La crisi del III secolo: la paura di vivere e l’anarchia militare

Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.

Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.

Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).

M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).

Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.

La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio.  Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).

Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.

Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.

La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.

Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.

Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς,  φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).

Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.

Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.

Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.

Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.

Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.

Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.

I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.

Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.

Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.

Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):

Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.

Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.

Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.

I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.

Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.

Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.

Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.

Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.

L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.

Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.

Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.

Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).

È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).

La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.

La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.

Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.

In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.

Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.

L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.

Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.

Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).

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Plotino di Licopoli

I. La vita, l’opera, la scuola

Da Alessandria a Roma. | Della vita di Plotino (Πλωτῖνος) si sa quasi esclusivamente quello che riferisce il suo discepolo Porfirio nella Vita Plotini. Infatti, non solo Plotino non parlò mai di sé nella sua opera, ma non volle parlarne nemmeno con gli amici più intimi. Scrive Porfirio (Plot. 1):

Πλωτῖνος ὁ καθ’ ἡμᾶς γεγονὼς φιλόσοφος ἐῴκει μὲν αἰσχυνομένῳ ὅτι ἐν σώματι εἴη. Ἀπὸ δὲ τῆς τοιαύτης διαθέσεως οὔτε περὶ τοῦ γένους αὐτοῦ διηγεῖσθαι ἠνείχετο οὔτε περὶ τῶν γονέων οὔτε περὶ τῆς πατρίδος. Ζωγράφου δὲ ἀνασχέσθαι ἢ πλάστου τοσοῦτον ἀπηξίου ὥστε καὶ λέγειν πρὸς Ἀμέλιον δεόμενον εἰκόνα αὐτοῦ γενέσθαι ἐπιτρέψαι· οὐ γὰρ ἀρκεῖ φέρειν ὃ ἡ φύσις εἴδωλον ἡμῖν περιτέθεικεν, ἀλλὰ καὶ εἰδώλου εἴδωλον συγχωρεῖν αὐτὸν ἀξιοῦν πολυχρονιώτερον καταλιπεῖν ὡς δή τι τῶν ἀξιοθεάτων ἔργων;

«Plotino, il filosofo dell’età nostra, aveva l’aspetto di uno che si vergogna di essere in un corpo. In virtù di tale disposizione d’animo, egli aveva ritegno a parlare della sua nascita, dei suoi genitori, del suo luogo di provenienza. Sdegnava a tal punto il mettersi a disposizione di un pittore o di uno scultore che ad Amelio, il quale voleva convincerlo a che gli si facesse il ritratto, rispose: “Non basta, dunque, trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire; ma voi pretendete addirittura che io consenta a lasciare una più durevole immagine di tal simulacro, come se fosse davvero qualcosa che valga la pena di vedere?”».

Stando alla Suda (π 1811 Adler), Plotino nacque a Licopoli, presso il Delta del Nilo (od. Sajin al-Kum?), verso il 205, il tredicesimo anno di principato di Settimio Severo. Nel 232, all’età di ventott’anni, Plotino iniziò a dedicarsi interamente alla filosofia, entrando a far parte del circolo di Ammonio Sacca ad Alessandria, presso il quale rimase fino al 243. Mentre frequentava la scuola di Ammonio, Plotino si era convinto della necessità di un contatto diretto con la sapienza orientale, che, probabilmente, considerava il completamento di quanto avesse appreso dal maestro.

La spedizione contro i Sassanidi di Gordiano III nel 243 sembrò, dunque, offrirgli l’occasione propizia di confrontarsi con Gimnosofisti e Magi; così, Plotino lasciò Alessandra per seguire l’imperatore (Porph. Plot. 3). Si rivelò tuttavia un’esperienza drammatica, che non gli poté dare alcuno dei frutti sperati: il giovane imperatore fu ucciso in Mesopotamia e il filosofo riparò ad Antiochia, riuscendo solo a stento a salvarsi. Di qui egli non poté o non volle far ritorno in Egitto (probabilmente Ammonio era scomparso) e decise di recarsi a Roma, dove giunse ancora nel 244, quando M. Giulio Filippo era ormai asceso alla porpora. Allora Plotino aveva ormai raggiunto i quarant’anni e si sentiva, perciò, maturo per aprire nella capitale dell’Impero una scuola tutta sua.

Per circa un decennio (244-253) il filosofo tenne lezioni, rifacendosi alle conversazioni di Ammonio e al suo metodo, lasciando largo spazio alla discussione e alla diretta ricerca di coloro che lo frequentavano, ma senza comporre nessuno scritto. Si trattava di mantenere fede al vecchio patto stretto con due suoi condiscepoli, Erennio e Origene, sebbene più tardi avesse scoperto che essi lo avevano tradito. Solo dal 254 Plotino ruppe gli indugi e si mise a scrivere pure lui. Quando Porfirio giunse a Roma nel 263, Plotino aveva già composto ben ventun trattati. Ne scrisse altri ventiquattro fra il 264 e il 268, e i restanti nove dopo il 268.

Porfirio, ammesso nella scuola, ricevette dal maestro l’incarico di emendare e riordinare i vari scritti (Porph. Plot. 3-8; 24-25). Siccome questi testi erano stati redatti senza un ordine preciso, Porfirio decise di seguire il modello adottato da Andronico di Rodi nella pubblicazione delle opere di Aristotele, cioè di radunare insieme i libri che trattavano tematiche molto vicine. In più, Porfirio si lasciò guidare dalla convinzione del significato metafisico del numero e, combinando con la «perfezione del numero sei» l’«enneade», cioè il numero nove, divise i cinquantaquattro trattati plotiniani in sei gruppi di nove ciascuno e raggruppò gli argomenti affini, graduandoli, a seconda della difficoltà. Nacquero così quelle Enneadi, che contengono uno dei più alti messaggi filosofici dell’antichità.

La pubblicazione di Porfirio del corpus plotiniano avvenne tra il 300 e il 305. Nulla, invece, è rimasto dell’edizione che approntò il discepolo Eustochio né dei Cento libri di scolii agli scritti del maestro, raccolti da Amelio.

Profondamente amato e stimato da tutti, anche per la dirittura della sua vita, per la sua aspirazione a costituire una società di «saggi» seguaci della vita platonica, Plotino non solo ebbe molti scolari, uomini e donne, ma a lui ci si rivolse quale consigliere, tutore, amministratore di beni. Il maestro godette dell’immensa stima degli imperatori Gallieno e Salonina: a tal proposito, Porfirio riferisce che il filosofo, avvalendosi dell’amicizia e dell’affetto degli Augusti, progettava di far sorgere in Campania una città di filosofi, che avrebbe avuto il nome di Πλατωνόπολις (Porph. Plot. 12). Plotino scomparve nel 270, all’età di 66 anni, a causa di un male (non ben identificabile) che gli procurò piaghe nelle mani e sui piedi e gli arrochì notevolmente la voce. Negli ultimi tempi, a causa di questa malattia, egli aveva abbandonato la scuola e gli amici, ritirandosi nella tenuta di un vecchio conoscente in Campania, dove spirò in solitudine.

Un oratore che parla in un’aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec. d.C. dal tempio di Ercole. Ostia, Museo Archeologico.

Caratteristiche e finalità della scuola plotiniana. | La scuola di Plotino non assomigliava probabilmente a nessuna delle precedenti. L’autorità e il prestigio che il filosofo si era acquistati presso l’aristocrazia furono tali che molti «al pensiero della morte imminente» gli affidavano i figli e le figlie da educare e i loro beni da conservare e amministrare, come «a un custode sacro e divino», sicché la casa in cui abitava (che apparteneva a una certa Gemina, di cui era ospite) brulicava di ragazzi, ragazze e vedove (Porph. Plot. 9). Da lui si recavano anche uomini politici al fine di comporre vertenze e liti e a lui si affidavano tutti come arbitro infallibile. Quanto al suo progetto di una città i cui abitanti avrebbero dovuto osservare «le leggi di Platone» (νόμοις… τοῖς Πλάτωνος), sebbene Gallieno e l’imperatrice Salonina avessero preso in seria considerazione la sua attuazione, fallì a causa delle trame dei cortigiani.

