Il lupo e l’agnello: la sopraffazione del più forte (Phaedr. I 1)

da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 42-44.

Quella che segue è la più famosa favola di Fedro e il più noto apologo teriomorfo della letteratura occidentale. Si tratta di uno dei testi che meglio riassume il messaggio complessivo dell’autore ed esemplifica la legge del più forte. La favola apre, quasi programmaticamente, la raccolta: nel dialogo concitato di cui si compone, si fronteggiano la logica della forza e quella della verità, personificate rispettivamente dal lupo e dall’agnello. Lo scontro è impari. E dopo un momento di disorientamento del lupo, che sembra accusare il colpo infertogli dall’evidenza del vero (repulsus… ueritatis uiribus, v. 9), la ragione del più forte ha il sopravvento sulle patetiche argomentazioni della verità, in violazione di ogni diritto (iniusta nece, v. 13). Insomma, l’apologo mostra che ogni tentativo di ricorrere alla giustizia è vano contro i prepotenti: l’innocenza non tutela il mite, se il prepotente vuole nuocergli.

Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, KB, KA 16, fol. 62r. Il lupo e l’agnello.

 

Ad riuum eundem lupus et agnus uenerant

siti conpulsi; superior stabat lupus

longeque inferior agnus. Tunc fauce improba

latro incitatus iurgii causam intulit.

«Cur», inquit, «turbulentam fecisti mihi

aquam bibenti?» Laniger contra timens:

«Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?

A te decurrit ad meos haustus liquor».

Repulsus ille ueritatis uiribus:

«Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi».

Respondit agnus: «Equidem natus non eram».

«Pater hercle tuus» ille inquit «male dixit mihi»;

atque ita correptum lacerat iniusta nece.

Haec propter illos scripta est homines fabula,

Qui fictis causis innocentes opprimunt.

 

Erano giunti a uno stesso ruscello un lupo e un agnello,

sferzati dalla sete; più a monte stava il lupo

e a valle, basso basso l’agnello. Allora, spinto da una fame

insaziabile, il ladrone mise innanzi un pretesto di lite.

«Perché», disse, «mentre bevevo, mi intorbidasti

l’acqua?». E il lanigero, di contro, sbigottito:

«Scusami, o lupo, come posso fare ciò che lamenti?

Da te l’acqua scorre ai miei sorsi».

Contrariato dall’energia della verità, quello fece:

«Sei mesi fa parlasti male di me».

Rispose l’agnello: «Veramente, non ero ancora nato».

«Beh, per Ercole, tuo padre sparlò alle mie spalle»;

e così, abbrancatolo, lo fece a pezzi iniquamente.

Questa è una favola scritta per quegli uomini,

che vessano gli innocenti con falsi pretesti.

 

Come accade quasi sempre nella favola esopica, i protagonisti del racconto sono animali che rappresentano, sotto il velo dell’allegoria, vizi e virtù umane. Il lupo e l’agnello, per esempio, simboleggiano rispettivamente l’uomo forte e prepotente e l’uomo debole, mite e indifeso. L’ambientazione del racconto è scarna, quasi inesistente: nessuna descrizione e nessun aggettivo caratterizzano il riuus presso il quale si svolge l’azione.

Fedro persegue la breuitas dello stile, con la quale fa risaltare le lapidarie sententiae dei personaggi. La sintassi è molto semplice, ma il lessico è usato con estrema attenzione: nella favola si possono rintracciare termini afferenti al campo semantico della giustizia e del diritto, usati in forma “negativa” (improba, latro, causam, iniusta). Si osservi, inoltre, la funzione metaforica dell’antitesi tra gli aggettivi superior e inferior: la posizione dei due contendenti rispetto al ruscello, infatti, rispecchia i rapporti di forza esistenti tra i due. L’allitterazione che lega gli appellativi con i quali il lupo e l’agnello sono definiti (latro-laniger) mette in evidenza la contrapposizione la violenza dell’uno e l’innocenza dell’altro.

Il lupo fa un uso prevaricatorio della parola, che diviene strumento di distorsione della realtà prima ancora che un’esplicita intimidazione; mentre l’agnello protesta con cauta cortesia le proprie valide giustificazioni (quaeso, equidem).

T. Claudio Nerone Giulio Cesare Augusto. Asse, Bilbilis, 31 d.C. Æ 13,18 g. R. Mun(icipium) Augusta Bilbilis Ti. Cesare v(el) L. Aelio Seiano intorno a co(n)s(ulibus) racchiuso in una corona d’alloro.

