Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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Decio, l’imperatore che morì in battaglia

Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.

Decio. Busto, marmo lunense, 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.

L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.

P. Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.

Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.

Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.

C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.

Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).

Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.

Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].

Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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Potere politico e predicazione cristiana in Palestina dal processo di Cristo al 62 d.C.

di M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Como 20112, pp. 15-29.

La prima occasione di scontro fra l’Impero romano e il Cristianesimo fu, come è noto, il processo di Gesù di Nazareth. Non c’è dubbio – e questo lo sapeva anche Tacito (Ann. XV 44, 5) – che Gesù fu messo a morte (probabilmente nel 30 o nel 31 d.C.) da Ponzio Pilato, di cui un’iscrizione di Cesarea ha rivelato, una ventina di anni fa, il vero titolo, che non era quello di procuratore, come dice Tacito, ma di prefetto di Giudea[1]. Del processo di Gesù non interessano qui gli aspetti tecnici, costituiti, da una parte, dal significato giuridico della riunione o delle riunioni del Sinedrio e delle decisioni da esso adottate, dall’altra, dalla natura formale del procedimento condotto da Pilato, ma, in primo luogo, l’iniziativa politica: già al principio del nostro secolo, infatti, ma poi soprattutto in questi ultimi decenni, alcuni studiosi hanno tentato di ribaltare l’impostazione data al processo dai Vangeli, attribuendo al potere romano e non all’autorità giudaica l’iniziativa del processo stesso. Bisogna dire subito che, dal punto di vista scientifico, le argomentazioni di questi studiosi si sono rivelate per lo più assai fragili e di facile confutazione: esse hanno avuto, però, una certa diffusione nella cultura corrente ed hanno alimentato l’immagine fittizia di un Gesù rivoluzionario e riformatore politico, naturalmente avverso al potere romano e da esso necessariamente avversato e perseguitato.

Iscrizione onorifica a Ponzio Pilato (CIIP 2, 1277). Tabula, calcare, 26-36 d.C. dal teatro di Caesarea Maritima. Gerusalemme, Museo Archeologico: [Nauti]s(?) Tiberieum / [- – – Po]ntius Pilatus / [praef]ectus Iudae[a]e / [ref]eci[t].
Ritengo pertanto necessario esaminare brevemente la problematica posta, sotto l’aspetto che ho cercato di individuare, dal processo di Gesù.

Al centro dell’impostazione che la tradizione evangelica dà al processo e del dibattito che si è aperto fra i moderni, c’è esplicitamente o implicitamente, un dialogo che Giovanni (18, 31) fa svolgere tra Pilato e gli inviati di Caifa e del Sinedrio che gli conducono Gesù: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge». Gli risposero i Giudei: «A noi non è lecito mettere a morte nessuno». La tradizione evangelica, indipendentemente dalle varianti esistenti nel racconto dei singoli autori, è concorde nell’affermare che Gesù subì due giudizi, uno davanti al Sinedrio per bestemmia, per essersi proclamato Figlio di Dio e per aver detto che poteva distruggere il Tempio e ricostruirlo in tre giorni, e l’altro di fronte al governatore romano, per essersi proclamato re dei Giudei, cioè in definitiva, per lesa maestà: Luca (23, 2) aggiunge l’accusa di sobillare il popolo e di impedire il pagamento dei tributi a Cesare. La tradizione evangelica è pure concorde nell’affermare che, mentre nel giudizio di fronte al Sinedrio Gesù fu giudicato reo di morte, nel processo romano Pilato dichiarò a più riprese l’infondatezza dell’accusa politica e si decise a pronunziare la condanna a morte con la motivazione politica (il titulus scritto sulla croce era «re dei Giudei») solo per compiacere la folla[2]. Per i Vangeli, dunque, l’iniziativa fu dei Giudei, anche se la condanna definitiva e l’esecuzione furono dei Romani. La spiegazione dell’apparente incongruenza è fornita, appunto, da Giovanni nel passo citato: i Giudei potevano esercitare entro certi limiti il diritto di giudicare e di punire, ma non avevano il diritto di eseguire condanne a morte. Per una colpa per la quale la legge giudaica prevedeva la pena di morte essi dovevano ricorrere al tribunale romano.

Questa impostazione, che non ha mai suscitato gravi obiezioni da parte degli studiosi di diritto romano, è stata contestata, invece, dal punto di vista del diritto giudaico, con argomenti, peraltro, del tutto opposti: secondo alcuni, il Sinedrio non aveva il potere di giudicare e non poteva quindi pronunziare giudizi di nessun genere; secondo altri, invece, è questa oggi la posizione prevalente tra coloro che rifiutano l’impostazione dei Vangeli: il Sinedrio poteva condannare anche a morte e pronunziare sentenze capitali[3]. La conseguenza è simile: se l’esecuzione della condanna fu romana, anche l’iniziativa del processo deve essere stata romana. Ne deriva – e questo si presta a sviluppi importanti anche se non esplicitati in uguale modo da tutti gli autori che affermano l’iniziativa romana – che il processo di Gesù sarebbe stato un processo strettamente politico, di cui i Vangeli avrebbero oscurato il carattere originario, sia perché viziati da un atteggiamento filoromano ed antigiudaico, sia perché sarebbe stato pericoloso per una chiesa che viveva e si diffondeva in ambiente romano, ammettere che il suo fondatore era (o, comunque, era stato ritenuto) un agitatore politico messo a morte dal potere imperiale.

Gesù Cristo. Affresco (ritratto), fine IV-inizi V sec. d.C. Roma, Catacombe di Commodilla.

 

In realtà, nessuna di queste ipotesi regge alla verifica storica. Imposterò questa verifica, necessariamente sintetica, su tre punti:

 

  • l’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti neotestamentarie e nelle testimonianze non cristiane;
  • il processo di Gesù in rapporto al diritto vigente di una provincia romana quale era la Palestina e alle prerogative lasciate normalmente dai Romani alle autorità locali;
  • la continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù a quello di Giacomo minore (62 d.C.).

 

1) L’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti: che le principali testimonianze sul processo ci vengano dalle fonti neotestamentarie è perfettamente naturale. Sappiamo infatti quale importanza dessero i primi seguaci di Cristo alla testimonianza di coloro che erano stati insieme a Gesù nel periodo «dal battesimo di Giovanni fino al giorno dell’Ascensione» (At 1, 22). Ciò che colpisce, come ho già detto, è la perfetta concordanza, pur nella variante dei particolari (riunione o riunioni del Sinedrio, intervento di Erode, privilegio pasquale e Barabba, etc.) fra la tradizione più antica (che sembra essere confluita nel racconto della Passione di Marco e di Matteo) e quella più recente che è stata riconosciuta nel racconto di Luca e di Giovanni[4]. Tutti e quattro i racconti mostrano determinante la responsabilità dei Giudei e riducono la parte avuta da Pilato nella morte di Gesù al suo cedimento, contro voglia, alle sollecitazioni dei grandi sacerdoti e della folla.

Questa impostazione dei racconti evangelici, presente come si è visto anche nel Vangelo di Giovanni (scritto in un’epoca in cui i Cristiani avevano già conosciuto la persecuzione dello stato romano e non avevano motivi di silenzi prudenziali), concorda anche con quella presente nei discorsi riferiti dagli Atti degli Apostoli che ci conservano, pur nella normale rielaborazione, caratteristica in tutto il mondo classico, del genere letterario dei discorsi, una traccia della predicazione primitiva[5]: in tali discorsi è sempre presente il ricordo della istigazione giudaica e della resistenza di Pilato. Vale la pena di aggiungere che l’impostazione non cambia, anzi, risulta forzata dalla volontà di scagionare i Romani e Pilato dalla responsabilità della morte di Gesù, se dai Vangeli canonici passiamo agli Apocrifi: nel Vangelo di Nicodemo, che proviene, a quanto sembra, da ambienti giudaico-cristiani dell’Egitto ed è scritto in copto, perfino il gesto di Pilato che si lava le mani diventa una prova della sua innocenza: «Vedete dunque – dice Giuseppe di Arimatea – che colui che non è circonciso nelle sue carni, ma nel suo cuore, prese dell’acqua al cospetto del sole, lavò le sue mani dicendo: “Sono innocente del sangue di questo giusto”»[6].

L’affermazione che Pilato è circonciso nel cuore presuppone probabilmente la notizia, già nota nel II secolo e testimoniata da Tertulliano (Apol. XXI 24, Pilatus et ipse iam pro sua coscientia Christianus), della conversione di Pilato, che circola in tutta la chiesa antica e che porta al suo riconoscimento come martire nella tradizione copta e alla iscrizione del suo nome nel calendario dei santi presso la chiesa etiopica. Solo nel IV secolo comincia a diffondersi la leggenda della punizione di Pilato e del suo suicidio, che tanta fortuna ebbe poi nel Medioevo e sino all’età moderna[7].

L’omogeneità di posizioni che troviamo nella tradizione cristiana primitiva dal I secolo al IV d.C. nel riconoscimento di una minore responsabilità di Pilato o, addirittura, di una sua totale innocenza nella condanna di Gesù, esige una spiegazione che non può ridursi a quella semplicistica del timore verso i Romani, nel cui impero i Cristiani erano costretti a vivere: gli apologisti del II secolo e degli inizi del III dimostreranno che si poteva attaccare anche duramente questo o quel governatore provinciale per la sua crudeltà nelle persecuzioni senza attaccare, anzi scagionando, l’impero romano; alla stessa tecnica erano ricorsi, proprio nei riguardi di Pilato, gli scrittori ebraici del I secolo da Filone a Flavio Giuseppe. Bisogna ricordare anche che Pilato finì nel 37 il suo governo in Giudea con una destituzione dalla quale, a quanto sembra, non fu riabilitato[8]. L’atteggiamento che la tradizione cristiana, senza smentirsi, attribuisce a Pilato, non si giustifica dunque con un falso.

Antonello da Messina, Ecce Homo. Olio su tavola, 1475. Piacenza, Collegio Alberoni.

Dovremo domandarci invece se esso non sia spiegabile, semplicemente, con la aderenza alla realtà storica e con l’effettiva estraneità dei Romani all’iniziativa del processo. Ma di questo parleremo più avanti, dopo aver esaminato le testimonianze non cristiane e la corrispondenza del processo col diritto effettivamente vigente nella provincia di Giudea sotto Tiberio.

Le notizie non cristiane sul processo di Gesù risalenti al primo secolo o agli inizi del secondo si riducono sostanzialmente a tre: il passo di Tacito giù citato (Ann. XV 44, 5), in cui si ricorda solo l’esecuzione di Cristo per opera di Ponzio Pilato; il discusso testimonium Flavianum (A.I. XVIII 64), di cui oggi, eliminate le interpolazioni dovute probabilmente all’inserimento nel testo di glosse marginali di origine cristiana, si tende a sostenere l’autenticità[9] e dal quale risulta che «su denuncia dei nostri notabili, Pilato lo (Gesù) condannò alla croce»; la lettera dello storico siriaco Mara Bar Serapion, databile fra il 73 e il 160 d.C., in cui si parla di «un saggio re giustiziato dagli Ebrei»[10]. Le apparenti contraddizioni risultanti dal confronto fra queste testimonianze indipendenti dai Vangeli, e, in particolare, fra quella di Tacito e quella di Mara Bar Serapion (condanna ed esecuzione da parte di Pilato – condanna ed esecuzione da parte dei Giudei) si conciliano soltanto postulando la più ampia ed articolata impostazione dei Vangeli, con la quale coincide, peraltro, quella sintetica di Giuseppe Flavio: esecuzione da parte di Pilato, ma su denunzia e istigazione giudaica. Dal punto di vista delle fonti il racconto dei Vangeli non presenta dunque alternative criticamente preferibili.

Andrey N. Minorov, This Man! (Ecce Homo). Olio su tela, 2013.

 

2) Il processo in rapporto al dibattito vigente nella Palestina romana. Prescindendo dai particolari tecnici, sui quali non si può pretendere  dagli autori dei Vangeli, come da qualsiasi altra testimonianza storica intenzionata a rispettare la verità, ma proveniente da persone non esperte di diritto, l’esattezza formale, il procedimento composito descritto dai Vangeli, che presuppone una certa autonomia giudiziaria da parte degli organi locali (in questo caso il sinedrio, che istituisce e conduce in modo autonomo il processo), ma che attribuisce al solo governatore romano il potere capitale, concorda perfettamente con la prassi politica e giuridica seguita dai Romani nelle provincie: negli editti di Cirene, che riguardano una provincia ed un’epoca, quella di Augusto, assai vicina a quelle del processo di Cristo, la capacità degli organi locali di condurre in modo autonomo i processi è affermata con la sola eccezione dei processi capitali. E questo, non solo, come è ovvio, per i cittadini romani, ma anche per i sudditi della provincia[11].

La stessa prassi è attestata per la provincia d’Asia da un rescritto di Adriano e da un editto di Antonino Pio (Dig. 48, 3, 6ss.). Ancora Ulpiano, in età severiana (Dig. I, 18), attesta che il potere di condannare a morte, come quello di mandare alle miniere (una sorta di ergastolo), spettava nelle province al governatore. L’affermazione che Giovanni mette in bocca ai rappresentanti del sinedrio («A noi non è lecito mettere a morte nessuno») è dunque perfettamente conforme alla prassi adottata dai Romani nelle province e sarebbe interessante domandarsi in che misura la svista dello Juster[12], che dimenticando solo in questo passo lo stato provinciale della Giudea al tempo di Cristo ne parla come di un «paese autonomo» (?), abbia condizionato le argomentazioni dei sostenitori del potere capitale del sinedrio, la cui privazione sotto i Romani di tale diritto risulta del resto anche dalla tradizione rabbinica[13].

Nikolai Ge, Che cos’è la verità?. Olio su tela, 1890

Lasciando da parte certe distinzioni troppo sottili, come quella tra il metodo clandestino dello strangolamento e quello pubblico della lapidazione, che sarebbe stato in uso fino al 70[14] e lasciando anche da parte l’eccezione costituita dal diritto di mettere a morte nel tempio lo straniero che fosse stato sorpreso in esso, che è attestato da Flavio Giuseppe e da un’iscrizione[15] – ma risulta non la legittimazione di una regolare condanna a morte, ma la tolleranza in certe situazioni di un linciaggio popolare[16] – l’unico caso veramente degno di discussione è, a mio avviso, la lapidazione di Stefano, avvenuta sotto lo stesso Pilato negli anni intorno al 34[17]. Per coloro che sostengono la competenza del sinedrio in materia capitale, la lapidazione di Stefano è la prova «certissima» che gli Ebrei avevano ancora la piena giurisdizione penale[18]; coloro invece che negano – e io credo giustamente – che il sinedrio avesse il diritto di eseguire condanne capitali, si sbarazzano per lo più di questo caso, riconoscendo in esso, come nell’esecuzione immediata dei violatori del tempio di Gerusalemme, un linciaggio, uno di quegli atti «di brutale giustizia popolare, a cui gli Ebrei non erano autorizzati, ma che le autorità romane non sempre potevano impedire»[19].

Come ho scritto altrove[20], a me sembra che, secondo il racconto degli Atti, l’unico a noi giunto sull’argomento, non si possa negare il carattere di processo al procedimento contro Stefano, iniziato con la denunzia dei testimoni davanti al Sinedrio (At 7, 11ss.) e con la difesa dell’accusato col permesso del sommo sacerdote (7, 1ss.) e terminato con la condanna a morte (At 7, 54ss.), gridata all’unanimità del Sinedrio ed eseguita per lapidazione ad opera degli stessi testimoni, come previsto dalle antiche leggi giudaiche contro i bestemmiatori. L’impressione di una certa «regolarità», dal punto di vista giudaico, di tale processo viene anche da un altro passo degli Atti (16, 10), in cui Paolo, rievocando la parte da lui avuta nella persecuzione di Stefano e dei Cristiani, ricorda di aver dato il suo voto per mettere a morte i «santi». Probabilmente «regolare» dal punto di vista giudaico, il comportamento del Sinedrio nel 34 fu però certamente un abuso dal punto di vista romano, come fu un abuso, anche per ammissione di coloro che ritengono la lapidazione di Stefano un semplice linciaggio, la lapidazione di Giacomo Minore e di altri Cristiani di Gerusalemme, avvenuta nel 62 per ordine del sommo sacerdote Ananos e del Sinedrio, in un momento di vacanza del governo romano nella provincia (era morto Porzio Festo e non era ancora arrivato il nuovo governatore, Albino)[21]. Che Ananos, convocando il Sinedrio e pronunziando ed eseguendo una sentenza capitale, avesse oltrepassato le sue competenze ed avesse violato la legge romana (approfittando, come sottolinea Giuseppe, della momentanea assenza del governatore) risulta in questo caso dalla immediata deposizione del sommo sacerdote con cui il re Agrippa II, in attesa dell’arrivo del nuovo governatore, punì l’abuso stesso (Fl. Jos. A.I. XX 1, 9, 199ss.).

Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo. Olio su tavola, 1414-1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

  • La continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù al 62.

L’episodio del 62, se, da una parte, è la migliore e più sicura conferma dei limiti dei poteri del Sinedrio, affermata esplicitamente da Giovanni e risultante implicitamente dal resto della tradizione evangelica, dall’altra è anche la conferma, particolarmente autorevole, perché derivata da una fonte giudaica, della realtà dell’atteggiamento attribuito dalla stessa tradizione evangelica ai Romani e della continuità fino al 62 di questo atteggiamento. Se nel 62 il sommo sacerdote e il Sinedrio giudicarono «occasione propizia» l’assenza del governatore romano per procedere contro i seguaci di Cristo, ciò significa che negli anni precedenti al 62 i Romani avevano fatto capire chiaramente di essere decisi a non cedere più come al tempo del processo di Cristo alle pressioni della autorità giudaica contro i seguaci del Crocifisso e di non voler essere il braccio secolare del Sinedrio in una controversia che, per loro, era e doveva rimanere strettamente religiosa e che non aveva implicazioni politiche.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Vale la pena di domandarsi quando questa presa di posizione abbia cominciato a manifestarsi: essa appare già in atto nei processi intentati a Paolo nel 51 a Corinto davanti a Gallione dalla locale sinagoga (At 17, 12ss.) e, successivamente, in Giudea, dalle autorità giudaiche di Gerusalemme davanti ad Antonio Felice e, poi, a Porzio Festo (At 21 e, in particolare, 23, 28-29 e 25, 19). In tutti questi casi i governatori romani, siano essi il proconsole di Acaia o i procuratori di Giudea, dichiarano esplicitamente che la controversia fra Cristiani e Giudei è una controversia interna della Legge giudaica e che essi non vogliono occuparsene. Questa era, del resto, la posizione che aveva assunto all’inizio anche Pilato nel processo di Gesù, ma che non aveva sostenuto fino in fondo per timore di un ricorso a Roma delle autorità giudaiche, in nome della loro Legge violata (Ioh. 19, 7-13). L’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù era in effetti estremamente abile perché, utilizzando l’ambiguità insita nelle attese messianiche, ben note ai Romani, e da essi paventate, combinava l’accusa di violazione della Legge giudaica (quella di essersi fatto Figlio di Dio) con l’accusa politica (di essersi fatto re)[22]. In queste condizioni, anche prima del 31 e della caduta dell’antigiudaico Seiano[23], Pilato poteva pensare che un ricorso al Sinedrio a Roma avrebbe avuto la possibilità di essere ascoltato, essendo notorio che Tiberio voleva innanzitutto la pace in una provincia «difficile» come la Giudea. Per valutare le possibilità di successo che poteva avere sotto Tiberio un ricorso a Roma contro un governatore accusato di violazioni vere o presunte contro la Legge giudaica e la realtà del timore che Giovanni attribuisce a Pilato, basta tener presente un episodio verificatosi sotto lo stesso governo di Pilato – forse, ma non necessariamente, successivo al processo di Gesù – in cui il prefetto fu costretto da un ordine di Tiberio, informato dai notabili giudaici, a revocare le proprie disposizioni: si tratta dell’esposizione in Gerusalemme nel corso di una festa di alcuni scudi dorati, che Pilato aveva dedicato nel palazzo di Erode in onore di Tiberio e che l’imperatore gli ordinò di ritirare[24] per rispettare le tradizioni del popolo giudaico.

Ci si può riproporre a questo punto la domanda da cui siamo partiti: come e quando nei successori di Pilato era nata la convinzione che, in caso di processi contro Cristiani, un ricorso a Roma dell’autorità giudaica non avrebbe avuto successo e che la linea da seguire fino in fondo per i Romani fosse quella del non intervento, che si risolveva, in definitiva (e l’episodio del 62 lo dimostra chiaramente) nella protezione accordata ai seguaci del Crocifisso contro le persecuzioni della stessa autorità giudaica?

Croce gemmata con il volto di Cristo. Mosaico, VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di S. Apollinare in Classe.

I

o credo che la deposizione inflitta da Ananos nel 62, come punizione di un abuso simile a quello compiuto da Caifa nel 34 (esecuzione di Giacomo-esecuzione di Stefano), possa fornirci la spiegazione della deposizione dello stesso Caifa, nel 36 o nel 37, ad opera dell’inviato di Tiberio, il legato di Siria, L. Vitellio[25], in una delle sue visite a Gerusalemme. Mi conferma in questa convinzione un passo di At 9, 31, in cui si registra subito dopo l’incontro fra Paolo e Pietro a Gerusalemme nel 36[26], a pace della Chiesa in Giudea, Galilea e Samaria. La precisazione degli Atti è importante, perché circoscrive le regioni sotto il controllo romano, in un momento in cui a Damasco, che era sotto il controllo di Areta, allora in guerra con Roma, la persecuzione dell’elemento giudaico e dello stesso Areta contro i seguaci di Cristo era ancora in atto (At 9, 23ss., 2Cor. 11, 32). La deposizione di Caifa per opera di Vitellio aveva dunque posto fine all’azione delle autorità giudaiche contro i seguaci di Cristo, esattamente come la deposizione di Ananos per opera di Agrippa II pose fine nel 62 all’azione del Sinedrio.

Non si può dire che la concomitanza dei due fatti (deposizione di Caifa – pace per la Chiesa in Giudea) sia puramente casuale: abbiamo, infatti, una prova indiretta, ma molto significativa, dell’intervento (anteriore al 42) di un legato di Siria nei confronti dei seguaci di Cristo: sappiamo, infatti, che intorno al 42 proprio ad Antiochia, residenza del legato di Siria, i discepoli adottarono la denominazione di Cristiani, che veniva data loro nel linguaggio ufficiale degli ambienti di governo romani[27]: gli interventi di Vitellio a Gerusalemme nel 36/37 sembrano l’occasione più probabile e, allo stato delle nostre conoscenze, l’unica possibile, per l’adozione da parte degli ambienti di governo della provincia di Siria di questa denominazione. Ci si può domandare perché la punizione dell’abuso compiuto dal sommo sacerdote, che nel 62, nel caso di Ananos, fu attuata immediatamente, sia stata rinviata, nel caso di Caifa, fino al 36 o al 37. La spiegazione di questo ritardo può venire proprio dai rapporti fra Caifa e Pilato, che, come è stato sottolineato da più parti, erano stati fino a quel momento buoni, e dall’imbarazzo in cui dovette trovarsi il governatore di fronte a un abuso compiuto da quelle autorità, la cui collaborazione gli era necessaria per un governo pacifico della provincia[28].

Cristo dinanzi a Pilato. Mosaico, inizi VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

Le fonti cristiane del II secolo, Giustino (I Apol. 35 e 48) e Tertulliano (Apol. V 2 e XXI 24), accennano ad una relazione di Pilato a Tiberio sulle vicende di Gesù e sul diffondersi della fede nella sua divinità in tutta la Palestina e i cronisti dipendenti da Eusebio datano l’arrivo a Roma di questa relazione nel 35 d.C.[29] L’esistenza di questa relazione, troppo frettolosamente confusa con i falsi leggendari elaborati in età tarda e giunti fino a noi, fornisce forse l’anello mancante che collega l’abuso compiuto da Caifa e dal Sinedrio nel 34 con l’esecuzione di Stefano e la punizione da parte romana dell’abuso stesso nel 36/37: Pilato, che non aveva sentito la necessità di informare il suo imperatore del processo di Cristo, terminato con un’esecuzione legale anche se ingiusta, dovette informarlo quando, con la diffusione in tutta la provincia della nuova fede, si trovò davanti all’esasperata intransigenza del Sinedrio e a processi e ad esecuzioni abusive, che rischiavano di coinvolgere un gran numero di persone nella Giudea e nelle regioni vicine. Data la convinzione che Pilato stesso aveva maturato durante il processo di Gesù dell’inconsistenza dell’accusa politica e dell’innocenza del Crocifisso (l’insostenibilità delle ricostruzioni opposte su questo punto alla tradizione evangelica ci permette ormai di confermare la validità di questa tradizione) è probabile che questa relazione, a cui gli autori cristiani del II secolo facevano appello, fosse effettivamente favorevole ai cristiani e che mettesse in rilievo l’inesistenza nella nuova fede di pericoli di natura politica. Il «Pilato già in sua coscienza cristiano» di Tertulliano (Apol. XXI 24) si spiega forse con una relazione di questo tipo, senza bisogno di postulare la conversione di Pilato. Informato sugli sviluppi della situazione in Giudea, Tiberio decise di intervenire: in effetti, la notizia di una nuova «setta» giudaica, osteggiata dalle autorità ufficiali, ma accolta da una parte del popolo, la cui diffusione eliminava nel messianismo ogni violenza politica e antiromana e ne accentuava, invece, il carattere religioso e morale, non poteva che interessare Tiberio, la cui principale ambizione era quella – lo sappiamo anche da Tacito (Ann. VI 32, 1) e proprio nel racconto relativo al 35 – di risolvere le controversie esterne consiliis et astu, con l’astuzia e l’abilità diplomatica, piuttosto che con le armi e la repressione.

Tib. Claudio Nerone Cesare Augusto. Busto, marmo, inizi I sec. d.C. Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen.

Nel corso del 35 Vitellio fu spedito in Oriente, non come un semplice legato di Siria, ma come inviato di Tiberio per una sistemazione generale della zona (Tac. Ann. VI 38, 5: cunctis quae apud Orientem parabantur L. Vitellium praefecit), che riguardava innanzitutto la successione al trono armeno e i rapporti con i Parti e gli Iberi, ma anche Damasco, dove l’etnarca Areta si era sottratto al dominio di Roma, e Gerusalemme, che egli visitò due o addirittura tre volte, sistemando le cose sulla base delle istruzioni di Tiberio[30], rimandando a Roma Pilato, contro il quale aveva ricevuto una protesta da parte dei Samaritani[31] e sostituendolo provvisoriamente con uno dei suoi amici, Marcello (Fl. Jos. A.I. XVIII 89). La protezione accordata, sia pure in modo indiretto, ai Cristiani con la destituzione di Caifa, doveva essere, nell’intenzione di Tiberio e di Vitellio, una misura di pacificazione: è interessante osservare che, nel racconto di Flavio Giuseppe, la destituzione di Caifa dal sommo sacerdozio si accoppia con misura decisamente amichevole verso la religione e le tradizioni giudaiche, la restituzione della veste del Gran sacerdote, con la remissione di una parte delle imposte e con un sacrificio compiuto dallo stesso Vitellio nel tempio di Gerusalemme. Alla linea augurata da Vitellio per volontà di Tiberio si attennero fino al 62 tutti i governatori di Giudea.

La tradizione cristiana orientale e occidentale conobbe in modo diverso e indipendente questo intervento di Tiberio: nel II volume della Storia della Grande Armenia Mosè di Korene, che scrive nel V secolo d.C., ma attinge a leggende e a documenti molto più antichi, riferisce uno scambio di lettere fra Tiberio e Abgar (toparca di Edessa dal 13 al 50 d.C.), nel corso del quale Abgar informa Tiberio della morte e della resurrezione di Cristo e lo invita a punire i Giudei, e Tiberio risponde che lo farà non appena avrà posto fine alla rivolta degli Iberi e di aver già destituito Pilato. L’allusione alla missione di Vitellio (particolarmente interessante l’accenno agli Iberi e alla punizione dei Giudei e di Pilato) è trasparente[32] e rivela come nella tradizione degli Armeni, presso i quali Vitellio aveva operato, il ricordo della missione da lui svolta a favore dei Cristiani, fosse rimasto vivo.

Abgar V Ukkama riceve il mandilion da Taddeo. Tempera su tavola, icona, 944. Sinai, Monastero di S. Caterina.

La tradizione cristiana occidentale, la cui voce più antica è rappresentata per noi da un famoso passo di Tertulliano (Apol. V 2), affermava, invece, che Tiberio, ricevuta la relazione di Pilato, presentò al Senato una proposta tesa ad ottenere il riconoscimento di Cristo come dio e, avendo ottenuto un rifiuto, in seguito al quale il culto reso a Cristo diveniva per lo stato romano superstitio illicita, pose il veto ad eventuali accuse contro i Cristiani. I moderni respingono per lo più questa notizia, ritenendola un’invenzione apologetica. Io credo che l’episodio riferito da Tertulliano sia storico. Non ho intenzione qui di riprendere tutte le argomentazioni che, a più riprese, ho svolto altrove[33] e che non possono essere respinte, a mio avviso, con giudizi o battute che non hanno niente a che fare con un corretto metodo storico, come «inverosimile» o «troppo bello per esser vero». Mi limiterò, invece, a riproporre quelli che io ritengo, al di là delle facili ripulse, i punti degni di maggiore attenzione:

1) Rifiutare come un’invenzione apologetica il passo di Tertulliano affermando, come è stato fatto da più parti[34], che Tertulliano «non mette in rilievo il rifiuto del Senato, ma la benevolenza di Tiberio che minaccia gli accusatori dei Cristiani», significa, a me sembra, isolare il passo dal suo contesto: Tertulliano sta, infatti, cercando di spiegare ai suoi interlocutori, i Romani imperii antistites della dedica, i quali, alla sua difesa del Cristianesimo secondo ragione e secondo giustizia, oppongono l’autorità delle leggi (Apol. IV 3: «Non è lecito che voi esistiate»), che le leggi possono rivelarsi ingiuste e che devono in questo caso essere cambiate (ibid. IV 13). Per questo, e solo per questo, egli cerca l’origini delle leggi anticristiane (ibid. V 1) e individua tale origine nel rifiuto opposto dal Senato alla richiesta di Tiberio. Un rifiuto esplicito di riconoscimento da parte del Senato, che faceva del Cristianesimo una superstitio illicita (Tertulliano sta cercando di spiegare il «non è lecito che voi esistiate») non era certamente conforme agli interessi della apologetica cristiana, che preferiva calcare sulla responsabilità dei cattivi imperatori. Subito dopo, infatti, Tertulliano, senza più parlare né di Tiberio né del Senato, ricorda che fu Nerone ad applicare per primo la normativa anticristiana.

Il senatoconsulto di cui parla Tertulliano non è un’invenzione dell’apologista africano, ma deriva a lui dagli Atti di un processo celebrato a Roma sotto Commodo, fra il 183 e il 185, il processo contro Apollonio (senatore romano, secondo Gerolamo) che fu messo a morte per Cristianesimo «in base a un senatoconsulto» – dice Eusebio (H.E. V 21, 4), che possedeva gli Atti antichi – il cui contenuto, riferito dagli Atti greci a noi pervenuti (p. 171 Lazzati: «Il senatoconsulto dice che non è lecito essere Cristiani»), corrisponde esattamente al Non licet esse vos, risultante, secondo Tertulliano, dal senatoconsulto tiberiano. Bisogna aggiungere che la forma del senatoconsulto era, dal punto di vista giuridico, l’unica che, in età giulio-claudia, poteva autorizzare o rifiutare l’accoglienza di un nuovo culto[35].

Se la fonte di Tertulliano sono gli Atti autentici del processo di Apollonio (insisto sul fatto che il s.c. è ricordato da Eusebio e non solo negli Atti tardi e interpolati), cioè i documenti ufficiali di un processo tenuto a Roma, e la difesa in esso pronunziata dallo stesso Apollonio (la prima apologia latina, secondo la tradizione) davanti al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, l’ipotesi di una invenzione cristiana cade da sé.