Le lezioni di Plotino erano frequentati da vari tipi di uditori. Alcuni erano occasionali e saltuari, attratti semplicemente dalla fama del maestro e, quindi, dalla curiosità. C’erano poi quelli che frequentavano con certa costanza, e fra questi comparivano numerosi senatori romani e nobili di origine orientale. Infine, c’erano i veri e propri «seguaci». È da notare che anche un certo numero di donne – come riferisce il biografo – prendeva parte alle lezioni. Agli scritti del maestro, invece, solo pochi avevano diritto di accesso, e solo dopo aver dimostrato di possedere precisi requisiti intellettuali e morali (Porph. Plot. 1-12).

Platone aveva fondato la sua Accademia per poter formare nella filosofia gli uomini che avrebbero dovuto rinnovare la πολιτεία; Aristotele aveva istituito il Peripato per organizzare in modo sistematico tutta la ricerca e tutto il sapere; Pirrone, Epicuro e altri avevano creato le loro scuole per cercare di dare alle persone l’ἀταραξία, la pace e la tranquillità dell’anima. La scuola di Plotino si prefiggeva un ulteriore fine: voleva insegnare agli aderenti a sciogliersi dalla vita di quaggiù per riunirsi al divino e poterlo contemplare fino al culmine di una trascendente unione estatica. Lo scopo della nuova istituzione era, dunque, religioso e mistico: quello stesso fine che stava alla base del progetto di Platonopoli.

Plotino. Busto (attribuito), marmo, c. 250-300, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

II. Ripresa e conclusione della «seconda navigazione»

Lo sviluppo delle istanze medioplatoniche e neopitagoriche. | Il moderno lettore delle Enneadi può avere spesso l’impressione che molte tesi non vengano dimostrate o che, perlomeno, non vengano convenientemente giustificate. Ma chi si soffermasse a questa impressione e valutasse non adeguatamente fondata la speculazione plotiniana, cadrebbe in un grave errore di prospettiva e ne pregiudicherebbe in modo irreparabile la comprensione. Occorre tener presente, infatti, che, nel secolo immediatamente precedente, il medioplatonismo e il neopitagorismo avevano raggiunto la loro ἀκμή. Questi movimenti avevano messo definitivamente in crisi il materialismo dei grandi sistemi ellenistici, avevano recuperato gli esiti della platonica «seconda navigazione» e avevano addirittura tentato di integrarli e di rielaborarli, tenendo conto soprattutto degli apporti di Aristotele, senza trascurare le istanze precedenti. Plotino, insomma, trovò alcune verità filosofiche già guadagnate e giustificate dai suoi predecessori.

Tra l’altro, già in antico si era notata certa somiglianza fra alcune tesi di Numenio e alcune parallele tesi di Plotino; anzi, questa somiglianza apparve tanto forte che ad Atene si accusò Plotino addirittura di plagio! Uno dei discepoli, Amelio, si sentì in dovere di difendere il maestro e di confutare pubblicamente con uno scritto questa accusa (Porph. Plot. 17). Se quest’accusa è infondata, è comunque innegabile l’esistenza di tangenze tra i due pensatori. Plotino, in sostanza, riprese le istanze sostenute dai medioplatonici e dai neopitagorici, ma le sviluppò e le portò a maturazione con una profondità, una lucidità e un’audacia senza paragoni, tali da eclissare i suoi immediati predecessori.

III. Il sistema di Plotino nei suoi fondamenti e nella sua struttura

La prima ipostasi: l’uno. | È impossibile intendere l’originalità e la novità di Plotino, se non si comprende la riforma che egli apportò alla metafisica platonica e aristotelica, la quale aveva condotto a risultati che, per più di un aspetto, erano stati rivoluzionari. È ben vero che in Platone si possono rintracciare spunti plotiniani ante litteram e che nella successiva storia del platonismo e del neopitagorismo questi spunti siano lievitati in modo considerevole. Eppure, Plotino andò ben oltre con una vera e propria rifondazione della metafisica classica.

Il principio ultimo del reale per Aristotele era costituito dall’essenza (οὐσία) e dall’intelligenza del Motore immobile (νοῦς). Invece, per Plotino il principio era ancora ulteriore: l’uno (τὸ ἕν). Questo si situa al di là dell’essere e oltre l’intelligenza, è trascendente. L’uno, dunque, per Plotino è il fondamento e il principio assoluto di tutte le cose: ogni realtà, più precisamente, è tale solo in virtù della sua unità. Se l’unità di una cosa si spezza, quella cosa cessa di esistere. La sussistenza di un elemento dipende, dunque, dalla sua unità: se si toglie questa, si toglie l’essere della cosa.

Una volta stabilito che l’essere degli enti dipende dalla loro unità, da che cosa deriva questa loro unità? Secondo Plotino, tutti gli elementi fisici ricevono unità dall’anima, la quale è appunto attività creatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili; perciò, è fondamento della loro unità. Ma allora l’anima stessa è unità o piuttosto l’anima imprime unità, ma non coincide con essa, e deriva essa stessa la propria unità da qualcos’altro? La risposta di Plotino è chiarissima: esistono gradi differenti di unità. In tal senso, l’anima detiene un grado di unità superiore a quello dei corpi, ma non è essa stessa unità. Dunque, l’anima introduce nel mondo fisico l’unità, però, a sua volta, la riceve da ciò che sta al di sopra, vale a dire dall’intelligenza (νοῦς) e dall’essere (οὐσία).

Eppure, sia l’intelligenza sia l’essere, per quanto godano di un grado superiore all’anima, non sono l’uno, perché implicano molteplicità: dualità di pensante e pensato e molteplicità di idee, cioè la totalità delle realtà intellegibili. La radice dell’unità, dunque, è qualcosa che trascende lo stesso νοῦς, qualcosa di assolutamente scevro di qualsivoglia pluralità, è l’uno in sé (Plot. Enn. VI 9, 1-12).

Infinitudine, trascendenza, ineffabilità. | Caratteristica fondamentale dell’uno è l’infinitudine. Da questa occorre partire per comprendere le differenze fra la metafisica di Plotino e quella classica. L’infinitudine era stata attribuita al principio (ἀρχή) solo da alcuni antichi filosofi della natura e in dimensione fisica. In Platone e in Aristotele era prevalsa l’idea che l’infinito (ἀπείρων) comportasse imperfezione (che fosse, cioè, sinonimo di indeterminato, incompiuto), mentre il finito (in quanto determinato, compiuto) era stato associato con il perfetto. Platone aveva inteso il principio primo come limite (πέρας), mentre il principio materiale come l’illimitato e l’infinito (ἀπείρων). Aristotele, poi, aveva dichiarato impossibile l’esistenza dell’infinito in atto, concependolo come puramente potenziale e circoscrivendolo alla categoria della quantità; inoltre, aveva affermato che il perfetto implica sempre un fine e il fine un limite.

E, dunque, che cosa significa l’infinito nella dimensione dell’immateriale? L’infinito plotiniano non è spaziale né quantitativo, ma, come in certa misura già in Filone di Alessandria, è inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice. In tal senso, evidentemente, il concetto di potenza (δύναμις) assume non già il significato di potenzialità, poiché questo significato aristotelico era strutturalmente legato alla materia e al corporeo, ma di attività, come in Filone. Dunque, la potenza coincide con la forza attiva (ἐνέργεια), con l’atto puro, l’atto metafisico primo e supremo. Intendere l’uno come infinita potenza significa, dunque, concepirlo come infinita spirituale energia creatrice (Plot. Enn. V 5, 10-12; VI 9, 6).

Le rivoluzionarie conseguenze che il concetto positivo di infinito immateriale comportò nell’ambito della «seconda navigazione» furono le seguenti. L’uno non poteva essere inteso come idea (ἰδέα) platonica, perché forma ed essenza in Platone implicavano la finitudine, il limite, né tantomeno come sostanza immobile, eterna e separata, in senso aristotelico, perché anche questa essenza, ovvero il νοῦς, era concepita parimenti finita e determinata. Di conseguenza, siccome l’essere, com’era stato inteso e da Platone e da Aristotele, era l’essere dell’εἶδος e dell’οὐσία e, perciò, finito, si comprende per quale ragione Plotino sentisse la necessità di porre l’uno «al di sopra dell’essere e del pensiero» e di ribadire questa tesi nel corso di tutte le sue Enneadi. Era questa una nuova concezione di trascendenza, che, nell’ambito della grecità, non aveva se non assai vaghi precedenti, mentre aveva un chiaro antesignano in Filone Alessandrino. Il principio supremo per Plotino non solo trascendeva il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine, compresa quelle poste da Platone e da Aristotele all’intelligibile e all’intelligenza. Si comprende, insomma, come all’uno Plotino tendesse ad attribuire determinazioni prevalentemente negative e a dichiararlo perfino «ineffabile» (Plot. Enn. V 3, 13).

