figli (ecco la valenza «non carnale», vale a dire «spirituale» del matrimonio, rilevante anche là dove è necessariamente implicato un atto che attiene l’animalità dell’uomo: i figli non costituiscono soltanto – o, più esattamente, costituiscono solo minimamente – l’effetto di una unione fisica dell’uomo con la donna, ma definiscono essenzialmente il «bene» che essi hanno in comune e realizzano insieme). Per questo, rileva il filosofo, «i coniugi che non hanno figli si dividono più rapidamente»[19]: perché appunto l’amicizia tra il marito e la moglie, che è un’amicizia di natura fondamentalmente spirituale, manca, con la mancanza di figli, del bene spirituale ed umano ad essi proprio, e quindi vien meno nella sua stessa ragione di bene «dell’uomo».

L’amicizia che si realizza nelle timocrazie è simile invece a quella che ha luogo tra i fratelli. Si tratta di un’amicizia tra uguali, come attesta la sua stessa somiglianza con quella tra compagni. Infatti tra i fratelli vigono parità di condizione e, in virtù dell’età pressoché uguale, gli stessi sentimenti e gli stessi interessi, oltreché gli stessi costumi[20]. Ora, nelle timocrazie «i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi. Pertanto si comanda a turno ed in ugual misura»[21].

Gruppo scultoreo con amanti. Terracotta, II secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

In tutte le forme anzidette di costituzione politica, in ogni tipo di amicizia si realizza una forma specifica di giustizia. Il re, come del resto il padre, riceve maggiore onore, quanto maggiormente dà in benefici. Lo stesso avviene nelle aristocrazie: chi regge lo Stato riceve in cambio onore e possibilità di comando, offrendo egli le sue cure al bene dei cittadini. Questi invece nelle timocrazie hanno pari dignità, dando ciascuno alla comunità politica tanto bene quanto da essa riceve[22].

Nelle costituzioni degeneri, come non si ha giustizia, così non si ha neppure amicizia, se non a quel livello minimale che riguarda, propriamente, non già la dimensione del rapporto politico in quanto tale, ma quella del rapporto umano. È questo, esemplarmente, il tipo di rapporto che si verifica nella relazione tra padrone e schiavo: verso quest’ultimo, in quanto schiavo, non può esserci giustizia e quindi neppure amicizia, ancorché esse possano sussistere verso di lui in quanto uomo, giacché esiste un vincolo capace di toccare ogni essere umano. Ora, il rapporto tra il tiranno ed i sudditi è assimilabile a quello tra il padrone e gli schiavi, sicché «nella tirannide nulla o scarsa è l’amicizia»[23]. Infatti – precisa il filosofo – non può esserci rapporto umano, in termini sia di amicizia sia di giustizia, tra coloro tra i quali nessuna umanità è in comune, e tra il tiranno e i suoi sudditi, così come tra il padrone e lo schiavo, sussiste un rapporto puramente strumentale, come quello di un artigiano verso i suoi arnesi di lavoro, o quello dell’anima verso il corpo; e di questa stessa natura è anche l’amicizia.

L’altra questione emergente dalla trattazione aristotelica concerne l’amicizia verso se stessi[24]: un’amicizia che a tutta prima appare aporetica, in quanto, se per un verso si biasimano coloro che amano soprattutto e assolutamente se stessi e si riscontrano nel loro amore egoistico  i medesimi tratti del comportamento del malvagio, il quale sembra compiere i misfatti che compie soltanto per amore verso di sé; per altro verso però viene considerata amicizia per eccellenza quella nella quale l’amico ama l’amico «come se stesso», donde sembrerebbe che l’uomo debba amare innanzitutto se stesso.

Aristotele risolve l’aporia distinguendo tra l’«egoismo» del virtuoso e l’egoismo del malvagio, e rilevando come soltanto questo secondo in realtà sia biasimato. Si biasima infatti l’egoismo di coloro che vorrebbero soltanto per sé ogni ricchezza ed ogni piacere, anche causando inimicizie e cadendo nei vizi. Ma non si biasimano coloro che, attuando sempre la giustizia, si appropriano e vogliono per sé il bene e il bello, esercitandosi nella virtù.

L’«egoismo» del virtuoso è dunque lodevole, in quanto questi desidera per sé i beni migliori ed appaga la parte più eccellente della sua anima, vale a dire l’intelletto, nella quale egli è tangente al Dio e seguendo la quale l’uomo realizza appieno la sua natura di essere razionale e […] da mortale si fa immortale. Insomma, nell’apprezzamento aristotelico dell’amicizia verso di sé è sostanzialmente messo in risalto il motivo del dialogo interiore di sé con se stessi. Per questo – precisa Aristotele – il virtuoso ama vivere con se medesimo, perché prova piacere del ricordo delle belle azioni compiute e della speranza di operarne altre parimenti belle, come prova gioia dedicandosi alla meditazione teoretica[25]. Molto opportunamente ha scritto a questo riguardo il Berti che un tale apprezzamento «rinvia direttamente all’ideale di vita del sapiente col quale, sappiamo, Aristotele identifica la felicità»[26].

Del resto l’«egoismo» del virtuoso, ben lungi dal comportare una chiusura verso gli altri, si risolve invece anche in un agire a loro vantaggio. Ché – precisa lo Stagirita – amando se stesso il virtuoso realizza assieme il suo interesse e quello altrui, tanto che, se tutti fossero egoisti in questo modo, si assisterebbe ad un’altruistica gara di azioni moralmente belle e si avrebbe la maggior garanzia di bene privato e comune. Lo attesta il fatto che, agendo per amor di sé, vale a dire del bene morale che gli è proprio il virtuoso agisce a favore degli amici e della patria, e sa offrire loro, quando l’occasione lo richiede, anche la sua vita. E proprio per l’amore del bene, sul quale si radica l’amore di sé, egli non si occupa delle ricchezze e dell’onore, in genere di tutti i beni che costituiscono motivo di lotta tra gli uomini, e preferisce una vita breve ma dignitosa ad una lunga ma vile, ed offrirà onori e cariche ai suoi amici, ed anzi lascerà che siano costoro ad agire, se gli sembrerà opportuno che siano gli amici a compiere belle azioni[27].

Note

*Qui, in particolare, si tratterà appunto dell’amicizia.