3) L’argumentum e silentio, di per sé debolissimo, è in questo caso inesistente: Tacito non parla del senatoconsulto perché, per sua esplicita ammissione, egli si occupa, per il 35, solo di politica estera (Ann. VI 38, 1) «per riposarsi l’anima dai mali interni». Eppure, Tiberio, che in quel periodo non era a Capri, ma alle porte di Roma (ibid. 45, 2), trattava in continuazione, anche per lettera, col Senato le faccende dello stato. Non è vero, inoltre, che i pagani ignoravano questo senatoconsulto: a parte gli Atti di Apollonio, c’è un frammento porfiriano che ne attesta l’esistenza[36].

4) L’atteggiamento che Tertulliano attribuisce a Tiberio con la proposta che dette origine al s.c., lungi dall’essere «inverosimile», concorda perfettamente con la linea politica che Tiberio sembra aver seguito in Palestina con l’intervento di Vitellio; proponendo il riconoscimento del culto di Cristo, Tiberio mirava a dare alla nuova «setta» nata in seno al Giudaismo, la stessa liceità che Roma riconosceva, dal tempo di Cesare, al Giudaismo ed intendeva sottrarre in questo modo i seguaci di essa in Giudea (tale era l’ambito di diffusione della nuova fede nel 35) all’autorità e alle vessazioni del Sinedrio. I Romani avevano seguito questa linea fin dal tempo della creazione della provincia, con i Samaritani, che erano stati sottratti alla tutela religiosa giudaica e la cui fedeltà era stata in tal modo assicurata a Roma[37]. Tiberio, che preferiva risolvere le controversie esterne con la diplomazia e con l’astuzia piuttosto che con le armi, mirava ad ottenere lo stesso risultato con i Cristiani.

Non essendo riuscito ad ottenere dal Senato ciò che desiderava, Tiberio intervenne in modo più diretto attraverso il suo legato.

I due Testamenti (dettaglio). Sarcofago, marmo, prima metà del IV sec. d.C. da San Paolo Fuori le Mura. Roma, Museo Pio Cristiano.

Il non aver compreso che la proposta di Tiberio riguardava la Giudea e non Roma ha contribuito, a mio avviso, allo scetticismo che la maggior parte dei moderni ha mostrato finora nei riguardi della notizia di Tertulliano: Tiberio non poteva sapere, nel 35, che il Cristianesimo avrebbe esercitato, al di fuori della Giudea, un proselitismo di gran lunga maggiore di quello del Giudaismo, che egli aveva mostrato di paventare nel 19. La proposta del 35 fu una proposta politica, strettamente collegata con la politica di pacificazione che Tiberio conduceva verso una provincia difficile, dal punto di vista religioso, come la Giudea.

Da questo momento fino a Nerone, i governatori di Giudea seppero come dovevano comportarsi nei riguardi dei «Christiani» e la loro presenza si rivelò per i seguaci della nuova fede una salvaguardia. Solo nel periodo in cui la provincia ritornò autonoma, sotto il governo di Agrippa I, dal 41 al 44, la persecuzione legale dei seguaci di Cristo in Giudea ritornò possibile e si giunse alla condanna a morte di Giacomo Maggiore e all’arresto di Pietro.

 

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Note:

[1] Sull’iscrizione di Pilato a Cesarea, pubblicata da A. Frova, in RIL 95, 1961, pp. 49ss., v. ora C. Gatti, A proposito di una rilettura dell’epigrafe di Ponzio Pilato, in «Aevum», 55, 1981, pp. 13ss.; J.P. Leomonon, Pilate et le gouvernement de la Judée, Parigi 1981, pp. 23ss.; L. Prandi, Una nuova ipotesi sull’iscrizione di Ponzio Pilato, in «Civiltà classica e cristiana», 2, 1981, pp. 25ss. Sull’autenticità del passo di Tacito v. H. Fuchs, Tacitus über die Christen, in «Vigiliae Christianae», 4, 1950, pp. 65ss., e Lemonon, op. cit., pp. 173-174. Sulla probabile data del processo di Gesù, 7 aprile del 30, v. J. Blinzler, Il processo di Gesù, tr. it. Brescia 19662, pp. 85ss.; cfr. Lemonon, op. cit., p. 133 (7 aprile del 30 o 27 aprile del 31).

[2] Sulla ricostruzione dei due processi subiti da Gesù, davanti al sinedrio e davanti al governatore romano e su tutti i problemi da essi posti, rinvio all’esauriente libro del Blinzler, citato nella nota precedente. Sul problema v. anche Lemonon, op. cit., pp. 173ss. Sull’attendibilità di Giovanni richiama ora l’attenzione F. Millar, Riflessioni sul processo di Gesù, in «Gli Ebrei nell’impero romano», trad. it. a cura di A. Lewin, Firenze 2001, pp. 77ss.

[3] Per la prima posizione v. in particolare E. Bickerman in «R.H.R.», 112, 1935, pp. 232ss.; per la seconda, J. Juster, Les juifs dans l’empire Romain, Parigi 19142, pp. 127ss.; H. Lietzmann, Kleine Schriften, Berlino 19582, pp. 251ss. e 269ss.; P. Winter, On the Trial of Jesus, Berlino 1961. Più sfumata la posizione di T.A. Burkill in «Vigiliae Christianae», 10, 1956, pp. 80ss., E.M. Smallwood, The Jews under Roman Rule, Leida 1976, pp. 140ss.

[4] Per l’analisi dettagliata dei racconti evangelici sul processo di Gesù rinvio allo studio del Lemonon, op. cit., pp. 177-189; sul problema di Anna e Caifa v. ora anche E. Lorenzini, Il sommo sacerdote Caifa, Cesena 2003.

[5] At 2, 23ss.; 3, 13; 7, 52ss.; 13, 27-29.

[6] IX 125 (trad. Orlandi, Milano 1966).

[7] Lemonon, op. cit., pp. 265ss.

[8] Lemonon, op. cit., pp. 217ss., 245.

[9] Cfr. A. Pelletier, L’originalité du temoignage de Flavius Joséph, in «RSR» 52, 1964, pp. 177ss. ; Lemonon, op. cit., pp. 174ss. La sostanziale autenticità del testo di Giuseppe è sostenuta da L. Préchac, Réflexions sur le testimonium Flavianum, in «Bibl. de l’Association Budé», 1969, pp. 101ss.; I. Ramelli, Alcune osservazioni circa il Testimonium Flavianum, in «Sileno», 24, 1998 (2000), pp. 21ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, pp. 109ss.

[10] Sulla lettera di Mara Bar Serapion, v. J. Blinzler, op. cit., pp. 43ss. (che la data poco dopo il 73 d.C.); I. Ramelli, Storicismo e Cristianesimo in area siriaca, in «Sileno», 25, 1999 (2001), pp. 197ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, p. 111, che pensa alla stessa data.

[11] Particolarmente interessante a questo proposito è il IV editto di Cirene, 1.63. Sui problemi posti da questo editto e dal suo confronto col I editto di Cirene, v. F. De Vischer, Les édits de Cyrene, Osnabrück 19652, pp. 16ss., p. 68; cfr. Lemonon, op. cit., p. 77.

[12] Juster, op. cit., pp. 81ss.

[13] Cfr. l’analisi del Lemonon, op. cit., pp. 81ss.

[14] P. Winter, Marginl Notes ecc., in «Z.N.W.», 50, 1959, pp. 22ss. Per la confutazione di tale ipotesi v. Blinzler, op. cit., pp. 203ss.

[15] Fl. Jos. B.I. VI 126; A.I. XV 417; l’iscrizione è pubblicata in «Rev. Arch.», 23, 1872, p. 220: essa afferma tra l’altro che colui che sarà preso dentro il tempio «sarà causa a se stesso della propria morte».

[16] Un esempio di un procedimento di questo tipo ci è fornito da At 21, 27ss., in cui Paolo, colto nel tempio con alcuni presunti pagani, rischia la lapidazione immediata ed è salvato in extremis dall’intervento romano.

[17] L data è ricavabile da Gal 1, 15-24, che colloca nel 36 l’incontro di Paolo a Gerusalemme con gli Apostoli (14 anni prima del 49, col calcolo inclusivo), incontro posteriore di tre anni alla conversione di Paolo (e alla morte di Stefano); cfr. M. Sordi, in «Studi Romani», 8, 1960, pp. 393ss. Per S. Dockx, Date de la morte d’Etienne, in «Biblica», 55, 1974, pp. 65ss., la morte di Stefano risale al 36.

[18] F. Parente, in «Riv. di Filol. Class.», 94, 1968, p. 77.

[19] Così Blinzler, op. cit., p. 213 (con precedente bibliografia) e, ora, Lemonon, op. cit., pp. 92ss.

[20] M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 23ss.

[21] Fl. Jos. A.I. XX 91 (200); cfr. Blinzler, op. cit., p. 212; Lemonon, op. cit., p. 90. I sostenitori dei poteri del Sinedrio in materia di esecuzioni capitali interpretano il passo nel senso che l’abuso di Ananos sarebbe stato quello di aver convocato il Sinedrio senza l’autorizzazione romana (cfr., da ultimo, Smallwood, op. cit., pp. 149ss.). Questa interpretazione, già respinta da me in «Riv. di Filol. Class.», 98, 1970, pp. 309ss., è rifiutata anche da Lemenon, op. cit., p. 91 e n. 129.

[22] L’abilità dell’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù è messa in rilievo dal Lemonon, op. cit., p. 188 e n. 202.

[23] L’attacco di Seiano al Giudaismo è ricordato da Filone (Leg. ad Caium, 159/61; In Flaccum, 1) ed è collocato dalla Smallwood, in «Latomus», 15, 1956, pp. 322ss., intorno al 28/31 d.C. Tiberio si era, in effetti, mostrato ostile al proselitismo giudaico a Roma già nel 19 (Tac. Ann. II 85, 4; Suet. Tib. 36, ecc.). Tale ostilità riguardava però solo il proselitismo in Roma e non toccava né la liceità del Giudaismo né, tantomeno, il rispetto della religione giudaica in Palestina.

[24] Phil. Leg. ad Gaium, 299ss.; cfr. Lemonon, op. cit., pp. 205ss., che colloca l’episodio dopo il 31 (anno della caduta di Seiano); cfr. pp. 133-134 (con bibliografia n. 20) e pp. 223ss.; su questo e altri interventi di Pilato, v. G. Firpo, Erennio Capitone e Ponzio Pilato, in «Studi offerti a… C. Vona», Chieti 1987, pp. 237ss.

[25] Fl. Jos. A.I. XV 405; XVIII 90ss., 122ss. Per la Smallwood, op. cit., pp. 171ss., le visite furono due, una nel 36 e l’altra nel 37; per il Lemonon, op. cit., pp. 242ss., furono tre, una nel 36 e due nel 37.

[26] Cfr. supra n. 17.

[27] At 11, 26. Sull’origine romana e ufficiale del nome cristiano v. R. Paribeni, in «Atti R. Acc. Lincei», 1927, p. 685; E. Peterson, in Miscellanea G. Mercati, Città del Vaticano 1946, p. 362; M. Sordi, op. cit., pp. 30 e 456-457; G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977, p. 134 n. 8; S. Xeres, Il nome Christianoi, in CISA, 18, 1992, pp. 211ss.

[28] Lemenon, op. cit., pp. 274ss., per il quale, come già per la Smallwood, in «J. th. S.», NS 13 (1962), pp. 14ss., Caifa fu deposto proprio a causa dei suoi rapporti con Pilato.

[29] Per il 35 d.C. Chron. Hieron., pp. 176-177 Helm; Chron. Pasch., p. 430. Tertulliano (Apol. V 2) ed Eus. (H.E. II 2, 1) non danno una data precisa, ma sembrano presupporre la già avvenuta diffusione del Cristianesimo in tutta la Palestina (ciò che ci porta alla dispersione degli Apostoli in Giudea e in Samaria, seguita alla lapidazione di Stefano, At 8, 1ss.).

[30] Fl. Jos. A.I. XV 405 (Vitellio scrive a Tiberio); XVIII 90 (Vitellio va a Gerusalemme con la risposta di Tiberio: è nel corso di questo intervento che Vitellio destituisce Caifa); di Vitellio sono attestati dei Commentarii, che Tertulliano conosceva e di cui si trovano le tracce nelle A.I. di Flavio Giuseppe, cfr. A. Galimberti, I commentarii di L. Vitellio, in «Historia», 48, 2, 1999, pp. 224ss.

[31] Fl. Jos. A.I. XVIII 85ss. Sull’episodio del monte Garizim, v. Lemonon, op. cit., pp. 230ss.; G. Firpo, art. cit., p. 253.

[32] Si tratta degli Iberi del Caucaso, con cui L. Vitellio ebbe effettivamente a che fare (Tac. Ann. VI 32, 5; 33, 1) e non degli Spagnoli (F.H.G. V, pp. 329-330, trad. franc.). Su questi argomenti v. M. Sordi, I primi rapporti fra lo stato romano e il Cristianesimo, in «Rend. Acc. Lincei», 12, 1957, pp. 81ss.; I. Ramelli, Edessa e i Romani, in «Aevum», 73, 1999, pp. 107ss.

[33] M. Sordi, I primi rapporti…, pp. 59ss.; Ead., L’apologia del martire Apollonio, in «Rivista di St. della Chiesa», 18, 1964, pp. 169ss.; Ead., Il Cristianesimo e Roma, cit., pp. 25ss. e passim.

[34] Lemenon, op. cit., pp. 254-255.

[35] Cfr. A. Giovannini, Tacite, l’incendium Neronis et les Chrétiens, in «Rev. Etud. August.», 30, 1984, pp. 3ss. (che ritiene, ma, a mio avviso, a torto, che il s.c. fosse di età neroniana). Attribuendo ad Apollonio (che, secondo Gerolamo, era senatore) la notizia di Tertulliano, si spiegano due presunte difficoltà della notizia stessa: a) la conoscenza da parte dell’apologista di un documento che doveva trovarsi negli archivi del Senato accessibili solo ai senatori; b) la denominazione di Syria Palaestina (attuale al tempo di Apollonio) della provincia di Giudea.

[36] Su questo frammento v. ora M. Sordi – I. Ramelli, Il senatoconsulto del 35 in un frammento porfiriano, in «Aevum», 78, 2004, pp. 59ss.

[37] Cfr. Lemenon, op. cit., p. 238.

La vittoria di Costantino

di F. Sampoli, L’imperatore di Cristo, in Archeo monografie – Storie di grandi imperatori, Agosto 2009, 220-236.

 

La situazione a Roma.

Massenzio. Busto, marmo, 300-310 d.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Ripartiamo ora da Massenzio. Dopo le fiammate di un ritrovato orgoglio «romano», suscitate nella popolazione dalla ritirata del burbanzoso Galerio, Massenzio non aveva capito o non aveva voluto rendersi conto di come – finito lo stato di emergenza – avrebbe dovuto riordinare l’assetto sociale ed economico della Penisola, nonché quello particolare di Roma. Le due spedizioni «punitive» di Severo e di Galerio (quest’ultima, soprattutto) avevano spopolato le campagne, bruciati i villaggi, distrutto i magazzini di grano, rapito gli armenti. A questo si erano aggiunti, sventuratamente, due cattivi raccolti. Per la Penisola era la carestia, con l’incubo della fame. In condizioni normali l’Italia dipendeva dall’Africa proconsularis per un terzo del suo fabbisogno granario. Ma ora accadde proprio che l’Africa si ribellasse, eleggendosi un nuovo imperatore, Lucio Domizio Alessandro. Di colpo la situazione in Italia e a Roma era diventata drammatica.

Massenzio. Follis, Roma 307-312 d.C. Æ 3,2 gr. Verso: Victoria aeterna Aug(usta); Vittoria alata, stante, volta a destra, colta in atto di scrivere su un clipeus Vot(a) X, mentre un nemico prigioniero in catene è posto alla sua sinistra. R – P in exergo.