Fin dall’antichità, alcuni commentatori hanno ritenuto che nel personaggio del lupo Fedro intendesse raffigurare Seiano. Allo stesso modo, anche in altre fabulae sono stati individuati riferimenti, difficilmente dimostrabili, a personaggi e avvenimenti della prima età imperiale: ancora a Tiberio e a Seiano sarebbero riconducibili rispettivamente il travicello e il serpente della favola I 2, così come l’aquila e la cornacchia che le suggerisce il modo di uccidere la tartaruga nella favola II 6. Oggi gli studiosi reputano improbabile che Fedro potesse permettersi delle allusioni così scoperte, se si pensa che l’età di Tiberio fu un periodo di processi per lesa maestà, un’epoca in cui anche solo suscitare sospetti di voler contestare il potere imperiale era pericoloso.

Perciò, gli studiosi si sono chiesti se davvero la persecuzione di Seiano nei confronti di Fedro fosse da imputare a un reato d’opinione: il processo di cui il poeta parla potrebbe essergli stato intentato per un reato comune, cosa che spiegherebbe come mai la sorte dell’autore non si sia risollevata dopo la caduta del regime di Seiano. D’altra parte, la breuitas del libro II delle Fabulae rispetto agli altri ha fatto pensare che alcuni suoi testi siano stati tolti perché censurati.

Il tema della persecuzione subita in prima persona e dell’impossibilità di difendersi è, in ogni caso, molto presente nell’opera di Fedro.

 

Le favole di Fedro

in Piazzi F., Giordano Rampioni A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 300-304.

L’autore e le opere.

Di Fedro si conosce solo ciò di cui lui stesso informa nel proemio del libro III della sua raccolta di Fabulae in versi. Il disinteresse per questo genere “minore”, poco considerato in quanto espressione dello spirito realistico e popolare, non contribuì alla notorietà dell’autore. Neppure il nome è certo, nei manoscritti ora è Phaeder ora Phaedrus. Nato intorno al 15 a.C. in Thracia (o in Macedonia), forse fatto prigioniero da giovane, fu a Roma come schiavo e poi liberto di Augusto. Nella capitale ricevette un’istruzione letteraria, dal momento che egli stesso racconta di aver frequentato una scuola e di avervi studiato Ennio. Attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio, Fedro subì un processo intentatogli da Seiano, il potente ministro di Tiberio, forse offeso da allusioni colte in alcune favole, sebbene il poeta avesse protestato la propria innocenza: «Io non ce l’ho con questo o quell’altro, ma descrivo la vita e i costumi». A seguito della condanna, egli patì umiliazioni e povertà; cercò protettori potenti, ma invano, se, ormai vecchio, fu costretto a sollecitare un estremo aiuto per sopravvivere: «Finché di questa età declinante resta ancora qualcosa, c’è spazio per un tuo aiuto. Più tardi, consumato dalla vecchiaia, la tua generosità non servirà più, quando il bene che mi farai non potrà più essere utile e la morte reclamerà il suo tributo» (III, epil. 15-19).

 

Uomo che foraggia un asino. Mosaico, VI secolo, dal Palatium Magnum (Costantinopoli). Istanbul, Museo dei Mosaici del Palazzo.

 

Fedro scomparve verosimilmente sotto il principato di Claudio. È probabile che le circostanze della vita, in particolare il processo, ne abbiano influenzato l’arte: infatti, «il punto di partenza è nel sapore personale che la favola di Fedro indubbiamente ha: l’autore preme nell’interpretazione del racconto con i suoi sentimenti e le sue situazioni, si direbbe che fatica a non scoprirsi»[1].

I cinque libri di favole in senari giambici (come i dialoghi delle commedie) rappresentano la raccolta più antica di favole “esopiche” pervenuta. Pur dichiarando di dipendere da Esopo, Fedro attinse anche da sillogi di apologhi di età ellenistica. Il I e il II libro, in particolare, furono pubblicati sicuramente prima del 31 a.C., mentre gli altri tre furono composti negli ultimi anni del principato tiberiano e in parte, forse, sotto Claudio. Dell’opera restano novantatré favole tramandate da codici medievali, più una trentina scoperta dall’umanista Niccolò Perotti, dette fabulae novae (Appendix Perottina, pubblicata in coda alle edizioni di Fedro solo agli inizi dell’Ottocento). Delle favole si conservano anche numerose parafrasi in prosa, in particolare nella raccolta Romulus o Aesopus Latinus (IV-V secolo), popolarissima, durante il Medioevo: si tratta di una silloge introdotta da due false lettere, una attribuita a Esopo e l’altra a un certo Romolo, che la indirizza al figlio, affermando di aver tradotto quelle favole dal greco.