[1] Eth. Nic. X 1, 1172 b 19.

[2] Eth. Nic. VIII 2, 1155 b 18-21.

[3] Ibid., 1155 b 27 sgg.

[4] L’analisi di questa specie d’amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 4.

[5] L’analisi di queste due specie di amicizia è svolta in Eth. Nic. VIII 3.

[6] Il confronto tra l’amicizia fondata sulla virtù e le altre due specie di amicizia è il tema di Eth. Nic. VIII 5.

[7] Eth. Nic. VIII 11, 1159 b sgg.

[8] Ibid., 1160 a 8-9.

[9] Cfr. Politico, 297 C – 303 B.

[10] Eth. Nic. VIII 12, 1160 a 31 sgg.

[11] Ibid., 1160 b 23 sgg.

[12] Eth. Nic. VIII 14, 1161 b 18 sgg.

[13] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 10 sgg.

[14] Cfr. a riguardo K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. it., vol. I, Roma 1973, pp. 36 sgg.

[15] Cfr. Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 14.

[16] Ibid., 1161 a 22 sgg.

[17] Eth. Nic. VIII 14, 1162 a 17 sgg.

[18] Ibid., 1162 a 20 sgg.

[19] Ibid., 1162 a 27-28.

[20] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 22 sgg.

[21] Ibid.

[22] Su questi rapporti cfr. Eth. Nic. VIII 13.

[23] Eth. Nic. VIII 13, 1161 a 31.

[24] Eth. Nic. IX 4; 8.

[25] Eth. Nic. IX 4, 1166 a 23 sgg.

[26] E. Berti, Profilo di Aristotele, Roma 1979, p. 274.

[27] Eth. Nic. IX 8, 1169 a 11 sgg.

La felicità come bene supremo dell’uomo

Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. III, Milano 201211, pp. 23-31.

L’oggetto della ricerca morale è il bene dell’uomo, ed alla specificazione di esso sono dedicati, secondo un itinerario molto lineare pur nella loro scansione articolata, i primi due interi libri dell’Etica Nicomachea ed i capitoli 1-6 del terzo.

Pittore Nicia. Simposiasti intenti al gioco del kottabos e ragazza che suona l’aulos. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, 420 a.C. ca.

«Ricerca», s’è detto, ma, precisa molto chiaramente Aristotele, essa non ha per scopo la sola conoscenza del bene, bensì la sua realizzazione; ché altrimenti il conoscere sarebbe inutile. L’etica infatti, come abbiamo chiarito, è «scienza pratica» e come tale il sapere in essa è finalizzato all’agire; di modo che un conoscere che cos’è il bene che si arresti soltanto a questo livello e non miri anche al suo compimento, non sarebbe pertinente all’etica e ne disattenderebbe la natura pratica.

Questo rilievo porta già implicita in sé la necessaria conseguenza che il sommo bene ricercato dall’etica dev’essere «praktón», vale a dire dev’essere il massimo dei beni che possono essere acquisiti nell’azione ed essere esso stesso oggetto d’azione.

In questo senso esso dovrà essere il sommo bene «dell’uomo»: un bene, anzi, il bene supremo che sia alla sua portata e possa essere da lui effettivamente acquisito e realizzato.

Da qui la critica da parte di Aristotele di quelle posizioni – quali quella pitagorica e, soprattutto, quella platonica – che fanno del bene una determinazione che in nessun modo può essere oggetto d’azione e che, in quanto tale, sfugge alla portata dell’uomo. I Pitagorici, infatti, ponevano il bene tra i principi cosmici, di natura matematica[1], e gli conferivano perciò una portata tale da escludergli una specificità propriamente ed unicamente umana. Pensato infatti nei termini della dottrina pitagorica, il bene è il principio di tutte le cose, laddove – insiste lo Stagirita – il bene che interessa la ricerca etica è il bene umano.

Ancora più radicalmente e più puntualmente la critica aristotelica si rivolge quindi alla concezione platonica del bene, per la quale esso è un’Idea, anzi la suprema Idea, quella che, com’è detto nella Repubblica[2], conferisce per un verso realtà ed intellegibilità alle altre Idee e, per altro verso, intelligenza all’intelletto. Una tale determinazione si connota, in tutta chiarezza, di una portata eminentemente ontologica, e perciò non ha posto in campo etico in quanto non è alla portata dell’uomo. Un bene siffatto non è praktón, anzi, si oppone nella sua stessa struttura costitutiva ad assumere questa valenza; ed è questa la ragione fondamentale per la quale Aristotele lo rigetta[3].

In realtà la critica dello Stagirita è ancora più penetrante e profonda: giacché non si limita a rilevare la non attinenza dell’Idea del bene al discorso morale, ma si impegna altresì a dimostrarne l’assurdità e la non esistenza[4]. Ma, si badi, anche questa dimensione della sua critica ha, in ultima istanza, in questo contesto dell’Etica Nicomachea, uno spessore innanzitutto etico e non ontologico: nel senso che ad Aristotele non interessa tanto appurare una determinazione metafisica in sé e per sé, quanto piuttosto escludere, sulla base della dimostrazione dell’impossibilità metafisica dell’esistenza del bene in sé, che si dia un bene non oggetto d’azione il quale inficerebbe o comunque limiterebbe  la portata della ricerca del bene umano. Ché, se un tale bene sussistesse, trattandosi del «sommo bene», il bene supremo dell’uomo risulterebbe eo ipso sminuito ed inferiore ad esso, e di conseguenza anche la ricerca dell’etica assumerebbe un rilievo del tutto minore. In quest’ottica la dimostrazione dell’inesistenza dell’Idea del Bene, oltre che della sua irrilevanza sul piano morale, si costituisce come il massimo avvaloramento del bene umano, ed assume perciò un rilievo di interesse chiaramente etico, attraverso il rigetto di istanze fortemente limitative di esso.

Ora, Aristotele riconosce che un tale supremo bene dell’uomo è da tutti ammesso essere la felicità. «Sul suo nome» scrive lo Stagirita «vi è pressoché accordo da parte della maggioranza degli uomini: infatti dicono che è la felicità sia il volgo che le persone raffinate, e concepiscono il vivere bene e l’aver successo come identici all’esser felici»[5].