Massenzio era pigro, dissipatore e un incorreggibile lussurioso. Aveva sempre bisogno di denaro, quindi costretto a gravare di continuo o a rapinare i cittadini. Per avidità era riuscito a renderseli ostili. Gli rimanevano fedeli, conservando per lui simpatia e un attaccamento quasi incondizionato, i soldati e soprattutto i pretoriani. Vero è che godevano di non pochi privilegi: una regolare distribuzione dei salari, spesso integrata da occasioni straordinarie, nelle quali era compresa la licenza – concessa loro più o meno liberamente – di angariare con soprusi le persone civili, profittando da un lato del silenzio delle leggi, dall’altro del timore che ai malcapitati ispirava la loro vista o la loro reazione. Ma ecco che con davanti lo spettro della carestia, Massenzio uscì dal letargo della smemoratezza. Primo atto liberare l’Africa. Significava riattivare i trasporti regolari di grano ai porti di Hostia e dell’Italia. Poiché era superstiziosissimo, aveva atteso fino ad allora segnali favorevoli. In Africa mandò il prefetto del pretorio, Gaio Ceionio Rufio Volusiano, con un esercito non numeroso, ma addestrato e agguerrito. Breve la campagna. Domizio Alessandro strangolato. L’Africa era ricca e i soldati di Massenzio la depredarono come si trattasse della conquista di una nuova provincia. Riempiti i magazzini di grano e rimpinguate le casse dello Stato, Massenzio pensò alla sicurezza militare, assoldando nuove truppe, di cavalleria in primo luogo, e cioè contingenti di Mauri, che venivano appunto dall’Africa, appena «riconquistata». Per gli occhi della plebe romana fece, poi, un trionfo solenne, strepitoso, richiamandosi ai vecchi tempi della Repubblica, insieme esibendo nei cartelloni «pubblicitari» l’immagine di Carthago, divenuta nell’occasione simbolo dei nemici di Roma. In realtà aveva coscienza che si stava avvicinando il momento dello scontro per il possesso dell’Italia.

Massenzio era troppo pigro per cullare sogni o fantasie di conquiste. Non aveva mai amato, né amava ora gli esercizi militari, la vita dura degli accampamenti, le lunghe marce sotto il sole o nel freddo dell’inverno. Lo interessavano piuttosto le giovani mogli o figlie di senatori o di plebei capaci di stuzzicare i suoi appetiti sessuali. In una città dai costumi licenziosi come Roma non c’erano in pratica donne belle e amanti del lusso che non fossero disposte a compiacerlo in uno qualunque dei suoi giochi erotici. E c’era, comunque, anche il risvolto della medaglia: la loro compiacenza lo veniva a privare del sapore più piccante, quello dell’oltraggio gratuito, arbitrario, provocatorio, inaspettato, oltre naturalmente allo sfregio della violenza fisica. Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica) ricorda una giovane matrona che si uccise per sottrarsi alla lussuria di Massenzio. Precisa che era cristiana, moglie del prefetto di Roma e che il suo nome era Sofronia. La testimonianza del panegirista, anche se di parte, non può essere messa in dubbio. Ma rimane accidentale il fatto (per Eusebio, primario) che la donna fosse cristiana. A ogni buon conto, è assolutamente certo che nel 311, subito dopo l’editto emanato in aprile da Galerio, Massenzio concesse ai cristiani – ugualmente come il suocero – il diritto di tolleranza religiosa, anzi si spinse addirittura a restituire alla Chiesa cristiana le proprietà confiscate durante la persecuzione. Con il che si può dire, anticipando, che non risponde a verità, come scrissero in seguito i panegiristi, che Costantino si sia mosso dalla Gallia contro Massenzio per liberare Roma e i cristiani da una persecuzione religiosa. La guerra di Flavio Valerio Costantino fu una guerra di conquista. La prima, in ordine di tempo, per arrivare alla signoria del mondo.

Basilica di Massenzio, inizi IV sec. d.C. Foro Romano
Basilica di Massenzio, inizi IV sec. d.C. Roma, Foro Romano.

 

I prodromi della guerra.

Dall’una parte e dall’altra si trovarono subito pretesti, motivi, rivendicazioni per giustificare la guerra. Massenzio tirò fuori la morte del padre Massimiano, fatto strangolare da Costantino dopo la resa di Massilia. Per renderne la morte ancora più infame, si affrettò a deificare il padre, a tesserne gli elogi, a innalzargli statue. Costantino, diceva Massenzio, non si era macchiato soltanto di empietà, uccidendo il suocero, ma anche di nera ingratitudine, giacché sia Costanzo Cloro, sia lo stesso Costantino dovevano a Massimano l’ascesa a Caesar e poi ad Augustus.

Le accuse del cognato contro Massenzio si limitarono a rinfacciargli di aver distrutto in Italia come a Roma le statue di lui, Costantino. Era niente.

Ma nel tempio di Apollo a Gandavum (Gand) trovò un incentivo impellente, perentorio, indifferibile per la guerra: una visione. Gli apparvero Apollo e la Vittoria nell’atto di offrirgli una corona di alloro. Costantino identificò subito Apollo con il Sol Invictus, al quale era unanimemente riconosciuto il dominio del mondo. L’anno prima, rivalutando la propria discendenza imperiale, aveva scelto quale divinità di elezione il Sol Invictus, elevato da Aureliano a divinità dello Stato e venerato da Claudio II il Gotico e da suo padre Costanzo Cloro. Insomma il vero motivo della guerra, iniziando dalla campagna d’Italia, fu la suggestione di un sogno a occhi aperti, che si tramuterà poi in segno e infine in certezza di essere il predestinato al potere unico.

Quando scese in Italia, nella primavera del 312, Costantino aveva trentadue anni. Contrariamente a Massenzio – indegno, per Giuliano l’Apostata, di essere annoverato fra i Cesari, e capace, per Zosimo, che pure era uno storico pagano, di qualsiasi perversione –, Costantino non conosceva le dissolutezze della carne.

Nemmeno il fasto o le gozzoviglie notturne rientravano nel suo orizzonte esistenziale. Era nato per la guerra e per dominare. Nei sei anni precedenti aveva represso rivolte in Britannia, riconquistata l’Hispania, respinto e distrutto eserciti di Germani oltre il confine del Reno. Contro di lui, secondo Zosimo, Massenzio schierò più di centosessantamila uomini, ma la cifra è assolutamente esagerata. Con più ragionevolezza si può fissare in venticinquemila, più cinquemila cavalieri, in gran parte germanici, l’esercito di Costantino; in quarantamila, con l’aggiunta di diecimila cavalieri e delle dodici coorti di pretoriani, quello di Massenzio. Quest’ultimo, inoltre, poteva contare sulla difesa delle Mura Aureliane, che cingevano Roma e delle quali, in previsione della guerra, aveva rafforzate le capacità di resistenza. Per qualsiasi esercito la presa della città sarebbe stata difficilissima. Se poi le mura erano piene di difensori, di macchine da lancio e i magazzini riforniti di scorte alimentari, l’assedio poteva durare mesi, un anno, e rovinosamente per gli assedianti, come era accaduto per Severo e Galerio.

Costantino. Follis, Londinium 310 d.C. Æ 4,32 gr. Recto: Soli invicto comiti; Sole, stante verso sinistra, con la destra alzata e un globo nella sinistra; le sigle T-F ai suoi fianchi e PLN in exergo.

 

La discesa in Italia.

Costantino passò le Alpi alla fine di aprile, fra il Moncenisio e il Monginevro, che era la strada dei Celti per venire in Italia, usata da Annibale e poi abituale per le legioni di Cesare. All’atto della partenza gli auspici gli furono avversi, ma l’ambizione era in lui un aculeo troppo forte per aspettarne di nuovi. Ed ebbe fortuna: i generali di Massenzio non avevano presidiato i passi che scendevano in Italia, sicché Segusia (Susa), ai piedi delle Alpi, una fortezza ritenuta inespugnabile, investita ora da tutto l’esercito di Costantino, nello stesso giorno fu assediata, presa e bruciata.  Il primo scontro diretto avvenne nei pressi di Augusta Taurinorum (Torino) fra le odierne Alpignano e Rivoli. Costantino si trovò di fronte la cavalleria catafratta, una specie di grossa testuggine mobile o di muro di ferro che si spostava in avanti. Pesante, lenta, ma adatta per combattere in pianura e formidabile per armamento. I cavalieri catafratti si disposero a cuneo. Coperti com’erano di ferro, sia uomini sia cavalli, potevano essere irresistibili, ma anche soggetti a subire a loro volta attacchi sui fianchi da una cavalleria leggera e veloce, che poteva offendere e ritirarsi. Quando, sfiniti e disuniti, i cavalieri di Massenzio persero compattezza, in cui poi consisteva la loro vera forza d’urto, si dispersero, Costantino mandò a finirli gruppi speciali di assalitori muniti di grosse mazze. Questi, scrive Jean-Baptiste-Louis Crevier, «percotendo con gravi colpi e uomini e cavalli, li oppressero come un gregge di bestie e li uccisero tutti». Augusta Taurinorum si arrese; ugualmente si arresero Mediolanum e le altre città dell’Italia settentrionale. La strada per Roma era aperta. Ma, sulla sinistra, Verona era in mano a Ruricio Pompeiano, il migliore e più attivo dei generali di Massenzio. Costantino non poteva lasciarselo alle spalle: se Ruricio Pompeiano non era in grado di impedirgli la marcia su Roma, poteva però tagliargli le comunicazioni con la Gallia. Non aveva scelta, e decisamente puntò su Verona.

 

Battaglia di Verona. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dall’Arco di Costantino, Roma.

 

Per tre quarti delle mura la città era difesa dall’Adige. Per Ruricio Pompeiano, tuttavia, finiva per diventare una trappola, né rispondeva alle sue attitudini militari il sopportare a lungo un assedio. Aveva tentato a più riprese audaci sortite; incerto l’esito, finché escogitò una nuova strategia: uscire dalla città, raccogliere un esercito e con quello piombare alle spalle di Costantino. Gli riuscì l’intento con l’esercito, che era di una notevole consistenza, ma fallì nella sorpresa: Costantino lo aspettava in uno scenario di colli, ideale per sbarragli la strada.

Le forze in campo erano squilibrate. Costantino aveva con sé soltanto la cavalleria e le truppe mobili, che aveva potuto sottrarre all’assedio. In guerra era temerario, risoluto, tempestivo. La giornata volgeva al termine e l’oscurità incombente avrebbe nascosto al nemico l’entità vera delle sue forze. Di sicuro si ricordò di Alessandro a Gaugamela. Con la cavalleria attaccò al centro. La comandava lui stesso. La battaglia durò fino a notte inoltrata. Al mattino la pianura e i colli che aveva davanti erano disseminati di cadaveri, uno dei quali era quello di Ruricio Pompeiano. E il numero dei prigionieri era così grande che per le catene Costantino ordinò di fondere le spade degli stessi prigionieri.

Verona aprì le porte, poi toccò ad Aquileia e, oltre il Po, a Mutina (Modena). A Roma le notizie delle vittorie e dell’avanzata di Costantino trovarono in Massenzio un ascoltatore distratto. Ostentava sicurezza, minimizzava gli insuccessi; Costantino, diceva, non aveva un esercito né migliore, né più potente di quello di Severo o di Galerio; quindi, come loro, destinato a scappare dall’Italia. In realtà Massenzio viveva l’attesa fra paure, piccole viltà e le profezie degli aruspici. Quando non lo sorreggevano le parole di questi ultimi, ricorreva agli stupri nelle case dove i delatori riferivano esserci giovani donne, oppure a rapine per puro divertimento. La sua cupidità, comunque, era tale che trovava colpevoli e nemici dello Stato tutti quei senatori e cavalieri che erano o fossero ritenuti ricchi. Finalmente i vecchi ufficiali, che avevano militato sotto Massimiano, gli esposero brutalmente la gravità della situazione militare. Anche i pretoriani, da parte loro, lo sollecitarono a uscire dall’inerzia, come dalla noia dei bagordi notturni. Si riscosse, come venisse fuori da una sorta di letargo o da una lunga ubriacatura. Soprattutto lo colpirono dalle gradinate del circo gli epiteti di vigliacco, donnicciola, coniglio, lanciatigli da quegli stessi che vino a cinque-dieci giorni prima lo avevano osannato oltre misura. Non aveva mai preso parte ad una battaglia, né maneggiato uno scudo, ma ora, scortato dalla guardia pretoriana, si fece vedere al campo.

Porta Borsari (antica Porta Iovia, poi Porta S. Zeno), Verona.

Sulla destra del Tevere.

Giunto a Roma dalla via Flaminia, Costantino non si affrettò a porre l’assedio alla città, anzi non passò nemmeno il Tevere e trattenne l’esercito sulle colline a ridosso del fiume. Era il 25 ottobre. Negli ultimi giorni aveva sempre piovuto, i campi zuppi d’acque, il Tevere – come lo vedeva dall’alto – gonfio e giallo. Gli rimaneva tempo per studiare un piano, se non voleva avventurarsi nell’incognita di un assedio. Prima di iniziare la campagna d’Italia aveva stipulato un patto di alleanza con Licinio, Augustus e signore dei territori dell’Europa sud-orientale (Raetia, Pannonia, Illyricum, Graecia, Macedonia, Moesia Superior e Inferior) fino al Bosforo. Il patto, che avrebbero poi sancito con il matrimonio fra Licinio e la sorellastra prediletta di Costantino, Costanza, risultava in effetti favorevole ad entrambi: garantiva a Costantino, mentre era impegnato in Italia, la frontiera orientale; a sua volta Licinio era garantito ad Occidente nella sua campagna che stava per intraprendere oltre il Bosforo, contro Massimino Daia. L’alleanza fra i due futuri cognati portò di conseguenza a un’uguale alleanza tra Massenzio e Massimino Daia, secondo il più antico adagio della politica: i nemici dei miei nemici sono miei amici.

Mura Aureliane, Roma.

Il vero timore di Costantino era che Massenzio si rinserrasse dentro le mura. Di sicuro gli erano presenti gli scacchi subiti da Severo e Galerio. Un lungo assedio lo spaventava. Inaspettatamente gli vennero in aiuto i Libri Sybillini. Massenzio, come abbiamo sottolineato, era superstiziosissimo. Ogni sua decisione dipendeva dal responso delle vittime sacrificate o dalle predizioni degli aruspici. Cercava in loro sicurezza alle sue viltà. Qualche giorno avanti l’arrivo di Costantino gli aruspici gli avevano minacciato la fine dell’impero e la morte «se mai si fosse allontanato dalle porte della città», e lui aveva fatto abbattere il ponte sul Tevere a un miglio dalla porta Flaminia (Pons Milvius), e poi, in seguito alle proteste della plebe, ne aveva costruito un altro di legno con uno stratagemma: composto cioè di due parti, snodabili e unite fra loro a metà da cavicchi, che si potevano facilmente sganciare. Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre ebbe un sogno che gli ingiungeva di non fermarsi più oltre nel luogo dove si trovava. Subito la mattina dopo uscì dal palazzo imperiale e con la famiglia si trasferì in una residenza privata. Finché gli venne l’idea, o gli fu suggerita, di consultare i Libri Sybillini – atto che rientrava nel solco della grande tradizione religiosa dei Romani. Ma il responso fu sconvolgente e cambiò del tutto la sua condotta strategica. Diceva che nel giorno del giubileo imperiale il nemico di Roma sarebbe stato sconfitto. Il giorno era il 28 ottobre, sesto anniversario della proclamazione a imperatore romano di Massenzio. Non ci potevano essere dubbi su chi fosse il reale «nemico di Roma». Fra l’altro, Costantino si trascinava dietro un’armata di Galli, di Germani, di Britanni, mentre l’«esercito di Roma» era costituito, per la maggior parte, da Romani e da Italici.

Negoziati fra l’esercito di Massenzio e quello di Costantino a Roma. Ricostruzione grafica di G. Rava.

 

Ad avvalorare la predizione ci fu, nella piana presso Pons Milvius, al di là del Tevere, uno scontro di avanguardie che impegnò cavalleria e legionari. Incerto l’esito, ma il solo fatto che fosse sostenuto con fermezza e determinazione da una minima parte delle forze «romane», contribuì rovinosamente a suggestionare Massenzio. Così lui, che era pigro, timoroso, di colpo si lasciò vincere da uno spavaldo orgoglio di imperium e, all’alba del 28 ottobre, giorno appunto del giubileo imperiale, ordinò a tutte le sue forze di uscire dalla città, oltrepassare il Tevere e pigliare posizione sulla destra, in pratica con le spalle al fiume, giallo per la piena.