Leone. Mosaico, II-III sec. d.C. da St.-Colombe. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

Secondo una tradizione antica, infatti, il πρώτος εὑρετής, cioè il «primo inventore» del genere sarebbe stato il quasi mitico Esopo, schiavo frigio o tracio vissuto nel VI secolo a.C., dall’aspetto deforme, gobbo, balbuziente. La raccolta pervenuta sotto il suo nome comprende circa quattrocento testi, consistenti in brevi narrazioni con personaggi tratti dal mondo animale, provviste di una «morale» normalmente introdotta dalla formula: ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι… («Il racconto dimostra che…»).

A Esopo furono attribuiti anche molti racconti che correvano senza nome. Il genere favolistico fu praticato anche da Esiodo (per esempio, l’apologo dello sparviero e dell’usignolo nelle Opere e i giorni) e da Archiloco; il filosofo peripatetico Demetrio Falereo (IV-III sec. a.C.) sarebbe stato probabilmente l’autore di una prima rielaborazione del corpus esopico.

Nella letteratura latina spunti favolistici si colgono nelle commedie plautine, nelle Saturae di Ennio (l’allodola e i pulcini, Gell. II 29), in quelle di Lucilio (la volpe e il leone malato) e in quelle di Orazio (il topo di città e il topo di campagna, II 6, 79 ss.). In particolare, Orazio ricorda la diffusione di aniles… fabellas (le «favole della nonna») raccontate ai bambini.

Quello della fabula è un genere umile e antiepico, consistente in un breve racconto i cui protagonisti sono per lo più animali, che incarnano tipi fissi umani come le maschere della commedia (il lupo ingordo, la volpe furba, l’asino sottomesso, ecc.). Nel mondo antico la favola non aveva una collocazione letteraria, sebbene la narrativa popolare avesse radici molto remote già nelle civiltà orientali e in Egitto. Lo stesso termine fabula era generico e comune a ogni forma di finzione, incluse le rappresentazioni sceniche (leggenda, romanzo, commedia, tragedia, ecc.). Dal punto di vista testuale, comunque, la favola era essenzialmente una breve narrazione. Oggi, invece, fabula è un termine tecnico della critica letteraria e della narratologia, che designa la successione cronologica degli avvenimenti di una trama, indipendentemente dall’intreccio in cui li ha disposti l’autore.

Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V... curante Petro Burmanno, Leiden, 1745
Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V… curante Petro Burmanno, Leiden, 1745.

 

I contenuti delle fabulae.

Nei testi di Fedro il carattere popolare è particolarmente evidente negli spunti umoristici, nell’ambientazione, nell’ideologia rassegnata espressa nella «morale», che, posta in apertura (promythion) o in chiusura (epimythion) della composizione, fornisce la chiave autoriale di lettura. Come si ricava dai prologhi che precedono ciascun libro, le finalità della fabula sono le stesse del genere satirico d’impronta oraziana: l’intrattenimento (risum movere) e l’educazione morale del lettore (prudenti vitam consilio monere). Riguardo a quest’ultima finalità, le virtù elogiate sono quelle necessarie ai ceti umili per la loro sopravvivenza: l’astuzia che compensi la debolezza e soprattutto la rassegnata capacità di piegarsi alla legge del più forte, considerata immutabile: «Quando i potenti litigano, ci rimettono sempre i poveracci» (I 30, 1); «Quando cambia il regime, per i poveri non cambia nulla, solo il nome del padrone (nomen domini)» (I 15, 1). Com’è detto nell’apologo delle rane (I 2), cercare un re migliore porta a ritrovarsi un governo peggiore del precedente. Per i poveracci non c’è riscatto, neppure dopo la morte: «Chi è nato disgraziato non solo passa la vita nella sventura, ma anche dopo la morte è perseguitato dalla triste sorte» (IV 1).

L’acquiescenza nei confronti dell’assetto sociale esistente tocca il culmine nella celebre favola del lupo e dell’agnello, che insegna come il più forte trovi sempre il modo di legalizzare la propria posizione di vantaggio.

Tigre che assale un vitello. Pannello, opus sectile, IV sec. d.C. dalla Basilica di Giunio Basso. Roma, Musei Capitolini.

 

Il fatto che anche l’autore sia un umile, un «diverso», impone precauzioni per non urtare la suscettibilità dei ceti dominanti. Di qui il ricorso al procedimento allegorico, per cui vizi tipicamente umani sono rappresentati da una colorita galleria di animali usati come «maschere», come «tipi» con tratti psicologici fissi e ricorrenti (il leone prepotente, il lupo cattivo e sleale, la volpe furba, l’agnello timido, ecc.). Il travestimento di derivazione esopica consentiva di esprimere verità poco gradite ai potenti in una sceneggiatura straniata, al riparo da facili ritorsioni (ma così non fu per Fedro): «Egli [Esopo] adombrò nelle favole i propri sensi, ed eluse / ogni ragione di critica con scherzose finzioni. / Di quel viottolo io ne ho fatto una strada, ne ho, di favole, immaginate di più nuove, di quelle che egli ha lasciate, / scelte che si confacessero, certune, al triste mio caso» (III prol. 36-44).