Il procedimento che porta lo Stagirita a quest’ammissione si scandisce in questi termini: innanzitutto egli acquisisce, sulla base di una discussione dialettica, operata in riferimento alla disamina platonica intorno alle arti, che il bene nel campo dell’attività umana è il fine a cui essa tende[6]. Indi argomenta che alcuni fini sono subordinati ad altri e che, là dove questo si verifica, i secondi sono migliori dei primi ed i fini delle arti «architettoniche» sono preferibili ai fini delle arti ad esse subordinate[7]. Ne consegue che quel fine he si voglia di per se stesso e non già in vista di altro sarà il bene supremo[8]. Tale è appunto la felicità, giacché chi l’abbia raggiunta non desidera altro.

Conformemente al metodo dialettico – che […] è il metodo proprio della trattazione etica – Aristotele procede a determinare in che cosa consiste la felicità esaminando le opinioni sostenute a riguardo.

Tali opinioni sono ricondotte entro l’ambito di quelli che nella tradizione greca erano i generi esemplari di vita, indicati per la prima volta, probabilmente, da Pitagora[9] ed ampiamente presenti nel pensiero di Platone[10]: la vita di piacere, la vita attiva e la vita contemplativa.

Pittore di Brygos. Briseide e Fenice. Pittura vascolare dal tondo di una coppa attica a figure rosse, 490 a.C., da Vulci. Paris, Musée du Louvre

Nel quadro di essi Aristotele esamina innanzitutto l’opinione di coloro che, prediligendo il primo genere di vita, concepiscono la felicità come piacere e godimento, e ne mostra l’inconsistenza sulla base del rilievo che la felicità, in quanto bene supremo, è anche l’ideale al quale si mira; ma fare del godimento l’ideale dell’esistenza è proprio degli animali e di quegli individui – la massa – che, distanziandosi dal livello umano ed avvicinandosi invece a quello animalesco, hanno modi da schiavi, laddove la felicità è il bene supremo «dell’uomo». Si tratta di un’opinione volgare, anche se pare trovare una sorta di giustificazione nel fatto che molti di coloro che hanno cariche pubbliche e sono in vista, nei loro comportamenti sono dissoluti ed hanno gusti simili a quelli di Sardanapalo[11]. Per essa lo Stagirita manifesta un profondo disprezzo, come esprimente una dimensione non affatto adeguata alla specificità dell’umano.

Strettamente connessa con la vita di piacere e definente con essa il medesimo genere di vita, la tradizione pensava la vita di lucro, che fa dell’accumulare ricchezze l’ideale dell’esistenza. Per individui di questo genere la ricchezza costituisce, appunto, la felicità. Ma a torto, obietta il filosofo: in quanto quest’ultima, mentre la ricchezza ha propriamente un carattere soltanto strumentale, essendo «soltanto una cosa utile ed un mezzo in vista di un altro»[12].

Anche l’opinione di coloro che, essendo amanti della vita attiva e politica, fanno consistere la felicità nell’onore, che è appunto il fine di quella vita, benché di gran lunga superiore alle due precedenti ed in particolare alla prima, non è però soddisfacente. L’onore infatti – dice Aristotele – «risulta essere una cosa più superficiale di quella che cerchiamo»[13], ed in nessun modo può identificarsi con la felicità. Innanzitutto perché questa, in quanto bene supremo, «è qualcosa di personale e di difficilmente perdibile», mentre l’onore è costitutivamente più legato agli altri, «dipendendo più da coloro che onorano che da chi è onorato»[14]. In secondo luogo esso, se costituisce un fine, non costituisce però il fine ultimo, come risulta dal fatto che «gli uomini sembrano perseguire l’onore per avere motivo di credere che essi sono persone dabbene. E di fatto cercano di essere onorati dalle persone sagge e presso coloro dai quali sono conosciuti e per la loro virtù. Dunque è chiaro che almeno secondo questi uomini la virtù è superiore»[15].

Ma neppure la virtù esprime di per sé la felicità, almeno nella dimensione del semplice possesso, potendo essere che chi possiede la virtù patisca mali ed abbia in sorte le sventure più grandi, o resti inattivo[16].

Stele funeraria con rilievo di Artemone. Il defunto e un anziano (forse il padre) si stringono la mano, all’ingresso degli Inferi. Marmo, 350 a.C. ca. München Glyptothek.

Dalle considerazioni testé svolte emerge che queste determinazioni esprimono sì una positività e dunque sono sì sceglibili di per se stesse, ma mancano del requisito fondamentale che deve connotare invece la felicità come bene supremo: l’essere sceglibile di per se stessa «in senso assoluto». È chiaro infatti che il bene supremo non è soltanto alcunché di positivo, ossia non è soltanto sceglibile di per se stesso, ma lo è in senso assoluto, cioè come termine ultimo di ogni riferimento, il quale non rinvia a null’altro fuorché a se medesimo. Ora, «l’onore, il piacere, l’intelligenza ed ogni altra virtù li scegliamo sì anche di per se stessi (infatti sceglieremmo ciascuno di essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio), ma li scegliamo anche in vista della felicità, supponendo che mediante essi saremo felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi beni, né, in generale, a motivo di altro»[17].

L’assolutezza della positività definisce la «perfezione», nel senso di totale compiutezza. La felicità è pertanto «il bene perfetto», ed è quest’ulteriore prerogativa (o – se si preferisce – quest’ulteriore dimensione dell’assolutezza) che, mentre qualifica la felicità, segna la sua distanza dalle positività che abbiamo detto. Infatti «ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso, diciamo che è più perfetto di ciò che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a motivo di altro diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili talvolta per se stesso, talvolta a motivo di quell’altro. E pertanto diciamo che è sceglibile in senso assoluto ciò che è sempre sceglibile di per se stesso e non mai a motivo di altro»[18]. E tale è esattamente la felicità.

Infine Aristotele precisa una terza prerogativa della felicità, anch’essa strettamente connessa con l’assolutezza della sua positività e discriminante la felicità medesima dagli altri beni: l’autosufficienza. «Ciò che è sufficiente in se stesso» precisa lo Stagirita «è ciò che, pur essendo da solo, rende la vita sceglibile e non bisognosa di nulla; ora, una cosa di questo genere noi riteniamo che è la felicità»[19].

La determinazione delle prerogative anzidette immette direttamente nell’individuazione del contenuto positivo della felicità.

