di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].
Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.
Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».
Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).
Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.
Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».
Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.
Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).
«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».
Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.
L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.
Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».
Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.
Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.