La componente proiettiva, evidenziata da La Penna, è ribadita in queste ultime parole. Le favole, sebbene propongano in forma decontestualizzata un caso esemplare, di valore universale («Il mio intento è mostrare la vita e i costumi della gente», 43), adombrano la triste esperienza personale dell’autore e dei diseredati come lui. Di qui il tono amaro e risentito, diverso da quello sereno e distaccato dagli apologhi esopici.

È da notare che il pessimismo del vinto, l’atteggiamento rinunciatario, l’acquiescenza e il fatalismo nei confronti del potere in Fedro derivavano, certo, dalle sue umili origini, ma riflettevano anche uno stato d’animo diffuso a quel tempo, favorito dalla propaganda imperiale: «Durante il principato si diffuse l’accettazione fatalistica dello status quo, che gli imperatori cercarono di sfruttare a proprio vantaggio, presentandosi come messi della provvidenza e rappresentanti di Giove in terra» (P. Fedeli).

Il punto di vista è sempre quello delle classi subalterne, alle quali per la prima volta viene data una voce. I ceti umili erano anche al centro della favolistica esopica, popolata, quando i personaggi erano umani, da schiavi, pescatori, taglialegna, carbonai. Fedro conosceva bene la condizione servile: servitus obnoxia /… quae volebat non audebat dicere («I servi assoggettati… non osavano dire quel che volevano» (43).

Coccodrillo. Mosaico, I sec. d.C. Cardiff, National Museum of Wales.

In questo concedere la parola alle classi disagiate sta il carattere oggettivamente eversivo dell’opera di Fedro. Tuttavia, non sono del tutto chiari i motivi che avrebbero indotto Seiano a punire duramente l’autore, il cui messaggio non solo non era rivoluzionario ma era conservatore, in quanto predicava la resa incondizionata a una realtà, considerata come del tutto “naturale”, che vedeva «i potenti sempre più potenti, gli umili sempre più oppressi, i cattivi sempre più cattivi». «Non c’è nessuna ragione di credere che Fedro aspirasse a un regime migliore di quello imperiale» (A. La Penna). La consapevolezza dell’ingiustizia non si tradusse mai in uno scatto di ribellione, ma solo nell’invito ad affinare le armi della sopravvivenza tipiche dei diseredati (l’astuzia, la risposta fulminea e mordace), a ricercare il minor danno, a conseguire un’autosufficienza morale attraverso la rinuncia alle ricchezze. E in questa ricorrente esortazione alla saggezza è forse da cogliere l’influsso della «filosofia popolare» diatribica e cinica. Eppure, evidentemente, anche la denuncia generica («Non è mio intento bollare i singoli», 43), questo farsi timido portavoce degli oppressi, era una colpa dal punto di vista dei detentori del potere: Palam muttire plebeio piaculum est («Per uno della plebe, criticare apertamente è sacrilegio», 64). Come l’avvertenza, nelle didascalie di un film, che ogni riferimento a fatti e personaggi reali è casuale, non impedisce che chi ha la coscienza sporca si senta chiamato in causa, così gli innocenti ioci di Fedro irritarono chi sapeva di essere incorso nei comportamenti censurati: «Se qualcuno, per suo sospetto, attribuirà a sé l’universale, stupidamente rivelerà la propria colpa» (43).

 

 

Il modello, lo stile.

Fedro doveva essere consapevole della novità della sua opera. Egli dichiarava, certo, il proprio debito verso Esopo per quanto attiene alla materia e al genere, ma rivendicava la propria originalità: «Questa [l’assunzione del genere favolistico] è la sola eredità per me, tra noi non c’è invidia, ma gara. Plaudendo il Lazio questa impresa mia, con la Grecia vieppiù si paragoni» (II epil. 6-9). Fedro si vantava di avere rivestito la prosa della tradizione esopica in versi senari (polivi versibus senariis), ma la novità riguardava anche le res, i contenuti. Nel prologo del II libro (vv. 11 ss.) egli annuncia temi propri, aggiunti a quelli esopici: le sue favole sono «esopiche, ma non di Esopo» (Aesopias, non Aesopi), perché egli ne ha composte di più, e anche con argomenti nuovi (… pluris fero / usus vetusto genere sed rebus novis), non solo quelli legati al folklore, ma anche quelli della cronaca e dell’attualità romane. Sono certamente originali gli aneddoti con protagonisti umani, che svolgono soggetti novellistici celebri, come quello della matrona di Efeso, trattato con arte ben più scaltrita da Petronio, o il racconto di Tiberio e del servo zelante.

