ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.
La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.
Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.
Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).
L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.
Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.
Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.
Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).
Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre
Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).
Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).
Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.
Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.
Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.
Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.
In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).
Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.
Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.
Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.
Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.
Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.
L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.
L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.
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Bibliografia:
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C. Fayer, La famiglia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Parte prima, Roma 1994.
G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.
P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.
di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 24-35.
L’ammissione dei plebei al consolato, nel 367/6, costituisce una pietra miliare nel cosiddetto «conflitto degli ordini» dal quale la tradizione più tarda, in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, vede caratterizzata la storia romana per più di duecento anni, dall’inizio del V secolo fino al 287. La netta dicotomia tra plebei e patrizi nella lotta sugli stessi punti controversi (come ad esempio la protezione dall’arbitrio dei magistrati, la certezza del diritto, la liberazione dalla servitù per debiti e la parità nei diritti politici) offre ai confusi rapporti degli inizi della repubblica una struttura chiara e temi concreti ai quali gli autori più tardi poterono sempre di nuovo ricorrere, senza troppa fatica, nei diversi momenti di queste contrapposizioni, interrotte da fasi di quiete anche decennali. In questo modo, fu loro possibile presentare tutte le diverse conquiste di Roma repubblicana (come il diritto di provocatio, il tribunato della plebe, la legislazione delle dodici tavole, il tribunato consolare, l’ammissione dei plebei alle cariche pubbliche e sacerdotali, l’abolizione della servitù per debiti e l’attribuzione di forza di legge ai plebisciti) come altrettanti prodotti di un unico conflitto degli ordini protrattosi per più generazioni. I compromessi che i plebei e i patrizi accettarono accogliendo la maggior parte di queste nuove istituzioni, centrali nella coscienza che i Romani ebbero di sé, esaltano come tratto fondamentale di entrambe le parti la loro pronta disponibilità alla conciliazione, e il desiderio di concordia, per quanto distanti fossero state le posizioni iniziali. Nondimeno, i due ceti furono sempre costretti alla pace interna da qualche pressione militare dall’esterno. E la grande regolarità con la quale, a ogni nuova contesa interna tra Romani, i vicini popoli dei Volsci, degli Equi e dei Sabini avrebbero invaso il territorio di Roma, induce a sospettare che questi assalti siano una costruzione degli storici.
Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.
Riassumendo, molti dubbi sono stati sollevati sulla visione del conflitto degli ordini come del lunghissimo travaglio necessario alla nascita della repubblica romana. Infatti, esso è ignoto come tale ai primi cronisti di Roma, da Fabio Pittore a Catone il Vecchio e a Polibio, e fino a Cicerone: nella loro esposizione, gli atti di fondazione della repubblica risalgono all’indietro solo fino alla legislazione delle dodici tavole, verso il 450. Questa va considerata una conseguenza dell’origine orale delle tradizioni (oral tradition) relative alla fase di fondazione dello Stato romano, che naturalmente comprende anche il periodo della monarchia. Negli autori citati, a quest’epoca di fondazione, come c’è da aspettarsi date le strutture che caratterizzano la oral tradition, segue una fase intermedia, dalla metà del V fino alla metà del III secolo circa, con un elenco di pochi, aridi fatti e alcuni nomi di persone che con il loro comportamento esemplare servono a illustrare il funzionamento di quelle istituzioni che si erano lentamente e faticosamente consolidate. Infine, con la prima guerra punica (264-241), nei primi storiografi subentrarono i ricordi personali, che anche agli autori successivi avrebbero fornito i contenuti per una storiografia che da allora fu soggetta alle leggi della letteratura.
Con l’estensione temporale del conflitto degli ordini, altrettanto poco chiara è l’identità dei suoi attori. Dalle fonti, infatti, soltanto in modo frammentario è possibile comprendere perché e a partire da quando i patrizi si staccarono dai plebei. Un confronto tipologico con altre aristocrazie nelle società arcaiche indica come caratteristici del patriziato i seguenti elementi: privilegi religiosi, come il monopolio delle cariche sacerdotali; insieme a questo, il monopolio della giurisdizione, che aveva un fondamento sacrale; riti nuziali caratteristici e propri; stretti rapporti economici e familiari con gli aristocratici stranieri; orgoglio per il proprio albero genealogico; possesso di vasti terreni coltivabili, e di cavalli; gran numero di agricoltori dipendenti; infine, il monopolio di magistrature che certamente erano collegate a funzioni sacrali, come l’accoglimento degli auspici, e l’esercizio dell’imperium.
Scena di battaglia. Bassorilievo, pietra calcarea. Isernia, Museo Civico.
La tradizione letteraria ascrive già a Romolo, il primo re, la scelta dei primi senatori, che vengono indicati come patres, e dai quali sarebbero derivati i patrizi. La rilevante importanza della vicinanza genealogica di famiglie tra di loro imparentate si può dedurre, non soltanto a Roma, ma in tutta l’Italia centrale, dall’introduzione del nome gentilizio, che, a partire dall’ultimo terzo del VII secolo, sostituì il patronimico, il nome del padre, con quello di un antenato comune, al quale veniva aggiunto il suffisso -ius; così, ad esempio, dal preteso fondatore della stirpe, Iulus, veniva fatto derivare il nome gentilizio di Iulius.
Anche l’istituzione dell’interregnum, certamente da far risalire all’epoca dei re, testimonia a favore dell’esistenza di un ben definito gruppo di nobili. Ma la distinzione tra le antiche stirpi nobiliari come maiores gentes e le minores gentes aggiunte dai re successivi ai senatori indica chiaramente come questi nobili non formassero affatto una cerchia chiusa di «patrizi». Altrimenti, sarebbe stata impossibile l’integrazione del sabino Attus Clausus, che, secondo la tradizione, si sarebbe trasferito a Roma con ben cinquemila tra clienti e accoliti, un numero a stento credibile. Anche se i Fasticonsulares per il periodo fino al 450 non danno grande affidamento, una decina di consoli, che vi sono indicati e che possono essere collegati soltanto a tarde gentes nobili di origine plebea, testimonia di un’aristocrazia ancora aperta.
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
Ciononostante, già a partire dalla metà del V secolo, si possono notare chiare tendenze esclusivistiche interne al patriziato nella distinzione tra i senatori che sarebbero stati nominati dopo la cacciata dei re, indicati come conscripti, e i patres di antico insediamento. Come è mostrato dall’accoglimento dei Claudii tra i patrizi, si può escludere che già alla fine del VI secolo si sia formato il concetto delimitativo di patricius, riferito soltanto a chi faceva parte della parentela, o della discendenza, di uno degli antichi patres. Sappiamo per certo che nel 458 il magistrato supremo di Tusculum (l’odierna Frascati), Lucio Mamilio, non poté più essere ammesso a far parte del patriziato, quando, in grazia dei suoi meriti per aver salvato Roma dal colpo di Stato di Appio Erdonio, ottenne la cittadinanza romana. Il motivo di questo crescente separatismo dei patrizi va cercato nella decennale fase di rivolgimenti seguita alla cacciata dei re.
In quell’epoca, si deve ipotizzare una dura lotta di concorrenza tra le stirpi nobiliari romane per il possesso delle posizioni di potere. Infatti, la cacciata dell’ultimo re, il quale evidentemente aveva accentrato nella propria persona una quantità di ruoli di comando, aveva lasciato un cospicuo vuoto di potere, che doveva suscitare brame ovunque. Il grande predominio esercitato dagli ultimi tre sovrani etruschi di Roma, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, lascia supporre che gli aristocratici romani ora desiderassero soltanto avere sommi magistrati più deboli, la cui autorità non moderasse pesantemente le loro possibilità di azione. In questo modo, diventa evidentemente comprensibile la limitazione dei pieni poteri del magistrato supremo, il praetor maximus, al solo comando delle operazioni belliche.
Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.
Neppure in quel campo, però, né il magistrato né lo «Stato» romano ebbero il monopolio: i warlords dell’età regia, come i fratelli Vibenna, Macstrna o Lars Porsenna, trovano i loro successori tra numerosi aristocratici romani che condussero vere e proprie guerre private insieme ai loro clienti e accoliti: simili compagnie di armati vengono citate per Poplios Valesios, sul lapis Satricanus e anche per Gneo Marcio Coriolano. Il caso più famoso di una guerra privata è quella che nel 479/8 la gens Fabia condusse, guidando a quel che si narra i suoi quattromila clienti, contro la vicina città di Veio, anche se la stilizzazione della fine di quasi tutti i trecentosei Fabii sulle rive del torrente Cremera, secondo il modello del sacrificio dei trecento Spartani, che l’anno precedente, guidati da re Leonida, erano morti alle Termopili, opponendosi all’avanzata persiana, desta più di un dubbio sulla veridicità di molti particolari quali ci sono stati conservati dalla tradizione.
La mancanza di un monopolio della forza nelle mani dello Stato mise in pericolo il labile equilibrio del potere nella stessa Roma. Ad esempio, si narra che nel 460 il sabino Appio Erdonio con la sua compagine di armati, composta da esuli e servi, occupasse il Campidoglio, chiamando addirittura i plebei alla rivolta, e che, infine, fosse sconfitto soltanto dal tuscolano Lucio Mamilio.
Anche all’interno della società romana, però, c’era un numero sufficiente di scontenti che potevano essere mobilitati per combattere l’aristocrazia dominante. Non a caso, nella tradizione annalistica si trovano cronache simili a proposito dei tre adfectatores regni («aspiranti al trono»). Si dice infatti che il plebeo Spurio Cassio Vicellino, che secondo i Fasti fu console nel 502, nel 493 e nel 486, si ingraziò i plebei per i propri progetti di colpo di Stato con una legge per la spartizione dei territori strappati agli Ernici, che erano bottino di guerra, e anche dell’ager publicus; per questo motivo, sarebbe stato infine condannato a morte e fatto giustiziare dai questori. Qualcosa di simile toccò al ricco mercante plebeo Spurio Melio nel 439: dopo che si era procurato numerosi consensi tra i Romani, con laute elargizioni di grano, fu ucciso dal magister equitum Gaio Servilio Ahala, per ordine del Senato. Perfino a un patrizio viene attribuita un’alleanza, poco consona al suo rango, con i plebei: a Marco Manlio Capitolino, il console dell’anno 392, nonché salvatore del Campidoglio contro i Galli. Si dice infatti che egli accusò l’eccessiva avidità dei compagni del suo stesso ordine, con il proprio denaro evitò a molti plebei la servitù per debiti e, insomma, fece causa comune con i Romani meno abbienti. Ciononostante, nel 384, per le sue ambizioni dispotiche fu condannato a morte dall’assemblea popolare e precipitato dalla rupe Tarpea.
Guerrieri senoni (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.
Anche se tutte queste narrazioni di leggi agrarie, distribuzioni di grano e lotta all’indebitamento sono incentrate su progetti che furono al centro dell’azione dei grandi populres della tarda repubblica, e appaiono perciò anacronistiche, non ci sono dubbi sulla storicità dei tentativi, compiuti nel V secolo da alcuni singoli aristocratici romani, di acquisire un vantaggio, nella lotta per il potere con i loro compagni di ceto, alleandosi con i cittadini romani meno abbienti, se non addirittura di accentrare tutto il potere nelle proprie mani. I patrizi si premunirono di fronte a tale minaccia, cercando di limitare la possibilità di accesso al potere a quelle stirpi nobiliari che possedevano sufficienti proprietà, cariche sacerdotali e un seguito tra i cittadini tale da potersi misurare nella competizione alle magistrature. Questi nobili, infatti, non avevano certo bisogno di cercarsi nuovi accoliti facendosi paladini delle esigenze sociali ed economiche degli strati più poveri della comunità. Si poteva ben temere, invece, una defezione dalla solidarietà di ceto proprio da parte di coloro che ambivano alla scalata verso l’élite di potere, e che non avevano però a disposizione tante risorse. A tenere distanti simili parvenus era diretta la chiusura a riccio delle stirpi patrizie, e formare un ceto a parte; essa va quindi intesa come una reazione all’acuirsi della competizione interna tra gli aristocratici nei primi decenni della repubblica. La forte diminuzione del numero delle gentes (famiglie nobiliari), che riuscivano ad accedere alle supreme magistrature, rilevabile soltanto verso la fine del V secolo, indica che, a quel punto, questo processo di esclusione era ormai compiuto. Quindi, non sarebbe da ritenersi puramente frutto del caso, nella tradizione, se nelle parti a noi pervenute della legge delle dodici tavole, del 451, non troviamo né il concetto di patricius né quello di plebs.
Proprio come la cerchia dei patrizi non si poteva affatto considerare chiusa prima della metà del V secolo, così non si possono intendere i plebei degli inizi dell’età repubblicana meramente come il grande resto dei non patrizi, seguendo il punto di vista polarizzante della tradizione più tarda. Presumibilmente, i clienti dei patroni patrizi, originariamente, non erano annoverati tra i plebei. Non pochi agricoltori romani si trovavano in una simile duratura dipendenza, economica e giuridica, da un aristocratico. La relazione tra cliente e patrono fu descritta, nel caso ideale, come un rapporto di fedeltà, fides, destinato a durare per tutta la vita, nel quale entravano automaticamente, rispetto al patronus, anche i servi liberati. In cambio dell’aiuto economico in caso di cattivo raccolto, o del sostegno in giudizio da parte del patrono, il cliente, dal canto suo, doveva partecipare alle spese che il patrono doveva affrontare per la dote delle proprie figlie, a quelle dovute a multe pecuniarie e a quelle che gli potevano essere necessarie per accedere a cariche pubbliche. Gli artigiani e i mercanti, i recenti immigrati e i vecchi clienti dell’ultimo re verosimilmente non erano integrati in queste strutture. Questi gruppi così eterogenei potrebbero quindi aver formato il nucleo originario dei plebei.
Scena pastorale. Bassorilievo, pietra locale, I sec. a.C. CIL IX 3128 ([- – – ho]mines ego moneo niquei diffidat [- – -]), da Sulmona. L’Aquila, Museo Civico.I plebei si vedono in azione per la prima volta, nelle loro strutture e nei loro obiettivi, nel 494: minacciati dalla servitù per debiti, i soldati plebei dell’esercito romano che erano stati vittoriosi nella lotta contro i popoli vicini si ammutinarono e si recarono sul Monte Sacro (Mons Sacer), cinque chilometri a nord della città, presso il fiume Aniene (Anio), dove rimasero finché non venne presso concordato un compromesso con i patrizi. Secondo tale accordo, i plebei dovevano eleggere ogni anno due tribuni della plebe, tribuni plebis, ai quali era consentito difendere i plebei, all’interno del pomerio, dagli altri magistrati. I plebei giurarono allora una legge (Lex sacrata) per cui chiunque avesse impedito fattivamente a uno dei tribuni della plebe l’esercizio delle sue funzioni di difesa doveva essere considerato sacer, cioè «consacrato agli dèi», e perciò poteva essere ucciso senza incorrere in alcuna pena. Una simile comunità giurata, quale si trova, come istituto militare, anche tra i vicini popoli dei Volsci e dei Sanniti, era necessaria per procurare alla nuova carica, i cui titolari potevano essere eletti soltanto dalla parte plebea della comunità cittadina di Roma, la necessaria autorità nei confronti dei magistrati patrizi.