In quanto essa comporta «perfezione», vale a dire compiutezza, in tutte le sue dimensioni, ed in quanto è il bene supremo «dell’uomo», la felicità chiama in causa il compimento di ciò che l’uomo è nella sua dimensione più propria, o – più esattamente – di quella che è l’opera propria dell’uomo.

Che una tale opera esista, è perfettamente coerente con la linea teologica che regge tutto il discorso, ed Aristotele ne è assolutamente convinto.

Escluso che quest’opera consista nel semplice fatto di vivere, che è comune anche alle piante e agli animali, e nella vita sensitiva, comune anche agli animali, lo Stagirita l’identifica in un’attività della parte razionale dell’anima, anzi, nell’attività più eccellente di essa. Questa parte infatti è propriamente umana ed esprime la caratteristica peculiare dell’uomo, la sua forma; di modo che la sua attività sarà l’attività propria dell’uomo.

Ora, l’eccellenza di qualcosa è espressa dalla sua virtù. Pertanto la felicità consisterà in «un’attività dell’anima razionale secondo virtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta»[20].

Questa è la determinazione essenziale della felicità. Oltre ad essa Aristotele ne precisa altre, alcune delle quali in funzione chiaramente ausiliare e strumentale. Esse fungono altresì da termine di verifica dell’accordo tra la definizione di felicità sopra data e gli éndoxa. Accordo che lo Stagirita accerta innanzitutto con quell’«opinione autorevole» che, distinti i beni in esteriori, del corpo e dell’anima, fa consistere la felicità in questi ultimi, nonché con quella che l’identifica con  la virtù. Con entrambe la definizione data è perfettamente in sintonia, ma in più, rispetto alla seconda, precisa che per la felicità non basta il semplice possesso della virtù, ma ne è richiesto l’uso; ossia che essa non è «disposizione», ma «attività»: attività, appunto, secondo virtù. A questa, dunque, che è la determinazione essenziale della felicità, Aristotele – si diceva – ne aggiunge altre, ed anzitutto che la felicità richiede compiutezza di vita, giacché «un solo giorno né poco tempo non rendono l’uomo neppure beato e felice»[21].

 

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In secondo luogo esige piacevolezza: dimensione, questa, che, per così dire, non si aggiunge all’agire secondo virtù, ma gli è intrinseca, in quanto «per ciascuno è piacevole ciò in relazione a cui si dice che è amante di tale cosa: ad esempio il cavallo per chi ama i cavalli, uno spettacolo teatrale per chi ama gli spettacoli teatrali»[22], e chi è virtuoso ama agire secondo la virtù. Per questo «ciò che è giusto è piacevole per chi ama la giustizia, e in generale ciò che è secondo virtù è piacevole per chi è amante della virtù»[23].

Non soltanto, ma la virtù p cosa «per se stessa» piacevole, oltre ad esserlo per chi è amante di essa; e nell’agire secondo virtù consiste la felicità. Mentre pertanto per i virtuosi non vi è conflitto tra le cose che sono piacevoli e quelle che lo sono per loro, giacché per costoro sono piacevoli le cose che sono tali per se stesse, è chiaro altresì che la felicità, in quanto è il bene supremo ed è il bene più bello, è eo ipso anche il bene più piacevole, e queste determinazioni in essa non sono separate, ma costitutivamente connesse, in un rapporto solidale per essenza.

Da ultimo lo Stagirita precisa che alla realizzazione della felicità concorrono anche i beni esteriori, giacché «è impossibile e difficile compiere le cose belle quando si è sprovvisti di mezzi. Ché molte cose sono compiute, come mediante strumenti, per mezzo di amici e delle ricchezze e della potenza politica. E d’altro canto gli uomini, se sono privi di alcuni beni, intaccano il loro esser felici, ad esempio se sono privi di una nobile nascita, di una buona figliolanza, della bellezza. Infatti non è del tutto rivolto alla felicità chi è brutto di aspetto e d’oscura origine o solo e senza figli; e senza dubbio lo è ancor di meno se ha dei figli o degli amici del tutto cattivi, o se, essendo buoni, gli muoiono»[24].

Si tratta, com’è detto in tutta chiarezza, di condizioni strumentali, utili, anzi necessarie per compiere atti di virtù, e sotto questo aspetto concorrenti a definire la felicità; ma non già a definire l’essenza, che resta invece determinata dall’essere essa attività della parte razionale dell’anima secondo virtù.

Note

[1] Cfr. Metaf. I, 5, 986 b 26.

[2] Cfr. Resp. VI, 508 A sgg.

[3] Cfr. Eth. Nic. I 4.

[4] Cfr. Ibid.

[5] Eth. Nic. I 2, 1095 a 18 sgg.

[6] Cfr. Eth. Nic. I 1, 1094 a 1-3: «Ogni altra arte ed ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende – tutti ne convengono – ad un qualche bene; perciò a giusta ragione si è dichiarato che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono».

[7] Eth. Nic. I 1, 1094 a 10 sgg.

[8] Ibid., 1094 a 18 sgg.

[9] Cfr. J. Burnet, Early Greek Philosophy, London 1892, par. 45.

[10] Cfr. ad es. Resp. IX, 580 C sgg.

[11] Eth. Nic. I 3, 1095 b 15 sgg.

[12] Ibid., 1096 a 7.

[13] Ibid., 1095 b 23.

[14] Ibid.

[15] Ibid., 1095 b 25 sgg.

[16] Ibid., 1095 b 30 sgg.

[17] Eth. Nic. I 5, 1097 a 1 sgg.

[18] Eth. Nic. I 5, 1096 b 31 sgg.

[19] Ibid., 1097 a 13 sgg.

[20] Eth. Nic. I 6, 1098 a 16-17.

[21] Ibid., 1098 a 18.

[22] Eth. Nic. I 8, 1099 a 8 sgg.

[23] Ibid.

[24] Eth. Nic. I 9, 1099 b 1 sgg.

La posizione dell’etica nel sistema aristotelico delle scienze

Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. I, Milano 201211, pp. 5-10.

 

1.L’etica come «scienza pratica»

 

Lisippo (attribuito), Testa di Aristotele. Copia romana del I-II secolo d.C. da un originale greco in bronzo del IV secolo a.C. Musée du Louvre.
Lisippo (attribuito), Testa di Aristotele. Copia romana del I-II secolo d.C. da un originale greco in bronzo del IV secolo a.C. Musée du Louvre.