Servi che versano il vino. Mosaico pavimentale, II-III secolo, da Dougga. Musée du Bardo.

Con Fedro la favola acquisì per la prima volta nella letteratura latina dignità d’arte. L’autore difese con energia il valore poetico dei propri ioci in base ai canoni ellenistici della varietas e della brevitas: «Certo, al modo d’Esopo mi atterrò sempre con ogni cura; ma se poi, per amor di varietà, mi piacesse di aggiungere qualche aneddoto, prendetelo, lettori, in buona parte, purché abbia il pregio della brevità» (II prol. 9).

Soprattutto la concisione – un principio costitutivo della favola, ma anche della poetica di Orazio (di cui Fedro imita le satire) e della scuola atticista – caratterizza la lingua di Fedro. È la lingua viva della conversazione quotidiana, ma depurata, resa elegante dalla ricerca di urbanitas. La forma è limpida e piana, equidistante dalla volgarità e dalla gonfiezza barocca, adatta alla natura semplice e schematica della favola. Questo equilibrio di stile ha fatto pensare a Terenzio.

I dialoghi, i cui interlocutori spesso personificano principi etici contrastanti, sono agili e serrati. Costruiti con frasi brevi ed efficaci in uno stile medio non sciatto, con qualche punta aulica in funzione parodica, rivelano una vena apprezzabile di realismo comico.

Corvo su vaso. Affresco, 100 a.C. ca., da Pompei.

Mira a nobilitare l’espressione il frequente uso dell’astratto, come il corvi deceptus stupor («la stupidità gabbata del corvo»), la servitus obnoxia («la servitù soggetta»), la decepta aviditas del cane che porta la carne attraverso il fiume, la colli longitudo della gru. Ma un simile procedimento aggrava il principale difetto delle fabulae, che consiste proprio nell’astrattezza un po’ fredda e scolastica della rappresentazione. In esse non si vedono caratteri umani studiati psicologicamente e materiati di umanità – come, per esempio, i due topi della citata favola oraziana – ma solo vizi umani in veste animale. L’astrazione congiunta all’assillo della sintesi scolorisce il racconto, rendendolo povero, schematico, privo di un respiro narrativo: «Quasi tutto ciò che non è essenziale all’azione e all’interpretazione viene trascurato: il racconto viene a mancare quasi sempre di autonomia» (A. La Penna).

Fedro fu ignorato dai contemporanei e più volte espresse la propria amarezza per il fatto che le proprie fabulae non abbiano ottenuto il successo sperato. Seneca considerava la favola teriomorfa un genere privo di imitatori romani (intemptatum Romanis ingeniis opus, Ad Pol. 8, 27) e Quintiliano non lo citava nel paragrafo dedicato alle Aesopi fabellae. Fedro è ricordato solo da Marziale (III 20, 5), che considerava provocatori (improbos) i suoi versi scherzosi (iocos), ma il passo è molto discusso. A Fedro si riallacciò tutta la favolistica medievale, da Roman de Renard (XII secolo) alle Fables (1668-1694) di Jean de La Fontaine. Il culmine della fortuna fu toccato nel Settecento: la semplicità della lingua unita all’intenzione pedagogica garantì a Fedro il successo nelle scuole.

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[1] A. La Penna, Introduzione a Fedro, Favole, Torino 1968, p. xvii.

Pseudo-Apollodoro

di M. CAVALLI, L’autore, l’epoca, il testo della Biblioteca, in APOLLODORO, Biblioteca, Milano 2011, XIII-XVIII.