Tutte le principali rivendicazioni che i plebei avanzarono lungo due secoli paiono concentrarsi nel momento di questa cosiddetta prima secessione. Già la sua datazione al 494, però, appare dubbia; infatti, la tarda tradizione in tal modo fa esplodere il conflitto tra gli ordini in tutta la sua violenza nello stesso anno in cui per la giovane costituzione repubblicana di Roma il pericolo era cessato per la morte di Tarquinio il Superbo, in esilio a Cuma. Inoltre, questa prima uscita in campo della plebe pare sincronizzata a bella posta con il 493, la data, verosimilmente autentica, della fondazione del tempio di Libero, Libera e Cerere sull’Aventino, considerato come il santuario tipico dei plebei, e con l’istituzione della magistratura plebea degli edili, il cui titolo deriva da aedes, tempio, e che perciò in origine potrebbero essere stati i suoi custodi.
Demetra. Statua, terracotta, II-I sec. a.C. da Ariccia. Roma, Museo Nazionale.
La prima secessione della plebe, per quanto concerne la richiesta di riduzione dei debiti, pare evidentemente modellata sull’ultima, del 287, per la quale il motivo fu realmente questo. Infatti, stranamente i tribuni della plebe, di nuova istituzione, secondo le indicazioni della legge delle dodici tavole, non avevano ancora la possibilità di proteggere i debitori dalla servitù. È inoltre accertato per la prima metà del V secolo un forte crollo economico, e quindi proprio i Romani più poveri potrebbero essere stati maggiormente colpiti da spietate richieste di riscossione dei crediti.
Anche il mezzo impiegato dai plebei, un ammutinamento, pare poco verosimile. In primo luogo, una misura simile non avrebbe comportato pericoli solo se i Romani avessero condotto una campagna di guerra a grande distanza dalla metropoli, come accadde al più presto verso l’inizio del III secolo. In secondo luogo, un ammutinamento avrebbe avuto possibilità di successo solo se i plebei a quell’epoca avessero fornito una parte considerevole degli opliti delle truppe di Roma. Ma la distinzione tra il populus, nel senso di «popolo in armi, esercito», in cui certamente nel V secolo gli opliti erano forniti, tra gli agricoltori, dai grandi o medi proprietari, e la plebs (dal latino plere, «riempire, colmare») indica che i plebei originariamente non potevano servire con armi pesanti, perché non erano in grado di procurarsi i costosi armamenti necessari (elmo, corazza, schinieri, scudo, spada, giavellotto), ma soltanto come frombolieri, armati perciò in modo leggero.
Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Tanto la rigida delimitazione dell’ambito di competenza dei tribuni della plebe esclusivamente a Roma, all’interno del pomerium, quanto la probabile derivazione del termine tecnico tribunus dalle quattro tribus urbane indicano un’origine puramente civile della carica. Nel 471 il numero dei tribuni della plebe dovette poi, secondo la tradizione, salire a quattro, e, cosa ancora più importante, la loro elezione, e quella degli edili plebei, fu assegnata per legge ai concilia plebis. I plebei in questa assemblea, riservata esclusivamente a loro, erano ordinati per tribù: cioè gli appartenenti ai ventuno distretti abitativi dell’epoca (alle quattro antiche tribù urbane e alle diciassette tribù rustiche) per prima cosa decidevano all’interno della propria tribù quali magistrati eleggere, oppure sulle proposte di legge che venivano loro presentate. Decisiva poi era la maggioranza delle tribù, non la maggioranza del numero complessivo dei cittadini aventi diritto di voto. Come già per i comitia centuriata, anche qui nella votazione valeva il principio corporativo – tipicamente romano – e fondamentalmente diverso dal diritto di voto individuale caratteristico delle poleis greche. I concilia plebis potevano essere convocati soltanto dai tribuni della plebe o dagli edili plebei. Le loro decisioni non diventavano leggi (leges), ma venivano chiamati plebiscita, ed erano cogenti soltanto per i plebei, non per i patrizi.
Nella tradizione ci sono state conservate notizie sporadiche su un’assemblea ugualmente ordinata secondo le tribù, i comitia tributa, che sotto la guida dei pretori e più tardi dei consoli eleggevano i questori e gli edili curuli (costituiti nel 366), e votavano leggi (leges) cogenti per tutti i cittadini. Poiché, al contrario di quanto accade per i comitia centuriata e i concilia plebis, non abbiamo nessuna storia delle origini dei comitia tributa dell’intera cittadinanza romana, le loro grandi somiglianze con i concilia plebis (e, talvolta, perfino la loro confusione nelle fonti) indicano che nel corso del IV secolo i comitia tributa vennero identificati con questi.
Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.
La rivendicazione, da parte plebea, volta a ottenere la parità di diritti politici rispetto ai patrizi nel governo della comunità, anch’essa tramandata dalla tradizione per questa prima fase del conflitto degli ordini, è certamente da ritenere anacronistica per il primo periodo repubblicano. Infatti, anche dopo la presunta prima secessione della plebe, i debiti continuarono a gravare, per nulla diminuiti, sui Romani più poveri, e i privilegi giuridici degli aristocratici continuarono a essere schiaccianti.
Per questi motivi, non stupisce che lo stadio successivo del conflitto degli ordini portasse alla formazione del decenvirato, con il compito di introdurre nuove leggi. A proposito di questa prima, ampia codificazione giuridica in ambito romano la tradizione letteraria offre estese narrazioni. Nel corso della loro contesa sull’uguaglianza giuridica per tutti i cittadini, nel 451 i patrizi e i plebei si sarebbero accordati per costituire un collegio di dieci uomini, formato soltanto da patrizi, sospendendo sia i magistrati supremi sia i tribuni della plebe. I decemviri, guidati da Appio Claudio Crasso Irregillense, fino a quel momento nemico della plebe, avrebbero allora redatto una serie di leggi sul modello di quelle ateniesi, che sarebbe stata incisa su dieci tavole di bronzo. Poiché, però, parvero necessarie due ulteriori tavole, sarebbe stato eletto un secondo decemvirato, nel quale lo stesso Appio Claudio, ora manifestamente ben disposto verso i plebei, avrebbe fatto eleggere soltanto questi ultimi. Sotto la sua guida, però, il secondo decemvirato sarebbe diventato presto una tirannia, pronta a perseguitare sanguinosamente i propri avversari: ma poiché i patrizi e i plebei, diffidando gli uni degli altri, non riuscirono a concordare un’azione comune contro i decemviri, questi sarebbero rimasti al potere per tutto l’anno in corso, come stabilito, finché l’indignazione generale per la violenza minacciata da Appio Claudio sulla plebea Virginia, alla quale il padre poté sottrarla soltanto uccidendola, avrebbe costretto infine i decemviri a dimettersi.
Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.
Mentre sia il fatto che Appio Claudio, nel secondo mandato, venga stilizzato come tiranno, sia il suo preteso rovesciamento in seguito alla seconda secessione della plebe, nel 449, non sono probabilmente che parabole sul valore della solidarietà all’interno di una società, è assolutamente verosimile, dal punto di vista storico, l’attività legislatrice del primo collegio decemvirale. La stessa cosa vale per l’origine greca di parecchie disposizioni di legge, anche se si deve pensare ai Greci dell’Italia meridionale, come ad esempio Cuma, piuttosto che a Solone di Atene.
È da notare come i contenuti specifici delle dodici tavole non si trovino nelle narrazioni letterarie relative ai due decemvirati (a parte la significativa eccezione del presunto divieto di matrimonio tra patrizi e plebei), ma invece siano disseminati in notizie antiquarie. Anche se il loro latino arcaico è sempre stato modernizzato dalle varie fonti intermedie, non c’è motivo di dubitare dell’autenticità delle singole disposizioni, tanto più che esse venivano imparate a memoria dai bambini, in quanto costituirono fino all’età imperiale l’unico codice romano di diritto esistente. La legislazione delle dodici tavole rimase, fino alla tarda antichità, l’unico tentativo da parte dei Romani di regolare giuridicamente tutti i campi della vita; manifestamente, la rapida diminuzione dei conflitti tra i ceti dopo il 451 fece cessare il bisogno di una tale fissazione di principi.
Le prime due tavole erano dedicate alla procedura del processo civile (ad esempio, ai termini di tempo per la citazione in giudizio), la terza al diritto delle obbligazioni, che consentiva di tenere prigioniero il debitore moroso e perfino di venderlo come servo «al di là del Tevere». Questo dimostra l’antichità, almeno di quest’ultima disposizione, poiché il Tevere al più tardi dopo la conquista di Veio, avvenuta nel 396, non costituiva più il confine del territorio di Roma. La quarta e la quinta tavola avevano per oggetto il diritto di famiglia, tra l’altro prevedendo un diritto di successione per gli appartenenti a una stessa gens. La sesta e la settima regolavano il diritto sulle cose e sui beni immobili. L’ottava tavola determinava le pene per chi facesse incantesimi, per i ferimenti, gli incendi e i furti. La nona disponeva che sulla vita di un cittadino potesse decidere soltanto il maximus comitiatus (l’assemblea di tutto il popolo). La decima tavola limitava considerevolmente l’ostentazione di ricchezza e di lusso da parte dei nobili nelle cerimonie funebri e nelle sepolture. Mentre nella dodicesima l’argomento è il furto commesso da un servo e l’intervento del pretore su una ingiusta pretesa di possesso, il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, attribuito all’undicesima tavola, è probabilmente una finzione degli annalisti, che doveva servire come dimostrazione (l’unica) della degenerazione del secondo decemvirato; perciò, gli stessi annalisti pensarono di far sparire questo divieto, dopo neppure cinque anni, per mezzo di un plebiscito molto spettacolare, inscenato dal tribuno della plebe del 445, Gaio Canuleio, pur se un plebiscito non potesse in nessun modo vincolare i patrizi. Inoltre, questo divieto di matrimonio costituirebbe l’unica testimonianza della divisione tra patrizi e plebei contenuta nelle dodici tavole. Furono invece rilevanti, sul piano giuridico, la distinzione sociale tra l’adsiduus, un proprietario di terreni agricoli per il quale poteva garantire soltanto un altro adsiduus, e il proletarius, il cittadino privo di terre, e quella tra cliens e patronus, il quale ultimo, nel caso in cui avesse ingannato il proprio cliens, sarebbe diventato sacer, esecrato e maledetto.
Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.
La legislazione delle dodici tavole, in quanto codificazione di un diritto tramandato fino a quel momento soltanto oralmente, costituì un grande passo verso la certezza del diritto e l’uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini romani. Infatti, in tal modo potevano essere controllate le sentenze che prima i patrizi emettevano nella loro funzione sacerdotale. Quanto invece dalla legislazione delle dodici tavole venissero fissati i privilegi dei patrizi non è ancora chiaro. È molto evidente, piuttosto, il rafforzamento della gerarchia economica, perché i cittadini ricchi vennero chiaramente favoriti. Mentre le dodici tavole rappresentano una nitida istantanea a colori della società romana verso la metà del V secolo, l’evoluzione sociale di Roma fino all’inizio del IV secolo è ricostruibile soltanto in modo molto vago. Secondo la tradizione, l’indebitamento rimase un problema sempre irrisolto.
L’aumento a dieci, successivamente al decemvirato, del numero dei tribuni della plebe, come difesa contro gli abusi dei patrizi, aveva creato per un numero considerevole di plebei ambiziosi e benestanti un nuovo campo d’azione in cui proporsi come difensori dei propri compagni di ceto. Il tribunato della plebe, con la sua inviolabilità, che ogni plebeo era tenuto a difendere, costituiva il punto focale della solidarietà della plebe, che intendeva se stessa come una comunità giurata. In tal modo, con il tempo si formò uno strato di plebei che, basandosi sul sostegno sociale acquisito, durante il periodo in cui avevano rivestito la carica di tribuno, o anche di edile plebeo, e sull’esperienza maturata nel rappresentare gli interessi politici del proprio ceto, iniziò, al di sopra di questo compito puramente difensivo, a pretendere di configurare la politica cittadina nel suo complesso. Poiché i plebei costituivano inoltre senza dubbio la maggioranza degli ufficiali della legione eletti dall’assemblea popolare, i tribuni militum, con il tempo inevitabilmente dovette espandersi la rivendicazione, da parte della plebe, dell’accesso anche alle magistrature regolari. E, a questo punto, la chiusura della cerchia delle famiglie patrizie, che va collocata proprio nella seconda metà del V secolo, fu soltanto una conseguenza, destinata evidentemente ad avere un certo successo. Comunque, nel collegio dei questori, che dal 421 era formato da quattro componenti, per il 409 sono attestati per la prima volta dei plebei, anzi addirittura tre.
di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 234-265.
Un pilastro della storia politica e culturale di Roma
Cicerone fu uno dei massimi protagonisti delle vicende politiche e culturali della Roma del I secolo a.C. La sua instancabile attività di oratore, studioso e politico, a cui corrisponde una sterminata produzione letteraria, ha avuto ben pochi eguali nella storia romana e costituisce lo specchio di quelle profonde trasformazioni che cambiarono il volto della res publica nel suo ultimo secolo di vita. La sua attiva partecipazione a tutte le più importanti vicende pubbliche dell’epoca e i suoi vastissimi interessi culturali, fanno di Cicerone il simbolo stesso di tutti gli ideali e i principi su cui si fondava la tradizione etico-politica dell’uomo romano.
M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Roma, Musei Capitolini.
La vita: una carriera lunga e impegnata
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpinum, da agiata famiglia equestre. Compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso (cos. 95), di Quinto Mucio Scevola l’Augure (cos. 117) e di Quinto Mucio Scevola il Pontefice (cos. 95). Con Tito Pomponio Attico strinse un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Nell’89 prestò servizio militare durante la Guerra sociale agli ordini di Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. Nel’81, o forse prima, debuttò come avvocato; nell’80 difese a causa di Sesto Roscio Amerino, il che lo mise in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra il 79 e il 77 compì un viaggio in Grecia e in Asia, dove approfondì le sue conoscenze di filosofia e (sotto la guida del celebre Apollonio Molone di Rodi) studiò retorica.
Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale gli nacquero Tullia (nel 76) e Marco (nel 65). Nel 75 fu questore in Sicilia e cinque anni dopo sostenne trionfalmente l’accusa dei Siciliani contro l’ex governatore Verre, conquistandosi la fama di principe del foro. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore; diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo un imperium extra ordinem per la lotta contro Mitridate VI, re del Ponto. Nel 63 Cicerone fu eletto console e represse la congiura di Catilina. Guardò alla formazione del primo triumvirato con preoccupazione, dal momento che si trattava di un’alleanza politica fra il potere militare di Pompeo, la ricchezza grandiosa di Crasso e la crescente popolarità di Cesare, proprio perché siglata come patto privato, gli appariva insidiosa per l’autorità del Senato; da allora il suo astro iniziò a declinare. Nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina; la sua casa fu rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi tornò trionfalmente l’anno successivo.
Fra il 56 e il 51 Cicerone tentò una difficile collaborazione con i triumviri, continuando a svolgere l’attività forense. Compose il De oratore, il De re publica e iniziò a lavorare al De legibus. Nel 51 fu governatore in Cilicia, pur accettando controvoglia di allontanarsi dall’Urbe. Allo scoppio della Guerra civile, nel 49, aderì con lentezza alla causa di Pompeo. Si recò in Epiro con altri senatori, ma non fu presente alla battaglia di Farsalo nel 48. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cicerone ottenne il perdono di Cesare.