Anubis. Mosaico (dettaglio), fine II-inizi III sec. da una domus urbana di Ariminium. Rimini, Museo della Città.

Le caratterizzazioni positive dell’uno. |Con il termine «uno» (τὸ ἕν) Plotino designava il principio supremo, senza però indicare un particolare uno, cioè una determinata unità, ma l’uno-in-sé, la causa e la ragione d’essere di tutte le altre cose, l’assolutamente semplice che è ragion d’essere del complesso e del molteplice. Anche queste precisazioni, comunque, possono trarre in inganno, giacché la semplicità dell’uno non è povertà, ma è infinita potenza, quindi infinita ricchezza: l’uno è potenza di tutte le cose, nel senso che tutte le porta all’essere e nell’essere le mantiene (Plot. Enn. III 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

L’altra categoria che Plotino usa di frequente per riferirsi al principio assoluto è «bene» (ἀγαθόν). Anche in questo caso, non si tratta di un particolare bene, ma del bene-in-sé, ovvero non di qualcosa che ha il bene, ma che è il bene stesso, il bene assolutamente trascendente (Plot. Enn. II 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

Sulla base di quanto si è fin qui detto, è ora possibile chiarire meglio il senso delle affermazioni secondo cui l’uno è al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita. Plotino, evidentemente, non voleva dire che il principio primo fosse il non-essere, il non-pensiero o qualcosa che fosse privo di vita. Al contrario, egli intendeva significare che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’uno è alcunché di superiore a questi suoi prodotti. E, in effetti, Plotino usa questi termini quando si riferisce all’uno accompagnandolo con «per così dire», cioè in senso analogico, o addirittura parla di «super-pensiero», di «super-essere», di «super-vita» (Plot. Enn. VI 8, 14-16).

L’uno come attività auto-produttrice. |L’uno è la ragion d’essere di tutto ciò che a esso segue ed è tale proprio per il suo essere quello che è. Ma Plotino non si accontentava di una spiegazione a questo livello; egli pose una domanda ancora più radicale, toccando così i limiti estremi delle possibilità della metafisica: perché l’uno è ed è quello che è? Questo interrogativo, posto in altri termini, equivale alla seguente: perché esiste l’assoluto e perché l’assoluto è così com’è?

Innanzitutto, bisogna escludere che esso sia per caso o per accidente, perché possono esistere in siffatto modo solo le cose del mondo sensibile, soggette al divenire. In secondo luogo, esso può esistere per una libera scelta, del tipo di quella che presuppone l’esistenza di contrari sui quali deve operare, perché esso è al di là di tutto questo. Inoltre, non si può dire che esso esista di necessità, perché la necessità è a esso posteriore, anzi è proprio esso la legge e la necessità delle altre cose. E, ancora, non si può nemmeno parlare, nei confronti dell’assoluto, di un essere, di un’essenza e di una determinata natura e spiegare la sua attività in funzione della sua natura medesima, perché esso trascende ogni cosa e la sua attività è tale solo in senso analogico. Operari sequitur esse, avrebbero detto i filosofi medievali. Plotino per caratterizzare il suo assoluto avrebbe affermato il contrario: esse sequitur operari; o meglio, essere e operare, nell’assoluto, coincidono: il primo principio si auto-pone, crea sé stesso, è attività auto-produttrice. In esso la volontà corrisponde al suo atto e, quindi, al suo stesso essere: è volontà di essere ciò che è, è libertà totale e assoluta; vuole essere ciò che è, perché è quanto di più alto possa esistere, è valore supremo e supremo positivo (Plot. Enn. VI 8, 7).

Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del Sole. Olio su tela, 1899. Mosca, Tretyakov Gallery.

La processione di tutte le cose dall’uno. | Allora, perché e come dall’uno sono derivate tutte le altre cose? Perché l’uno, pago di sé stesso, non è rimasto in sé stesso? È questa, in fondo, la domanda metafisica di assai ardua soluzione. Anche il tentativo plotiniano di rispondere a questo problema rappresenta uno dei vertici della metafisica antica. Si tratta di una risposta originalissima, un unicum nella storia del pensiero occidentale.

Nel rispondere al quesito, Plotino si avvale, a più riprese, di immagini splendide, divenute giustamente famose. La più celebre è certamente quella della luce (Plot. Enn. IV 3, 17): la derivazione delle cose dall’uno è rappresentata come l’irraggiarsi della luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti in intensità, mentre la fonte della luce permane in sé senza mai spegnersi. Il primo cerchio luminoso prodotto è l’intelligenza, la seconda ipostasi (ὑπόστασις); il cerchio successivo è l’anima, la terza ipostasi. Il cerchio che viene dopo segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la materia, che abbisogna di un irraggiamento esterno, essendo ormai tenebra.

Plotino riprende questa immagine della luce (Plot. Enn. IV 1, 6) intrecciandola con altre: il fuoco che emana calore, la sostanza odorosa che emana profumo, il vivente che, giunto a maturità, genera. Altre due celebri immagini sono quella della sorgente inesauribile che genera i fiumi e quella dell’albero da frutto (Plot. Enn. III 8, 10). Infine, non meno interessante è l’immagine dei cerchi concentrici: l’uno è come il centro, la seconda ipostasi è come un cerchio immobile, mentre l’anima è come un cerchio mobile (Plot. Enn. IV 4, 10).

Queste immagini sono state spesso prese troppo alla lettera e alcuni interpreti si sono addirittura fermati a esse, fraintendendo così i concetti che esse dovrebbero chiarire. È sulla base di queste immagini che taluni hanno parlato di «emanazionismo», di «panteismo» e di «monismo». In realtà, le cose sono assai più complesse di quanto queste formule non lascino supporre. La plotiniana «processione dall’uno» era ben altra faccenda.

Da tutte le immagini usate dal filosofo si ricava che il principio rimane fisso e, restando, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo condiziona. Ciò che è generato è inferiore al generante e non serve al generante; il generato ha bisogno del generante, non viceversa (Plot. Enn. V 3, 12).

Ora, data la sua infinita perfezione e la sua trascendente potenza, l’uno generante non è forse «necessitato» a creare? Può la fonte di luce non emanare luce, la fonte d’acqua non zampillare acqua, l’oggetto profumato non diffondere profumo? È proprio su questo punto che le immagini traggono in inganno, rivelando solo un aspetto del pensiero plotiniano e velando l’altro, che è proprio quello più nuovo. Plotino distingueva due tipi differenti di attività dell’uno e delle altre ipostasi: da una parte, l’attività dell’ente, dall’altra quella che deriva dall’ente. La prima è immanente all’ente, per così dire, mentre la seconda esce dall’ente e si dirige all’esterno. In altri termini, l’attività dell’ente coincide con la singola realtà, mentre l’attività che deriva dall’ente si dirige ad altro. Applicando questa distinzione all’uno, si dovrà parlare di un’attività dell’uno e di un’attività che deriva dall’uno: l’attività dell’uno è quella che lo fa essere, lo mantiene e lo fa rimanere; invece, l’attività che deriva dall’uno è quella che fa sì che dall’uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. È chiaro che l’attività dall’uno dipenda strutturalmente dalla stessa attività dell’uno (Plot. Enn. V 4, 2).

La seconda ipostasi: l’intelligenza. | La generazione delle ipostasi implica un’ulteriore attività, che non è meno essenziale delle altre: senza di essa, infatti, le ipostasi stesse non potrebbero sussistere. Si tratta dell’attività del «rivolgersi» al principio da cui ciascuna deriva per «guardarlo» e «contemplarlo». E questa attività non è affatto espressa nelle immagini sopra ricordate. Di conseguenza, essa è stata misconosciuta (e talora del tutto ignorata) dagli interpreti, mentre essa rappresenta uno dei cardini attorno a cui ruota tutta la metafisica plotiniana. In particolare, per quanto riguarda la seconda ipostasi (νοῦς), è da rilevare che la potenza originaria non genera altro che qualcosa di indeterminato o informe; ciò può determinarsi e divenire forma soltanto «rivolgendosi» all’uno, guardandolo e contemplandolo.