Nella classificazione aristotelica del sapere[1] l’etica figura come «scienza pratica». In quanto «scienza» essa esprime un sapere causale, essendo esattamente questa la caratteristica della scienza. Com’è infatti esplicitamente dichiarato negli Analitici Posteriori, si ha scienza «quando si conosce la causa per la quale una cosa è, e che proprio di tale cosa è causa»[2]. In quanto «pratica» essa rivolge il sapere, vale a dire la conoscenza delle cause, non già alla pura contemplazione (tali, appunto, le scienze teoretiche: matematica, fisica e filosofia prima), né alla produzione (poíēsis – tali le scienze «poietiche», vale a dire le arti), ma alla prassi, cioè all’azione.

È opportuno caratterizzare un po’ più dettagliatamente queste istanze ed avviare dalle relative riflessioni le mosse del discorso che intende esplicitare la natura del sapere etico.

Conformemente all’impostazione realistica della sua gnoseologia[3], per Aristotele la specificità del tipo di sapere espresso da una scienza si definisce fondamentalmente in relazione all’oggetto che quella scienza studia. L’istanza si regge sul presupposto che realtà la cui definizione è diversa, essendo qualitativamente diverse, sono studiate da scienze diverse, dal momento che la scienza ha espressamente ad oggetto determinazioni qualitative del reale e mira alla conoscenza dell’essenza. Presupposto, in tutta chiarezza, di natura metafisica, sulla base del quale vengono esclusi dall’indagine scientifica in quanto tale gli aspetti quantitativi: quegli aspetti che, potendo essere i medesimi anche in realtà essenzialmente diverse, si offrirebbero  ad un tipo di conoscenza che sorvoli sulle differenze di qualità ed accomuni nel medesimo campo d’indagine realtà la cui essenza è diversa; superando così quell’impianto epistemologico per il quale ogni scienza, essendo conoscenza di essenze, ha un suo oggetto proprio, vale a dire un ambito ben definito della realtà come suo dominio.

Dire che per Aristotele la natura di ogni scienza è fondamentalmente definita dall’oggetto che essa studia, non significa che lo Stagirita nel caratterizzare il sapere tralascia di considerare quelle che potrebbero dirsi le «condizioni soggettive» del sapere stesso. Anzi, in alcuni casi – com’è per l’appunto quello dell’etica; lo vedremo ben presto – esse rivestono un’importanza decisiva in ordine non soltanto all’acquisizione della scienza, ma altresì alla qualificazione stessa della sua natura: nella misura in cui la precisazione delle qualità che si devono possedere e con le quali ci si deve disporre per poter acquisire una scienza, denota indubbiamente un requisito della scienza stessa, dunque una sua prerogativa. Ma si tratta di una prerogativa che alla scienza non appartiene «di per sé», bensì per la mediazione della disposizione del soggetto che l’acquisisce, di modo che la caratterizzazione che essa conferisce al tipo di sapere è sì reale, ma non fondamentale e primaria. Anche in quest’aspetto non è difficile riscontrare la presenza di un’istanza metafisica: non soltanto nel senso della primalità dell’oggetto e delle sue determinazioni nel processo conoscitivo, ma altresì nel senso che, in virtù di questa primalità, l’oggetto si presenta come in sé e per sé definito, indipendentemente ed anteriormente al rapporto conoscitivo con il soggetto, e si manifesta in questo come sostanza, in riferimento alla quale si struttura la conoscenza nelle sue determinazioni e nei suoi caratteri. Esattamente il contrario dell’istanza moderna, paradigmaticamente espressa dalla «rivoluzione copernicana» della Critica della Ragion Pura di Kant, in seguito alla quale l’oggetto non è un in sé, ma una costruzione del soggetto, il quale ordina secondo strutture a priori un caos di modificazioni empiriche.

Un esempio particolarmente eloquente di quanto abbiano detto è offerto dalle motivazioni che Aristotele adduce a sostegno dell’istanza che la filosofia prima è scienza divina. «Una scienza» precisa lo Stagirita «può essere divina solo in questi due sensi: o perché essa è scienza che il Dio possiede in grado supremo, o, anche, perché essa ha come oggetto le realtà divine. Ora, soltanto la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio e, anche, che il Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza»[4]. La sapienza, asserisce la tesi del libro I della Metafisica, è scienza delle cause e dei principi primi. Ma il Dio, il Motore Immobile, è causa e principio primo. La filosofia prima – la sapienza – ha dunque per oggetto il Dio e per questo è divina: perché, appunto, tale è il suo oggetto. Ma d’altro canto un sapere che conosce la ragione suprema del tutto – tale la portata della causa prima – e che per questo è «perfetto», vale a dire tocca la compiutezza, non può che essere posseduto da un essere perfetto: soltanto questo ente, infatti, adegua con la sua natura la natura di quella conoscenza ed è costitutivamente in grado di accogliere nella compiutezza della sua realtà un conoscere che sa compiutamente il tutto. Il che significa che la condizione per poter possedere – o, meglio, per poter possedere in modo del tutto e per tutto adeguato, dunque in modo supremo – la sapienza è quella perfezione che è propria del Dio, e per questo la sapienza è divina.

Nel libro XII della Metafisica Aristotele ribadisce paradigmaticamente l’istanza asserendo che quell’attività contemplativa della quale l’uomo partecipa imperfettamente per un tempo limitato, definisce invece la condizione e l’esistenza stessa del Motore Immobile[5]; e nel libro X dell’Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che in tanto all’uomo è dato di partecipare in qualche modo dell’attività contemplativa che è propria del Dio, in quanto in lui alberga il noûs, che è elemento divino[6].

Queste precisazioni, specificate più dettagliatamente dall’esempio qui sopra analizzato, comportano che l’individuazione di quel tipo di sapere che è l’etica richiede necessariamente che se ne precisi l’oggetto e se ne indichino le «condizioni soggettive».