Nel 46 scrisse il Brutus e l’Orator; divorziò da Terenzia e sposò la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale si sarebbe separato dopo pochi mesi. Nel 45 gli morì la figlia Tullia. Iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tenne lontano dagli affari pubblici. Nel 44, dopo l’uccisione del dictator, Cicerone tornò alla vita politica e intraprese, a partire dalla fine dell’estate, una strenua lotta contro Antonio (di cui sono testimonianza le celebri orazioni chiamate Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del Senato, si strinse in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone venne inserito nelle liste di proscrizione e l’Arpinate fu assassinato dai sicari di Antonio il 7 dicembre 43.
M. Tullio Cicerone. Busto, marmo, copia di B. Thorvaldsen da originale romano. København, Thorvaldsens Museum.
Le opere: una molteplicità di interessi
Cicerone è di gran lunga l’autore classico latino di cui si possieda il maggior numero di opere. La sua vasta e molteplice produzione letteraria, infatti, spazia dalle orazioni pronunciate nel corso della sua lunga carriera forense e politica, alle opere trattatistiche nel campo della retorica, della politica e della filosofia, alle prove poetiche, fino a quello straordinario documento che è l’epistolario, che raccoglie centinaia di lettere sue e dei suoi corrispondenti, e, in effetti, costituisce l’unico epistolario “reale” (cioè formato da veri testi privati, non composti in vista di una pubblicazione) tramandato dall’antichità.
Un nuovo progetto politico e sociale
Per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale, Cicerone rappresenta un protagonista e un testimone d’eccezione della crisi che portò al tramonto della Repubblica. A quei mutamenti egli cercò di rispondere e porre rimedio elaborando un progetto etico-politico capace di tenere insieme tradizione e innovazione. La sua rimase tuttavia un’ottica di parte, solidale con il progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente quello dei ceti possidenti), disegno le cui possibilità di affermazione all’interno della società romana sarebbero state in gran parte legate all’uso abile e accorto delle tecniche di comunicazione più efficaci. In un contesto di questo tipo, Cicerone mise a frutto la sua sapiente e persuasiva eloquenza nelle orazioni e provvide a organizzarne i presupposti teorici nei trattati a carattere retorico; la sua ars dicendi si rivelò così una tecnica raffinatissima, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regia delle sue passioni. Si rifletteva, d’altronde, in questo una condizione di fondo della cultura romana, per la quale l’oratoria costituiva il modello fondamentale non solo di un’educazione elevata, ma anche, in notevole misura, dell’espressione letteraria stessa.
Al proprio progetto politico-sociale Cicerone ha cercato di dare concreta applicazione anche adattandolo, talora opportunisticamente, alla situazione contingente (come testimoniano diverse orazioni); ma, procedendo negli anni e nelle delusioni, egli ha sentito sempre più forte la necessità di riflettere, sulla scorta del pensiero ellenistico, sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è dunque lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica e politica, a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traducesse in ottuse chiusure, il cui rispetto per la tradizione capitolina (mos maiorum) non impedisse l’assorbimento della cultura greca. Cicerone, in altre parole, pensava a una classe dominante che fosse capace di assolvere ai suoi doveri verso la res publica senza divenire insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e di letteratura. Egli propose così uno stile di vita garbatamente raffinato che si riassumeva nel termine humanitas: quella coscienza culturale che era frutto dell’incivilimento, che era capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello, giusto e conveniente.
In questo senso, gran parte dell’opera ciceroniana può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservare i valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale di Cicerone, infatti, si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati aveva da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida morigeratezza delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma metteva ora in discussione la stessa sopravvivenza della res publica.
M. Tullio Cicerone. Statua, marmo, I sec. a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.
La parola come strumento di lotta politica: le orazioni
L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma: non è un caso, dunque, che le orazioni, al di là dei fatti specifici di cui trattano, lascino sempre intravedere sullo sfondo fatti e personaggi di primo piano, che segnarono la vita pubblica romana. Pertanto, nell’esaminarle, si procederà secondo una sequenza cronologica lineare che, scandendo la successione dei discorsi, segua anche la storia e le agitate fasi politiche dell’ultimo cinquantennio della Repubblica.
Gli esordi. | Dopo aver debuttato come avvocato nell’81 – o forse anche prima –, Cicerone, già nell’80, affrontò una causa molto difficile, probabilmente la prima importante della sua ancor giovane carriera: accettò il rischioso compito di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da potenti figure dell’entourage del dittatore Lucio Cornelio Silla, il crudele capo della fazione degli optimates allora padrone di Roma. Il padre di Sesto Roscio era stato assassinato su mandato di due suoi parenti in accordo con Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto del dittatore, che aveva fatto inserire poi il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio, le cospicue proprietà terriere. Gli assassini cercarono quindi di sbarazzarsi in un colpo solo anche del figlio, con una falsa accusa.
Prenderne le parti (poi l’imputato fu assolto), fu per Cicerone un delicatissimo banco di prova, poiché dovette ritorcere le accuse a personaggi molto potenti; e forse fu proprio la paura di mostrarsi ribelle al regime sillano a spingerlo a coprire il dittatore di lodi di maniera. Non va comunque dimenticato che Cicerone, per tutta la sua vita fautore dell’ordine, non era ostile a quel governo; eppure, come molti altri, anche di estrazione patrizia, avrebbe preferito porre un freno agli arbitri e alle proscrizioni che la fine della Guerra civile – quella che aveva portato Silla al potere – aveva trascinato con sé.
Forse per il timore di rappresaglie, dopo il successo della propria orazione, Cicerone si allontanò da Roma un paio di anni tra il 79 e il 77, viaggiando per la Grecia e l’Asia Minore. Una buona ragione per compiere il viaggio dovette essere in ogni caso anche quella di perfezionarsi nelle prestigiose scuole di retorica della zona: non a caso, infatti, alcuni tratti stilistici presenti nella pro Sexto Roscio Amerino in seguito sarebbero stati accuratamente evitati dal Cicerone purista degli anni più maturi; per quanto già raffinato, lo stile di questa orazione mostra infatti un rapporto ancora molto stretto con gli schemi dell’asianesimo allora di moda e si caratterizza dunque per un eccesso di metafore e per il ricorso a neologismi.
La quaestura in Sicilia. | Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone ricoprì la quaestura in Sicilia nel 75 a.C. Là si conquistò la fama di amministratore onesto e scrupoloso, tanto che pochi anni dopo, nel 70, i Siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da loro intentato contro l’ex propraetor Lucio Licinio Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Cicerone, rivelando grande energia, raccolse le prove in tempo brevissimo, anticipando così le fasi del processo, che altrimenti si sarebbe svolto in condizioni politicamente molto più favorevoli all’imputato: il difensore di Verre, infatti, Quinto Ortensio Ortalo, celeberrimo avvocato di scuola asiana, era uno dei candidati designati per il consolato del 69. Al dibattimento Cicerone non fece in tempo a esibire per intero l’imponente massa di prove e di testimonianze che aveva raccolto e organizzato, e poté pronunciare solo la prima delle due actiones in Verrem: dopo solo pochi giorni, infatti, Verre, schiacciato dalle accuse, fuggì dall’Italia e venne condannato in contumacia.
Cicerone pubblicò successivamente, in forma di orazione accusatoria, la cosiddetta Actio secunda in Verrem, divisa in cinque libri, che rappresenta, fra l’altro, un documento storico di primaria importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province. Quello di Verre costituiva certo un caso eclatante, ma l’avidità dello sfruttamento era comunque la regola: il governatorato di una ricca provincia era un’occasione di facili guadagni per gli aristocratici romani, che avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di liberalità (cioè di corruzione dei singoli e delle masse) necessarie a promuovere la loro carriera politica, e avevano inoltre bisogno di incrementare i propri consumi e usi privati per reggere il passo con i nuovi stili di vita che si erano imposti dall’età delle conquiste.
La vittoria su Ortensio, il difensore di Verre, fu, tra l’altro, anche una vittoria in campo letterario: di fronte alla naturalezza con la quale il giovane competitore padroneggiava tutte e sfumature della lingua, l’esasperato manierismo asiano di Ortensio dovette risultare alquanto stucchevole. Lo stile delle Verrine è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze, ma senza per questo accostarsi all’eloquenza secca e scarna degli atticisti. Il periodare è perlopiù armonioso, architettonicamente complesso; ma la sintassi è estremamente duttile, e Cicerone non rifugge, quando è il caso, da un fraseggio conciso e martellante.
La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. E anche qui Cicerone si rivela maestro nell’arte del ritratto: sono straordinari quelli di alcuni personaggi più o meno squallidi dell’entourage dell’ex governatore, ma soprattutto quello dello stesso Verre, raffigurato come un tiranno avido di averi e del sangue dei suoi sudditi, e contemporaneamente come un dissoluto pigramente disteso sulla propria lettiga, sempre intento ad annusare una reticella di rose.
Cn. Pompeo Magno. Solis-Pompeiopolis, 66-50 a.C. ca. Dracma, AE 7, 16 gr. Recto: testa nuda di Pompeo, voltata a destra.
L’ingresso in Senato. | Dopo la questura, Cicerone entrò in Senato. Nel 66 a.C., infatti, l’anno della sua praetura, con l’orazione dal titolo Pro lege Manilia, nota anche come De imperio Gnaei Pompei, parlò in favore del progetto di legge presentato dal tribuno Gaio Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: un provvedimento reso necessario dall’urgenza di eliminare in modo efficace e definitivo la minaccia costituita da Mitridate, re del Ponto, le cui ambizioni egemoniche da tempo disturbavano gli interessi economici del popolo romano nei territori orientali. Cicerone, parlando di fronte alla civitas riunita in favore della proposta di legge, insistette soprattutto sull’importanza dei vectigalia che affluivano dalle province orientali: la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale beneficio se il monarca pontico avesse continuato indisturbato nella sua azione.
Nella Pro lege Manilia, in seguito “ripudiata” dallo stesso autore, si è voluto vedere il punto di massimo avvicinamento dell’Arpinate alla politica dei populares, indirizzata a gratificare e a corrompere le masse cittadine con elargizioni e, contemporaneamente, a prevaricare l’autorità del Senato, favorendo l’emersione di spregiudicate personalità. In realtà, a essere minacciati, in Asia Minore, erano soprattutto gli interessi di equites e publicani, il ceto imprenditoriale e finanziario cui Cicerone era legato. Erano loro ad avere spesso in appalto la riscossione delle imposte nelle province, e proprio in Asia i cavalieri avevano avviato molte lucrose attività commerciali, che da poco più di vent’anni l’espansionismo di Mitridate minacciava di mandare in rovina.
D’altronde, Cicerone e Pompeo avevano entrambi bisogno dell’appoggio del ceto equestre per conquistare alte posizioni nello Stato, ma, a differenza del condottiero, l’Arpinate non era disposto a fare elargizioni demagogiche che i populares gli chiedevano di appoggiare. In particolare, egli era contrario a qualsiasi programma di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dai debiti. Infatti, Cicerone cominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la res publica nell’accordo fra i ceti più abbienti, i senatori e gli equites: ed era appunto questa concordia ordinum a diventare il fondamento del progetto politico ciceroniano.
Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.
Il consolato. | Fu proprio contando sulla natura politicamente moderata di Cicerone che una parte della nobilitas decise di coalizzarsi con il ceto equestre, e di appoggiare nella candidatura al consolato il brillante homo novus arpinate (63 a.C.).
Le più celebri fra le orazioni “consolari” di Cicerone sono le quattro In Catilinam, con le quali egli svelò le trame sovversive del Lucio Sergio Catilina, patrizio decaduto di parte sillana, che, dopo essere stato sconfitto nella competizione elettorale per la massima carica, aveva ordito una congiura per raggiungere il potere. E Cicerone, assumendosi la responsabilità delle indagini, riuscì a soffocare il tentativo eversivo, costringendo Catilina a fuggire da Roma e giustificando la propria decisione di giustiziarne i collaboratori senza processo regolare. Quella concordia ordinum che aveva portato Cicerone al consolato, comunque, segnò così una prima importante affermazione attraverso il successo politico del suo teorizzatore.
Sul piano artistico, spicca la prima Catilinaria, in cui Cicerone attaccò l’avversario di fronte al Senato riunito. I toni sono veementi, minacciosi e ricchi di pathos; il console fece anche ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai adottato: l’introduzione di una prosopopea («personificazione») della Patria, che si immagina rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Né si può inoltre dimenticare, nella seconda Catilinaria, il ritratto del sovversivo e dei suoi seguaci corrotti dal lusso e dai vizi.
Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda Catilinaria, cioè quando l’esito dello scontro era ancora incerto, Cicerone si trovò a dover difendere da un’accusa di broglio elettorale Lucio Licinio Murena, console designato per l’anno successivo. L’accusa era stata intentata dal candidato risultato sconfitto, Servio Sulpicio Rufo, e sorretta dal prestigio di cui godeva Marco Porcio Catone (il futuro Uticense), discendente di Catone il Censore. Proprio Catone il Giovane, nel suo rigorismo morale fondato sui principi della scuola stoica, aveva assunto una posizione particolarmente intransigente nelle questioni che riguardavano il rapporto fra res publica e interessi economici privati; ciò lo portava a trovarsi spesso in conflitto con i publicani (coloro i quali, appunto, avevano rapporti d’affari con lo Stato romano) e con l’ordine equestre, nonché a scontrarsi con il progetto politico ciceroniano ispirato all’ideale della concordia ordinum.
Nella Pro Murena Cicerone sceglie la via dell’ironia e dello scherzo, trovando sapientemente i toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. Ma l’interesse dell’orazione risiede soprattutto nella nuova morale che l’autore inizia a elaborare e proporre alla società romana. Prendendo posizione nei confronti dell’arcaico moralismo catoniano, Cicerone incomincia infatti a tratteggiare le linee di un nuovo modello etico la cui definizione lo avrebbe occupato per il resto della vita: si tratta di una dimensione in cui il rispetto per il mos maiorum è contemperato da quell’addolcimento dei costumi, da quell’apertura alle gioie della vita, che ormai concedevano le nuove abitudini della società romana.
Il primo triumvirato e lo scontro con Clodio. | Con il tempo, la posizione di Cicerone a Roma tese a indebolirsi molto: la formazione del cosiddetto primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso segnò infatti un rapido declino delle fortune politiche dell’Arpinate. Un tribuno di parte popolare, Publio Clodio Pulcro, che nutriva verso di lui anche rancori di origine personale, nel 58 a.C. presentò una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio qualsiasi magistrato avesse fatto mettere a morte cittadini romani senza provocatio ad populum. La legge mirava evidentemente a colpire proprio l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Allora, tra l’altro, non più sostenuto dalla nobilitas che, compulsato il pericolo di Catilina, poteva fare a meno di lui e abbandonato persino da Pompeo, che doveva tener conto delle esigenze dei triumviri suoi alleati, Cicerone dovette soccombere all’attacco portatogli da Clodio e prendere la via dell’esilio, trascorrendolo soprattutto fra Tessalonica e Durazzo.