Questo prodotto indeterminato e informe dell’uno è detto da Plotino «alterità» intelligibile, o «materia intelligibile», cioè pensiero indefinito, che può determinarsi appunto rivolgendosi all’uno. Tuttavia, anche questo «rivolgersi» all’uno non è ancora intelligenza, ma la causa che la fa essere. Plotino distingueva fra il «rivolgersi» della potenza all’uno, il quale la feconda e la informa, e il «riflettere» di questa potenza su sé stessa già fecondata. Questi due momenti, distinguibili solo logicamente e non cronologicamente, spiegano le due facce dell’intelligenza: nel primo momento nasce la sostanza (il contenuto del pensiero), nel secondo nasce il pensiero vero e proprio. Questa duplicità dei momenti giustifica altresì la nascita del molteplice (Plot. Enn. II 4-5; V 2, 1). Inoltre, la nascita della seconda ipostasi è il formarsi del molteplice: l’intelligenza, infatti, non pensa l’uno, ma pensa se medesima riempita e fecondata dall’uno; il molteplice sorge solamente all’interno della seconda ipostasi (Plot. Enn. VI 7, 16).

Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum

Essere, pensiero, vita. | Se per Plotino l’uno è «potenza di tutte le cose» e l’intelligenza è, a sua volta, «tutte le cose» (V 4, 2), l’intelligenza è, anzitutto, inscindibile unione di essere e pensiero, è l’essere puro di Platone, quell’essere che è pienamente e non può non essere, ed è, a un tempo, il pensiero di pensiero di cui parlava Aristotele. In secondo luogo, l’intelligenza è anche vita, è «il vivente perfetto», il «vivente in sé», «vita infinita», non necessariamente legato alla dimensione fisica, ma è spirituale, immateriale e fuori dalla temporalità (Plot. Enn. VI 6, 7-8).

L’intelligenza come «cosmo intelligibile». |Nel nuovo contesto della dottrina ipostatica dell’intelligenza, Plotino riprende un’espressione coniata da Filone, per cui il platonico Iperuranio diveniva «cosmo intelligibile». Cogliendo dall’Alessandrino una serie di spunti e sulla base della propria inedita concezione dell’intelligenza come strutturale unità di essere e pensiero, Plotino procedette alla più audace riforma della dottrina delle idee proposta dalla speculazione antica.

La modifica principale consistette nella trasformazione dell’idea da mero «intelligibile» a intelligenza, o meglio in qualcosa che fosse contemporaneamente intelligibile e intelligenza, sostanza pensante in cui pensante e pensato coincidessero. Le idee diventavano forze o potenze intelligenti, vive: insomma, «spiriti» (Plot. Enn. IV 8, 3).

Connessa a questa era l’ulteriore modifica della concezione del rapporto sussistente fra le idee, fra ciascuna idea e la totalità delle idee, e viceversa. Plotino, superando Platone, giunse ad affermare che ciascuna idea fosse in certo senso tutte le altre. Inoltre, nella misura in cui l’intelligenza rinserra in sé tutte le cose, esistono idee di tutte le cose, e non solo delle specie, ma anche di tutte le possibili differenze in cui può presentarsi la specie. Così, per esempio, non esiste un’unica idea di uomo, ma tante idee di uomo quante sono le differenti conformazioni degli uomini, quante sono le differenze tra un individuo e l’altro.

In Plotino si incontra, altresì, la dottrina dei numeri ideali, ma in parte approfondita e chiarita: i numeri ideali (da distinguere nettamente da quelli matematici!) derivano tutti dallo stesso uno. La diade sorge dall’uno medesimo ed è illimitata e può ricevere limite dall’uno stesso. I numeri ideali derivano dalla delimitazione della diade da parte dell’uno. Tali numeri sono la forza che divide l’essere e fa nascere la molteplicità delle cose (Plot. Enn. V 1, 5; VI 6, 9-15).

Tutto quanto sopra è stato detto spiega la ragione per cui Plotino, con espressione filoniana, abbia descritto con νοῦς il «cosmo intelligibile», mondo dell’ordine e dell’armonia spirituale, mondo della bellezza. Secondo Plotino, la bellezza, in generale, coincide con la forma: una cosa è bella per quanto possiede di forma. L’intelligenza, che è il mondo delle forme e delle idee, vale a dire il sistema perfettamente ordinato delle forme nella loro totalità è la suprema e assoluta bellezza (Plot. Enn. I 6; V 8).

Scena nilotica. Affresco, ante 79, dal Tempio di Iside (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La terza ipostasi: l’anima. | L’intelligenza è potenza inesauribile e infinita e, in quanto tale, «trabocca» e genera un’altra realtà, gerarchicamente inferiore: l’anima (ψυχή). Per spiegare la processione (ἀπόρροια) dell’anima dall’intelligenza, Plotino si rifaceva agli stessi schemi di cui si era servito per chiarire la processione dell’intelligenza dall’uno. Dunque, analogamente, egli distinse tra un’attività dell’intelligenza, che rivolge a sé stessa, e un’attività dall’intelligenza, rivolta all’esterno; la seconda attività deriva dalla prima e, anzi, è conseguenza della prima, in quanto è proprio in grazia del proprio rivolgersi a sé medesima che l’intelligenza produce qualcos’altro (Plot. Enn. V 3, 7; VI 2, 22).

Il risultato di tale attività, comunque, non è ancora anima: occorre, come si è visto per l’intelligenza nei confronti dell’uno, che anche il prodotto dell’attività che procede dall’intelligenza si rivolga a guardare e a contemplare l’intelligenza medesima. L’anima, infatti, come prodotto dell’attività dell’intelligenza, è nei confronti di questa come la materia rispetto alla forma o come l’indeterminato rispetto alla determinazione formale (Plot. Enn. II 4, 3; V 1, 3-6). Rivolgendosi all’intelligenza e contemplandola, l’anima, appunto, «attraverso l’intelligenza» stessa vede il bene, cioè l’uno; entra in possesso del bene medesimo. In ultima analisi, sta proprio in questo aggancio all’uno, tramite l’intelligenza, il fondamento supremo della realtà dell’anima per Plotino (Plot. Enn. VI 7, 31).

L’anima nel sistema plotiniano. | La caratteristica essenziale dell’intelligenza consiste nel pensare, donde la sua dualità – il pensiero è sempre pensiero dell’essere – e la sua molteplicità – l’essere è una molteplicità di idee. L’uno, sosteneva Plotino, se vuole pensare deve farsi intelligenza, dato che l’uno come tale non può pensare. Ora, anche l’anima pensa, almeno nella misura in cui guarda e contempla il principio che l’ha generata, l’intelletto; ma la sua essenza consiste non nel pensare – altrimenti, non si distinguerebbe dall’intelligenza –, ma nel produrre e nel dar vita a tutte le altre cose che sono, quelle sensibili, nell’ordinarle e nel governarle (Plot. Enn. IV 8, 3; V 6, 2).

Ora, è da notare che questo «guardare» dell’anima alle cose che sono dopo di lei, questo «ordinare», «reggere», «comandare», coincidono con il suo produrre, generare e far vivere queste stesse cose. L’anima è principio creatore di tutte le cose. L’anima è, di conseguenza, non solo principio di movimento, ma essa stessa è movimento come vita (V 2, 1).

In conclusione, si può dire che, come l’uno deve diventare intelletto per pensare, così deve farsi anima per generare tutte le cose del mondo visibile. L’anima, dunque, costituisce il momento estremo nel processo di espansione dell’infinita potenza dell’uno, l’ipostasi cosmogonica che coincide con il momento in cui l’incorporeo genera il corporeo, manifestandosi nella dimensione del sensibile. Non bisogna dimenticare che le ipostasi successive all’uno, da un lato, in un certo senso sono l’uno stesso, nella misura in cui questo è la fonte e la potenza di tutto e, dall’altro, non sono l’uno, ma differenziazioni della potenza dell’uno, in cui il nuovo che sorge non distrugge l’antico, ma deriva proprio dal permanere dell’antico.