L’identità dell’autore della Biblioteca resta enigmatica. Il nome Apollodoro ricorre per la prima volta nell’opera di Fozio, il patriarca-scrittore del IX secolo d.C., che riunì riassunti ed estratti di 279 opere da lui lette nella raccolta intitolata anch’essa Biblioteca, o Myriobiblos. Sia Fozio che le note dei copisti sui suoi manoscritti identificano dunque l’autore della Biblioteca in Apollodoro il Grammatico; gli scoliasti, poi, riportano anche la sua appartenenza geografica, ateniese: e l’unico scrittore di questo nome a noi noto è, appunto, il grammatico ateniese Apollodoro, attivo ad Alessandria e poi a Pergamo intorno alla metà del II secolo a.C., del quale purtroppo nulla ci è stato tramandato. Sappiamo, però, che tra le sue opere esistevano quattro libri di Cronache in versi, dedicati alla sistemazione cronologica di tutto il periodo compreso fra la guerra di Troia (datata al 1184/3 a.C.) e il 120/19 a.C.; e soprattutto l’importante trattato Sugli dèi in ventiquattro libri, ampia compilazione mitologica, che tentava di dare ordine a tutta la materia tradizionale del mito nelle sue connessioni con il culto, le feste, la poesia, il pensiero filosofico stesso. Ma l’identificazione dell’autore della Biblioteca con il grammatico ateniese risulta impossibile, già sulla scorta dei pochi frammenti di Apollodoro in nostro possesso e delle allusioni alla natura delle sue opere e del suo pensiero presenti in altri autori. Il trattato Sugli dèi, infatti, si fondava su una forte impronta razionalistica, con la quale Apollodoro intendeva svincolarsi dal leggendario, per risolvere, invece, scientificamente i problemi inerenti alla divinità e al mito, soprattutto attraverso l’uso dell’indagine etimologica: e il principale assunto della sua opera consisteva nell’identificazione delle divinità con forze naturali oppure con famosi personaggi dell’antichità, morti da tempo e ritenuti dèi.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Proprio il razionalismo di Apollodoro ha indotto a considerare impossibile la tradizionale attribuzione della Biblioteca: già nel 1873 C. Robert, nella sua dissertazione De Apollodori Bibliotheca, negava che un’opera così ingenua e anonima, lontana da ogni tentativo critico sul materiale del mito e qualsiasi volontà di elaborazione formale e stilistica, si potesse ascrivere al rigoroso e scettico grammatico ateniese, alcuni frammenti del cui lavoro, inoltre, rivelano particolari mitici in decisa contraddizione con passi presenti nella Biblioteca. Ma c’è di più. Nella Biblioteca compare un riferimento a Castore, autore di studi storici, contemporaneo di Cicerone: e questo dato sposta la composizione dell’opera almeno alla metà del I secolo a.C., periodo che resta fisso dunque, per la Biblioteca, almeno quale terminus post quem, e nega definitivamente la sua attribuzione ad Apollodoro di Atene. Il problema dell’individuazione del suo autore – che viene comunque chiamato, per comodità, Apollodoro o pseudo-Apollodoro – è reso ancor più arduo non solo dalla totale assenza all’interno dell’opera di riferimenti cronologici o di allusioni a fatti storici e contemporanei, ma anche dall’assoluto silenzio sull’esistenza di Roma e delle leggende relative alla sua fondazione. Così, per esempio, pur raccontando ampiamente lo stanziamento degli eroi reduci da Troia in diverse aree del Mediterraneo, come pure la fuga di Enea con il vecchio padre Anchise sulle spalle, niente Apollodoro riporta sull’arrivo dell’eroe nel Lazio e sulle vicende che stanno alla base della tradizione romana. Poteva Apollodoro non conoscere l’esistenza di Roma? È difficile crederlo, a meno di non ipotizzare che scrivesse in un luogo e in un’epoca in cui la fama di Roma ancora non si fosse diffusa: forse, dunque, in un remoto paese ai confini del mondo greco, e certo non dopo Augusto. Oppure, come suggeriscono alcuni critici, si dovrebbe piuttosto pensare a un silenzio deliberato a Roma e alle sue leggende, per qualche motivo – ideologico? politico? didattico? – che a noi rimane assolutamente oscuro. In ogni caso, una datazione della Biblioteca intorno alla metà del I secolo a.C. (l’unica che potrebbe in certo modo giustificare il silenzio su Roma) presenta nuove difficoltà, dato che l’opera non viene mai menzionata da alcun autore precedente a Fozio (IX secolo d.C.), e che lo stile e alcune abitudini verbali del suo autore sembrano semmai collocarla tra il I e il III secolo d.C. Ma più probabilmente l’assenza dei riferimenti a Roma nella Biblioteca trova spiegazione nella natura stessa dell’opera, lavoro di compilazione mitografica non originale, e basato più sulla semplice trascrizione e riduzione di originali precedenti, che non sulla loro rielaborazione critica. In questo modo – ipotizzando cioè per la Biblioteca una fonte mitografica antecedente le fortune di Roma imperiale (quindi, senz’altro anteriore al I secolo a.C.), che non citasse dunque il mondo romano perché d’importanza ancora provinciale – il silenzio su Roma trova giustificazione nella volontà di seguire pedissequamente il modello, senza intervenire sulla sua traccia con innovazioni determinate da condizioni storiche e culturali diverse.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