Costantino si era attestato sulla Flaminia (presso Saxa Rubra), da dove dominava il Tevere. Dopo lo scontro di tre giorni prima, intuendo il disegno suicida di Massenzio, si era affrettato a ritirare le avanguardie che scorrazzavano sulla destra del fiume.

 

La battaglia di Pons Milvius.

 

Massenzio al Pons Milvius. Ricostruzione di R. Hook.

 

La giornata si annunciava instabile, nuvolosa, con le nebbie nelle valli, ma per tutto quel ventotto ottobre non piovve. Con la vista dei colli, nell’umida velatura della nebbia e a specchio del fiume, si snodò verso la via Flaminia il lungo, oscuro lombrico di oltre cinquantamila unità dell’esercito di Massenzio, pesante, disarticolato e ignaro di andare incontro alla più tremenda delle catastrofi. Costantino, al riparo delle alture, aspettava che la vittima designata si infilasse nella trappola che aveva preparato fra Pons Milvius e Saxa Rubra. Aveva schierato, infatti, una parte dell’esercito appunto a Saxa Rubra, profittando del vantaggio che gli offriva il terreno. Con il resto dell’esercito girò intorno alle colline in un ampio semicerchio fino ad incontrare la Cassia e, seguendo questa, si portò all’altezza di Pons Milvius. Quando, diradatasi la nebbia, l’avanguardia di Massenzio si trovò a contatto con le truppe gallo-germaniche di Costantino schierate sui pendii di Saxa Rubra, il lungo, oscuro lombrico s’incurvò, ebbe un sussulto di assestamento.

Poi cominciò a distendersi, allargandosi a ventaglio, portando la sinistra alle pendici delle alture e la destra a sostenere l’attacco dell’avanguardia. Era il momento scelto da Costantino. Improvvisamente, al comando della cavalleria, dall’alto della Cassia si gettò con grande impeto sul fianco dello schieramento nemico.

La cavalleria di Costantino attacca i pretoriani di Massenzio. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

Massenzio gli mandò contro la cavalleria: con le coorti pretoriane rappresentava l’elemento di forza del suo esercito. Numerosa, ben addestrata, contava nelle sue file catafratti e cavalleggeri numidi e mauri: i primi, coperti di ferro, lenti, avevano dato prova delle loro qualità in primavera nella piana di Augusta Taurinorum; i secondi erano rinomati per la loro mobilità e la loro azione avvolgente, simile a un vento rapinoso. Finché la cavalleria di Massenzio tenne campo, la battaglia in qualche modo rimase in bilico, ma appena Mauri e catafratti cedettero, non ebbe più storia e si trasformò in una strage e in una fuga miseranda.

L’esercito di Massenzio, per imbecillità tattica, aveva combattuto sulla riva destra del Tevere, con le spalle al fiume: era sconfitto prima ancora di levare il grido di guerra. E, rotta la cavalleria, la massa dei fanti si disfece. Alcuni reparti non aspettarono di trovarsi di fronte i legionari di Costantino, gettarono via gli scudi e scapparono. Soltanto i pretoriani, per rancore o disperazione, combatterono valorosamente. Al centro, com’erano nello schieramento di Massenzio, tentarono a più riprese di sollevare le sorti infauste della giornata. Nel marasma della sconfitta, pressati da ogni parte non indietreggiarono di un passo, e ricoprirono con i loro cadaveri quello stesso terreno che avevano occupato durante la battaglia.

La battaglia sul ponte. Ricostruzione di P. Connolly.

 

La versione dei panegiristi.

I panegiristi cristiani hanno attribuito la straordinaria ed efferata vittoria di Costantino al famoso sogno da lui avuto alla vigilia della battaglia. Ci sono, poi, d’obbligo, il monogramma di Cristo dipinto sugli scudi o sui labari e la scritta fatidica «in hoc signum vinces». Una favola. Magari appartiene a una storia virtuale, all’iconografia cristiana del Quattro-Cinquecento o a versioni cinematografiche del XX secolo. L’«illuminazione» Costantino l’aveva avuta a Gandavum, nel tempio di Apollo, identificato con il Sol Invictus, come abbiamo scritto precedentemente. Il primo racconto «ideologicamente cristiano» è in Lattanzio cinque anni dopo (317), mentre era alla corte di Costantino ad Augusta Treverorum. E, ad ogni modo, Lattanzio non parla affatto di apparizione, accenna piuttosto a una voce udita da Costantino nel sogno o nel dormiveglia. Il racconto, per così dire, «ecumenico» è del 325, a dodici anni dalla battaglia sul Tevere e scritto da Eusebio di Cesarea, che a sua volta l’aveva appreso direttamente da Costantino. Se possiamo ragionare con freddezza, sgombrando il campo da fole e da riempitivi, fioriti nell’infatuazione religiosa degli anni dopo con lo scopo preciso di avvalorare una tesi ideologica, allora dovremmo forse dire che, se Costantino andava debitore a una deità, questa erano i Libri Sybillini, la cui profezia aveva indotto Massenzio a lasciare le mura di Roma, consegnando sé e l’esercito che comandava a uno dei peggiori suicidi militari. Solo che, sempre i panegiristi, assegnano al Dio dei cristiani anche l’uscita di Massenzio da Roma. Scrive Eusebio di Cesarea: «Per evitare che Costantino fosse costretto a combattere contro i Romani, Dio stesso trascinò costui [Massenzio] lontano dalle porte di Roma».

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. gr. 510, Omeliario di Gregorio di Nazianzio (879-882), f. 440v. Il sogno di Costantino prima della battaglia di Pons Milvius.

Massenzio morì annegato insieme con le torme impecorite dei suoi soldati nella piena del Tevere. Ritrovato il cadavere, gli fu staccata la testa, infissa su una lancia e portata in giro per Roma. Costantino, il vincitore, non meritò né la lode di clemente, né la taccia di crudele. Spietato e senza remore lo fu, però, con tutta la stirpe di Massenzio, che sterminò scrupolosamente dai figli, bastardi o legittimi che fossero (Romolo, il primogenito, era morto nel 309), e continuò con le concubine che erano a palazzo e con la moglie, figlia di Galerio, che dicevano fosse cristiana. Poi abolì le coorti dei pretoriani, fece giustiziare le persone più coinvolte con Massenzio, infine tenne un discorso in Senato, promettendo di ristabilire l’antica dignità e gli antichi privilegi. Si trattenne a Roma non più di due mesi: la città non gli piaceva; infine si recò a Mediolanum per incontrare Licinio Valerio Liciniano, il nuovo alleato, di lì a poco cognato, e insieme futuro antagonista per il dominio del mondo.

La fine della Tetrarchia

di F. Sampoli, L’imperatore di Cristo, in Archeo monografie – Storie di grandi imperatori, Agosto 2009, pp. 188-220.

Alla vigilia di lanciarsi nella lunga e avventurosa cavalcata per il potere del mondo, Flavio Valerio Costantino si richiamò alla gloria militare di Claudio II il Gotico, affermando che suo padre, Costanzo Cloro, ne era il diretto discendente.  Era il 310 e chiaro l’intento: attribuire alla propria gens e a se stesso nobilitas, honos, ius imperii. Ci furono subito panegiristi cristiani pronti a giurare sulla veridicità di ascendenze nobili, anche se lui, Costantino, era figlio naturale di una stabularia.

Di sicuro Claudio II (Marco Aurelio Valerio Claudio) era illirico, come Costanzo Cloro. Nato a Sirmium (oggi Sremska Mitrovica) sulla Sava nel 219, aveva militato sotto Decio e Valeriano, poi generale sotto Gallieno, finché, nel luglio 268, all’indomani dell’uccisione proditoria di quest’ultimo, le legioni della Moesia lo proclamarono imperatore. Pare che sia lui sia Aureliano (gli succederà nell’Impero) abbiano partecipato o fossero a conoscenza della congiura.

Per compiacere Costantino, gli scrittori cristiani, a cominciare da Eusebio di Cesarea e Lattanzio, lo negarono per Claudio. A Roma il Senato si affrettò a convalidare la volontà dell’esercito; la situazione politico-militare era critica: i barbari premevano alle frontiere, vacillavano le difese sul Reno e sul Danubio, era perduta più di metà dell’Asia. Claudio II affrontò prima i Goti, che erano dilagati oltre il Danubio; li batté nella Thracia occidentale e, quattro settimane più tardi, li macellò come pecore nella desolazione estiva della piana di Naissus (oggi Niš, in Serbia). Ma alla sua valentia militare fu avversa la fortuna: spostatosi con l’esercito in Pannonia, morì di peste nell’anno 270. Un fratello minore di lui, Prisco, aveva una figlia, Claudia, andata sposa a un certo Eutropio. Dal loro matrimonio, scrivono i panegiristi, nel 250 era nato Costanzo Cloro.

M. Aurelio Flavio Valerio Claudio II ‘il Gotico’. Antoniniano, Milano 270 d.C. Ar. 2,92 gr. Recto: Divo Claudio; testa radiata, barbata e drappeggiata dell’imperatore, voltata a destra.

Il padre, Costanzo Cloro.

Nei De Caesaribus Sesto Aurelio Vittore (storico latino del IV secolo d.C.), definisce la nobilitas di Costanzo Cloro una leggenda. Accettata per adulazione. D’altronde, era venuta fuori abbastanza tardi con il figlio Costantino; né Costanzo Cloro in vita aveva mai avuto l’improntitudine di inorgoglirsene o di rivendicarla. Pensava che la nobilitas dipendesse piuttosto dal coraggio e dalle capacità militari di ognuno; le sue gli valsero, appena trentacinquenne il titolo di Caesar, poi quello di Augustus. C’è comunque da aggiungere che, quanto a menzogne ideologicamente programmate, i panegiristi cristiani avevano pochi rivali. Costanzo Cloro era di Naissus – la città resa celebre dalla vittoria di Claudio II il Gotico – e proveniva dalla campagna come altri suoi commilitoni, che erano Diocleziano, Massimiano, Galerio, Severo, Licinio, Massimino Daia, insomma contadini o guardiani di armenti, ma saliti ai fastigi dell’Impero per virtù, ferocia, ardire nelle armi. La loro nazionalità era illirica. Provenivano dalle nebbie della Sava, dai monti della Dardania, dalle colline intorno a Naissus. Alti di statura, biondi, resistenti alle fatiche della guerra e combattenti impavidi, per un secolo, si può dire, ridettero tempra e spirito vitale all’Impero romano, giunto alla parabola di un lento disfacimento.

Costanzo Cloro aveva poco più di un anno quando ad Abrittus (città le cui rovine si conservano nella località di Hisarlaka, presso Razgrad, in Bulgaria, n.d.r.), nella Dobrugia nei pressi del Danubio orientale, un esercito romano cadde nell’agguato di un terreno paludoso e fu trucidato dai Goti. Vi morì anche l’imperatore Decio, cinquantenne, pannonico di origine e duro, tenace, innamorato come nessun altro della romanità. La perdita risultò disastrosa per due motivi: nella palude di Abrittus andò distrutto oltre a un esercito, anche il prestigio militare dell’Impero. Dopo secoli di dominio la potenza di Roma franava come una fortezza corrosa dall’interno. Vituperosamente l’Impero venne a patti con i Goti, concedendo loro non solo tutto il bottino ammassato al di qua e al di là del Danubio, ma impegnandosi a pagare loro un tributo annuo proprio perché non riattraversassero il Danubio. Era scontato che una pace, comprata e degradata fino a una tale ignominia, spalancasse agli stessi Goti e agli altri popoli di confine le porte dell’opulenza e della debolezza dell’Impero. L’una e l’altra erano esche troppo ghiotte per giovani popoli avidi di preda. Spinti dal successo dei Goti, né vincolati da tributi o patteggiamenti, si riversarono oltre il Danubio, devastarono le province illiriche, la Moesia, oltrepassarono il Bosforo a oriente, a occidente si spinsero fino alle porte di Roma.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Ma c’era di peggio della peste, che aveva ucciso l’imperatore Decio, o dell’incombente minaccia ai confini: la lacerazione interna dell’Impero, che nella Historia Augusta va sotto il nome dei «Trenta tiranni» (Tyranni triginta), giacché tanti – uno dopo l’altro, a volte due o tre insieme – funestarono Roma e le province con lo scempio delle guerre civili. Ci vollero diciotto anni e un imperatore come Claudio II per aver ragione dei Goti e, morto lui, un altro imperatore illirico, Aureliano, per ridare all’Impero romano fiducia e capacità di ripresa. Nel 267, a diciassette anni, che era allora l’età per arruolarsi nell’esercito, Costanzo Cloro militò sotto l’imperatore Gallieno. Il fronte era quello del Danubio. Gallieno era succeduto al padre Valeriano, prigioniero dei Sasanidi dopo una disgraziata campagna militare (260) e morto in cattività; in pratica ereditava la situazione politico-militare dell’Impero più caotica, nefanda, incontrollabile dell’intero secolo. La figura di Gallieno è controversa. Il biografo dell’Historia Augusta, Trebellio Pollione, lo accusava di ogni infamia – viltà, lussuria, ingordigia, eccesso di ellenismo, imprudenza, avidità – e perfino di un’imperdonabile leggerezza: coltivare la poesia e, in particolare, scrivere epitalami. Ammiano Marcellino, di gran lunga il maggior storico della decadenza, è meno severo. La storiografia moderna ha invece riabilitato Gallieno, gli riconosce addirittura «una grande figura di imperatore», sia per il valore militare, sia per la «posizione eminente» che rappresenta nell’evoluzione dell’Impero romano. Il fatto, comunque, più stranamente controverso è che il «corrotto», l’«ignavo», il «gaudente» Gallieno sia stato ucciso in un accampamento vicino a Mediolanum da una congiura militare per una motivazione specifica: il rigore e la disciplina che intendeva introdurre o forse aveva già introdotti nell’esercito.

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal.

Elena, la stabularia.

Costanzo Cloro seguì il nuovo imperatore, Aureliano, nelle campagne sul Danubio, poi in Oriente e fino a Palmyra contro la regina Zenobia. Nel 273, al ritorno da Palmyra, si fermò a Drepanon in Bithynia (oggi Yalova, in Turchia). Era il riposo del guerriero dopo tante battaglie. E fu a Drepanon che Costanzo Cloro vide e si innamorò di Elena. Faceva la stabularia in una di quelle osterie, dove al piano di sopra era lecito alle ragazze, le stabulariae, intrattenere rapporti con i clienti, vogliosi di compagnia femminile. Elena era bella, procace, l’occhio timido di cerbiatta, ma nel portamento altera come una principessa. Aveva poco più di sedici anni: per una donna d’Oriente il fiore della giovinezza. Costanzo Cloro, ventitreenne, biondo, struttura atletica, apparteneva, per la sua virtù militare, all’alta ufficialità delle legioni. Non ebbe difficoltà ad avere nel letto l’avvenente stabularia. Quello che agli occhi degli altri e di lui stesso sembrò inconsueto, fu invece la continuità della loro relazione. Il concubinato non era una difformità, al contrario: fra gli ufficiali delle legioni era quasi una regola tenere amanti ovunque la necessità del servizio militare li destinasse di guarnigione. I panegiristi cristiani si sono arrampicati sugli specchi per trasformare la convivenza di Costanzo Cloro con Elena nel vincolo sacrale del matrimonio.

Statua di matrona (Elena, madre di Costantino). Marmo, V secolo d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nel 275, a Byzantium Aureliano venne ucciso in una congiura. Succedono altri imperatori: Tacito (275-76), Probo (276-82), Caro (282-83), Carino (283-84), in ultimo Diocleziano dal 284 al 305. Costanzo Cloro ha combattuto dal Danubio al Reno, alla Thracia, all’Illyricum contro Franchi, Sarmati, Geti, Vandali. Ha unanimi riconoscimenti di coraggio, di sagacia militare, primo ufficiale nella guardia imperiale, poi tribuno, comandante di legione, infine governatore della Dalmatia (279). Ora ha la possibilità di fermarsi, ed Elena è accanto a lui, desiderosa di amare, il suo grembo è come la terra arata, pronta a ricevere il seme: e l’anno dopo (280) a Naissus gli partorisce un figlio, Costantino.