Richiamato dall’esilio solo l’anno dopo, Cicerone trovò l’Urbe in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (quest’ultimo era il difensore della causa degli optimates e amico personale dell’Arpinate). Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovandosi a difendere Sestio, un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza (Pro Sestio), espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia ordinum: infatti, come semplice intesa fra classe equestre e aristocrazia senatoria, il progetto si era rivelato fallimentare; così Cicerone ne dilatò il concetto in concordia omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine pubblico (politico e sociale), pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. I boni – una categoria che attraversava verticalmente tutti gli strati sociali, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare – sarebbero stati, da allora in poi, il principale destinatario della predicazione etico-politica dell’Arpinate.
I nemici dell’ordine, d’altra parte, erano identificati in coloro che soprattutto l’indigenza o l’indebitamento spingeva a desiderare rovesciamenti sovversivi. Dovere dei boni, dunque, sarebbe stato quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo a tutti gli uomini politici che rappresentassero la loro causa. L’esigenza, largamente avvertita a Roma, di un governo più autorevole spinse tuttavia Cicerone a desiderare che il Senato e i boni, per superare le loro discordie, si affidassero alla guida di personaggi eminenti, di grande prestigio: una teoria che sarebbe stata ripresa e approfondita, poi, nel De re publica.
In quest’ottica si spiega, probabilmente, l’avvicinamento che Cicerone compì in quegli anni verso il triumvirato e che non va inteso assolutamente come un tradimento della nobilitas. L’intenzione doveva essere quella di condizionare l’operato dei triumviri per evitare che il loro potere prevaricasse quello del Senato e far sì che si mantenesse nei limiti delle istituzioni della res publica. Questo periodo, tuttavia, fu per l’Arpinate piuttosto denso di incertezze e di oscillazioni politiche: da un lato, continuò ad attaccare il facinoroso Clodio e i populares (per esempio, nella In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno dei responsabili del suo esilio); dall’altro, diede il proprio assenso alla politica dei triumviri: nel 56, infatti, parlò in favore del rinnovo dell’imperium di Cesare in Gallia (De provinciis consularibus) e difese in tribunale vari personaggi legati al triumviro (Pro Balbo, nel 56; Pro Rabirio Postumo, nel 54; ecc.).
A ogni modo, fra le orazioni “anticlodiane” un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (56 a.C.), un giovane brillante, amico dell’Arpinate. Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno Clodio (la Lesbia di Catullo!), una delle dame eleganti e corrotte di cui abbondava la Roma patrizia del tempo. Contro Celio era stata accumulata una congerie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti della donna. Fu un processo in cui i rancori personali di tutte le parti in causa si intrecciarono strettamente con questioni politiche di rilevanza molto più generale. Attaccando Clodia, in cui indicò l’unica regista di tutte le manovre contro Celio, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello di lei: la donna è dipinta come una volgare meretrice ed è accusata perfino di rapporti incestuosi con Clodio. L’orazione, per la pittoresca varietà dei toni – che spaziano da quello disincantato dell’uomo di mondo al pathos funereo – è fra le più riuscite di Cicerone.
Non solo la felice vena satirica avvicina la Pro Caelio alla Pro Murena, ma anche il maturare della proposta di nuovi modelli etici: rievocando le tappe della vita del giovane difeso, Cicerone ha modo di tratteggiare uno spaccato della società del proprio tempo, e si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù aveva assunto da tempo e che avrebbero potuto destare scandalo soltanto agli occhi dei più arcigni moralisti, troppo attaccati al passato. Le virtù che un tempo avevano reso grande la res publica Romana non si trovavano più nemmeno nei libri. Era ormai tempo di allentare le briglie ai giovani, purché essi non perdessero di vista alcuni principi fondamentali; sarebbe arrivato il momento in cui, sbolliti gli ardori e divenuti adulti, avrebbero saputo tornare sulla nobile via del mos maiorum. Se il divario tra il rigore “arcaizzante” e le nuove opportunità offerte da una Roma in piena trasformazione si fosse troppo approfondito, si avrebbe corso il rischio di una dissoluzione di tutto il connettivo ideologico della società: i giovani sarebbero andati incontro a un totale rovesciamento dei valori, che avrebbe finito con il sostituire la ricerca dei piaceri al servizio verso la comunità. Il modello culturale che Cicerone proponeva, dunque, mirava a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala valoriale che continuasse a essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccessivo rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo in trasformazione.
Francesco Giudici il Francabigio e Alessandro Allori, Il ritorno di Cicerone dall’esilio. Affresco, 1520. Poggio a Caiano, Villa Medici.
Gli ultimi anni. | Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo, finché nel 52 Clodio rimase ucciso. Cicerone assunse così la difesa di Milone, il principale indiziato dell’omicidio; l’orazione (Pro Milone) scritta per l’occasione è considerata è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sull’esaltazione del tirannicidio. Ma il testo, nella forma in cui si è conservato, rappresenta una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi al processo. Di fronte ai giudici, Cicerone riportò un clamoroso insuccesso (e Milone fu costretto a fuggire in esilio): gli cedettero i nervi, a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava l’Urbe, razziata dai partigiani di Clodio, con le truppe di Pompeo che cercavano di riportare l’ordine con la forza.
Nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo: era consapevole infatti che, qualunque fosse stato l’esito, il Senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante del vincitore. Dopo la vittoria di Cesare, Cicerone ne ottenne il perdono e, nella speranza di contribuire a renderne il regime meno autoritario, ricercò, in un primo momento, forme di collaborazione e accettò di perorare di fronte al dictator le cause di alcuni pompeiani “pentiti” (le cosiddette orazioni “cesariane”).
Dopo l’assassino di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone tornò a essere un uomo politico di primo piano, ma i pericoli per la res publica non erano certo finiti: il più stretto collaboratore del dittatore, Marco Antonio, mirava infatti ad assumerne il ruolo, mentre sulla scena politica romana si affacciava anche il giovane Gaio Ottaviano, l’erede designato da Cesare, con un intero esercito di fedelissimi ai propri ordini. La manovra politica di Cicerone tendeva a tenere divisi Ottaviano e Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del Senato.
Per indurre l’autorevole consesso a muovere guerra ad Antonio, dichiarandolo nemico pubblico, l’Arpinate pronunciò contro di lui, a partire dall’estate del 44 a.C., le orazioni Filippiche, in numero forse di diciotto (ma ne restano solo quattordici). Il titolo, che allude alle celeberrime requisitorie di Demostene di Atene contro re Filippo di Macedonia, è abbastanza controverso: alcuni scrittori antichi le hanno chiamate Antonianae, mentre il nome Philippicae venne effettivamente usato dal loro autore nella sua corrispondenza privata, in senso ironico.
Per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia, si distingue soprattutto la seconda Filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata, ma solo fatta circolare privatamente nella redazione scritta: un discorso che ispira odio, in cui Antonio, con una violenza satirica pari soltanto a quella verso certi personaggi della In Pisonem, viene presentato come un tiranno dissoluto, un ladro di fondi pubblici, un ubriacone «che vomita per il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino».
La manovra politica dell’Arpinate era comunque destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, il giovane Ottaviano, sottraendosi alla tutela dell’anziano consolare e del Senato, strinse un accordo con Antonio e un altro cesariano, Marco Emilio Lepido, e formò quello che viene definito secondo triumvirato. I tre divennero così i nuovi padroni assoluti di Roma e del suo dominio e Antonio pretese e ottenne la morte di Cicerone (il suo nome fu iscritto nelle liste di proscrizione). Ai primi di dicembre del 43 a.C., dunque, dopo aver interrotto un tentativo di fuga, Cicerone fu raggiunto dai sicari del triumviro presso Formia: come monito la sua testa mozzata fu appesa ai rostra nel Foro romano.
Léon Comeleran, L’assasinio di Cicerone. Cromografia, 1881.
Il bilancio di una straordinaria esperienza intellettuale e politica
Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente, che si è cercato di ripercorrere attraverso la sua attività oratoria. L’homo novus si accostò alla nobilitas nel contesto di un generale riavvicinamento fra Senato ed equites, e pure in seguito rimase fedele all’ideale della concordia e alla causa del Senato. Il tentativo di collaborazione con i triumviri del 60 fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole e, anche in questo caso, Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative del consesso. In questa stessa prospettiva bisogna inquadrare persino il momentaneo riavvicinamento a Cesare, dopo la guerra civile, dettato dal desiderio di mitigarne le tendenze autocratiche e di mantenerne il potere nel solco delle tradizioni avite.
Il progetto della concordia dei ceti abbienti (prima concordia ordinum, poi concordia omnium bonorum) significò, in ogni caso, un tentativo almeno embrionale di superare, in nome dell’interesse comune – o di quella che Cicerone riteneva la parte “sana” della civitas –, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la scena politica romana. Il fallimento del suo progetto ebbe molteplici motivi: da un lato, a Cicerone mancarono le condizioni per crearsi un seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; dall’altro, egli – e non fu il solo fra i suoi contemporanei – sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi. E forse si fece anche fin troppe illusioni sui presunti boni: a tempo della guerra civile, infatti, i ceti possidenti ritennero, in larga parte, che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica popolare di Cesare (come dimostra, del resto, il fatto stesso che, successivamente alla morte dell’Arpinate, costoro non fecero mancare il proprio consenso al regime di Ottaviano, che segnò definitivamente la trasformazione delle istituzioni repubblicane).
Ragazzo togato. Statua, marmo, I sec. d.C. Museo Archeologico di Milano.
La parola e chi la usa: le opere retoriche
Cicerone scrisse quasi tutte le sue opere retoriche a partire dal 55 a.C. (un paio d’anni dopo il ritorno dall’esilio), spinto dal bisogno di dare una sistemazione teorica a una serie di conoscenze ed esperienze e soprattutto una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei suoi tempi. In quest’ottica va inquadrata la sua ampia riflessione sull’importanza e sul taglio della formazione dell’oratore, il cui potere di trascinare e convincere l’uditorio implicava un’enorme responsabilità sociale. Si trattava, comunque, di un problema dibattuto da tempo anche nel mondo greco, dove già si era aperta la discussione sulla questione della formazione necessaria all’oratore, se questi dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece indispensabile una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia.
Lo stesso Cicerone, del resto, aveva iniziato in gioventù, ma senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione, per il quale aveva largamente attinto alla quasi contemporanea Rhetorica ad Herennium. Un interesse particolare lo presenta il proemio, in cui il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi tra eloquentia e sapientia (cultura filosofica), quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore: l’eloquentia priva di sapientia (cosa tipica dei demagoghi e degli agitatori delle masse) ha portato più di una volta gli imperi alla rovina. Su questa soluzione, pensata esplicitamente per la società romana, Cicerone sarebbe tornato molti anni dopo, discutendo tematiche analoghe nel De oratore.
Cicerone pronuncia la sua invettiva contro M. Antonio davanti al Senato. Illustrazione di P. Dennis.
Responsabilità e formazione dell’oratore. | Il De oratore fu composto nel 55 a.C., durante un ritiro dalla scena politica, mentre Roma era in balia delle bande di Clodio e di Milone. L’opera, che è ambientata nel 91, al tempo dell’adolescenza dell’autore, è scritta nella forma di un dialogo a cui prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio (143-87 a.C.), nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (quest’ultimo, sostanzialmente, il portavoce dello stesso Cicerone autore).
Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più naïve e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel libro II si passa alla trattazione di questioni più analitiche. Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’actio (quasi «recitazione») dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica.
Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, l’Arpinate si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace della Repubblica. A scelta dell’anno 91 a.C. per l’ambientazione del dialogo, lungi dall’essere casuale, ha infatti un significato preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso (pochi giorni dopo quelli in cui si immagina avvenuto il dialogo) e precede di poco la Guerra sociale e la lunga lotta civile fra Mario e Silla, nel corso dei quali rimasero crudelmente uccisi gli altri interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi della res publica è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per conversare: la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza dell’imminente e terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri.
Il modello formale a cui il De oratore si ispira è quello de dialogo platonico: con gesto “aristocratico”, alle strade e alle piazze di Atene viene sostituito il giardino della villa di un nobile romano. La ripresa di questo modello per un’opera retorica, comunque, costituisce un notevole scarto rispetto agli aridi manuali greci del tempo e a quelli usciti dalla scuola dei cosiddetti “retori latini”, che si limitavano a enunciare regole: Cicerone ha saputo creare un’opera viva e interessante che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense (dalla vita romana e dal foro sono tratti quasi tutti gli esempi che servono a illustrare le teorie greche).
Quanto ai temi trattati, la tesi principale dell’opera consiste nell’affermare che il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore: è indispensabile una vasta formazione culturale. È la posizione di Crasso, il quale lega strettamente la preparazione soprattutto filosofica dell’oratore (nell’ambito della quale venga privilegiata la morale) alla sua affidabilità etico-politica. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere pro e contro su qualsiasi argomento, riuscendo a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un pericolo grave, qualora non siano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori tradizionali, in cui la gente “perbene” si riconosce. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati.
La formazione dell’oratore, dunque, viene in tal modo a coincidere con quella dell’uomo politico, un uomo di cultura non specialistica (gli uomini del ceto dirigente non dovevano esercitare alcuna professione: per queste c’erano i liberi di condizione inferiore), ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l’arte del dire e di persuadere i propri ascoltatori. Egli dovrà servirsi della sua abilità non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni: nel De oratore Cicerone ha esposto, in realtà, lo statuto ambiguo di un’ars continuamente oscillante fra la sapientia etico-politica e la nuda tecnica del dominio.
Nel 46 a.C. l’Arpinate (che, intanto, nel 54 aveva composto per suo figlio una sorta di manualetto scolastico, le Partitiones oratoriae, concepito in forma di domande e risposte) riprese le tematiche del De oratore in un trattatello più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare, delectare, flectere. A questi, a loro volta, corrispondono tre registri stilistici che l’oratore deve saper alternare: umile, medio ed elevato (o “patetico”) – quest’ultimo è particolarmente opportuno nella parte finale di ogni discorso (peroratio).
Abel de Pujol, Cicerone difende Q. Ligario davanti a Cesare o La clemenza di Cesare. Olio su tela, 1808.
Lo stile dell’oratore e le polemiche tra atticismo e asianesimo. | La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza atticista, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso sufficientemente le distanze dall’asianesimo. Tali accuse si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, al frequente ricorso alle figure retoriche, all’accentuazione dell’elemento ritmico, all’abuso di facezie. Gli avversari dell’Arpinate privilegiavano invece uno stile semplice, asciutto e scarno, di cui individuavano i modelli negli oratori attici e principalmente in Lisia. Sul contrasto Cicerone prese posizione proprio nel 46 a.C. nel dialogo Brutus, dedicato, come l’Orator, a Marco Giunio Bruto, uno dei più insigni rappresentanti delle tendenze atticiste.
Nell’opera l’autore, assumendo il ruolo di principale interlocutore – gli altri due sono lo stesso Bruto e l’amico Attico –, tratteggia una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico del testo, si comprende come la storia della retorica culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone (dal ripudio dell’asianesimo giovanile al raggiungimento della piena maturità dopo la quaestura in Sicilia).
L’ottica in cui l’Arpinate guarda al passato è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano tenacemente attaccati. E questa rottura rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria dell’autore: le varie esigenze, le diverse situazioni richiedevano l’uso di alternare registri differenti; il successo dell’oratore davanti all’uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la sua riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico dei loro discorsi, che di rado riescono efficaci: essi ignorano l’arte di trascinare l’ascoltatore. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello principe in Demostene: anche lui un “attico”, ma di tendenze ben diverse da quelle di Lisia o di Iperide.