L’identità e l’epoca dello pseudo-Apollodoro restano, in ogni caso, impossibili da determinare: per quanto alcuni critici siano concordi, per ragioni stilistiche, nel collocare la sua opera intorno al I-II secolo d.C., gli unici dati certi in nostro possesso lasciano aperto tutto l’enorme periodo tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del IX secolo d.C. Il nome stesso “Apollodoro”, presente sia in Fozio che nei manoscritti della Biblioteca, si presta a differenti possibilità di interpretazione. Forse un errore o un falso dei copisti; forse un inganno dell’autore, nel tentativo di far vivere anche la sua modesta opera nella gloria dell’insigne grammatico ateniese; o forse, invece, semplicemente un caso di omonimia, data la natura piuttosto comune del nome “Apollodoro”. Più difficile risulta interpretare questa tradizionale attribuzione come volontà di indicare, nel testo della Biblioteca a noi pervenuto, il riassunto o la riduzione di un originale di Apollodoro: fra i titoli del grammatico ateniese tramandati da più fonti come sicuramente autentici, infatti, questo non compare; ed è impossibile, del resto, che la Biblioteca costituisca una riduzione del trattato Sugli dèi, la cui natura filologico-grammaticale sembra decisamente altra rispetto alla struttura solo compilativa dell’opera apocrifa. Ma certo le ricerche mitologiche di Apollodoro – e quindi soprattutto il Perì theòn – costituirono una delle principali fonti per la successiva trattatistica mitografica: ed è appunto nell’ambito di tale genere, sviluppatosi in diversi filoni dai rigorosi studi storici, letterari ed etimologici degli eruditi alessandrini, che va collocata la Biblioteca, unico esempio di una certa ampiezza e complessità, peraltro, che sia giunto fino a noi. Isolata è, infatti, la struttura sistematica di questa raccolta, che attua il tentativo di esaurire tutta la materia mitologica greca, collegando in una stretta sequenzialità genealogica e cronologica i racconti relativi alle diverse aree geografiche e alle diverse tradizioni.

Processione con immagini di divinità. Rilievo, marmo, III sec. d.C. Roma, S. Lorenzo fuori le Mura.

Più comune, invece, il tipo di raccolta monotematica, che si organizza cioè nella volontà di riunire in una collezione miti separati, ma del medesimo argomento. Sotto il nome di Eratostene – ma si tratta certamente di un riassunto d’epoca posteriore al III secolo a.C. – sono stati tramandati i Catasterismi (“Trasformazioni in stelle”), opera che raccoglie le più importanti leggende collegate con l’origine delle costellazioni; di Antonino Liberale, attivo fra il II e il III secolo d.C., ci sono giunte, invece, le Metamorfosi, collezione sui miti relativi alla trasformazione di esseri umani in animali e piante, che ricalca probabilmente la perduta raccolta di Nicandro, l’autore del II secolo a.C. che costituisce la principale fonte delle Metamorfosi di Ovidio. Risale poi al I secolo a.C. l’unica opera superstite di Partenio di Nicea, I patimenti d’amore, che riunisce trentasei storie d’amore a conclusione tragica, e che costituì una sorta di repertorio mitologico-erotico per l’elegia amorosa romana. In lingua latina possediamo poi altre due importanti opere, le Favole e l’Astronomia poetica, giunte a noi sotto il nome di Igino, ma certamente non ascrivibili al bibliotecario della Biblioteca di Apollo al Palatino, attivo sotto Augusto: raccolte lacunose e spesso maldestre, esse sembrano semmai da collocare in epoca antoniniana, e la loro rilevanza deriva soprattutto dall’averci tramandato leggende altrimenti sconosciute, tra le quali gli argomenti delle opere perdute dei tragici.