Scena di sposalizio. Rilievo, marmo, c. 280, dal cosiddetto Sarcofago dell’Annona, da una camera sepolcrale di via Latina. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme

La posizione intermedia dell’anima. | Plotino assegna all’anima una «posizione intermedia» e la considera «l’ultima dea» (Plot. Enn. IV 8, 5), l’estrema realtà intelligibile, che confina con il sensibile ed è la causa stessa che genera il sensibile. L’anima possiede «due volti» (IV 6, 3), orientati nell’una e nell’altra direzione, ma ciò esclude che essa abbia una natura mista di incorporeo e corporeo. L’anima si trova in posizione intermedia e ha due facce, perché nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere incorporea, le «accade» di aver a che fare con il corporeo da essa stessa prodotto, condividendone alcune caratteristiche, ma non nel modo in cui tali tratti sono propri del corporeo stesso.

Non essendo a priori divisa, l’anima «diventa divisibile nei corpi», non nella maniera in cui sono divisi questi, ma «senza deflettere dall’unità del suo essere» (Plot. Enn. IV 1, 1-2). La divisibilità dell’anima non significa la sua frantumazione in parti staccate successiva l’una dall’altra come avviene per i corpi, ma l’entrare intera in tutte le parti del corpo diviso, dato che essa non ha grandezza. L’anima è, dunque, divisa-e-indivisa, una-e-molteplice, in quanto è principio che produce, regge e governa il mondo sensibile: con la sua unità molteplice e divisa essa elargisce la vita a tutte le cose, con la sua unità indivisibile le riunisce e le controlla; è tutta dappertutto e dappertutto identica.

La pluralità dell’anima. | La questione dell’unità e della molteplicità proprie dell’anima, per la verità, risulta ancora più complessa se la si guarda da un’altra angolatura. Plotino, infatti, parlava di una molteplicità dell’anima non solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale, gerarchico. Malgrado l’ampiezza del linguaggio delle Enneadi su questo argomento, che talvolta rasenta l’equivoco, sembra che la gerarchia delle anime cui Plotino fa riferimento sia la seguente. In primo luogo, esiste un’anima suprema, universale, ossia nella sua interezza e purezza, ipostasi del mondo intelligibile; in secondo luogo, c’è un’anima del tutto, quella del mondo sensibile, che pone, regge e governa l’universo medesimo (anima mundi); infine, ci sono le anime particolari, che non creano, ma animano e reggono i diversi singoli corpi: ciascuna di esse scende nel proprio corpo, con il quale ha un rapporto più stretto che non l’anima dell’universo. Dall’anima suprema, perciò, derivano tutte le altre. L’anima del tutto e quelle individuali sono della stessa natura di quella e si differenziano per la maggiore o minore vicinanza con i corpi (Plot. Enn. IV 3, 5-6; VI 4, 4).

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

IV. La processione del sensibile dall’intelligibile, il significato e il valore del cosmo fisico

La processione della materia. | Elemento caratteristico del mondo fisico è la materia sensibile. Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma è puramente intellegibile. Quest’ultima detiene i caratteri propri dell’intellegibile medesimo: la semplicità, l’immutabilità e l’eternità. Diversamente, quella sensibile rivela tratti opposti. Secondo Plotino, caratteristica di ogni tipo di materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata, ma quella sensibile è un’immagine di quella intellegibile e, in quanto copia si allontana dall’essere dell’originale, consegnandosi al negativo e al male.

La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, cioè come estrema tappa di quel processo in cui l’impulso a creare e la forza produttiva si indeboliscono fino a esaurirsi completamente. La materia sensibile, anzi, diventa esaurimento totale e, quindi, privazione estrema della potenza dell’uno, dell’uno stesso e, in definitiva, del bene. Si noti che per Plotino il male non è inteso come forza negativa opposta alla positiva, ma come mancanza e privazione del positivo (Plot. Enn. I 8, 7; III 4, 15). Se la materia intellegibile è puro essere, quella sensibile deve necessariamente distinguersi come «non-essere»: beninteso, non si tratta del nulla, ma di ciò che è «diverso dall’essere» (I 8, 3). La materia fisica non è nulla di ciò che è proprio del mondo dell’essere, dell’intelligenza e dell’anima e, in genere, dell’intellegibile (Plot. Enn. III 4, 16; 6, 7).

Plotino cerca di determinare le ragioni di questa mancanza di ogni spessore ontologico proprio della materia. Essa è prodotta dall’anima, non dall’anima suprema, ma dal lembo estremo dell’anima universale, in cui la contemplazione si affievolisce, nella misura in cui l’anima si volge più a sé che all’intelligenza (Plot. Enn. III 9, 2; IV 3, 9).

Infine, Plotino cerca di approfondire ulteriormente la ragione della differente natura della materia rispetto alle realtà che la precedono puntando ancora una volta sul tipico concetto di contemplazione. L’anima superiore contempla e da questa contemplazione scaturisce la forza creatrice dell’anima cosmica. Questa forza creatrice è una contemplazione illanguidita, digradante quanto a intensità, tanto che «in quel digradare va quasi svanendo» (Plot. Enn. III 8, 5). E così la materia, prodotto di quest’attività che è languida contemplazione, non ha più la forza di volgersi verso chi l’ha generata e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla stessa anima sorreggerla, e quindi ordinarla, informarla, tenerla, in qualche modo, appesa all’essere. E così nasce, appunto, il cosmo sensibile.

Il disegno razionale del mondo. | Il mondo sensibile è costituito, nella sua totalità così come nelle sue parti, di materia e forma, ma a differenza della materia intellegibile, che è forza o potenza che perennemente cerca la sua forma, la possiede e in essa si attua, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma, ma solo inerte possibilità di rifletterla, senza esserne a fondo veramente informata e vivificata. Insomma, la materia sensibile è tale da essere incapace di costruire una vera unità con la forma. La forma penetra nella materia solo «in modo menzognero», come un oggetto che si rifletta nello specchio (Plot. Enn. I 8, 14; III 6, 13).

Per creare il mondo fisico l’anima pone dapprima la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che si spegne e diviene oscurità; successivamente le dà forma, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola alla luce (Plot. Enn. IV 3, 9). Plotino, dunque, perviene alla conclusione che nell’universo sensibile non solo la forma ha un netto predominio, ma, al limite, il cosmo si risolve quasi per intero nella forma.

Defunto fra Osiride e Anubis. Dipinto su sudario di una mummia, fine II-inizi III secolo, dall’Oasi del Fayyum. Mosca, Museo Pushkin.

Genesi della temporalità. | Il passaggio dal mondo intellegibile a quello sensibile comporta anche il transito dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. Quest’ultima, a detta di Plotino, coincide con l’attività stessa con cui l’anima crea il mondo fisico, cioè con quell’attività che produce qualcosa che è altro dall’intelligenza e dall’essere, che sono invece nella dimensione dell’eterno. L’eternità, per Plotino, è vita senza mutamento, che è presente tutta intera simultaneamente.

Ebbene, l’anima, per una sorta di «temerarietà» e «desiderio di appartenere a sé stessa» (V 1, 1) o per «desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù» (III 7, 11), non paga di vedere il tutto simultaneamente, esce dall’unità, avanza e si distende, per così dire, in un prolungamento e in una serie di atti che si succedono l’un l’altro, e crea così un mondo sensibile che è, sì, fatta a immagine dell’intellegibile, ma che fatalmente volge e pone in successione di prima e di poi ciò che colà, invece, era tutto insieme e simultaneo. Così facendo, l’anima temporalizza sé stessa e, di conseguenza, il suo prodotto. Il mondo è strutturalmente nel tempo, così come è nell’anima e per l’anima.

Ne deriva che la vita dell’anima è la vita nella dimensione della temporalità a differenza di quella dell’intelligenza che è nell’eternità: la vita come temporalità è vita che scorre in momenti successivi, che crea scorrendoli, è rivolta sempre a momenti ulteriori ed è carica dei momenti trascorsi. Plotino, insomma, ripropone amplificandola la definizione platonica di tempo come «immagine dell’eterno».