Quale sia il genere di realtà che riguarda l’etica, Aristotele precisa nel VI libro dell’Etica Nicomachea. Vi sono delle realtà che «non possono essere diversamente da quelle che sono»[7], la cui modalità di esistenza è la necessità[8]; il loro stesso essere è causato da necessità (la necessità assoluta, distinta dallo Stagirita dalla necessità ipotetica, che costituisce invece il regno della phýsis), giacché sono o divengono secondo scansioni costanti. Comprese in questo genere di realtà sono innanzitutto il Motore Immobile, indi gli astri, in terzo luogo i fenomeni costanti, quali il levarsi ed il tramontare del Sole e delle stelle, i solstizi, gli equinozi, ecc. Questo genere di realtà non attiene, in tutta chiarezza, all’etica, in quanto non è oggetto di azione e non ammette alcuna possibilità di operare: istanze, queste, che definiscono invece il dominio della moralità.

L’etica ha invece per oggetto «realtà che possono essere diversamente da quello che sono»[9], la cui modalità di esistenza non è la necessità (la necessità assoluta), bensì la contingenza e possono «sia essere che non essere»[10]. Lo Stagirita annovera in questo genere di realtà gli enti naturali (tà katà phýsin), gli enti che sono oggetto di produzione (tà poiētiká) e quelli che sono oggetto di azione (tà praktá)[11]. I primi costituiscono il regno della natura, che è altresì la loro causa, e sono appunto soggetti a «necessità ipotetica»; i secondi rientrano nel dominio della produzione e dell’arte, che ne è la causa. Né gli uni né gli altri riguardano l’etica, che concerne invece il terzo genere di enti, quelli che sono oggetto d’azione e sono realizzati nella prassi.

Sia l’azione che la produzione implicano un sapere, ed in entrambi i casi il sapere non è fine a se stesso, ma è finalizzato al fare. Ancora, sia il fare della produzione che quello dell’azione hanno il loro principio nel soggetto che opera, ma il primo tende ad un fine estrinseco all’agente e da lui separato – la produzione, appunto, dell’oggetto –, laddove il fine dell’agire è intrinseco ed indistinguibile dall’agente, e l’azione è perciò atto autotelico[12].

Ecco dunque precisarsi dal punto di vista oggettivo la natura dell’etica come «scienza pratica», accanto alle scienze poietiche, che attengono alla produzione, ed alle scienze teoretiche, che concernono il puro contemplare. «Scienza» in quanto, appunto, essa implica un sapere, e «pratica» in quanto tale sapere ha per fine l’agire. In questo senso l’etica è «scienza dell’agire». Questo infatti, come abbiamo detto, comporta un sapere, giacché per operare è necessario conoscere quel che si vuole raggiungere; ma si tratta di un sapere che spinge all’azione, dunque di un sapere pratico.

E poiché la scienza per Aristotele è costitutivamente un sapere causale, l’etica studia le determinazioni in virtù delle quali l’azione si produce.

Questa caratterizzazione dell’etica non è però sufficiente ed esige ulteriori precisazioni. Dire infatti che essa studia le determinazioni in virtù delle quali si produce l’azione, potrebbe dar luogo all’equivoco di credere che l’etica per Aristotele sia di natura descrittiva, nel senso che si limiti a spiegare quali sono i fattori che intervengono nell’azione e ad indicare il loro apporto in ordine alla produzione dell’azione medesima, laddove è risaputo – e comunque corrisponde ad una precisa istanza del pensiero di Aristotele – che nel discorso morale interviene, ed in modo massiccio e decisivo, la dimensione normativa, in virtù della quale si pone una discriminante assiologica nell’agire e l’etica non si limita a spiegare come si produce l’azione, ma dice necessariamente  qual è l’azione moralmente positiva e quali sono i fattori  che concorrono al suo effettuarsi. Vedremo a suo tempo in che termini si calibra il discorso aristotelico a riguardo, ma già fin d’ora – in sede di qualificazione dell’etica come scienza pratica – va detto che la dimensione deontologica e normativa non si aggiunge al discorso «causale» sul prodursi dell’azione morale, ma scaturisce da esso e si pone come il momento della compiutezza e della perfezione stessa dell’atto. Ché l’atto sarà adeguato a sé medesimo, vale a dire alla natura ed alla finalità delle determinazioni che lo pongono, se nel suo esplicarsi porta a realizzazione la natura e la finalità di quelle determinazioni stesse. In questa realizzazione consiste propriamente il momento eticamente positivo dell’atto, vale a dire la sua «bontà». L’etica dunque, come «scienza pratica», ha da studiare le determinazioni in virtù delle quali l’azione si produce nella piena esplicazione di quelle determinazioni stesse, vale a dire in modo tale da realizzare nella loro specifica natura e funzione le determinazioni dalle quali procede.

E poiché queste determinazioni sono facoltà umane, ne consegue che la positività morale dell’atto nasce dalla sua capacità di realizzare la natura e la funzione dell’uomo, e l’etica si specifica esattamente quella «scienza», vale a dire quel sapere causale, che indica e pone in atto quelle determinazioni in virtù delle quali l’uomo nell’agire realizza la sua natura e la sua finalità. O – il che è lo stesso – si pone come la conoscenza delle determinazioni conformemente alle quali l’uomo agisce in modo da realizzare la sua natura.

 

 

Bassorilievo con l'assemblea degli dèi. Marmo, 530-525 a.C. ca. dal Tesoro dei Sifni. Museo Archeologico di Delfi.
Bassorilievo con l’assemblea degli dèi. Marmo, 530-525 a.C. ca. dal Tesoro dei Sifni. Museo Archeologico di Delfi.

2.Etica e politica

 

Nell’ambito delle scienze pratiche Aristotele annovera anche la politica e a più riprese nel corso della trattazione dell’Etica Nicomachea afferma che l’etica stessa convergenza in essa. Il punto è di estrema importanza e merita di essere ben sottolineato.

In I 1 lo Stagirita, dopo aver asserito che è il bene umano supremo, il quale costituisce l’oggetto dello studio dell’etica, è il fine «che vogliamo di per se stesso»[13], mentre «le altre cose vogliamo a causa di questo», così argomenta:

Tutti converranno che esso è oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado, e tale è la politica. Questa infatti dispone quali scienze sono necessarie nella città e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere e fino a che punto. E vediamo che anche le più stimate delle potenze le sono subordinate, ad esempio la strategia, l’economia, la retorica. E poiché la politica si serve delle altre scienze pratiche ed inoltre è legislatrice di che cosa bisogna fare e da quelli delle altre scienze. Di conseguenza, sarà il bene propriamente umano[14].