Magistrato intento al census (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.
Per un’organizzazione della res publica: le opere politiche
Il turbolento periodo di aspre lotte che visse la Repubblica romana nei suoi ultimi decenni di vita trovò in Cicerone un protagonista di primo piano, impegnato nella difesa e nel puntellamento delle fondamenta dello Stato. Nell’ambito di questo sforzo, teso, se non a fermare, quantomeno a governare le profonde trasformazioni che premevano sulla società del tempo, si colloca la riflessione teorica che l’Arpinate riversò nelle sue opere di carattere più strettamente politico, il De re publica e il De legibus.
La forma di Stato migliore. | Nel De re publica Cicerone riprende sia nella forma sia nei temi l’omonimo dialogo di Platone, certamente fra le opere più significative e complesse del filosofo ateniese: scritto secondo una struttura dialogica, il trattato si compone di dieci libri in cui si esamina a fondo il tema politico della forma e del funzionamento dello Stato ideale, anche se gli argomenti discussi sono molteplici e di varia natura. Il dialogo è ambientato nella casa del padre di Lisia, dove vari interlocutori discutono con Socrate sulle diverse questioni. Cicerone, dal canto suo, lavorò lungamente al proprio De re publica, fra il 54 e il 51 a.C. In quest’opera egli riflette sulla forma di Stato più adatta e, a differenza di quanto aveva fatto il suo modello (che aveva cercato di costruire a tavolino uno Stato ideale), si proietta nel passato, per identificare la migliore costituzione con quella del tempo degli Scipiones.
La struttura del dialogo, che si immagina svolto nel 129 a.C. nella villa suburbana di Scipione Emiliano, è purtroppo di incerta e ipotetica ricostruzione, soprattutto in alcune sezioni, a causa delle condizioni estremamente frammentarie in cui l’opera è stata conservata: una parte cospicua fu ritrovata, agli inizi del XIX secolo, dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano; alcuni brani di altre sezioni sono stati trasmessi attraverso le citazioni di autori tardo-antichi come Agostino, mentre la sezione finale dell’opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, è giunta indipendentemente dal resto.
La teoria del regime “misto” esposta da Scipione nel I libro risaliva, attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico il Romano guarda con evidente antipatia, considerandolo soprattutto come una “valvola di sicurezza” per far scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. L’elogio del regime misto si risolve, pertanto, in un’esaltazione della res publica aristocratica di età scipionica.
Date le condizioni lacunose in cui è giunta la parte relativa dell’opera, è difficile precisare in che modo fosse delineata la figura del princeps e come essa si collocasse nell’organismo statale. Alcuni punti, tuttavia, possono ritenersi assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; in altre parole, Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del Senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quella che quasi un secolo prima aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Ciò significa che l’Arpinate non prefigura esiti “augustei” – anche se interpretazioni in questo senso non sono mancate –, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della costituzione repubblicana: non pensa a una riforma istituzionale, ma alla coagulazione del consenso collettivo intorno a leader prestigiosi. L’autorità del princeps non è alternativa a quella del Senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica.
Perché la sua autorità non travalichi i limiti istituzionali, dunque, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche” e principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso di disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai governanti (sulla questione Cicerone sarebbe poi ritornato nel De officiis, trattando della magnitudo animi). L’Arpinate, dunque, disegna così l’immagine di un governante-asceta, rappresentante in terra della divinità, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo Stato dalla propria despicentia («disprezzo») verso le passioni umane. L’ideale ciceroniano tuttavia era inevitabilmente di difficile realizzazione: come si è già avuto modo di ricordare, probabilmente proprio la convinzione dell’urgenza di un governo più autorevole e, d’altra parte, la consapevolezza dei pericoli che avrebbe comportato l’accentramento della potestas nelle mani di pochi capi spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo Magno e ai triumviri, nella speranza di convogliarne l’operato sotto il controllo del Senato. Ma gli eventi, che innalzavano i vari “signori della guerra”, avrebbero rapidamente portato alla dissoluzione dell’assetto repubblicano.
Scena di attività pubblica, con sacrificio e census. Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre
Le leggi dello Stato. | Ispirandosi ancora all’esempio platonico, Cicerone completò il discorso iniziato nel De re publica con il De legibus, un’opera sempre in forma dialogica (iniziata nel 52 e probabilmente pubblicata postuma) in cui si discute dei fondamenti del diritto e delle leggi, con riferimento alla tradizione giuridica quiritaria. Proprio in questo, ovvero nel basare la discussione sulla considerazione di un concreto corpus legislativo, risiede la differenza principale rispetto a Platone, che si era invece occupato di una legislazione utopistica, concentrando la propria riflessione sul problema dell’educazione dei cittadini e sull’organizzazione delle istituzioni.
Dell’opera ciceroniana si sono conservati i primi tre libri interi e alcuni frammenti del IV e del V. Mentre nel De re publica il dialogo si svolgeva in un’epoca passata, nel De legibus l’azione è collocata nel presente e interlocutori sono lo stesso Cicerone, suo fratello Quinto e l’amico Attico. L’incontro è ambientato nella villa di Arpinum, nei boschi e nelle campagne del circondario, raffigurati secondo una modulazione del motivo topico del locus amoenus (il modello qui è il Fedro di Platone). I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: così Quinto è rappresentato come un optimas estremista, Cicerone come un conservatore moderato e Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie scelte filosofiche.
Nel I libro Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini e, perciò, è data dalla divinità. Nel libro successivo l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore dei regimi si fonda – qui sta la differenza principale da Platone – non su una legislazione utopistica, ma sul mos maiorum, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel III libro Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.
M. Giunio Bruto. Denario, Ar. 54 a.C. Roma. Verso: Brutus. Un magistrato scortato da due littori e preceduto da un accensus.
Dolori privati e difficoltà politiche: le opere filosofiche
Cicerone, che in gioventù aveva seguito le lezioni di vari maestri, coltivò l’interesse per la filosofia per tutta la vita, ma a scriverne cominciò assai tardi – probabilmente soltanto verso il 46 a.C. –, con l’operetta Paradoxa Stoicorum, dedicata a Marco Bruto (un’esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’opinione comune). Dall’anno successivo i lavori filosofici dell’autore si fecero notevolmente più fitti e ciò in coincidenza con eventi molto dolorosi, che lo colpirono sia nella sfera privata sia in quella pubblica: nel febbraio del 45, infatti, gli venne a mancare la figlia Tullia (fatto che lo spinse a scrivere una perduta Consolatio per attenuare l’acutissimo dolore), mentre la dictatura di Cesare lo aveva ormai privato di qualsiasi possibilità di intervento negli affari pubblici. Furono queste difficili circostanze a spingere Cicerone verso una vita appartata e dedita alla composizione di opere maggiormente meditative e filosofiche.
All’avvio di questa nuova fase della sua vita risale significativamente l’Hortensius, un testo quasi interamente perduto (che, però, ebbe grande influenza in età imperiale e colpì molto Agostino), che esortava il lettore allo studio della filosofia sul modello del Protrettico di Aristotele. L’Arpinate, tuttavia, non concepì le proprie opere filosofiche come semplice momento di riflessione personale, ma certamente si prefisse anche lo scopo di presentare e offrire ai contemporanei una summa della tradizione filosofica greca, discussa e selezionata in rapporto alla concreta realtà romana.
Per quanto riguarda i temi e le finalità di tale impegno intellettuale, in queste opere Cicerone ripensa a tutto il corpus di metodi e di teorie sviluppato dalle scuole filosofiche ellenistiche e affronta vari aspetti della tradizione speculativa: la morale, la religione, la gnoseologia. Ogni volta l’approccio ciceroniano è di tipo soprattutto moralistico e non dimentica i doveri del cittadino nei confronti della collettività. L’autore intende infatti offrire un punto di riferimento etico-culturale alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non guarda pertanto solo ai problemi immediati, ma affronta questioni che coinvolgono i fondamenti stessi della crisi sociale, politica e morale, nel tentativo di escogitare soluzioni di lungo periodo. In questa prospettiva va collocata una caratteristica che accomuna e distingue le opere filosofiche ciceroniane: l’interesse a cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici, la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e di partecipazione politica.
In rapporto alle finalità appena indicate le opere filosofiche di Cicerone, benché – per sua stessa ammissione (Ad Att. XII 52, 3) – abbiano in gran parte carattere compilativo rispetto alle fonti greche, risultano tuttavia originali nella scelta dei temi e nel taglio degli argomenti: poiché nuovi e differenti sono i problemi che la società presentava, nuovi erano gli interrogativi che l’autore si poneva. L’obiettivo, in generale, appare quello di “ricucire”, per così dire, le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana.
Come già nelle opere retoriche e politiche, inoltre, anche nei trattati filosofici Cicerone adotta perlopiù la forma dialogica ispirata all’esempio platonico, anche se la maniera di esporre richiami in alcuni casi piuttosto lo stile di Aristotele, che, senza rinunciare del tutto al metodo dialettico, propone una lunga dissertazione e un personaggio che ne trae le conclusioni.
M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Madrid, Museo del Prado
L’eclettismo come metodo argomentativo-espositivo. | Prima di addentrarsi nello studio delle opere filosofiche ciceroniane, sembra opportuno mettere a fuoco la logica espositivo-argomentativa che le sorregge e le struttura. Quello del metodo seguito per trattare i problemi di maggiore rilievo rappresenta un tema fondamentale su cui lo stesso Cicerone si sofferma esplicitamente in un celebre passo delle Tuscolanae disputationes (5, 83): astenendosi dal formulare egli stesso un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse argomentazioni possibili e di metterle a confronto per verificare se alcune siano più coerenti e più probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce dunque alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo costruttivo.
La stessa ideologia dell’humanitas, alla cui elaborazione l’autore diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Ciò si riflette anche nella regia dei dialoghi filosofici ciceroniani, che, del resto, rispecchia i comportamenti della buona società romana: lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia, l’attenzione a non interrompere il ragionamento altrui. Sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”.
C’è, però, un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’Epicureismo. I motivi di tale avversione sono soprattutto due, fra loro strettamente connessi: in primo luogo, la filosofia del Giardino porta l’individuo al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; in secondo luogo, l’Epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (per quanto non ne neghi l’esistenza), indebolendo così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone resta la base imprescindibile dell’etica.
La ricerca morale. | Quanto allo studio e alla ricerca in ambito etico, l’Arpinate orientò sempre la propria riflessione e il proprio impegno su un doppio livello: da un lato, cercò di raccogliere e organizzare la vasta tradizione filosofica ellenica perché fosse più fruibile al pubblico romano e, dall’altro, puntò alla costruzione di un sistema valoriale adeguato alla società del proprio tempo, sul quale la classe dirigente (intesa, in senso più ampio, come consensus omnium bonorum) potesse operare di volta in volta le sue scelte concrete in rapporto alla realtà del momento. È questa la prospettiva da tenere costantemente presente per inquadrare le opere morali di Cicerone.
Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.
Teoria e pratica della morale. | Il centro della speculazione morale ciceroniana è costituito dalla volontà di determinare il sommo bene e dunque il fondamento della felicità; di conseguenza, stabilire le norme di comportamento adeguate al civis Romanus. Questa complessa riflessione, con cui Cicerone rielabora in parte il pensiero stoico, accademico e peripatetico, dispiega i suoi ragionamenti innanzitutto in due opere fondamentali e tra loro complementari: il De finibus bonorum et malorum e le Tuscolanae disputationes (entrambe del 45 a.C.).
Il De finibus, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni studiosi il capolavoro di Cicerone filosofo e certo è tra le sue opere più eleganti e armonicamente costruite. Il testo, diviso in cinque libri comprendenti tre dialoghi, tratta del problema del sommo bene e del sommo male, vagliando le posizioni di epicurei, stoici e accademico-peripatetici. Nel primo (libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione dell’autore; nel secondo (libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica con quelle accademiche e peripatetiche; nel terzo (libro V) è discussa la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore.
Il confronto fra i diversi sistemi di pensiero, che si esplica attraverso l’intero corpus dei dialoghi ciceroniani, trova nel De finibus uno sviluppo particolarmente esteso. Dopo che sono state confutate in modo netto e senza appello le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel III libro la difesa dello Stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione dell’autore, però, fu sempre di sostanziale perplessità (si pensi alla Pro Murena): Cicerone, dal canto suo, riconosceva che lo Stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la civitas, ma da un pensatore intransigente come Catone, o da un accademico dalla rigida morale come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti; il rigore etico di costoro gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che, dopo l’epoca delle grandi conquiste, era andata incontro a radicali trasformazioni.
Nel nuovo clima socio-culturale della Roma del tempo, l’eclettismo ciceroniano punta, sulla base teorica del probabilismo accademico, alla conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l’apertura a un piacere moderato di quelle peripatetiche. In quest’ottica, il sommo bene viene identificato, pur tra qualche incertezza e contraddizione, con il bene dell’anima che coincide con la virtù: è solo la virtù a poter garantire la felicità all’uomo.
L’organico quadro teorico costruito nel De finibus cerca quindi un’applicazione pratica nelle Tuscolanae: qui la virtù dovrà provare la sua capacità di sostenere e orientare l’anima nel concreto rapporto con i turbamenti alimentati dalla realtà esterna. L’opera, dedicata anch’essa a Bruto, è divisa in cinque libri e ha forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore (con la finzione di porre le varie questioni morali discusse dall’autore), la cui evanescente figura lascia prendere al testo piuttosto la forma di una lezione espositiva sulla traccia del dialogo aristotelico. La discussione è ambientata nella villa di Cicerone a Tusculum, donde il titolo dell’opera.
Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente, i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità: si è dunque di fronte a una grande summa dell’etica antica, a un vasto trattato sul tema della felicità, e in questo senso i vari libri costituiscono una trattazione organica che nel complesso si presenta come una terapia per liberare l’animo dalle sue afflizioni. Nell’opera, del resto, è possibile intravedere il tentativo di Cicerone di dare una risposta anche ai suoi personali interrogativi e una soluzione ai propri dubbi. Da ciò deriva la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati, che conferisce allo stile del discorso un’accorata solennità e fa raggiungere ad alcune pagine un’intensità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. In questo quadro si colloca l’ispirazione essenzialmente storica con cui l’autore affronta i suoi argomenti e che, nonostante la sua abituale tendenza a posizione eclettiche, segna in quest’opera il punto di massimo avvicinamento allo Stoicismo più rigoroso.
Le Tuscolanae hanno comunque anche un intento divulgativo che non va sottaciuto: nelle introduzioni ai singoli libri Cicerone indica infatti la necessità che i Romani acquisiscano un’ampia e adeguata cultura filosofica e la impieghino anche per orientarsi nella vita pratica. Non rinuncia inoltre ad accennare alla storia dell’introduzione della filosofia a Roma e allo sviluppo del pensiero fino a Socrate.
Napoli, Biblioteca Nazionale. Ms. IV. G. 31bis (1450-60 c.). Pagina miniata dalle Tuscolanae disputationes.