V. Origini, natura e destino dell’uomo

L’uomo prima della sua discesa nel mondo sensibile. | Nella concezione di Plotino, l’umanità non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste a esso sia pure in altra condizione, cioè come pura anima. Il filosofo afferma in tutta chiarezza che prima della nascita «noi eravamo lassù», nel mondo dell’essere e dell’intelligenza, «eravamo altri uomini» e anzi «dèi» (Plot. Enn. IV 4, 14), partecipi della vita spirituale del tutto, senza le scissioni e le lacerazioni che sono proprie della vita terrena. Anzi, Plotino precisa (IV 8, 4), addirittura, che le anime dei singoli erano in origine associate all’anima universale nel governo del mondo, come re accanto al signore supremo. Ma perché le anime degli uomini discendono nei corpi?

Si tratta dell’antico problema che aveva travagliato Platone e al quale egli non aveva saputo dare una soluzione conclusiva, oscillando fra opposte tesi: quella di una necessità ontologica e quella di una «colpa». Plotino riprende queste opposte posizioni e cerca di conciliarle, sulla base delle acquisizioni della sua riflessione metafisica.

Innanzitutto, occorre premettere che la ragione principale della discesa delle anime particolari nei corpi degli individui vada ricercata nella stessa legge che regola la processione (ἀπόρροια) di tutte le cose dall’uno. Secondo tale legge, dunque, l’anima mundi deve esplicare tutte le sue possibilità, producendo non solo l’universo in generale, ma anche, attraverso le anime particolari, tutti i viventi particolari, fra i quali anche gli uomini. Tutto ciò deve accadere, affinché l’infinita potenza dell’uno possa raggiungere la sua massima espressione, garantendo la perfezione del tutto. Insomma, come l’anima universale non può permanere come puro pensiero, altrimenti non si differenzierebbe dall’intelletto, così le anime particolari non possono permanere come intelligenze peculiari, ma devono assumere, per distinguersi dalla suprema intelligenza, la funzione che è loro propria, che consiste nell’ordinare, reggere e governare le cose sensibili.

È evidente che, così essendo, la discesa dell’anima nei corpi non è volontaria, in quanto non dipende da una scelta né da una liberazione dell’anima stessa, ma non può nemmeno costituire una colpa. Anzi, Plotino ammette addirittura che, se l’anima riesce a fuggire rapidamente dal corpo, non solo non riceve danno dall’aver assunto un corpo, ma un arricchimento, sia per aver contribuito all’attuazione delle potenzialità dell’universo sia per aver sofferto l’esperienza stessa del male, che le fa acquistare più chiara coscienza del bene e le permette di esplicare tutte le sue virtù.

Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

L’uomo e i rapporti fra anima e corpo. | Plotino porta alle sue estreme conseguenze anche l’equazione di uomo e anima, identità stabilita per la prima volta da Socrate e ontologicamente sviluppata da Platone. Nulla vieta, sostiene il Licopolitano, che si chiami «io» anche l’insieme di anima e di corpo, ma resta pur sempre che «l’uomo vero» è solo l’anima, anzi «l’anima separata» e «separabile» (Plot. Enn. I 1, 10). In verità, in più parti delle Enneadi, si afferma che in ogni essere umano esistano tre uomini e non semplicemente l’uomo interiore e l’uomo empirico. Questa tesi, che di primo acchito più stupire, diventa molto meno paradossale, non solo se misurata con i parametri dell’ontologia plotiniana, ma altresì se ricollegata alla tradizione medioplatonica, dalla quale lo stesso neostoico Marco Aurelio aveva tratto la sua triplice distinzione dell’individuo in νοῦς, ψυχή e σῶμα. È questa, sostanzialmente, la tripartizione da cui Plotino prende le mosse, trasformandola secondo i moduli della sua ontologia e dandole, per così dire, un inusitato spessore metafisico, in grazia della teoria della processione.

Questa tripartizione è riproposta anche in termini di «anima», nel senso che i «tre uomini» possono essere considerati come tre anime o meglio «tre potenze» dell’anima, dato che il «primo uomo» non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con l’intelligenza; il «secondo uomo» è l’anima (o pensiero discorsivo), che è a mezzo fra l’intelligibile e il sensibile; il «terzo uomo» è l’anima che vivifica il corpo terreno (Plot. Enn. II 9, 2; IV 7, 6). Per Plotino, l’uomo è comprensibile solo nella dinamica di queste tre parti ed è un’anima che si serve del corpo. Tuttavia, da un lato, il corpo non è che una «caduta dell’anima» in ciò che è inferiore e l’anima è ragione governante il corpo, e in quanto tale mantiene su di esso una sua superiorità e un legame stretto con l’assoluto (Plot. Enn. IV 8, 8).

L’attività e le funzioni dell’anima. | Le attività elementari della vita vegetale e animale sono garantite dall’anima mundi: a questa, infatti, spetta la generazione del mondo, mentre le anime singole si occupano di produrre, vivificare e reggere ogni corpo. Come tutte le attività che sembrano appartenere ai corpi in generale sono, in realtà, proprie dell’anima che le produce, così tutte le attività che sembrerebbero appartenere al corpo particolare sono la diretta regia dell’anima che lo governa, cioè proprie e peculiari di quest’anima medesima. A tutti i livelli, l’anima è concepita come impassibile e capace solo di agire, perché l’incorporeo non può subire affezioni, in alcun modo, dal corporeo. Ma, allora, come si spiega la sensazione?

La risposta di Plotino è ingegnosa e distingue nettamente due tipi di sensazione: una esteriore, che non è altro se non l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi (in funzione della συμπάθεια che lega tutte le cose dell’universo fra loro e con il tutto), e la percezione sensitiva vera e propria, che è, invece, un atto conoscitivo dell’anima, che fattivamente coglie l’affezione. Dunque, quando si sente, il corpo umano patisce un’affezione da parte di un altro corpo; invece, l’anima entra in azione, non solo nel senso che «non le sfugge» (III 4, 2) l’affezione corporea, ma nel senso che essa «giudica» queste affezioni (III 6, 1). Anzi, per Plotino, nell’impressione sensoriale che si produce nel corpo umano, l’anima vede l’orma di forme intellegibili e, dunque, la stessa sensazione è, per l’anima, una forma di contemplazione dell’intelligibile nel sensibile.

Plotino attribuisce all’anima anche le facoltà dell’immaginazione e della memoria. Non il corpo di per sé né il corpo considerato in unione con l’anima sono capaci di ricordo, ma solo l’anima: il corpo è, al contrario, un impaccio e uno ostacolo al ricordare e, quindi, causa di oblio. Memoria e ricordo hanno però un rapporto strutturale con la temporalità, con il venir prima e dopo; l’anima, nella misura in cui entra in contatto con il corporeo, ha anche rapporto con la temporalità. Invece, tutto ciò che permane nell’identità e nell’eguaglianza dell’eterno non ha memoria, perché partecipa della simultanea presenza della totalità (Plot. Enn. IV 3, 26).

Diversa strutturalmente dalla memoria è la reminiscenza (ἀνάμνησις), la quale consiste in un conservare nell’anima ciò che all’anima stessa è in qualche modo connaturato, in quanto le deriva dal suo strutturale contatto con le realtà supreme. L’anima superiore è, infatti, agganciata eternamente all’intelletto: di conseguenza, nell’aldilà l’anima tende a lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, mentre nell’al-di-qua la reminiscenza delle cose supreme non può mai interamente oscurarsi (Plot. Enn. IV 3, 25-27). La più alta attività conoscitiva dell’anima consiste nel pensiero che coglie le idee e l’intelligenza; al di sopra di questa, però, l’anima possiede anche la capacità meta-razionale di cogliere lo stesso uno e con esso «unificarsi».

Allo stesso modo, sentimenti, passioni e volizioni e tutto ciò che a essi è legato vengono interpretati da Plotino come attività psichiche. Infatti, per il filosofo, è il corpo che patisce, mentre l’anima, propriamente, resta immune da affezione e agisce sul corpo, accorgendosi della passione del corpo e interessandosene di conseguenza.