L’oggetto dell’etica – il bene propriamente umano, vale a dire quel fine delle cose che sono oggetto d’azione che vogliamo di per se stesso – coincide dunque con l’oggetto della politica. Di modo che la trattazione stessa dell’etica può dirsi una «trattazione di politica» («A queste cose» scrive espressamente Aristotele «tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica»[15]). Infatti precisa lo Stagirita:

Il bene è amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne un popolo o delle città[16].

Queste istanze hanno dato luogo ad esegesi diverse. Da una parte infatti si è interpretata questa convergenza di etica e di politica come una vera e propria subordinazione della prima alla seconda, nel senso che il fine dell’etica, cioè il bene dell’individuo, non soltanto converge, ma è finalizzato al bene dello Stato, e quindi è subordinato ad esso. È per esempio l’esegesi di Aspasio.

Ma dal confronto con altri passi una tale calibrazione della «convergenza» dell’etica con la politica appare non soddisfacente. In VII 12 si dice ad esempio:

Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica. Questi infatti è architetto del fine, volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto[17].

Non è dunque al politico nel senso corrente del termine, vale a dire a chi gestisce gli affari della città nell’uso e nella pratica corrente dell’azione politica, che compete di pronunciarsi sul valore morale del piacere, ma a chi si occupa «filosoficamente» di politica. La politica tout court va perciò distinta da un’altra forma di politica: una forma che non ha di mira la prassi nella sua dinamica effettuale, bensì la determinazione del fine, vale a dire del bene supremo dell’uomo, in riferimento al quale si specifica il valore morale di ogni azione. Ed in questo senso essa è «architettonica», vale a dire «direttiva», rispetto ad ogni altra disciplina che si occupa delle cose dell’uomo. Ora, lo studio del bene umano supremo, vale a dire del fine ultimo realizzabile dall’uomo, costituisce il compito e l’oggetto dell’etica. Ecco allora che l’etica stessa coincide con quella forma di «politica studiata filosoficamente», distinta dalla politica simpliciter: in modo tale che, mentre per un verso si autentica la distinzione dei due piani o livelli della politica, si mostra per l’altro l’inadeguatezza di pensare ad una subordinazione dell’etica ad una disciplina superiore. Ed in questo senso si chiarisce la portata della «convergenza» di cui abbiamo detto. A riguardo si sono espressi molto opportunamente Gauthier e Jolif: «All’interno della stessa vera politica[18] Aristotele (…) ha distinto due piani: quello della scienza universale e quello della pratica corrente. Sul piano della scienza universale si colloca la politica architettonica che è la nomotetica, la cui funzione è di fissare le norme generali delle azioni e il fine da raggiungere; sul piano della pratica corrente si collocano la politica nel senso usuale del termine, il cui oggetto è il governo quotidiano della città, l’economia domestica, il cui oggetto è il governo di se stessi. Non vi è dubbio che, nel quadro di questa divisione del sapere pratico, è la politica architettonica, vale a dire la nomotetica, che Aristotele intende identificare con la morale. Ma Aristotele si è mantenuto saldo a questa concezione? Si rileverà che essa rende malamente conto della distinzione tra la morale e la politica che da questo momento egli professa, giacché la politica è, essa stessa, una nomotetica piuttosto che un’arte della pratica politica. L’ultimo capitolo dell’Etica Nicomachea sembra invitarci ad una soluzione più soddisfacente: mentre l’etica, fissando il bene supremo che costituisce il fine dell’uomo, stabilisce la legge morale, la politica fa di questa legge morale una legge dello Stato. Esso le assicura la forza di coercizione che le è necessaria. La nomotetica stessa si divide dunque in due parti ben distinte: che corrispondono esattamente a quelle che sono l’etica e la politica aristoteliche»[19]. E sulla base di questa distinzione gli studiosi possono ulteriormente precisare la natura del rapporto tra l’etica e la politica in Aristotele chiarendo il senso del rapporto che intercorre tra il bene dell’individuo e quello dello Stato. «L’oggetto della morale» essi scrivono «è il bene supremo dell’individuo; ma, ancorché essa possa, a rigor di termini, accontentarsi di assicurare questo bene ad un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo, o, più esattamente – ma questo non fa nessuna differenza – che la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte del termine, la politica architettonica che detta alla città il suo fine. In altri termini: la vera politica è la morale»[20].

Queste istanze permettono di asserire che il rapporto tra etica e politica non si configura affatto nei termini di una «subordinazione» della prima alla seconda, ma, tutt’al contrario, nei termini di una puntualizzazione da parte della seconda del fine che la prima ha da perseguire, così come – rilevano Gauthier e Jolif[21] – ben lungi dal «subordinare l’individuo alla società», Aristotele subordina invece «la società all’individuo, i cui fini questa persegue». L’autore dei Magna Moralia ha ben colto il punto scrivendo che l’etica è méros kaì archḗ tēs politikḗs[22], dove kaì costituisce un’endiadi e l’espressione indica che l’etica è «la parte principale della politica». «Parte» perché, come abbiamo visto, l’etica non esaurisce la nomotetica, vale a dire la politica in senso vero, come scienza architettonica, ma ne specifica un ambito. Ma d’altro canto ne è la parte «fondamentale», perché è quella nella quale si determina il fine da realizzare.

***

Note

[1] Cfr. Metaf. VI 1, 1025 b 3 sgg.

[2] Anal. Post. I 2, 71 b 9-12.

[3] A riguardo si veda ad es. V. La Via, Il problema della formazione della filosofia e l’oggettivismo antico, Roma 1940.

[4] Metaf. I 2, 983 a 5 sgg.: τοιαύτη δὲ διχῶς ἂν εἴη μόνη· ἥν τε γὰρ μάλιστ᾽ἂν ὁ θεὸς ἔχοι, θεία τῶν ἐπιστημῶν ἐστί, κἂν εἴ τις τῶν θείων εἴη. μόνη δ᾽ αὕτη τούτων ἀμφοτέρων τετύχηκεν· ὅ τε γὰρ θεὸς δοκεῖ τῶν αἰτίων πᾶσιν εἶναι καὶ ἀρχή τις, καὶ τὴν τοιαύτην ἢ μόνος ἢ μάλιστ᾽ἂν ἔχοι ὁ θεός.