Una morale per la classe dirigente. | La stesura del De officiis, iniziata probabilmente nell’autunno del 44 a.C., venne conclusa molto rapidamente: mentre stava combattendo Antonio, colui che ai suoi occhi stava portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cercò nella filosofia i fondamenti di un progetto di più vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permettesse all’aristocrazia romana di riacquisire il pieno controllo della società. Ora Cicerone voleva impegnarsi in una riflessione conclusiva sulla possibilità di individuare riferimenti etici sicuri in una società travolta dal turbolento tramonto delle istituzioni tradizionali: il De officiis rappresenta quindi una sorta di testamento spirituale dell’autore. Non a caso l’opera, nonostante le pecche stilistiche ed espositive (verosimilmente legate alle difficili condizioni in cui fu composta), fu tra i testi ciceroniani che maggiore influenza ebbero nelle epoche successive.
Il testo, dedicato al figlio Marco, allora studente ad Atene, è un trattato di etica – considerata nei suoi risvolti pratici in rapporto all’azione politico-sociale – e comprende, dunque, anche una dettagliata precettistica sui comportamenti da tenere nelle più diverse circostanze. Il titolo usa un termine, officium (propriamente l’azione adeguata in rapporto a un ruolo preciso), che traduce la parola greca usata dagli stoici per definire l’azione perfetta e razionale, il καθῆκον («ciò che si conviene»): in questo senso, esso fa riferimento alla discussione sui doveri legati all’esercizio della virtù e quindi alle azioni opportune da compiere.
Il De officiis si compone di tre libri: nel primo si discute dell’honestum (termine che indica ciò che è moralmente giusto), nel secondo dell’utile e nel terzo del conflitto fra honestum e utile. Per i primi due libri la fonte è il trattato Sul conveniente del filosofo stoico Panezio di Rodi, mentre il terzo, probabilmente frutto di una personale rielaborazione di altre fonti (forse Posidonio di Apamea), nasce dalla necessità, sentita da Cicerone e ignorata da Panezio, di discutere i criteri per decidere in concreto sulle questioni etico-politiche più difficili e dubbie.
Panezio aveva impresso alla dottrina stoica una svolta in senso marcatamente aristocratico, cercando soprattutto di addolcirne l’originario rigorismo morale, affinché fosse praticabile da una classe dirigente ricca, colta e raffinata. Il suo Stoicismo moderato, dunque, offriva così, sotto molteplici aspetti, una base particolarmente adatta al discorso di Cicerone: da un lato, il pensiero paneziano era radicale nel rifiuto dell’edonismo epicureo (e della conseguente etica del disimpegno) e riusciva a rimanere rispettosa della tradizione e dell’ordine politico-sociale senza fanatismi; dall’altro, forniva anche la minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti, permettendo così al discorso ciceroniano di spostarsi facilmente dalla riflessione teoretica all’enunciazione di precetti validi per la vita di tutti i giorni. All’interno di questo specifico contesto speculativo, Cicerone considerava che le virtù fossero «parti dell’honestum», mentre i modi di conseguire potere e consenso da parte della classe dirigente attenessero all’utile. Il fine del ragionamento ciceroniano consiste appunto nel dimostrare come tra honestum e utile non ci sia contraddizione, bensì identità: il secondo è infatti ritenuto conseguenza diretta del primo.
Città del Vaticano, BAV. Ms. Pal. lat. 1534 (XV sec.), Ciceronis de officiis, f. 1r.
Un’etica dell’agire socio-politico. | Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio si distingueva per un giudizio assai più positivo sugli istinti, che dalla ragione non devono essere repressi, ma piuttosto corretti e disciplinati in modo che essi si sviluppino progressivamente in virtù vere e proprie. Sulla base di questo quadro teorico di riferimento, all’inizio del De officiis (I 15) l’autore afferma che l’honestum scaturisce da quattro possibili fonti, ovvero si compone di quattro parti fra loro collegate che consistono nella ricerca della verità, nella protezione della società, nel desiderio di primeggiare, nell’aspirazione all’armonia (secondo una classificazione che corrisponde in pratica alle tradizionali virtù cardinali stoiche di sapienza, giustizia, fortezza e temperanza). Si tratta di tendenze naturali insite nell’uomo, che, se ben indirizzate dalla ragione, daranno origine a specifici comportamenti virtuosi, in quanto ciascuna delle quattro parti dell’honestum è fonte di specifiche categorie di doveri.
Gli uomini sentono per natura una spinta alla ricerca del vero, che è la fonte da cui si origina la sapientia. Si tratta tuttavia di una tendenza da gestire con accortezza affinché sia orientata sempre all’azione concreta: lo studio e la ricerca fini a se stessi allontanano infatti dalla vita pratica, mentre il merito della virtù consiste proprio nell’azione.
Il desiderio di proteggere la società trova la sua corretta realizzazione in due principi complementari: la iustitia e la beneficentia. La prima, cui spetta di «dare a ciascuno il suo», opera tutelando la proprietà privata, ovvero il fondamento stesso degli Stati e delle comunità cittadine, sorti perché ogni individuo possa meritarsi e mantenere il suo (II 73). Questo tema era di scottante attualità: dalle riforme dei Gracchi alle confische di Silla e di Cesare fino allo stesso anno 44 a.C. in cui Cicerone metteva nero su bianco queste parole (quell’anno Antonio aveva presentato una legge per distribuire l’ager publicus tra i veterani e i cittadini fedeli alla causa cesariana), la questione della proprietà si riproponeva ormai con frequenza inquietante per i ceti possidenti, mentre programmi di riforma agraria o di abolizione dei debiti suscitavano inevitabilmente il plauso delle classi popolari su cui faceva leva chiunque aspirasse al potere. Pertanto, il venir meno della iustitia e, dunque, l’affermarsi dell’iniustitia, indeboliva le basi stesse della società. A questo proposito Cicerone distingueva due forme di iniustitia, una attiva e l’altra passiva: se la prima consiste in un’aggressione intenzionale al diritto mossa da avaritia («avidità»), la seconda è legata al disinteresse e al disimpegno verso la comunità.
In questo contesto socio-politico la beneficentia, ovvero la capacità di donare il proprio collaborando positivamente al benessere collettivo, poteva costituire un valore rimanendo entro limiti precisi, altrimenti comportava indubbiamente gravi rischi. Troppe volte, infatti, si era visto come la corruzione delle masse mediante largitio («elargizione», «donazione»), o in generale attraverso proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare della res publica un proprio possesso privato. Perciò, Cicerone sottolinea con forza che la beneficentia non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.
L’istinto naturale a primeggiare sugli altri si manifesta nella capacità di imporre il proprio dominio: da questa tendenza, comunque, può derivare la virtù della magnitudo animi («grandezza di spirito», «magnanimità»), che, secondo il pensiero paneziano, sostituiva la virtù cardinale della fortezza. Il controllo della ragione, svuotando la volontà di predominio di quanto in essa c’è di egoistico e tendenzialmente prevaricatorio (si pensi a quanto spiegato nel Somnium Scipionis), trasforma questo istinto in una virtù capace di mettersi al servizio degli altri per contribuire attivamente a rendere la patria ancora più grande e gloriosa. Viceversa, se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all’anarchia o alla tirannide. In ciò è evidente la volontà di Cicerone di sottoporre a forti vincoli una virtù che, se non adeguatamente imbrigliata, può divenire la passione specifica della tirannide e ritorcersi contro la res publica (e, di conseguenza, l’egemonia senatoria): mentre Cicerone scriveva, l’esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi di tutti.
Nel sistema etico del De officiis il regolatore generale degli istinti e delle virtù, ciò che permette loro di integrarsi in un tutto armonico, è costituito dalla virtù della temperanza, che deriva da una naturale aspirazione all’ordine: all’esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta in un’apparenza di appropriata armonia di pensieri, di gesti, di parole, che assume il nome di decorum. Si tratta di una meta raggiungibile solo da chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. L’autocontrollo che l’autore caldeggia persegue del resto un fine ben determinato: l’approvazione degli altri, che il decorum permette di conciliarsi con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione a ciò che gli altri possano pensare, la preoccupazione di non urtarne la suscettibilità sono un portato necessario della fitta rete di obblighi sociali in cui a Roma si trovano inseriti i membri degli ordines superiori.
Una delle novità più interessanti del modello etico proposto è il fatto che il concetto di decorum permetta la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dall’individuo ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali e morali di ognuno: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i propri doveri verso la civitas. Questo pluralismo di modelli di vita ammesso dall’ultimo Cicerone rispecchia, evidentemente, le diverse vocazioni e attività di quei boni di tutta l’Italia di cui egli aveva incominciato a parlare fin dalla Pro Sestio. La filosofia prende dunque atto dei mutamenti intervenuti nel frattempo e s’incarica di ritessere la trama dei valori, di modificare e rendere più duttile il modello etico tradizionale per integrarvi le nuove figure emergenti.
Come si accennava, Cicerone accompagna questa riflessione teorica a una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con gli altri: il De officiis comprende così osservazioni dettagliate sui gesti e la postura del corpo, sulla toilette e l’abbigliamento, la conversazione e persino la casa dell’aristocratico romano. In questo modo l’Arpinate dava inizio a una traduzione di “galateo” destinata ad avere grande fortuna nella cultura occidentale.
Paul Barbotti, Orazione di Cicerone davanti alla tomba di Archimede. Olio su tela, 1853.
Fra malinconia e speranza. | Un posto a parte fra le opere filosofiche di Cicerone occupano due brevi dialoghi dedicati ad Attico: il Cato maior sive de senectute e il Laelius sive de amicitia. Entrambi composti nel 44 a.C. e incentrati su celebri personaggi del passato, i due testi, che trattano rispettivamente della vecchiaia e dell’amicizia, esprimono due diversi stati d’animo dell’autore: il primo, dall’atmosfera più dimessa e pensosa, è infatti scritto poco prima dell’assassino di Cesare, mentre il secondo, dal tono più energico, subito dopo.
Al Cato maior Cicerone lavorò all’inizio del 44: nel personaggio di Marco Porcio Catone “il Censore” (portavoce dell’autore) l’Arpinate trasfigura l’amarezza per una senilità che, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, comporta soprattutto la perdita della possibilità di intervento politico. In questo testo, che è ambientato nel 150 (l’anno della scomparsa di Catone), l’autore, proiettandosi nella figura di un anziano che conserva autorità e prestigio, si rifugia nel passato per vestire i panni dell’antico Censore ed eludere così, idealmente, la propria condizione di forzata inattività pubblica.
La rappresentazione ciceroniana di Catone risulta differente rispetto alla sua immagine storicamente accettabile: il personaggio appare infatti come addolcito e ammansito. Il rude agricoltore della Sabina, caparbiamente attaccato ai propri profitti, ha ceduto il posto a un raffinato cultore dell’humanitas e della buona compagnia che, con una punta di estetismo, arriva perfino ad anteporre il bello all’utile. Nella vecchiaia catoniana tratteggiata nel dialogo si armonizzano così in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che l’autore ha cercato invano di conciliare per tutta la vita.
Diversa l’atmosfera che si respira nel Laelius, in cui Cicerone appare più combattivo: l’opera, verosimilmente composta all’indomani del cesaricidio, accompagna infatti il rientro dell’Arpinate sulla scena politica. Il dialogo è ambientato nel 129 a.C. (lo stesso anno del De re publica), pochi giorni dopo la misteriosa scomparsa di Scipione Emiliano nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’amico defunto, Gaio Lelio, colto e raffinato uomo politico del II secolo, legato a Scipione dall’assidua frequentazione e dalla solidarietà politica, ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell’amicitia stessa. Per i Romani essa era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria del regime aristocratico, il dialogo muove, tuttavia, sulla traccia delle scuole filosofiche elleniche, alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici.
La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale di questo genere di rapporti al di là della ristretta cerchia della nobilitas: a fondamento dell’amicitia, infatti, sono posti valori come quelli rappresentati dalla virtus e dalla probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione. Cicerone scrive per quella “gente perbene” alla cui centralità politico-sociale ha affidato da tempo le sorti del proprio programma di rigenerazione della res publica. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui proprio l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve dunque servire a cementare la coesione dei boni. Quella auspicata nel Laelius non è soltanto un’amicizia politica: si avverte, in tutta l’opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, poté forse provare solo con Attico.
Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Res publica e religio. | Di argomenti religiosi trattano tre opere – anche queste scritte in forma dialogica – che formano una sorta di trilogia (è, del resto, l’autore stesso a presentare le ultime due come prosecuzione e complemento della prima): il De natura deorum, in tre libri, dedicato a Bruto; il De divinatione, in due libri; il De fato, giunto incompleto. Questo gruppo di testi mostra nel suo complesso una riflessione di ampio respiro su temi di carattere religioso, spirituale e teologico, che, occupando l’autore nel difficile periodo fra il 45 e il 44 a.C., implicano anche inevitabili risvolti etico-politici. La prospettiva da cui sono affrontati i vari argomenti è del resto chiara: sebbene non manchino intenti di carattere divulgativo, i problemi religiosi interessano Cicerone soprattutto per i loro risvolti sulla concreta vita civile. Egli infatti considera la religione una componente fondamentale dell’assetto istituzionale della res publica.
Il De natura deorum è un dialogo che si immagina svolto (probabilmente nel 77/6 a.C.) tra Gaio Velleio, Lucio Balbo e Aurelio Cotta (nella cui casa è ambientata la discussione, alla presenza di un giovanissimo Cicerone). Vengono esaminate varie posizioni filosofiche relative alla natura degli dèi, che sono così presentate per questa via al pubblico romano: nel I libro Velleio espone la tesi epicurea (poi confutata da Cotta) dell’indifferenza delle divinità rispetto ai casi umani; nel II libro Balbo prende in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale; nel III libro Cotta critica la posizione di Balbo e sembra schierarsi in favore dello scetticismo accademico. Cicerone, alla fine dell’opera, manifesta molto laconicamente una preferenza per la tesi stoica di Balbo, che dice di ritenere più verosimile (su quale sia nell’opera l’effettiva posizione dell’autore, anche a causa della lacunosità del III libro, resta un problema critico ancora parzialmente aperto).
Più interessante, anche perché più direttamente legato alla situazione romana, è il De divinatione, un dialogo in due libri immaginato fra l’autore stesso e suo fratello Quinto, a proposto all’arte divinatoria. Nell’opera, che rappresenta una fonte importante per la conoscenza di molte pratiche cultuali del mondo antico, Cicerone si mostra esitante fra la denuncia della falsità della religio tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti sociali subalterni, facilmente strumentalizzabili per via della loro credulità (per esempio, la dichiarazione di auspicia sfavorevoli poteva servire a interrompere o a rimandare assemblee di carattere politico). L’opera fu verosimilmente iniziata prima della morte del dictator, ma completata in seguito: il proemio del II libro, infatti, testimonia l’entusiasmo dell’autore per la ritrovata libertà e la possibilità di un suo rientro attivo sulla scena pubblica, nonché la fiducia per un rinnovamento etico-politico della classe dirigente.
Il De fato discute la dottrina stoica, secondo cui il fato è il destino inevitabile, prestabilito da quel λόγος divino che ordina e sorregge il mondo. Il discorso coinvolge la questione della libertà dell’uomo e della sua responsabilità rispetto alle azioni che compie; Cicerone cerca di confutare le tesi stoiche e di dimostrare la possibilità per gli individui di fare scelte libere e consapevoli: in questi temi si avverte il clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare e la conseguente volontà dell’autore di stimolare una presa di coscienza nel lettore circa le possibilità di intervenire attivamente e positivamente nella gestione della res publica.