Elemento comune a questi esempi di compilazione mitografica posteriori al III secolo è la natura libresca del materiale mitico raccolto, che deriva, come si è detto, da ricerche e opere di autori precedenti, e non da un lavoro “sul campo” che riporti le diverse tradizioni orali. È Apollodoro stesso a dichiarare le sue fonti: Omero, Esiodo, i tragici e Apollonio Rodio sono le autorità letterarie che sorreggono l’intera struttura della Biblioteca, e proprio dal confronto tra le opere e l’utilizzo fattone da Apollodoro emerge con evidenza la fedeltà e la serietà che impronta tale rielaborazione. Si può dunque presumere che vengano riportate con altrettanto rigore anche le testimonianze tratte da autori per noi ormai perduti, e di cui la Biblioteca costituisce una delle poche fonti; e, in generale, l’assenza di una posizione critica autonoma di Apollodoro, che lo porta ad accettare anche interpretazioni e tradizioni mitologiche contrastanti senza mai impostare una loro conciliazione, sembra garantire l’autenticità e la concretezza dei suoi riferimenti agli autori precedenti. Fra questi, Ferecide di Atene è certamente il più importante, e alla sua autorità Apollodoro si affida con devota costanza: nativo di Lero, ma vissuto ad Atene nella prima metà del V secolo a.C., scrisse un ampio trattato in dieci libri in cui le tradizioni epiche e mitologiche venivano organizzate probabilmente secondo un criterio cronologico e genealogico simile a quello della Biblioteca. Anche Acusilao di Argo, attivo in epoca immediatamente anteriore alle guerre persiane e autore di una Cosmogonia e di un trattato in tre libri dal titolo Genealogie, viene citato con notevole frequenza da Apollodoro, che ci offre in questo modo la possibilità di conoscere alcuni fondamenti della più antica mitografia, per noi totalmente perduta. Ma numerosi altri autori – poeti o eruditi –, di cui nulla possediamo, vengono ripresi da Apollodoro; i più significativi sono il cosiddetto “autore della Tebaide”, poema epico del Ciclo; Pisandro di Rodi, poeta epico attivo probabilmente a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., autore di un famoso poema dedicato a Eracle; Paniassi, della prima metà del V secolo a.C., zio di Erodoto, autore di un poema in quattordici libri dedicato a Eracle, e di una composizione in versi elegiaci dedicata agli avvenimenti della migrazione ionica; Erodoro, storico attivo intorno al 500 a.C., autore di due importanti raccolte di leggende su Eracle e sugli Argonauti; Asclepiade di Tragilo, allievo di Isocrate e attivo nel tardo IV secolo a.C., autore di una raccolta intitolata Tragodoumena, cioè “Cose rappresentate nelle tragedie”, in cui gli argomenti tragici venivano integrati da varianti della stessa leggenda.

Ganimede con berretto frigio. Testa, marmo, copia di età severiana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Domus Augustana.

A differenza delle altre raccolte mitografiche pervenute, dunque, la Biblioteca si organizza non sulla giustapposizione di leggende tra loro slegate, ma in un progetto complesso di raccordi genealogici e cronologici, che ha l’ambizione di esaurire e di dipanare l’intera tradizione greca dalle origini del mondo fino al ritorno degli eroi dopo la guerra di Troia. Robert Wagner ha individuato con estremo rigore il piano di lavoro di Apollodoro, premettendo alla sua edizione della Biblioteca un ampio sommario della materia, diviso in sedici capitoli che corrispondono agli itinerari mitici seguiti dall’autore: Teogonia; la famiglia di Deucalione; la famiglia di Inaco; la famiglia di Agenore (Europa); la famiglia di Agenore (Cadmo); la famiglia di Pelasgo; la famiglia di Atlante; la famiglia di Asopo; i re di Atene; Teseo; la famiglia di Pelope; precedenti della guerra di Troia; materia dell’Iliade; avvenimenti della guerra di Troia non trattati da Omero; i “ritorni” degli eroi; le peregrinazioni di Odisseo. Ma il testo della Biblioteca a noi pervenuto non è integrale. Tutti i manoscritti esistenti si interrompono nel corso delle avventure di Teseo, segno evidente del loro essere tutti copia di un unico manoscritto più antico, forse rovinato dal tempo o comunque già mancante di un’ampia parte dell’opera. Nel 1885, però, Robert Wagner scoprì nella Biblioteca Vaticana di Roma un manoscritto della fine del XIV secolo contenente un’epitome della Biblioteca, redatta quando l’opera poteva essere letta ancora integralmente, e che riportava quindi anche il riassunto della parte per noi perduta. Due anni dopo, nel Monastero di Mar Sabba a Gerusalemme vennero scoperti i frammenti di una seconda epitome della Biblioteca, contenuti nel cosiddetto Codex Sabbaiticus, e il cui testo si discosta in taluni punti da quello dell’epitome Vaticana. A giudizio di Wagner quest’ultima potrebbe essere opera del commentatore bizantino Giovanni Tzetze (XII secolo), che nei suoi lavori impiegò ampiamente citazioni tratte dalla Biblioteca, le quali spesso si accordano con il testo dell’epitome Vaticana e discordano invece da quello della Sabbaitica: e, del resto, il manoscritto contenente l’epitome Vaticana racchiude anche parte del commento di Tzetze a Licofrone.

A Robert Wagner si deve la magistrale edizione della Biblioteca pubblicata a Leipzig nel 1894 (edizione Teubner), più volte ristampata, che contiene anche il testo delle due epitomi, Vaticana e Sabbaitica. […]