L’idillio familiare conobbe pause già nel 282 con l’uccisione di Probo, la cui morte si portò dietro i contraccolpi più o meno fisiologici dei cambi di potere. Un segnale impietoso dei tempi è anche in questo: che in meno di quindici anni furono dodici gli imperatori legittimi o illegittimi morti ammazzati. Allora e nel biennio successivo Costanzo Cloro si seppe districare con una certa abilità, valutando tempestivamente uomini e circostanze. Ed Elena? Era cambiata con la maternità: non più la giovane avvenente che aveva affascinato Costanzo Cloro, ma ora, piuttosto, madre scrupolosa e gelosa della propria creatura. Improvvisamente, nel 284, la separazione. Diocleziano, il nuovo imperatore, opera negli alti gradi dell’esercito una serie di «avvicendamenti». Costanzo Cloro è scaraventato sul Reno contro i Germani, mentre Elena con il figlio deve tornare in Bithynia a Nicomedia (oggi Izmit), dove Diocleziano ha stabilito la capitale. Non rivedrà mai più Costanzo Cloro. Passano quattro anni, prima lettere sempre più rade, poi il silenzio, infine la notizia per lei dirompente: Costanzo Cloro ha sposato la figliastra dell’Augustus Massimiano, Teodora. Bella, raffinata, figlia di una Siriana e molto più giovane di lui. Nel giro di una decina di anni gli darà sei figli.

La tetrarchia.

Ma Diocleziano ha in mente, soprattutto, un progetto nuovo per la struttura dell’Impero. Con l’obiettivo preciso di scongiurare le continue ribellioni nelle province o nei vari scacchieri periferici, aumentando nel contempo la vigilanza e ripristinando la disciplina nell’esercito, divide l’Impero in Oriente e Occidente, chiama il vecchio commilitone Massimiano, al quale affida l’Occidente, riservando a sé l’Oriente, oltre la preminenza del comando e delle grandi decisioni. Di lì a poco perfeziona la divisione nella tetrarchia: due Augusti, Diocleziano e Massimiano; e due Caesares alle dipendenze degli Augusti: rispettivamente Galerio e Costanzo Cloro. Poi quattro capitali: Nicomedia (Diocleziano), Sirmium (Galerio), Mediolanum (Massimiano), Augusta Treverorum (Costanzo Cloro). Indubbiamente la tetrarchia, almeno negli anni a cavallo del secolo, riportò l’Impero all’antico prestigio e l’efficienza militare delle legioni a livelli che sembravano perduti. Ai margini, tuttavia, restavano sussulti di rivolta. Due si ebbero, in Africa proconsularis e in Aegyptus, in due città dal nome fatidico: Carthago e Alexandria. Nell’una e nell’altra si erano proclamati imperatori Giuliano e Achilleo. Contro Achilleo (anno 296) si mossero da Nicomedia lo stesso Diocleziano, portando con sé il giovanissimo Costantino. La resistenza di Achilleo, rinchiuso dentro Alexandria, costrinse Diocleziano a tagliare gli acquedotti. Quando la città si arrese, fu il massacro. Archiviato il capitolo Alexandria, Costantino seguì Diocleziano in Mesopotamia, dove il Caesar d’Oriente, Galerio, era impegnato sul fronte dell’Eufrate contro i Sasanidi. Ignaro o ostentatamente dimentico delle precedenti campagne di Roma, Galerio si era avventurato nelle pianure desolate della Mesopotamia alla mercé della cavalleria sasanide. A stento riuscì a salvare le legioni dalla distruzione. Diocleziano lo accolse senza rimproveri, ma lo costrinse a percorrere a piedi più di un miglio dietro il suo carro per la grande strada di Antiochia. L’anno dopo Galerio, umiliato, roso dalla rabbia, cambiò truppe e tattica. Accertatosi del modo di accamparsi dei Sasanidi, li assaltò di notte, cogliendoli di sorpresa. Ne fece strage. Quanto alle condizioni, che allora impose ai vinti, valsero ad assicurare all’Impero quarant’anni di pace sulla frontiera del Tigri.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Costantino come Achille.

Tornato a Nicomedia con Diocleziano, Costantino ha vent’anni. Combatte nella Moesia e sul Danubio contro Goti e Sarmati, le incursioni dei quali erano, si può dire, periodiche come le stagioni dell’anno. La guerra contro i Sarmati fu anche teatro di un episodio d’altri tempi ed ebbe l’effetto di richiamare alla memoria l’epicità dei duelli omerici dell’Iliade. Costantino che sfida e scende a singolar tenzone con il capo dei barbari, al cospetto dei due eserciti schierati, e ne esce vincitore. Di statura e struttura atletica, era inoltre coraggiosissimo e come tale, allora e poi in seguito, amatissimo dai soldati. Anzi, la fiducia e la popolarità che riscuoteva fra loro, la sua virtù militare, la rapidità delle risoluzioni sono la chiave per capire – come per Alessandro, Annibale o Cesare – la straordinarietà delle sue vittorie. Diocleziano, che a Nicomedia lo aveva tenuto vicino a sé quasi come un ostaggio (o almeno all’inizio, secondo le insinuazioni di Lattanzio), ebbe modo e tempi per valutare di lui l’ardire dell’animo e le qualità militari, come aveva valutato quelle del padre Costanzo Cloro. La stima manifestatagli in più occasioni da Diocleziano, aggiunta alla popolarità fra i soldati, finì per ingelosire Galerio. Con dispetto il Caesar d’Oriente intravide in Costantino non soltanto un futuro, valente condottiero d’eserciti, ma un avversario temibile. I prodromi della rivalità saltarono fuori alle dimissioni di Diocleziano; dimissioni che, inusitate e impreviste, furono un evento sconvolgente.

Pretoriani ed equites singulares. Bassorilievo, marmo, II sec. d.C., dal Grande fregio traianeo. Roma, Arco di Costantino.

Il gran rifiuto di Diocleziano.

Nella storia romana c’era un unico precedente: Lucio Cornelio Silla, che, nel 79 a.C., aveva rinunciato alla dittatura. Lo fece pubblicamente, scegliendo la platea sbigottita e trepidante del Foro. Diocleziano, quasi quattrocento anni dopo, preferì per il gran rifiuto la piana a tre miglia da Nicomedia, dove aveva convocato l’assemblea dei soldati. Era il 1 maggio 305: dritto nella persona, ma pallido per la strana malattia che lo affliggeva da un anno, Diocleziano per l’ultima volta passò in rivista i vessilli delle legioni, gli ufficiali, la guardia palatina prima di salire alla tribuna e rendere esplicita la sua decisione. Per le fatiche sopportate e per la debolezza degli anni (toccava in realtà appena i sessanta) non se la sentiva più di reggere il peso del governo; quindi cedeva la somma del potere a chi aveva energie e forze adeguate per adempiere ai doveri e ai compiti richiesti dalla vastità dell’Impero. In quello stesso giorno a Mediolanum, rispettando le disposizioni concordate in precedenza per un corretto funzionamento della tetrarchia, anche Massimiano abdicava dal suo potere di Augustus. Li avrebbero sostituiti Gaio Galerio in Oriente, Costanzo Cloro in Occidente. Restava da nominare i nuovi Caesares, che furono rispettivamente Valerio Massimino Daia e Flavio Valerio Severo. Presente alla cerimonia dell’abdicazione del passaggio di consegne c’era un testimone avidissimo di notizie e retore: Lucio Celio Firmiano Lattanzio (autore in seguito di un libro famoso per l’apologia del Cristianesimo, De mortibus persecutorum). Di Diocleziano e del suo rifiuto scriverà dodici anni dopo, quando era ad Arelate (Arles) e precettore di Crispo, il figlio naturale di Costantino. Nel racconto di Lattanzio la figura di Diocleziano è molto diversa da quella dell’imperatore imperturbabile e controllato degli storici pagani. Alla tribuna dinanzi all’esercito schierato si presenta addirittura in lacrime. La decisione di dimettersi gli è stata imposta con le minacce, o peggio con l’incubo di una guerra civile, da Galerio che oltretutto gli era genero, avendo sposato la sua unica figlia Valeria. E ci sarebbe stata anche un’altra imposizione di Galerio: la nomina dei due nuovi Caesares. Lattanzio sostiene che la scelta di Diocleziano era caduta su Costantino (per l’Occidente) e Massenzio (per l’Oriente), quest’ultimo figlio legittimo di Massimiano e, fra l’altro, genero di Galerio. Il racconto di Lattanzio si colora di imprevisti: ecco che all’annuncio dei nuovi Caesares un vento iroso scompiglia le linee irrigidite dell’esercito. Si pensa perfino che Costantino abbia cambiato nome, tanto più che i soldati lo vedevano sulla tribuna; finché Galerio, senza nemmeno voltarsi, allunga una mano all’indietro, afferra Massimino Daia, poi Severo e li trascina in prima fila alla vista dei soldati. La nomina dei due Caesares poneva le premesse, in un non lungo volgere di lune, a future rivalse, discordie, guerre civili. Rientrato in città, Diocleziano cambiò la biga in una carrozza da viaggio e, senza fermarsi ulteriormente a Nicomedia, proseguì per il Bosforo, poi per le strade polverose della Thracia fino alla solitudine di Spalatum (Split, in Croazia). Con lui finiva una struttura politica, una concezione del potere. Doveva averlo avvertito lui stesso nel momento in cui si accingeva all’abdicazione, se arrivò a proporre alla dignità di Caesares Costantino e Massenzio. Ritornava cioè al principio di successione ereditaria in luogo dell’altro, aristocratico e razionale, dell’adozione e della scelta per merito. Ma era anche riconoscere, almeno in parte, il fallimento di una costruzione politica, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione. Nella quale, quasi da neofita, lui, Diocleziano, che era figlio di schiavi, aveva creduto con un eccesso di ottimismo, riversando nell’efficacia delle leggi concepite la salvaguardia risolutiva di tutti i problemi politici e sociali.

Diocleziano. Testa, marmo, 284-305 d.C. da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Costanzo Cloro richiama il figlio.

Scomparso Diocleziano dalla scena politica, Costantino non aveva più ragione né voglia di rimanere a Nicomedia, né tanto meno intendeva militare agli ordini dell’uno o dell’altro dei Caesares, in particolare di Galerio. Ambizione e orgoglio lo mordevano alla nuca. Dei nuovi Caesares, Flavio Valerio Severo, bravo generale e più bravo bevitore, era sempre stato alle dirette dipendenze di Galerio; l’altro Massimino Daia, era più giovane, irruente, superstizioso e figlio della sorella dell’Augustus. In pratica due creature di quest’ultimo. Nella tetrarchia Galerio assumeva non solo il compito di primus inter pares, che era stato di Diocleziano, ma indirettamente – attraverso il Caesar d’Occidente, Severo – veniva a invadere il terreno dell’altro Augustus, Costanzo Cloro. Il quale non tardò a far sentire la sua voce. Dapprima in forma, si può dire, amichevole, con la richiesta a Galerio di Costantino, adducendo a pretesto lo stato non buono di salute e il naturale desiderio paterno di rivedere il figlio primogenito dopo dodici anni. Galerio indugiò a rispondere, poi enumerò una serie di motivi. Taceva ovviamente quello vero, determinante: che padre e figlio uniti, proprio per le loro ambizioni, qualità militari, generale consenso negli eserciti, sarebbero stati prima o poi tentati dalla grande avventura di essere i soli padroni del mondo. Su Costantino, in particolare, anche nel periodo di Nicomedia, non mancavano descrizioni celebrative dei panegiristi. Senza alcun dubbio, nelle operazioni di guerra sui vari fronti, aveva dato prove di coraggio, abilità, grande valore, risolutezza. Basta ricordare il duello omerico con il capo dei Sarmati. Dalle statue, poi, appare evidente come fosse aitante e forte della persona. Eusebio di Cesarea aggiunge che «non c’era nessuno che gli si potesse paragonare per grazia e bellezza del corpo, nonché per la statura, e che superava tutti i suoi coetanei in gagliardia e attività al punto da sembrare loro perfino temibile». Per di più a Nicomedia, nel 303, Costantino era stato testimone della persecuzione dei cristiani e insieme dell’incendio del palazzo imperiale, che doveva fugare le residue perplessità di Diocleziano. La persecuzione era stata voluta soprattutto da Galerio Caesar quando nell’esercito si era trovato di fronte a casi di viltà, mascherati da motivi religiosi. I soldati che avevano disertato – obiettori di coscienza ante litteram – erano cristiani.

Costanzo Cloro. Testa, marmo, 300 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.

La persecuzione dei cristiani.

Diocleziano, contrario all’inizio a decisioni radicali, aveva ordinato allora un’inchiesta nell’esercito. Sospettati di slealtà, i cristiani erano stati ipsō factō radiati. Ma il vero e più pericoloso covo degli adepti della religione salvifica del Cristianesimo era all’interno del palazzo e costituito dagli eunuchi. Forse per loro istigazione lo stesso palazzo imperiale andò a fuoco, bruciarono le stanze di Diocleziano. Era troppo anche per uno come lui, disposto alla ragionevolezza. Da allora non ebbe più dubbi: i cristiani erano i nemici subdoli dell’Impero. Arrestati, gli eunuchi furono giustiziati uno dopo l’altro e con loro altre persone, eminenti per gli uffici che avevano ricoperto come per il favore che avevano goduto. Potentissimi quondam eunuchi necati, scrive Lattanzio. Sulla persecuzione dei cristiani Costantino aveva evitato di pronunciarsi; sull’incendio, invece, se l’era cavata proponendo la caduta di un fulmine, visto che pioveva. Insomma Galerio, due anni dopo, non aveva nessuna ragione valida per opporsi alla richiesta di Costanzo Cloro per il figlio Costantino, anzi solo un presentimento, partorito dalla paura. Continuò, in ogni modo, a tergiversare, affidandosi agli eventi. Il grande gioco del potere era già in atto. E Costantino non attese oltre: una notte fuggì e, temendo di essere raggiunto, in ogni stazione di posta, dopo aver cambiato i cavalli, azzoppò gli altri che rimanevano, affinché gli inseguitori non se ne potessero servire. Attraversò il Bosforo, percorse la Thracia, l’Illyricum, la Pannonia, entrò in Gallia e arrivò a Bononia (Boulogne-sur-Mer), dove suo padre stava imbarcando le truppe per una spedizione in Britannia contro i Pitti e gli Scoti.

Galerio officia un sacrificio propiziatorio prima della battaglia. Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. su pannello. Thessaloniki, Arco di trionfo di Galerio.

La fuga avvenne nella primavera del 306, e non fu soltanto la lunga cavalcata di un giovane nel pieno delle forze (aveva ventisei anni), ma anche irta di non poche difficoltà, giacché Costantino si portava dietro il figlio naturale Crispo, natogli l’anno precedente, e la madre di lui, Minervina, con la quale viveva morē uxoriō. Come Costanzo Cloro, più di vent’anni prima, con Elena, la stabularia. Solo che lui, Costantino, scappando, non poteva lasciare ostaggi nelle mani vendicative di Galerio. La spedizione in Britannia ebbe un esito rapido. Nell’isola Costantino combatté a fianco del padre; più verosimilmente, per la precarietà della salute di Costanzo Cloro, ottenne sul campo le insegne del comando delle legioni; il che spiega come, alla morte del padre, Augustus d’Occidente, proprio le legioni, senza esitazione alcuna, lo proclamarono imperatore.

Caesar d’Occidente.