Scena di sacrificio. Bassorilievo da altare, I sec. d.C. Stockholm, Antikengalerie Opferszene.
Una lingua per la filosofia: Cicerone forgiatore di lessico e stile. | Accingendosi a comporre il proprio poema ispirato alla filosofia epicurea, anche Lucrezio aveva lamentato l’inadeguatezza della lingua latina a “rendere” la terminologia filosofica dei Greci. Dal canto suo, pure Cicerone si trovò di fronte a problemi molto analoghi per la stesura dei propri testi; e, al pari del poeta, scelse una linea purista per risolvere la questione: evitare i grecismi. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini ellenici, le cui incertezze e difficoltà sono talora attestate nelle lettere ad Attico (si pensi, per esempio, al caso di καθῆκον, che Cicerone si risolse, dopo lunghe perplessità, a rendere con officium; o, per dire della terminologia retorica, ai vari tentativi di individuare un equivalente latino di περίοδος).
Il risultato di questa sperimentazione fu l’introduzione nel latino di molti neologismi: Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea; per esempio, qualitas, che traduce il greco ποιότης, quantitas per ποσότης, essentia per οὐσία, ecc.
L’attenta scelta delle parole era di importanza estrema per il raggiungimento della chiarezza espositiva; ma il contributo senz’altro più notevole dell’Arpinate all’evoluzione della prosa occidentale fu la creazione di un periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello – fin dalle orazioni – egli trovò in Isocrate e in Demostene.
Dato il sempre presente modello retorico, l’esigenza dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: ma il periodo ciceroniano è in genere anche una rigorosa architettura logica. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: in altre parole, la sostituzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione). A una perfetta capacità di dominio della sintassi si deve la possibilità di organizzare i periodi lunghi e complessi, eppure sempre lucidi e coerenti, di cui abbondano le pagine ciceroniane.
Se questi sono i tratti che meglio definiscono il profilo esterno della costruzione ciceroniana del discorso, uno degli aspetti che più colpiscono il lettore è la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) viene adeguatamente (secondo il canonico principio greco del πρέπον, cioè il decorum, l’«opportuno», il «conveniente») impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere.
A ogni livello di stile, a ogni diverso registro espressivo, corrisponde una collocazione delle parole adeguata, un’opportuna sonorità fatta di armonia e di euritmia (l’ornatus suavis et affluens trova il suo punto di forza nella forma e nel sonus delle parole); soprattutto, la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla prosa (Cicerone sosteneva a ragione di aver dedicato più attenzione a questo aspetto del discorso di quanto non avesse fatto la trattatistica greca), in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e, invece, il discorso piano un’intonazione più familiare.
La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi (per esempio, il dattilo e il peone per il tono sostenuto oppure l’andamento giambico per il tono discorsivo e familiare). Della varietà efficace e abilissima delle clausolae ciceroniane basti sapere, comunque, che nella “prosa periodizzata” Cicerone seppe tenersi lontano dagli eccessi “asiani” di Ortensio e più vicino, in ultima analisi, al modello di Isocrate, che all’arte del periodare ampiamente costruito aveva saputo affiancare l’uso di brevi proposizioni “numerose” in serie.
London, British Library. Harley MS 647 (c. 820-840), f. 8v. Pagina dagli Aratea di Cicerone, illustrata con un calligramma (ante litteram), raffigurante la costellazione del Canis Maior, e l’excerptum degli Astronomica.
Le opere poetiche: l’importanza storica di un talento discutibile
«Con l’andare del tempo – scrive Plutarco nella Vita di Cicerone – egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma […], ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata». Sembra dunque che solo Cicerone si illudesse sulla propria vena poetica: già i contemporanei gli concessero poco apprezzamento e le generazioni successive lo ignorarono del tutto: Marziale (Epigrammi II 89, 3-4) ne avrebbe fatto un paradigma di velleitarismo fallimentare: «Tu componi versi senza alcuna ispirazione delle Muse, senza alcuna assistenza di Apollo. Bravo! Hai in comune questa virtù con Cicerone!». Non è probabilmente un caso, dunque, che della produzione poetica ciceroniana siano rimasti solo pochi frammenti e perlopiù citati dallo stesso autore nelle sue opere in prosa.
In gioventù l’Arpinate compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico come Glaucus, in tetrametri trocaici, e Alcyones; il Limon, probabilmente un’opera miscellanea, conteneva fra l’altro una raccolta di giudizi in versi su poeti. Queste prime prove, varie per metro e per argomento, farebbero pensare a Cicerone addirittura come una sorta di precursore dei neoterici, incline a un certo sperimentalismo artistico, anche se non propriamente un “callimacheo”: un poeta di tipo ellenistico, insomma, ma non molto lontano da quella che era stata la poetica di Lucilio.
Ben presto i suoi gusti dovettero farsi più tradizionalistici (vincolandosi soprattutto al modello arcaico di Ennio) fino all’ostilità più o meno aspra verso i “poeti moderni” (neoteroi, o poetae novi, appunto). A questa seconda fase della produzione poetica ciceroniana appartengono i poemi epici Marius, che cantava le gesta dell’altro grande arpinate (opera probabilmente ancora del periodo giovanile), De temporibus suis, cui Cicerone accenna in alcune lettere, e De consulatu suo, in tre libri, composto intorno al 60 a.C. per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina (un ampio brano di questo poema è stato conservato dallo stesso autore nel De divinatione). Quest’ultima fu l’opera più sbeffeggiata dell’Arpinate sia dai contemporanei sia dalla critica letteraria del I secolo d.C. (soprattutto per le stucchevoli lodi di cui l’autore era prodigo verso se stesso e il proprio operato in qualità di magistrato). Due versi in particolare restano celebri per l’irrisione che suscitarono: cedant arma togae, concedat laurea laudi («S’inchinino le armi di fronte alla toga, l’alloro del trionfo s’inchini al merito civile»), in cui Cicerone contrapponeva le proprie glorie consolari agli allori dei comandanti militari, e o fortunatam natam me consule Romam! («O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato!»), che fu poi citato ancora da Giovenale come simbolo di una superbia sciocca e ridicola.
Fra queste due fasi è probabile che si debba collocare gli Aratea, traduzione in esametri degli eruditissimi Fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.). Si tratta di un poemetto didascalico di argomento astronomico che suscitò grandissimo interesse nell’antichità e che venne tradotto anche da Germanico (15 a.C.-19 d.C.) e Avieno (IV sec. d.C.). È questa l’opera poetica più fortunata di Cicerone, l’unica della quale rimangano porzioni di una certa estensione. In essa si nota il ricorrere di un andamento grandioso e magniloquente, che nello stile solenne richiama la poesia alta di Ennio e Lucrezio.
Comunque, nonostante i non felicissimi risultati della sua poesia, l’influenza di Cicerone versificatore non dovette però essere insignificante, almeno per gli aspetti tecnico-artistici: egli infatti contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesure nel verso e specializzazione di alcune forme metrico-verbali in clausola). Dai suoi esercizi poetici l’esametro uscì più elegante e duttile e, nel ritmo, più vivace e non troppo distante dalla strutturazione che avrebbe poi assunto in età augustea.
L’esempio ciceroniano fu probabilmente determinante per quel che riguarda la conquista di una maggiore libertà espressiva nella disposizione delle parole e per la spinta impressa al discorso oltre i rigidi confini del verso, attraverso lo sviluppo dell’uso dell’enjambement. Pur senza raggiungere gli effetti espressivi del mobilissimo esametro augusteo, quello ciceroniano riuscì a conquistarsi una struttura metrico-sintattica molto meno “immobile” di quella di stampo arcaico. Non a caso echi ciceroniani, soprattutto dagli Aratea, si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio e Ovidio.
Ritratto virile. Busto, marmo, I sec. a.C. ca. Wien, Kunsthistorisches Museum.
Il “vero” Cicerone: l’epistolario
Per la conoscenza della personalità dell’autore si dispone di uno strumento di impareggiabile valore: si è infatti conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti, insieme ad alcune lettere di risposta di questi ultimi. Nella forma in cui è stato tramandato, l’epistolario ciceroniano si compone di circa novecento testi, suddivisi in quattro grandi raggruppamenti in base al destinatario: i sedici libri di Ad familiares, i sedici delle Ad Atticum, i tre libri Ad Quintum fratrem e due libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa).
I documenti pervenuti abbracciano gli anni dal 68 al 43 a.C. (mancano tuttavia lettere dell’anno del consolato) e furono pubblicati in una data incerta ma successiva alla morte dell’autore (forse, almeno le Ad familiares, a cura del fedele liberto Tirone). Sebbene queste epistole non siano nate con lo scopo della pubblicazione, Cicerone aveva comunque pensato nel 44 alla possibilità di divulgarne una selezione, ma la morte glielo impedì.
Il ricco epistolario ciceroniano comprende testi di vario genere ed estensione: biglietti vergati frettolosamente, vivaci resoconti degli avvenimenti politici, lettere elaborate che sembrano brevi trattati, alcuni scritti, rivolti ai corrispondenti più importanti, probabilmente concepiti come “lettere aperte” destinate forse a una qualche circolazione. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia peraltro in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi personali, a volte sostenuto e impegnato.
Si tratta – è bene sottolinearlo – di lettere vere: quando le scrisse, l’autore non pensava a una loro pubblicazione (come sarebbe stato invece nel caso dell’epistolario di Seneca); perciò queste lettere mostrano un Cicerone “vero” e “reale”, non ufficiale, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena, a volte poco edificanti, della sua azione politica, i dubbi, le incertezze e le esitazioni frequenti, gli alti e bassi del suo umore.
Il carattere di epistolario “reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni talora “cifrate” (di qui, per i moderni, gravi difficoltà di interpretazione), abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato di parole pittoresche, come curiosi diminutivi (per esempio, aedificatiuncula, ambulatiuncula, diecula, vulticulus, integellus, ecc.) e ibridi greco-latini (tocullio, «strozzino», dal greco τόκος, «interesse»). È una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma.
Non va dimenticato, infine, l’eccezionale valore storico dell’epistolario ciceroniano, che, a volte, quasi come un moderno quotidiano, permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti. Grazie a questo documento, l’epoca in cui l’autore visse è quella che è meglio nota di tutta la storia antica; a ragione, pertanto, Cornelio Nepote (Vita di Attico, 16) poté parlarne come di una vera e propria historia contexta eorum temporum («monografia storica di quei tempi»).
da G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 639-642; cfr. F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1. Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 730-731.
Catullo riprende il tema della morte del fratello (già affrontato nei carmina 65 e 68) e ne fa un’elegia sepolcrale, in cui i moduli stilistici attinti alla lunga e consolidata tradizione dell’epigramma funerario si coniugano a una ferale mestizia, a una composta solennità, a un’accorata intensità che nulla hanno di convenzionale, ma che fanno anzi superare a questa lirica tutti i limiti imposti dal genere letterario e dall’inevitabile confronto con i modelli (sopra tutti, il componimento di Meleagro per Eliodora, contenuto nell’Antologia Palatina).
Nel 57 a.C., durante il viaggio in Bitinia al seguito del propretore Gaio Memmio, Catullo visita il sepolcro del fratello, scomparso precocemente qualche anno prima nella Troade: al mesto rituale funebre dell’offerta votiva, al pianto e alla «corrispondenza d’amorosi sensi», che Catullo intreccia con la «cenere muta» del defunto, si accompagna una meditazione sconsolata sul destino umano e sulla morte, dalla quale emerge l’amara consapevolezza dell’inutilità del rito e insieme della sua insopprimibile necessità per chi resta; esso, infatti, se, da una parte, separa gli uomini, dall’altra, non ne lacera i legami affettivi. Da questo contrasto tra la disillusione del celebrante e il tenue conforto che comunque l’atto liturgico concede scaturisce il fascino (e la fortuna letteraria) di questo componimento.
eccomi giunto, fratello, per portarti queste misere offerte funebri,
perché io ti doni un tardivo omaggio di morte
e parli invano alla muta cenere.
Dal momento che la sorte ti ha portato via da me,
ah, povero fratello, ingiustamente te mi ha strappato.
Ora, tuttavia, nell’attuale situazione, queste offerte che, secondo l’antico
costume degli antenati sono portate con triste tributo per l’offerta,
ricevi abbondantemente grondanti di fraterno pianto,
e addio, fratello, addio per sempre!
Un rito funebre tardivo (e vano) | Nel primo distico, il viaggio in Oriente si configura come un interminabile peregrinare finalizzato unicamente alla ricerca della tomba del fratello. Alla solenne intonazione del v. 1 si contrappone la semplicità delle offerte (has miseras… ad inferias), che dopo tanta fatica finalmente sono recate al defunto – la loro sostanziale inutilità è uno dei motivi centrali di questo carmen. Il secondo distico specifica i due atti liturgici che costituiscono il rito: il dono dell’offerta funebre (v. 3) e l’appello rivolto al defunto per invitarlo a goderne (v. 4); ma Catullo è ben consapevole dell’illusorietà del rito: l’allocuzione al fratello non è che un monologo con le sue ceneri mute (mutam nequiquam…).
Pathos sotto controllo | Il distico centrale (vv. 5-6) apre uno squarcio emotivo, l’espressione patetica del lutto. La ripetizione dell’azione violenta della sorte (abstulit, adempte), che «ha strappato» a Catullo il fratello, sottolinea come la morte abbia reciso ogni possibilità di comunicazione tra loro. Ma proprio quando l’effusione patetica sembra sul punto di spezzare l’iniziale compostezza, Catullo riprende il controllo di se stesso e si richiama alla necessità di compiere il rituale, pur nella sua inanità; segna il passaggio l’accumulo dei tre avverbi che aprono il v. 7 (nunc tamen interea), in funzione fortemente avversativa. L’esecuzione del rito si conclude con la pacata mestizia della formula d’addio (aue atque uale).
La struttura bilanciata del carme, che incornicia al centro (vv. 5-6) il momento di più forte scarto emotivo, tra due blocchi simmetrici di due distici ciascuno, dedicati al mesto rituale (vv. 1-4) e alla sua ripresa (vv. 7-10), contribuisce all’effetto di pathos misurato.
L’incipit solenne e il «cenere muto» | Il primo verso è studiatamente solenne (vi contribuisce in misura determinante l’allusione omerica all’incipit dell’Odissea) e suscita un’attesa che contrasta pateticamente con l’inanità del rito funebre.
Nel secondo distico entra in scena il tema delle ceneri fraterne (nel sonetto In morte del fratello Giovanni, Ugo Foscolo avrebbe scelto di rendere il nesso catulliano al maschile, per riprodurre il medesimo scarto del latino, poiché in italiano «cenere» è normalmente femminile).
Un omaggio alla tradizione, senza grande convinzione | Al v. 5 inizia la sezione in cui Catullo si rivolge al fratello e, sebbene con la consapevolezza di rivolgersi a una muta cenere, si dispone comunque al rito tradizionale imposto dal mos maiorum (prisco… more parentum, v. 7): emerge, dunque, uno scarto fra l’individualità di Catullo e i valori della collettività, che il poeta rispetta senza però esserne pienamente rassicurato.