[5] Cfr. Metaf. XII 7, 1072 b 14-18: ἐκ τοιαύτης ἄρα ἀρχῆς ἤρτηται ὁ οὐρανὸς καὶ ἡ φύσις. διαγωγὴ δ᾽ἐστὶν οἵα ἡ ἀρίστη μικρὸν χρόνον ἡμῖν οὕτω γὰρ ἀεὶ ἐκεῖνο· ἡμῖν μὲν γὰρ ἀδύνατον, ἐπεὶ καὶ ἡδονὴ ἡ ἐνέργεια τούτου  καὶ διὰ τοῦτο ἐγρήγορσις αἴσθησις νόησις ἥδιστον, ἐλπίδες δὲ καὶ μνῆμαι διὰ ταῦτα.

«Da un tale Principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato Egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a Lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto, e, in virtù di questi, anche speranze e ricordi» – trad. it. G. Reale.

[6] Cfr. Eth. Nic. X 7, 1177 b 26 sgg.: οὐ γὰρ ᾗ ἄνθρωπός ἐστιν οὕτω βιώσεται, ἀλλ᾽ ᾗ θεῖόν τι ἐν αὐτῷ ὑπάρχει· ὅσον δὲ διαφέρει τοῦτο τοῦ συνθέτου, τοσοῦτον καὶ ἡ ἐνέργεια τῆς κατὰ τὴν ἄλλην ἀρετήν. εἰ δὴ θεῖον ὁ νοῦς πρὸς τὸν ἄνθρωπον, καὶ ὁ κατὰ τοῦτον βίος θεῖος πρὸς τὸν ἀνθρώπινον βίον.

«Infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino. E di quanto questo eccelle sul composto, di tanto anche la sua attività eccelle su quella secondo l’altra specie di virtù. Di conseguenza, se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo» – tr. it. M. Zanatta.

[7] Eth. Nic. VI, 1139 b 20: πάντες γὰρ ὑπολαμβάνομεν, ὃ ἐπιστάμεθα, μηδ᾽ ἐνδέχεσθαι ἄλλως ἔχειν· τὰ δ᾽ ἐνδεχόμενα ἄλλως, ὅταν ἔξω τοῦ θεωρεῖν γένηται, λανθάνει εἰ ἔστιν ἢ μή. ἐξ ἀνάγκης ἄρα ἐστὶ τὸ ἐπιστητόν. ἀίδιον ἄρα· τὰ γὰρ ἐξ ἀνάγκης ὄντα ἁπλῶς πάντα ἀίδια, τὰ δ᾽ ἀίδια ἀγένητα καὶ ἄφθαρτα.

«Tutti ammettiamo che ciò che conosciamo per scienza non può essere diversamente da quello che è. Invece le cose che possono essere altrimenti da quel che sono, una volta uscite dalla conoscenza non sappiamo se esistono o no. Pertanto ciò che è oggetto di scienza esiste necessariamente. Di conseguenza è eterno: infatti, gli enti che sono di necessità assoluta sono tutti eterni, e gli enti eterni sono ingenerati e incorruttibili» – tr. it. M. Zanatta.

[8] Cfr. Ibid., 1139 b 23.

[9] Eth. Nic. VI, 1140 a 1: τοῦ δ᾽ ἐνδεχομένου ἄλλως ἔχειν ἔστι τι καὶ ποιητὸν καὶ πρακτόν.

«Ciò che invece può essere altrimenti da quello che è, è oggetto tanto della produzione che dell’azione» – tr. it. M. Zanatta.

[10] Ibid., 1140 a 13: τι […] καὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι.

[11] Cfr. Ibid., 1140 a 2.

[12] Sulla differenza tra azione e produzione cfr. Eth. Nic. VI, 4.

[13] Eth. Nic. I 1, 1094 a 17 sgg: ὃ δι᾽αὑτὸ βουλόμεθα.

[14] Eth. Nic. I 1, 1094 a 27 sgg: δόξειε δ᾽ ἂν τῆς κυριωτάτης καὶ μάλιστα ἀρχιτεκτονικῆς. τοιαύτη δ᾽ ἡ πολιτικὴ φαίνεται· τίνας γὰρ εἶναι χρεὼν τῶν ἐπιστημῶν ἐν ταῖς πόλεσι, καὶ ποίας ἑκάστους μανθάνειν καὶ μέχρι τίνος, αὕτη διατάσσει· ὁρῶμεν δὲ καὶ τὰς ἐντιμοτάτας τῶν δυνάμεων ὑπὸ ταύτην οὔσας, οἷον στρατηγικὴν οἰκονομικὴν ῥητορικήν: χρωμένης δὲ ταύτης ταῖς λοιπαῖς πρακτικαῖς τῶν ἐπιστημῶν, ἔτι δὲ νομοθετούσης τί δεῖ πράττειν καὶ τίνων ἀπέχεσθαι, τὸ ταύτης τέλος περιέχοι ἂν τὰ τῶν ἄλλων, ὥστε τοῦτ᾽ ἂν εἴη τἀνθρώπινον ἀγαθόν.

[15] Ibid., 1094 b 11: ἡ μὲν οὖν μέθοδος τούτων ἐφίεται, πολιτική τις οὖσα.

[16] Ibid., 1094 b 10: ἀγαπητὸν μὲν γὰρ καὶ ἑνὶ μόνῳ, κάλλιον δὲ καὶ θειότερον ἔθνει καὶ πόλεσιν.

[17] Eth. Nic. VII 12, 1152 b 1-3: περὶ δὲ ἡδονῆς καὶ λύπης θεωρῆσαι τοῦ τὴν πολιτικὴν φιλοσοφοῦντος· οὗτος γὰρ τοῦ τέλους ἀρχιτέκτων, πρὸς ὃ βλέποντες ἕκαστον τὸ μὲν κακὸν τὸ δ᾽ ἀγαθὸν ἁπλῶς λέγομεν.

[18] Ossia della politica in senso architettonico.

[19] R.-A. Gauthier – J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, II, 1, Paris-Louvain 1970, p. 11.

[20] Ibid.

[21] Ibid.

[22] Magna Moralia I 1, 1181 b 3.