Costanzo Cloro morì a Eboracum (York) il 21 o il 25 luglio del 306, a cinquantasei anni. Era stato Augustus d’Occidente poco meno di quindici mesi. Al suo capezzale la moglie Teodora con i sei figli e Costantino. Gli storici del tempo sono abbastanza incerti sul fatto che Costanzo Cloro abbia o no designato il suo primogenito a succedergli. La proclamazione di Costantino venne dalle truppe, spontaneamente, ritornando alla vecchia e deleteria provocazione per cui fosse l’esercito ad eleggere un imperatore. Il che era poi il contrario della costruzione ideata e voluta da Diocleziano. Di sicuro l’esercito sbarcato in Britannia, eleggendo il figlio di Costanzo Cloro, intendeva assicurare la continuità del comando, sotto il quale aveva militato per quindici anni, apprezzandone sia la sagacia militare, la temperanza, la sollecitudine, sia il tenore di vita uguale negli accampamenti come nella residenza imperiale. Si diceva, per esempio, che in occasione di ricevimenti o di pranzi ufficiali Costanzo Cloro si facesse prestare da amici e dignitari l’argenteria. A ogni buon conto l’elezione di Costantino si avvalse anche del pieno consenso di un corpo di Alemanni che in Gallia si era imbarcato con Costanzo Cloro. Era il segno dei tempi: in seguito, quando l’impiego di interi corpi di “barbari” divenne normale e indispensabile, l’Impero affrettò la propria rovinosa catastrofe.

Costantino. Follis, Londinium 310 d.C. Æ 4,32 gr. Recto: Soli invicto comiti; Sole, stante verso sinistra, con la destra alzata e un globo nella sinistra; le sigle T-F ai suoi fianchi e PLN in exergo.

Costantino, di solito risoluto nelle decisioni militari, nella situazione specifica si comportò da politico navigato, forse ricordandosi della lezione di Diocleziano. Scrisse una lettera a Galerio. Travolto, diceva, dalla morte del padre, come dal fermento dell’esercito, aveva accettato o meglio subito la proclamazione a “imperatore” per stroncare sul nascere le possibili degenerazioni di mestatori e capipopolo, come era accaduto in passato prima della tetrarchia dioclezianea. In breve, gli era mancato proprio il lasso necessario di giorni per sollecitare direttamente da lui, Galerio, l’investitura costituzionale. Prudente, modesto il tono della lettera, non però servile, giacché Costantino era cosciente di rivendicare con giusta ragione il diritto alla successione del padre.

A Nicomedia Galerio fu tutt’altro che convinto. Quello che più lo imbestialiva era l’ipocrisia di Costantino, la stessa che imputava ai cristiani e per la quale era stato ed era con loro inesorabile. Furibondo, accecato dalla rabbia, voleva addirittura trapassare da parte a parte con la spada l’incolpevole messaggero. Anche le minacce, dichiarate al momento, si esaurirono come il fuoco nelle are dei sacrifici. Non solo la distanza di Nicomedia da Eboracum era immensa, ma, soprattutto, avrebbe dovuto affrontare sul campo l’esercito d’Occidente, formato in gran parte da Celti e Germani. Non tanto la ragione, insomma, quanto l’incertezza di una guerra civile, l’abilità militare e, al di là delle poche parole cortesi o “ipocrite”, la risolutezza di Costantino lo indussero a ratificare la scelta dell’esercito delle Galliae. Si riservò, comunque, una non piccola rivalsa: promosse Severo da Caesar ad Augustus, facendolo subentrare a Costanzo Cloro con sede a Mediolanum, e dette a Costantino il titolo di Caesar. La forma dell’istituzione tetrarchica si poteva dire slava, come era salvo, apparentemente, il rispetto fra i suoi quattro membri.

Ma non resistette che due mesi. I venti inclementi d’autunno scoperchiarono prima il tetto della costruzione dioclezianea, poi presero a sgretolare i cornicioni, infine i muri di sostegno. La rovina prese l’avvio proprio da Roma, la capitale dimenticata e abbandonata. Diocleziano c’era stato una sola volta insieme con Massimiano, nel novembre 303, per il ventennale della sua proclamazione all’Impero. Mai Costanzo Cloro e Galerio. A Roma, invece, abitava Massenzio. Avvelenato per essere stato escluso dalla spartizione del potere, lui che era l’unico figlio maschio di Massimiano, si fece interprete dell’insofferenza e della rivolta di Roma contro l’Augustus d’Oriente. Per avidità o perché pressato da vuoti di cassa, Galerio aveva in effetti ordinato un censimento sui beni dei sudditi dell’Impero con lo scopo preciso di gravare nuove imposte sugli immobili, come sulle persone.

C. Galerio Valerio Massimiano. Testa, porfido, inizi IV sec. d.C. dal palazzo imperiale di Felix Romuliana (od. Gamzigrad, Serbia).

Di Massenzio i panegiristi delinearono il ritratto di un uomo corrotto, dissoluto, sensuale, crudele. Forse aveva davvero queste tare del carattere e del comportamento. Era anche «brutto e meschino d’aspetto», faceva della notte giorno e appunto di notte entrava nelle case e violentava le donne. Lo strano, tuttavia, è che tutti questi difetti, vizi, brutture dell’animo vennero fuori quando si mese a contendere il possesso dell’Italia a Costantino. In pratica cinque anni dopo.

Fino al 306 l’Italia e Roma in primis erano state quasi esenti da regolari tassazioni (Roma lo era dalla conquista della Macedonia). Adesso, però, i funzionari inviati da Galerio e preposti all’estimo, temendo occultamenti o frodi, usavano non pochi mezzi coercitivi e perfino la tortura. Fu la causa o il principio più saldo per la rivolta. Machiavelli dice che un principe, nella pratica di governo, deve soprattutto fuggire l’odio, e questo lo può quando si astenga «dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi… perché gli uomini sdimenticano più presto la mote del padre che la perdita del patrimonio». Era un pensiero di Tacito, ma Arbelio, vicarius in urbe Roma, l’aveva scordato o non l’aveva mai letto o temeva più le ire di Galerio che le dimostrazioni popolari. Furono spogliate le famiglie più ricche e non solo quelle; carri pieni di suppellettili, argenteria, vasi dorati, statue, attraversavano ogni giorno le strade. La loro vista eccitava la folla. Per contro le guardie di Arbelio erano insolenti, volutamente spregiose. Accadde che da Hostia per quattro o cinque giorni non arrivassero i barconi con il grano. La città era alla fame, ma ci voleva un capo che prendesse su di sé l’onere e l’orgoglio di riscattare la grandezza di Roma, come la libertà dell’Italia dal dispotismo di un armentario illirico. Per il nome e la volontà di riscatto Massenzio era l’uomo. Galerio, ovvero Arbelio per lui, commise l’errore definitivo: minacciò una riduzione drastica delle coorti pretoriane, addirittura la loro soppressione. Fu una fiammata: Arbelio ucciso, saccheggiato il palazzo vicariale, Massenzio acclamato imperatore romano. Era il 28 ottobre 306.

Massenzio. Follis, Roma 307-312 d.C. Æ 3,2 gr. Recto: Maxentius P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa laureata e barbata dell’imperatore, volta a destra.

Per Galerio franava il mondo. Nel giro di appena diciotto mesi i legami, le aspettative, le leggi, la struttura medesima della tetrarchia, di cui si vantava di essere ora il capo supremo, gli si disfecero tra le mani, divennero passato. Non era mai stato un abile politico, pensava da soldato come in un campo di battaglia. e adesso la rivolta in atto non era in un angolo dell’Impero, ma in Italia, e il capo era suo genero. Non cercò neppure un approccio. Era offeso: Massenzio si tenesse pure sua figlia in ostaggio; Severo, che da Mediolanum si sarebbe subito mosso con un esercito, non avrebbe incontrato difficoltà o resistenza, doveva combattere con una plebaglia, quella romana, avvezza solo ai giochi del circo e a vivere di congiari (le distribuzioni alla plebe di olio e di vino, n.d.r.); e Massenzio – il genero impostogli da Diocleziano – non era che un imbelle vizioso.

La sorpresa Severo l’ebbe non appena si trovò di fronte alle mura di Roma. Fino ad allora si era figurato di compiere una rapida spedizione punitiva: vide sulle Mura aureliane macchine da lancio e armati spavaldi pronti a resistere a qualunque assedio. Inoltre, già nei primi giorni, successe un fatto increscioso e assolutamente imprevisto e che ebbe conseguenze devastanti: un numeroso contingente di cavalleria maura disertò, passando a Massenzio. Certo era stato adescato con il miraggio di donativi speciali, ma era proprio questo che inquietava. Arrivarono altre defezioni. Infine, una mattina di gennaio, il pallido sole invernale, alzatasi la nebbia, scoprì nella campagna intorno a Roma la desolazione che segue all’abbandono di un esercito.

Ricompare Massimiano.

Severo fuggì a Ravenna in attesa di aiuti e di ordini precisi da parte di Galerio. Quanto era accaduto gli appariva incredibile, peggio di un brutto incubo. Poi venne a sapere che dalla villa in Calabria, in cui si era ritirato, Massimiano era piombato a Roma. Forse c’era già anche durante l’assedio. Chiamato dal figlio o spinto dall’insopprimibile desiderio di potere. Massimiano conosceva bene Galerio e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato del doppio scacco subito. Per non avere contemporaneamente a combattere con tutti e due, avrebbe dovuto ingabbiare Severo prima che Galerio giungesse in Italia. Si presenta davanti alle mura di Ravenna, parla di tregua, ricorda ai soldati il suo recente passato di Augusto, ottiene anche un colloquio con Severo. Promesse, giuramenti, elogi ammantati di sottili adulazioni. Non era forse meglio, aggiunge, affidarsi alla lealtà di un vecchio Augusto piuttosto che alla collera irata del nuovo? Lo convince. Severo esce da Ravenna diretto a Roma per stipulare le condizioni di un accordo. Ma, varcate appena le mura, è ucciso. Zosimo sostiene che l’uccisione avvenne tra Spoletium (Spoleto) e Interamna (Terni) e che fu Massenzio a tendergli l’imboscata e che poi «gli strinse il cappio intorno al collo». Per Massimiano la calata di Galerio in Italia era scontata. Di sicuro sarebbe venuto con un esercito imponente, agguerrito; né lui, Massimiano, era al momento in grado di opporglisi. Pensò, allora, a Costantino come all’unica alleanza capace e di contrastare e di battere l’Augustus d’Oriente. D’accordo, la morte proditoria di Severo rendeva la situazione ancor più difficile dal punto di vista morale, ma restava il fatto che Massenzio e il figlio di Costanzo Cloro si erano ripresi i territori (l’Italia il primo, le Gallie il secondo) assegnati loro dalla volontà e dalla decisione di Diocleziano, poi stravolte da Galerio. L’incontro con Costantino ebbe luogo ad Augusta Treverorum. La neve imbiancava ancora le campagne intorno al Reno e Massimiano aveva con sé la sua ultima figlia, Fulvia, bella di un fascino esotico, giovanissima, e la offrì in matrimonio a Costantino. Dimenticata o morta, secondo le fonti cristiane, Minervina, l’amante e madre di Crispo. Il matrimonio fu celebrato il 31 marzo del 307 ad Augusta Treverorum con grandi festeggiamenti. Allo scopo di attirare il genero nell’alea della sua politica, Massimiano si prestò ora a conferirgli il titolo di Augustus. Insomma, per una combinazione di eventi, Massimiano aveva dato in moglie le figlie prima al padre, poi al figlio e posto loro sul capo, successivamente, con le proprie mani, la corona di imperatore.

Massimiano. Testa, marmo, fine III sec. – inizi IV sec. d.C. dalla villa romana di Chiragan. Toulouse, Musée St.-Raymond.

Galerio contro Roma.

Galerio scese in Italia con l’esercito d’Oriente, i veterani illirici e l’animo vendicativo e gonfio di ferocia. Arrivò fino a Narnia (Narni), a sessanta miglia da Roma, incontrando una resistenza limitata. Ma la grande battaglia in campo aperto, come si aspettava, contro Massimiano e il genero non avvenne. Si ripeté, anche se in scala meno sconvolgente, ciò che era successo a Severo. Tanto erano forti l’astio, il rancore, la paura, la collera contro Galerio che i Romani, spontaneamente, dettero a Massimiano e Massenzio le ricchezze che avevano sottratto alla sua rapacità. A questo si aggiungono la liberalità di Massenzio e il ricordo delle elargizioni alle truppe di Severo, esche fin troppo appetibili per la diserzione. Galerio più che combattere contro i nemici, fu ora costretto a trattenere anche i veterani. La loro fedeltà cominciava a mostrare buchi, aperti alla corruzione. Ritirandosi, permise loro saccheggi indiscriminati e selvaggi. Le campagne furono bruciate, villaggi e piccole città rasi al suolo. L’esercito di Galerio che ripassava le Alpi era carico di preda, di rabbia e di buia impotenza. Come il suo imperatore.

Massenzio aveva tallonato a distanza la ritirata del suocero. Massimiano, invece, fremeva dal desiderio di non lasciare impunite le distruzioni che l’altro si lasciava dietro di sé. Corre da Costantino: gli si profilava davanti, dice, la più insperata delle occasioni: sbarazzarsi una volta per sempre di Galerio, in fuga dall’Italia, stanco e avvilito l’esercito. Se attaccato improvvisamente e al momento opportuno, l’avrebbe avuto alla sua mercé e l’esercito si sarebbe disfatto come una grossa palla di lardo messa al fuoco. L’Impero, insomma, si poteva ridurre a una questione familiare. E, tuttavia, nemmeno le voglie di una giovanissima moglie bastarono a impigliare fra le lenzuola del letto la lucidità di Costantino. Semmai, proprio la prospettiva di un Impero da gestire o spartire in famiglia, lo dissuase.

Massimiano valeva Galerio; fra i due era da preferire il secondo, impulsivo, prevedibile, meno dissimulatore e meno abile nel gioco della politica. inoltre Costantino, che era stato a lungo sulla frontiera del Danubio, sapeva perfettamente che le migliori truppe di Galerio erano di stanza appunto su quel fronte e, all’occorrenza, potevano essere richiamate in qualunque momento. Fra l’altro le comandava un commilitone di Galerio, a lui legato da vecchia amicizia e generale validissimo, Licinio.

Padre e figlio.

Non si rassegnò Massimiano, vedendo svanirgli un potere o almeno la possibilità di un ritorno al potere, che gli era sembrato a portata di mano. Rientrò in Italia, fidando nella riconoscenza di Massenzio. Per due volte l’aveva salvato dagli eserciti di Severo e di Galerio. Giudicava il figlio dissoluto ed indolente, come la madre siriana, e abituato a vivere non negli accampamenti, ma fra i bagni, il circo, le orge notturne. Meno che mai sarebbe stato in grado di governare o destreggiarsi in una situazione che di giorno in giorno diveniva più drammatica, in continuo cambiamento, e che richiedeva nervi saldi e prontezza di azione. Galerio, operata una nuova divisione dell’Impero d’Oriente, aveva affidato a Licinio (nominato Augustus al posto di Severo) la Raetia, la Pannonia, l’Illyricum, cioè le regioni a ridosso dell’Italia. Nel caso di un attacco come gli avrebbe resistito Massenzio? In Italia era al potere per un colpo fortunoso di mano. Ma se gli era stato facile impadronirsene, molto più difficile gli sarebbe stato mantenerla. In breve, gli occorreva una guida, la mente e l’esperienza di chi aveva alle spalle una serie vittoriosa di battaglie, sostenute nei diversi fronti, e quindi sapeva come guidare un esercito. Contrariamente a quanto si aspettava, Massenzio non solo non cedette, ma gli si rivoltò con arroganza: lui, Massenzio, era l’imperatore d’Italia, legittimato dal voto del popolo romano e del Senato. Per Massimiano, roso dall’ossessione di quello che era stato (padrone di una metà del mondo), fu uno schiaffo intollerabile da sopportare, ricevuto per di più dal figlio. Cieco di furore arrivò, nel buio dell’esasperazione, fino a deturpare se stesso, mettendo in giro una voce ignobile: che Massenzio non era suo figlio, ma nato dall’adulterio di sua moglie con un Siriano. Poi gonfio del vecchio orgoglio, si presenta alla caserma dei pretoriani e alla tribuna inveisce contro Massenzio. Un uomo corrotto, imbelle, che mai nella mischia di una battaglia ha rischiato il ferro del nemico, può vestire la porpora di imperatore? Nel fervore dell’accusa e dell’indignazione gliela strappa di dosso. Credeva già di udire urla e gridi di consenso. Niente. Lo investì, invece, il gelo del silenzio. Poi via via mugugni, contestazioni che andavano a infrangersi contro la tribuna come marosi contro gli scogli. Era la fine. L’altro, figlio o bastardo, lasciò la tribuna e si gettò nelle braccia dei pretoriani. A Massimiano la fortuna mostrava ora la livida faccia della malignità. Tutti l’avevano tradito: la moglie, il figlio e, in parte, anche l’altra figlia ad Augusta Treverorum. Partì per l’Illirico e, solitario e triste, andò alla ricerca dell’unico che gli restava e in cui aveva sempre avuto una fede intemerata: l’esule volontario di Spalatum.