La libertà dell’uomo. | L’attività più alta dell’anima consiste nella libertà. Da questo punto di vista, Plotino riprende le tradizionali dottrine platoniche e, come tutti i suoi predecessori, non riesce a liberarsi interamente dalle ipoteche dell’intellettualismo socratico. Ciononostante, sembra che egli abbia compiuto alcuni progressi, in virtù della sua nuova concezione dell’assoluto. L’uno, principio imprincipiato, è infatti essenzialmente libertà, volizione e causa di sé. Esso vuole e pone sé stesso, perché è bene. Pertanto, nell’assoluto la libertà coincide con la volontà del bene e nel voler essere bene.

Se così è, anche la libertà dell’uomo andrà cercata in questa stessa direzione. La libertà dell’intelligenza consiste nel porsi sulla scia del bene (IV 8, 4); analogamente, la libertà dell’anima consiste nel porre la propria forza operante sulle orme dell’intelletto e nell’agire di conseguenza, secondo quei modi che la portano a unirsi all’intelligenza, all’uno e al bene stessi. La libertà, dunque, secondo Plotino, non può consistere nell’attività pratica, cioè nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nelle virtù più alte, nella contemplazione e nell’estasi. La libertà e la volontà sovrana, insomma, consistono nell’immateriale: l’anima è libera nella misura in cui, tramite l’intelligenza, tende al bene (Plot. Enn. VI 8, 6-7).

Scena di offerta delle primizie. Affresco, fine II sec. dalla Tomba di Padiosir Petosiris‎, dal Qārat el-Muzawwaqa, Oasi di Dakhla (Egitto).

Le vie del ritorno all’assoluto. | Plotino ridimensiona la dottrina delle virtù. Quelle «civili», che erano state la base dell’etica classica, sono per il filosofo egiziano semplicemente un punto di partenza, non un punto d’arrivo: giustizia, saggezza, fortezza e temperanza, intese in senso «politico», sono solo capaci di assegnare limiti e misure ai desideri e di eliminare false opinioni; sono dunque solo un’orma del bene supremo. Queste virtù sono una condizione per diventare simili al dio, ma l’assimilazione al dio è qualcosa di superiore: appunto, superiori alle virtù «civili» sono quelle intese come «purificazioni». Infatti, mentre le virtù politiche si limitano a moderare le passioni, le virtù come purificazioni liberano l’individuo dalle passioni medesime, consentendo all’anima di unirsi a ciò che le è affine, l’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 1-3).

Quando l’anima ha raggiunto l’intelligenza e la contempla, allora, in questa contemplazione e imitazione, le virtù si trasfigurano. A questo punto, le virtù sono il modo di vivere dell’anima, che, distaccatasi dalle cose sensibili e rientrata totalmente in sé, vive in purezza la vita stessa degli dèi, assimilandosi all’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 7).

Per Plotino, le virtù non sono le uniche vie che portano a unirsi al divino: rifacendosi a Platone, egli valorizza anche l’erotica e la dialettica, che sono, sia pure a diverso titolo e in differente misura, modi diversi con i quali l’anima si distacca, si libera e si purifica dal corporeo e si avvicina all’assoluto. L’erotica plotiniana, come quella platonica, è strettamente connessa alla bellezza, che è fondamentalmente la forma a tutti i livelli. Anche la bellezza sensibile è forma, il tralucere della forma intellegibile nel sensibile. Nella misura in cui ciò che è bello è forma, è connaturale all’anima ed è, quindi, capace di far rientrare l’anima in sé e di riportarla al ricordo delle sue divine origini. E la «trafittura» che prova l’amante nel vedere il bello, non è altro che metafisico ricordo delle proprie origini trascendenti (Plot. Enn. I 6, 4; III 5).

La riunificazione all’uno. | Le vie del ritorno all’uno sono, sostanzialmente, un ripercorrere a ritroso la metafisica processione dall’uno e, siccome le successive ipostasi derivano da esso per una sorta di differenziazione e di alterità ontologica (alle quali nell’uomo si aggiungono anche alterità morali), è evidente che il ricongiungimento all’uno dovrà consistere proprio nell’eliminazione di ogni difformità in una sorta di semplificazione (Plot. Enn. VI 9, 11). Questo è possibile perché l’alterità non è nell’ipostasi dell’uno, ma in quelle che seguono all’uno, soprattutto nell’umano. Così, immune da qualsiasi diversità, l’uno è presente sempre negli uomini, ma gli uomini sono presenti all’uno soltanto quando eliminano la propria alterità.

Spogliarsi di quest’ultima significa per la persona rientrare in sé stessa, nella propria anima, distaccandosi dal corpo e da tutto ciò che a esso inerisce, ma anche dalla stessa parte affettiva dell’anima e di tutto ciò che le è connesso. L’anima stessa deve, inoltre, eliminare la parola, il discorso e la ragione discorsiva, tutto ciò che in qualsivoglia modo la possa dividere dall’uno, perfino la conoscenza riflessa del proprio essere (Plot. Enn. III 6, 5; VI 9, 7). La frase che riassume in maniera icastica questo processo di purificazione totale dell’anima è: Ἄφελε πάντα («Spogliati di tutto», Plot. Enn. V 3, 17). Si tratta, indubbiamente, della concezione più radicale che si riscontra nella storia del pensiero antico. Spogliarsi di tutto non significa affatto impoverire o annullare sé stessi, ma, al contrario, vuol dire accrescersi, riempiendosi di divino e di infinito.

Il filosofo in cattedra. Rilievo, marmo, c. 260-280, dal cosiddetto Sarcofago di Plotino. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’estasi. | La tangenza con l’uno è detta ἔκστασις, che non può essere una forma di scienza né di conoscenza intellettuale e razionale. Consiste piuttosto nel contemplare in stretto contatto (senza riflessa distinzione tra soggetto e oggetto) il contemplato, in una compresenza, se non in un’unificazione totale con esso. Anche a tal riguardo, non pochi interpreti sono caduti in errore e hanno confuso l’estasi con uno stato di incoscienza o con alcunché di irrazionale. In verità, Plotino concepiva questo elemento come uno stato di iper-coscienza, come qualcosa di iper-razionale. Nell’estasi l’anima vede sé stessa divinizzata, riempita dell’uno e, nell’ordine del possibile, pienamente assimilata a esso. Dunque, il contemplare estatico dell’anima è un partecipare alla sussistenza dell’uno con tutte le caratteristiche che di esso sono peculiari: ossia l’essere al di sopra dell’essere, del pensiero, della ragione e della coscienza (Plot. Enn. VI 9, 11).

Che la dottrina dell’estasi sia stata divulgata in Alessandria soprattutto da Filone è indubitabile, così com’è altrettanto certo che Plotino ne abbia più volte fatta esperienza diretta. Tuttavia, è da rilevare che, mentre Filone concepiva biblicamente l’estasi come grazia, ovvero come «dono gratuito» di Dio, Plotino la reinserisce in una prospettiva collegata alle categorie greche: il dio non fa dono di sé ai mortali, ma questi possono salire a lui e a lui unirsi per loro forza naturale.

L’asse portante del pensiero plotiniano consiste nell’idea di «contemplazione creatrice», che è l’esatto opposto di quell’emanazionismo di cui qualche interprete ha parlato. Iniziando l’ottavo trattato della III Enneade, in cui il maestro illustra proprio il concetto di contemplazione (θεωρία), che rivoluziona tutti gli schemi più consolidati, Plotino utilizza un tono scherzoso per attutire l’impatto della nuova dottrina con il lettore: tutto è contemplazione (Plot. Enn. III 8, 1). Ma subito il tono ritorna serio: Plotino dimostra i due punti estremi della dottrina, concernenti, rispettivamente, la natura e l’attività pratica. Che l’intelligenza contempli l’uno e l’anima l’intelligenza e, attraverso l’intelligenza, l’uno medesimo, non poteva sembrare paradossale, data la struttura delle ipostasi. Piuttosto, potevano risultare estranee alla contemplazione la natura e la prassi: anche loro, secondo la dottrina plotiniana, sono contemplazione e prodotto della contemplazione (III 8, 3).

È evidente che, come la natura contempla e crea in quanto è anima, così anche nelle anime particolari contemplazione e azione dovranno essere strutturalmente interconnesse. Non solo la prassi dipende dalla contemplazione, risultando tanto più ricca quanto più ricca è la contemplazione, ma essa tende pure a ritornare alla contemplazione. La prassi, perfino nel suo più basso grado, anche senza saperlo, tende a una contemplazione (Plot. Enn. III 8, 6).