Come un epigramma sepolcrale | Pur non rientrando a pieno nel genere dell’epigramma sepolcrale, il carme ne riecheggia formule e movenze. L’avverbio indigne («ingiustamente», v. 6) è comune nelle epigrafi funerarie in relazione a casi di morte violenta o prematura. Al lessico dell’epigramma sepolcrale appartengono anche mutam… cinerem (v. 4), more parentum (v. 7), tristi munere (v. 8). Ma è soprattutto nel finale che, dopo il pathos del v. 9 (con l’iperbato allitterante fraterno… fletu ad abbracciare multum manantia, anch’esso allitterante), Catullo cerca la sobrietà della nuda formula di commiato ai defunti, attestata nelle epigrafi funerarie: aue atque uale.
Pur atteggiandosi nelle linee esteriori come fosse un epigramma funerario, il carmen 101 di Catulo non è concepito come un’iscrizione sepolcrale. Solo i due distici finali (vv. 7-10) conservano in qualche modo la parvenza esterna dell’epitaffio, là dove si menzionano le offerte tradizionali recate in dono sulla tomba e si usa la formula di saluto rivolta al morto: in perpetuum… aue atque uale (v. 10).
Il poeta ha trasformato una forma tradizionale in un componimento intimo e fortemente personale, che ha il tono del lamento elegiaco, il genere letterario che in Grecia, prima di diventare una forma poetica destinata a cantare le pene d’amore, aveva avuto origine nel compianto riservato al lutto familiare. O almeno, per l’esattezza, era questo il convincimento che gli elegiaci latini (e più tardi i grammatici) si fecero del significato di «elegia», inventando un’etimologia che da εὖ λέγω («dir bene» del defunto) o da ἤ ἤ λέγω («esclamare ohi, ohi», cioè «lamentarsi»), o anche da ἐλεέω («commiserare») – anche se la parola «elegia» originariamente designava soltanto la struttura metrica (distico formato da un esametro seguito da un pentametro) senza alcun riferimento specifico ai contenuti, che potevano essere i più disparati. Comunque, è certo che i Latini, una volta ereditato il distico, finirono per associare all’elegia una nota predominante di canto doloroso (flebiles elegi, «i versi elegiaci pieni di pianto»).
Il compianto di Catullo vuole essere sostanzialmente un omaggio al fratello. La tomba che ora viene visitata dal poeta è lontana da casa: si trova nella Troade, dove pure giacciono i resti mortali degli eroi cantati da Omero. Il primo verso, come si è detto, allude chiaramente all’esordio dell’Odissea; in questo modo, cioè proiettando il modello epico sul proprio testo e associando il ricordo di esso alle sue nuove parole, Catullo fa di se stesso quasi una replica di Odisseo e, di conseguenza, in un certo senso, può includere il fratello nello stesso destino di morte eroica che era toccato ai guerrieri omerici.
Nell’Eneide anche Virgilio non avrebbe, poi, mancato di cogliere l’allusione di Catullo a Omero. Quando, infatti, nel VI libro del poema virgiliano l’anima di Anchise accoglie il figlio Enea, che è sceso nel regno dei defunti per avere indicazioni sul proprio destino, lo accoglie come uno che ha appena concluso un lungo viaggio tormentoso, vale a dire come un secondo Ulisse, navigatore esule. E, per dire questo, Anchise si serve quasi delle stesse parole di Catulo, facendo riemergere in tutta chiarezza il modello epico arcaico: Quas ego te terras et quanta per aequora uectum / accipio… («Trasportato per quali terre e per quali mari, / io t’accolgo…», Aen. VI, vv. 692-693).
Dietro il testo virgiliano sta il ricordo del componimento catulliano: il poeta che si era fatto navigatore per visitare la tomba lontana del fratello; ma dietro il carmen di Catullo si affaccia anche il modello eroico dell’Odissea. Virgilio ha costruito il suo testo nuovo arricchendolo di antiche “citazioni”, che sono riconoscibili sotto la superficie delle parole e che invitano i suoi lettori all’emozione di dotte memorie. La letteratura, da Omero attraverso Catullo fino a Virgilio, diventa come un grande corpo in crescita continua.
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Note:
[1]Multas… uectus: nel primo verso si avverte l’eco del celebre incipit dell’Odissea («Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto / vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia: / di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, / molti dolori patì sul mare nell’animo suo, / per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni») e come quello si ha un incedere epico e maestoso, sottolineato dalla posizione a fine verso del participio uectus (dal verbo ueho), dal doppio per e soprattutto dal poliptoto multas… multa, nonché dalla collocazione di questi due aggettivi all’inizio e alla metà esatta del verso. Tra l’altro, il participio uectus («trascinato, sbattuto») suggerisce l’idea di passività del soggetto, «sballottato» fra i disagi di un lungo viaggio.
[2]aduenio… inferias: secondo la maggior parte dei commentatori, aduenio ha un valore perfettivo o resultativo («eccomi giunto»), da cui dipenderebbe l’uso dei congiuntivi imperfetti anziché presenti nella doppia finale che segue; ad inferias (sottinteso ferendas) è un’espressione che ha valore, appunto, finale, cioè specifica il motivo del viaggio e fa riferimento alle libagioni rituali (di vino, miele, latte, fiori o sangue sacrificale) che si presentavano alla tomba del defunto come offerta ai suoi Mani; la parola inferiae non è connessa agli dèi inferi, ma al verbo (in)fero (cfr. Festo 99, 26 Lindsay: inferiae sacrificia quae dis Manibus inferebant); miser è un epiteto stereotipato in riferimento alla sfera della morte, ma qui, associato al rito compiuto lontano dalla patria dal solo Catullo, assume anche una connotazione di compassione e di desolato squallore.
[3]Postremo… munere mortis: «l’ultimo dono di morte», ovvero dovuto alla morte; munere, allitterante con mortis, è retto da donarem, qui costruito con l’accusativo della persona a cui si dona (te) e l’ablativo della cosa donata. Il munus mortis è il «tributo funebre», definito postremum, cioè «ultimo, estremo», ma anche «tardivo», poiché da tempo il fratello era morto, e nessuno aveva ancora compiuto il rituale richiesto dalla tradizione romana.
[4]Mutam… cinerem: cinis, di norma maschile, è qui usato al femminile, esemplato sul corrispondente termine greco κόνις (un preziosismo neoterico tipico di Catullo e di Calvo); l’iperbato che separa cinerem dal suo attributo mutam contribuisce ad accrescere sia la desolazione di questo aggettivo sia il senso vanificante del vicino avverbio nequiquam.
[5]quandoquidem… mihi: quandoquidem è una congiunzione arcaica di uso prosastico, conservata nella poesia dattilica per comodità metrica; mihi tete: da notare l’accostamento tra i due pronomi personali (di cui il secondo è raddoppiato e rafforzato), nel quale si può scorgere una visualizzazione dello stretto vincolo affettivo tra il poeta e suo fratello; l’avverbio indigne esprime l’ingiustizia della precocità della scomparsa; non sfuggano il forte pathos e l’alta drammaticità di questo verso, che ripete il concetto già espresso in quello precedente, richiamandosi, al contempo, ai vv. 20 e 92 del carmen 68.
[6]Nunc… uale: l’avverbio interea significa «nell’attuale situazione», «stando così le cose», e non, come di solito, «intanto» (che implicherebbe la promessa di tornare in futuro con altre più ricche offerte); con haec è sottinteso munera; tristi munere è ablativo di modo; ad inferias, come al v. 2, ha valore finale; multum manantia: l’uso di multum come accrescitivo di aggettivi o participi è proprio della lingua familiare; questo espediente, unito all’allitterazione e al forte iperbato, accresce l’impressione di pathos; fraterno… fletu: ablativo strumentale retto da manantia, «del pianto del fratello»; aue atque uale: la formula, nonostante la sua ricorrenza nelle iscrizioni sepolcrali, vibra nell’explicit di accorata intensità, anche grazie all’inserimento di in perpetuum e alla ripresa di frater.
di G. GARBARINO, L. PASQUARIELLO (eds.), Veluti flos. Cultura e letteratura latina: testi, temi, lessico, Torino 2012, pp. 738-740; 742-743.
Seneca ha appreso con piacere che l’amico Lucilio tratta i suoi servi con familiarità. Allo spunto iniziale, colto da un episodio occasionale, il filosofo fa seguire alcune considerazioni di carattere etico desunte dallo Stoicismo antico, per confutare certe opinioni sulla schiavitù tanto diffuse quanto false. Tutti gli uomini sono partecipi della ragione, che compenetra l’intero universo, e sono, di conseguenza, uguali. Anche i servi, dunque, hanno piena dignità di uomini, sono compagni di abitazione, amici di umile condizione e soggetti – come tutti – alle bizzarrie della sorte. Eppure, essi sono considerati alla stregua delle bestie da padroni crudeli e arroganti, come se la condizione servile fosse uno stato connaturato. Al momento del pasto, in particolare, sono obbligati ad assistere in piedi, immobili e in silenzio, agli eccessi del padrone e degli ospiti.
Nella prospettiva delineata da Seneca, ogni relazione interpersonale, anche tra individui appartenenti a ordines differenti, si dovrebbe fondare sul rispetto reciproco e non sulla paura: tuttavia, l’organizzazione della società romana, basata sullo sfruttamento di manodopera servile, non viene qui condannata né posta in discussione.
Servi che versano il vino. Mosaico pavimentale, II-III secolo, da Dougga. Musée du Bardo.
[1] Libenter ex iis qui a te ueniunt cognoui familiariter te cum seruis tuis uiuere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. «Serui sunt». Immo homines. «Serui sunt». Immo contubernales. «Serui sunt». Immo humiles amici. «Serui sunt». Immo conserui, si cogitaueris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum seruo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium seruorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti auiditate onerat distentum uentrem ac desuetum iam uentris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus seruis mouere labra ne in hoc quidem, ut loquantur, licet; uirga murmur omne conpescitur, et ne fortuita quidem uerberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla uoce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere ceruicem, periculum inminens in caput suum auertere; in conuiuiis loquebantur, sed in tormentis tacebant.
[1] Ho sentito con piacere di persone provenienti da Siracusa che i suoi servi in modo familiare: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. «Sono servi». No, sono uomini. «Sono servi». No, vivono nella tua stessa casa. «Sono servi». No, sono umili amici. «Sono servi». No, compagni di schiavitù, se rifletti sul fatto che la sorte abbia ugual potere su noi e su loro. [2] Perciò, me la rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio servo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla più grande superbia che intorno al padrone, mentre si mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli si abbuffa oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. [3] Ma a quei servi infelici non è dato neppure di muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso con il randello e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta notte in piedi, digiuni e zitti. [4] Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece, quei servi che potevano parlare non solo in presenza dei padroni, ma anche con il padrone medesimo, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la propria testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura.
Schiavi incatenati. Rilievo, marmo, III sec. d.C. da Smirne. Oxford, Ashmolean Museum.
«Servi sunt». Immo homines. | Secondo il diritto romano, i servi facevano parte del patrimonio del pater familias, che li impiegava come se fossero strumenti, a proprio totale arbitrio. Fin dai tempi più antichi, egli esercitava un potere assoluto, con diritto di vita e di morte, su tutti i componenti della familia – moglie e figli compresi.
Nel mondo antico il passaggio dalla condizione di liber a quella di servus poteva avvenire in modo drammatico e cruento: il condottiero vincitore di una guerra aveva il diritto di ridurre in schiavitù i propri prigionieri, che a Roma erano venduti all’asta a beneficio di tutta la civitas. A partire dal III secolo a.C., con le Guerre puniche e poi con le campagne di conquista dell’Oriente ellenistico, la disponibilità di schiavi e il loro commercio ebbero un impressionante incremento.
A Roma esisteva anche la schiavitù per debiti, di solito di durata limitata nel tempo, che consegnava come servus al creditore il debitore insolvente. Inoltre, molti bambini nati liberi, rapiti o non riconosciuti dal pater familias ed esposti, diventavano proprietà di chi li raccoglieva e li allevava, e poteva decidere di venderli o sfruttarli personalmente (per esempio, nella prostituzione): situazione, quest’ultima, rispecchiata molto spesso nelle trame delle commedie, anche se, nella realtà, forse, il lieto fine (cioè il ritrovamento della famiglia d’origine e il recupero della libertas) non doveva essere molto frequente.
Infine, si poteva nascere già servi, in quanto figli degli schiavi di un padrone. La schiavitù, peraltro, non era una condizione irreversibile: attraverso l’istituto della manumissio era possibile passare allo status di libertus, o per generosa concessione del padrone o con il pagamento della somma necessaria al riscatto, di cui molti schiavi potevano disporre attingendo al loro peculium (una somma di denaro messa da parte, frutto di regali o del compenso per lavori accessori).
Scena di manumissio. Rilievo, marmo, I sec. a.C. Mariemont, Musée Royal.
A Roma, e in molte città del suo dominio, esistevano per gli schiavi veri e propri mercati: nel I secolo a.C. particolarmente fiorente fu quello sull’isola di Delo, nelle Cicladi. La merce era esposta su un palco e ogni schiavo portava al collo un cartello (titulus), contenente informazioni essenziali sul soggetto messo in vendita (nome, provenienza, età, pregi e difetti): i compratori potevano scegliere, a seconda delle proprie esigenze, giovinetti graziosi da esibire come coppieri nei banchetti, abili cuochi, flautiste, ballerine, ancelle, persone istruite da impiegare come precettori per i propri figli, amministratori, contabili, copisti, ecc. Il prezzo variava in base all’età, all’aspetto e alle competenze dello schiavo.
Le condizioni dei servi variavano notevolmente a seconda delle mansioni loro assegnate. In generale, anche se tutti potevano essere sottoposti a pene corporali molto dure, quelli della familia urbana, che si occupavano dell’andamento della casa e delle necessità del padrone e dei suoi congiunti, godevano di una situazione incomparabilmente migliore rispetto agli schiavi della familia rustica, adibiti a lavori molto pesanti e soggetti a una disciplina più rigida, come ben testimoniano le figure servili della commedia, sempre terrorizzate alla prospettiva di essere mandati – per punizione – a lavorare la terra o a girare la macina. Ancora peggiore era la condizione di quelli impiegati nelle miniere o addestrati nelle scuole dei gladiatori, ambiente in cui prese forma la più famosa delle rivolte servili dell’antichità, quella capeggiata da Spartaco, che tenne testa per tre anni (73-71 a.C.) gli eserciti regolari della res publica.
Schiave intente alla toeletta della matrona. Mosaico, V sec. d.C. dalle Terme di Sidi Ghrib (Tunisia). Carthage, Musée National.
A parte l’uccisione del padrone, la colpa più grave che un servus potesse commettere era la fuga: egli, infatti, apparteneva al proprio padrone, il quale poteva disporre di lui come meglio credeva. Nonostante questa realtà, mai messa seriamente in discussione nel mondo antico, sono attestati rapporti assai vari tra schiavi e padroni. Mentre, ad esempio, il De agri cultura di Catone rappresenta perfettamente la concezione utilitaristica, che considera i servi meri strumenti e adegua al vantaggio che se ne può trarre il trattamento da riservare loro, molte lettere dell’epistolario di Cicerone mostrano che egli nutriva per il suo dotto schiavo, e poi liberto, Tirone, sentimenti di vero affetto, stima e amicizia. Anche Seneca, sia pure con un atteggiamento condiscendente e non privo di risvolti utilitari, nell’Epistula 47 elogia e approva Lucilio perché tratta familiarmente i propri servi.
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