La riunione di Carnuntum.

Carnuntum era una cittadina della Pannonia alla confluenza del Danubio con l’Inn e il Lech (oggi in territorio austriaco). Nel novembre del 308 vi si riunirono i membri della tetrarchia con l’esclusione del non riconosciuto Massenzio e di Costantino, che al momento, forse, era il membro più determinante. L’idea era partita da Galerio, con lo scopo preciso di ridare fondamenti legali e spettacolari a una struttura politica per molti versi traballante. Pretesto: la consacrazione ufficiale ad Augustus di Licinio Valerio Liciniano.

Altare dedicato a Mitra da Galerio, Licinio, Massimino Daia e Costantino. Marmo, 308 d.C. CIL III 4413. Carnuntum Museen.

Naturalmente Diocleziano e Massimiano nei posti d’onore per conferire, almeno alla facciata, lustro e solennità. Diocleziano era stato molto restio a lasciare il palazzo di Spalato per Carnuntum. A spingerlo erano state due persone a lui più vicine e interessate: Massimiano e Valeria, la figlia; ambedue con la volontà dichiarata di convincerlo a riprendere nella tetrarchia la sua posizione di Iovius, di indiscusso primato. Massimiano vi aggiunse i rigurgiti ambiziosi di rientrare nel ruolo che aveva avuto. Un progetto o un disegno politicamente anacronistico, inattuabile. L’autunno in Pannonia era piovoso e lo scenario naturale, grigio e spoglio, induceva a riflettere sull’instabilità della fortuna. Silla e Cesare avevano insegnato che l’esercito era il potere. Diocleziano e Massimiano, che non avevano più il comando degli eserciti che legittimassero la validità, nonché la forza delle loro richieste, incredibilmente (Massimiano, soprattutto), se ne dimenticarono. E il loro passato di Augusti, al di fuori delle ipocrite e sontuose attestazioni di rispetto, non poteva avere, né ebbe alcun peso sulla bilancia decisionale del potere.

Carnuntum servì a Galerio per l’ultima illusione di un prestigio e di una maestà, che in parte erano soltanto formali, e a Licinio Valerio Liciniano per una specie di investitura sacrale, a lungo desiderata, dalle mani dell’Augustus Iovius. In definitiva fu anche l’epilogo della tetrarchia. Dall’indomani avrebbero preso a spirare i venti furiosi e distruttivi delle guerre civili. Augusti e Caesares, gli uni contro gli altri, senza esclusioni di colpi, con massacri e stragi fin nello stesso ambito familiare. Proprio niente di nuovo sotto il sole.

Non erano finite le brume autunnali sul Danubio che Massenzio lasciò Carnuntum e si diresse ad Arelate, nella Gallia meridionale, presso la figlia Fulvia e il genere Costantino. Era avvilito, moralmente distrutto. A Carnuntum i contrassegni esterni dell’antica considerazione gli erano sembrati una mascheratura da Saturnali. Nella cerimonia, poi, dei commiati, Galerio – dopo aver recitato una sorta di apologia di se stesso – vi aveva aggiunto una nota vendicativo-sarcastica, eleggendolo insieme con lui console per il 309. Sapeva bene che i consoli nominati a Nicomedia e Serdica non erano riconosciuti a Roma, e viceversa. Sicché lui, Massimiano, sarebbe stato console contro o al posto del figlio Massenzio.

Diocleziano. Antoniniano, Lugdunum 290-291 d.C. AE 5, 02 gr. Recto: Iovi Augusto. Giove stante, con Vittoria su globo e scettro, e un’aquila ai suoi piedi.

L’inganno di Arelate.

Ad Arelate – dove Costantino da Augusta Treverorum aveva trasferito una parte del governo e soprattutto il tesoro per le campagne di guerra – Massimiano depone la porpora per la seconda volta. Si sentiva estraneo, tagliato fuori dalla vita attiva della politica e ripensava alla saggezza e al distacco di Diocleziano. «Se tu vedessi quali cavoli mi crescono negli orti di Spalatum – gli aveva detto, accomiatandosi da lui – nemmeno mi avresti chiesto di tornare ad occuparmi dell’Impero».  Arrivò la primavera e con essa ripresero sul Reno le invasioni dei popoli germanici. Questa volta furono i Franchi, popolo fra i più valorosi e amanti della guerra. Costantino si mosse da Augusta Treverorum con la solita rapidità. Era la sua arma migliore e più sorprendente. Ma, improvvisamente, sulla riva sinistra del Reno, poi nella Gallia si propagò la voce che i Franchi avessero rotto, massacrato l’esercito romano, lo stesso Costantino fosse morto sul campo. Valorosamente. La voce arrivò ad Arelate. Sgomento e paura. Non per Massimiano, che anzi di colpo riacquistò energie, spirito combattivo, iniziativa. La morte di Costantino lo rimise di necessità in gioco. Potè riprendersi la porpora di Augustus. Né lasciò tempo in mezzo: si impadronì del tesoro imperiale, poi radunò e parlò ai soldati di stanza ad Arelate, corse all’accampamento fuori città, dispensò denaro a piene mani. Era convinto che la fortuna gli alitasse di nuovo sulla faccia. Ma se lui conosceva, per esperienza, i vantaggi della violenza, le sorprese dell’inganno, l’altro, il creduto morto, fu un fulmine di guerra. Appena informato di quello che stava accadendo ad Arelate, stipulò una tregua con i Franchi: rinunciava a inseguirli e ad ammucchiare i loro cadaveri sulla riva del fiume, purché ripassassero subito il Reno e se allontanassero per quaranta miglia; poi velocemente giunse a Soana, imbarcò le truppe Ad Catalaunos e, seguendo la corrente del Rodano, arrivò ai porti di Arelate. Massimiano era pratico di guerra e di movimenti di truppe, ma rimase meravigliato, atterrito dalla stupefacente rapidità di Costantino. Neppure tentò di opporglisi in qualche modo. Fuggì a Massilia (Marsiglia), ritenuta imprendibile. E Costantino pose l’assedio alla città dalla parte di terra. Massimiano credeva di contare su due fattori: la via libera sul mare, che gli consentiva rifornimenti e quindi una resistenza a oltranza; l’aiuto di Massenzio. I Massalioti vanificarono l’uno e l’altro, aprendo le porte a Costantino.

Ricostruzione a disegno del teatro di Arelate (od. Arles).

La versione dei panegiristi cristiani.

Sulla morte di Massimiano le versioni sono diverse. Il dato certo è che, il giorno dopo la resa della città, Massimiano comparve in catene davanti al vincitore. Incerto è se, nella circostanza, si parlassero o no; e quale morte fosse riservata al prigioniero. Costantino gli concesse di morire da Romano, suicidandosi, oppure lo fece impietosamente strangolare? La versione dei panegiristi cristiani è più fantasiosa e molto meno credibile, conoscendo il carattere duro, inflessibile di Costantino e come in seguito si sia comportato con chiunque – legato o no a lui da vincoli di parentela – avesse attentato al suo potere. Dunque, secondo Eusebio e Lattanzio, Costantino fece grazia della vita a Massimiano e non solo: gli permise di vivere a corte, benché spogliato di ogni potere. E a corte, ad Augusta Treverorum, Massimiano cercò un giorno dopo l’altro di persuadere la figlia a rendersi complice dell’assassinio del marito; assassinio che si doveva compiere di notte e nel letto matrimoniale. Fausta acconsentì o finse di acconsentire; finché un giorno rivelò il piano al marito. La notte stabilita per l’assassinio di Costantino, il posto di lui nel letto fu preso da un eunuco. Sicché, quando Massimiano, lordo di sangue e uscito dalla camera, si mise a gridare di essere il solo imperatore, ecco che dal fondo del corridoio, illuminato improvvisamente dalle torce dei soldati, gli venne incontro proprio Costantino, la figura alta e ieratica come una condanna.

Nell’estate del 310 Galerio era nella Moesia a Serdica (l’odierna Sofia), che con Nicomedia in Bithynia divideva il vanto di capitale dell’Impero d’Oriente. La montagna a ridosso della città rendeva l’aria più salubre di quella affocata di Nicomedia. Inoltre Serdica gli ricordava gli anni della giovinezza, della prima milizia, le battaglie sul Danubio e il periodo esaltante di quando era Caesar e aveva sposato Valeria, la figlia di Diocleziano. Dopo l’euforia momentanea di Carnuntum gli riaffiorarono alla mente i problemi non risolti, gli scacchi subiti: l’Italia e l’Africa proconsularis in mano a Massenzio, invendicati il fallimento della sua «spedizione» fin quasi alle porte di Roma e la morte di Severo. E non stava bene in salute. Aveva un temperamento bilioso e facilmente irritabile. Nel riposo, per la rabbia, si era messo a bere più del dovuto, ingrassava, poi un giorno si scoprì un’ulcera ai genitali, che più o meno rapidamente gli si propagava al basso ventre. Nell’inverno gli si aprirono altre ulcere, le loro bocche pullulavano di vermi. Il fetore era enorme. Si chiamarono medici, maghi, guaritori, si immolarono vittime sulle are dei vari dèi. Bagni, profumi, pomate erano inutili contro i vermi e il fetore. Il corpo di Galerio si decomponeva in un sozzo, inarrestabile, vituperoso marciume.

Rotonda di Galerio, Thessaloniki.

L’editto di Galerio.

Lo scrupoloso cronista della malattia di Galerio è Lucio Celio Firmiano Lattanzio. Nel suo libro De mortibus persecutorum – scritto comunque dopo il 317 ad Augusta Treverorum, alternando la sua attività di retore a quella di precettore di Crispo, il bastardo primogenito di Costantino – con freddo, pietoso sadismo segue ogni ulteriore fase del male, che era poi la prova evidente del castigo di Dio per la persecuzione dei cristiani. Fu Valeria, la moglie dell’Augustus (che si diceva essere cristiana o simpatizzante insieme con la madre Prisca della nuova religione) a chiamare medici cristiani per la malattia del marito. Non servirono a nulla. Alla fine di aprile del 311 Galerio si umiliò a emettere, in favore dei cristiani, l’editto di ritrattazione e di tolleranza. Nemmeno questo gli servì per scampare alla morte. E implacabile il giudizio di Lattanzio: «Coloro che si avventarono contro Dio, giacciono sconfitti; coloro che torturarono a morte i giusti hanno esalato l’anima colpevole fra meritati tormenti, sotto i colpi della mano di Dio». Gaio Galerio Massimiano morì a Serdica il 3 o 4 maggio del 311. Era stato eletto Augustus esattamente sei anni prima, il 1 maggio 305. Al suo capezzale, oltre alla moglie, il solo Licinio, venuto da Sirmium sulla Sava. A lui il morente raccomandò la moglie e il figlio bastardo Candidiano. Ma come non lo avevano «miracolato» i medici cristiani o l’editto di tolleranza, così non sortirono alcun effetto le raccomandazioni per la moglie e il figlio. Anzi Licinio, che gli era stato commilitone fin dalla giovinezza e a lui doveva titoli, cariche, comandi di eserciti, province, lo avrebbe tradito miserevolmente, arrivando addirittura ad uccidergli e l’una e l’altro.

La spartizione dell’Impero d’Oriente.

I sintomi della guerra civile si erano avvertiti già nei bui risvolti della riunione di Carnuntum. Massimino Daia non era stato affatto contento della consacrazione di Licinio ad Augustus. Per quanto più giovane, credeva di avere più titolo e diritti di lui. Erano entrambi feroci, sensuali, avidi di potere. E si odiavano visceralmente. Ingordo, rozzo e depravato Massimino Daia; Licinio più abile ed esperto condottiero, ma gonfio di libidine, come un soldato mercenario. Nella morte di Galerio videro un’occasione unica di rifarsi: l’uno defraudato da una sorte avversa, l’altro dall’invidia degli antagonisti. Licinio di province aveva solo la Raetia, la Pannonia e parte dell’Ilyricum; Massimino Daia la Syria e l’Aegyptus. Ora si spalancavano loro le province di Galerio: l’altra parte dell’Illyricum, la Graecia, la Macedonia, Moesia Superior e Moesia Inferior, tutta l’Asia Minor, inclusa la Bithynia con la capitale Nicomedia.

Massimino Daia. Busto, porfido, inizi IV sec. d.C. Cairo Museum.

Avvantaggiò enormemente Massimino Daia la circostanza in cui Galerio durante la malattia e al momento della morte si trovasse a Serdica. Né lui si era mosso per visitarlo o per i funerali, benché gli fosse nipote e debitore della nomina a Caesar, fra l’altro non voluta ed ostacolata da Diocleziano. Così, avendo mano libera in Asia, si spinse con l’esercito fino alla Troas, occupò Nicomedia e arrivò al Bosforo senza colpo ferire. Licinio, ancora impelagato a Serdica, era stato colto di sorpresa e quando,  radunato in tutta fretta un esercito, corse al Bosforo, l’altra riva era saldamente presidiata dalle truppe di Massimino Daia. Stettero a guardarsi attraverso la liquida barriera del mare, misurando l’uno le forze dell’altro, finché decisero che era meglio venire ad una tregua, lunga o breve che fosse. Del resto nessuno dei due era, al momento, preparato per una guerra, né intendeva rischiare in una battaglia i territori appena conquistati. E in effetti il Bosforo, con il mare che separava le due rive, diveniva un confine naturale: da una parte l’Occidente, dall’altra l’Oriente.

Un imprevisto della tregua, trasformata poi in accordo, fu la fuga repentina da Licinio di Valeria insieme con la madre Prisca e il figlio bastardo di Galerio, Candidiano. Attraversato il Bosforo, Valeria chiese asilo all’altro contendente, Massimino Daia a Nicomedia, tornata ora a essere capitale dell’Oriente. Lattanzio addebita la fuga alla paura di Valeria di fronte alla libidine di Licinio. Lui sessantenne, lei sotto i trenta. Per lo più le passioni senili sono pervicaci, distruttive e non di rado (come nel caso in questione) impossibili a dominarsi. Valeria era illirica, bionda, una di quelle bellezze misteriose, dal fascino segreto. Galerio ne era stato innamorato e geloso, ma da lei non aveva avuto figli. Delle donne all’apice del potere la vicenda umana di Valeria è fra le più penose. Toccò i due estremi della fortuna. La sua avvenenza fisica le fu al tempo stesso causa di passioni e di grandi sciagure. È strano come la storia, paludata o austera, dimentichi o releghi in un canto la storia cosiddetta «minore», il dietro della facciata per intendersi, o quella che ha il letto come naturale gioco di contesa, e il cui peso non è meno determinante, a volte, dei colpi di Stato o delle battaglie perdute o vinte. In una struttura politica, quale la tetrarchia per esempio, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione, le rivalità di potere si intrecciarono con i vincoli di famiglia e con quelli generati dalle passioni. Gli uni e gli altri, come era sempre accaduto dal tappeto di Cleopatra o dal ballo discinto di Ester, univano o strangolavano. Galerio aveva sposato la figlia di Diocleziano, Valeria, e la passione per lei fu un aculeo di continuo presente nella lotta mortale fra Licinio e Massimino Daia. Costantino, unito in matrimonio con Fausta, figlia di Massimiano e sorella di Massenzio, combatté e uccise sia l’uno che l’altro. Ugualmente si comportò con Licinio, al quale dapprima, per convenienza politica, da in moglie la sorellastra prediletta Costanza, poi, nel giro di pochi anni, muove guerra per arraffare il potere unico del mondo, arrivando impietosamente alla morte dello stesso e del figlio (ovverosia cognato e nipote).