Dunque, la vera forza creatrice, asserisce Plotino, non è l’azione (πρᾶξις), ma la contemplazione (θεωρία): portando alle estreme conseguenze la concezione platonica, in Plotino la contemplazione diviene un concetto metafisico generale. La spirituale attività del «vedere» si trasforma in creare. Perciò, l’uno è una sorta di auto-contemplazione; l’intelligenza è contemplazione dell’uno e di sé riempita dell’uno; l’anima è contemplazione dell’intelligenza e di sé ripiena di intelligenza; la natura, estremo lembo dell’anima, è contemplazione di sé; la stessa zione non è che un più debole grado di contemplazione. La contemplazione è silenzio: tutta la realtà è dunque contemplazione e silenzio.

In questo senso, il «ritorno» all’uno mediante l’estasi diviene non altro che il ritorno mediante la contemplazione dell’uno. Estasi ricorre una sola volta nelle Enneadi. Il significato più appropriato sarebbe «semplificazione», che, come si è visto, consiste nell’eliminazione dell’alterità, separazione da tutto ciò che è terreno e molteplice, contemplazione in cui soggetto contemplante e contemplato si fondono: Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῇδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῇδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον («Ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo», Plot. Enn. VI 9, 11).

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L. Anneo Seneca

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L. Anneo Seneca nacque a Corduba (od. Cordova), in Hispania Tarraconensis, intorno al 5 a.C. Era di famiglia ricchissima d’estrazione equestre. Il padre era M. Anneo Seneca il Retore e la madre, Elvia, era una donna di profonda cultura.

Anonimo, Seneca. Busto, marmo, XVII sec. Madrid, Museo del Prado.

Giunto a Roma, Seneca ricevette un’ottima educazione sia oratoria sia filosofica, in vista della carriera politica: seguì le lezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e del retore Papirio Fabiano, aderente alla setta dei Sestii, che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vita pubblica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito, intorno al 26 d.C., Seneca si recò in Aegyptus al seguito di uno zio prefetto, e vi soggiornò a lungo forse anche per sfuggire alle persecuzioni ordinate già da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci di pratiche ascetiche e straniere. Ritornato nell’Urbe, nel 31 d.C. iniziò l’attività forense e compì il cursus honorum, ottenendo un successo cospicuo. Il giovane provinciale entrò presto nell’ordine senatorio e ricoprì anche la quaestura. Ma un suo discorso in Senato offese Caligola (37-41 d.C.), che, geloso della sua fama oratoria, l’avrebbe messo a morte, se non fosse stato per l’intercessione di un’amante del princeps.

Non scampò, tuttavia, dalla relegatio che, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola: in realtà, con quest’atto, si voleva colpire l’opposizione politica coagulata attorno alla famiglia di Germanico e discriminare Giulia Livilla, rivale di Messalina a corte. Quanto a Seneca, egli fu dunque allontanato in Corsica, dove rimase per otto lunghi anni, praticando i precetti stoici secondo i quali il bene del sapiens non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore. Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperiale per consolarlo della scomparsa del fratello, ma soprattutto per ottenere con adulazioni smaccate la revoca della pena.

Caduta in disgrazia Messalina, nel 49 d.C. la nuova Augusta Agrippina riuscì a ottenere dall’imperatore il rientro a Roma di Seneca e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, Nerone. Nel ruolo di educatore, affiancato dal praefectus praetorio S. Afranio Burro, Seneca scorse l’occasione per realizzare il sogno platonico di uno Stato perfetto, illuminato dalla sapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza, guidando l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone. Morto Claudio nel 54 d.C., effettivamente Seneca, di comune accordo con Burro, per cinque anni governò in luogo del princeps.

Secondo il programma senecano l’imperatore avrebbe dovuto apparire un modello di virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i suoi cives, in una ritornata età dell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità, prospettandogli la gloria derivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristocrazia senatoria e ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione dei poteri. Anche se – come si legge nel De clementia, dedicato proprio a Nerone e «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamento costituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del princeps.

Tuttavia, il sogno di trasformare il giovane imperatore nel sovrano-filosofo auspicato da Platone non urtava solo contro il corso degli eventi e contro la natura di Nerone, che di lì a poco avrebbe rivelato il suo volto illiberale, paranoico e dispotico, attuando una politica anti-senatoriale, repressiva e autocratica. Collideva anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coerentemente con i precetti enunciati. E questa debolezza lo rendeva poco credibile agli occhi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e finanche l’usura. Inoltre, la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinastici imponeva che Seneca stesso prendesse parte in delitti che non potevano non ripugnare alla sua coscienza morale e filosofica. Così il maestro lasciò che Nerone si sbarazzasse del fratellastro Britannico (55 d.C.) e togliesse di mezzo finanche la madre Agrippina (59 d.C.).

Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quegli anni di reggenza non doveva risultare positivo per Seneca. Alla morte nel 62 dell’amico Burro, egli non fu più disposto ad avallare la politica assolutistica di Nerone, ormai sedotto e controllato da Poppea, avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regime, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Fu questo il periodo in cui attese alla composizione delle sue opere.

Ben presto, però, la politica lo raggiunse anche nel dorato isolamento: inviso ormai e sospetto a Nerone e al suo nuovo praefectus praetorio Tigellino, Seneca fu coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65), di cui egli era forse solo al corrente, senza esserne davvero partecipe. Il princeps, condannatolo a morte per lesa maestà, gli ingiunse di tagliarsi le vene: con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente preparato nella riflessione di un’intera vita.

Noël Sylvestre, La morte di Seneca. Olio su tela, 1875. Béziers, Musée des Beaux-Arts.

Le opere e le fonti biografiche

Della vasta produzione senecana, anche fra le opere superstiti quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore: alcune di queste furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in dodici libri di Dialogi (titolo già noto a Quintiliano, e che, pur ricalcando il greco διατριβαί ovvero διαλέξεις, non implica generalmente una forma dialogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a Platone); in queste opere sono trattate questioni di carattere etico e psicologico: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapientis; 3-5. Ad Novatum de ira libri III; 6. Ad Marciam de consolatione; 7. Ad Gallionem de vita beata; 8. Ad Serenum de otio; 9. Ad Serenum de tranquillitate animi; 10. Ad Paulinum de brevitate vitae; 11. Ad Polybium de consolatione; 12. Ad Helviam matrem de consolatione.

Le altre opere filosofiche, tramandate autonomamente, sono i sette libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone (in tre libri, di cui restano il primo e l’inizio del secondo), e i venti libri comprendenti le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più propriamente scientifico sono le Naturales quaestiones, in sette libri (in origine, forse, otto), dedicate a Lucilio. Eccone gli argomenti: I. i fuochi celesti; II. i tuoni, i fulmini, i lampi; III. le acque terrestri; IV. la piena de Nilo e le nubi; V. i venti; VI. il terremoto; VII. le comete.

Sono pervenute di Seneca anche nove tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, tramandate dal manoscritto Etruscus della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in quest’ordine: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento romano: una praetexta probabilmente opera di un imitatore.

A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludus de morte Claudii, o Apokolokyntosis (cioè «inzuccatura» o «apoteosi di uno zuccone»), una satira menippea, dai toni feroci, sul singolare processo di beatificazione del defunto imperatore. Fu scritta nel 54, subito dopo la scomparsa di Claudio, e inscenata a corte con il consenso di Agrippina.

Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Diverse sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, svariati trattati di carattere fisico, geografico, etnografico e molti altri testi filosofici (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte l’autore). Parecchie anche le opere di incerta paternità o sicuramente spurie: fra queste ultime il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e l’apostolo Paolo di Tarso, frutto di una leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.

Molte sono le notizie autobiografiche fornite dall’autore in persona (specialmente nelle Epistulae e nella Consolatio ad Helviam matrem); fra le altre fonti, le più importanti sono i libri XIII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico Cassio Dione e le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.

Flora. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Dialogi e la saggezza stoica

Ben poche, fra le opere senecane rimaste, sono databili con sicurezza o buona approssimazione, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del pensiero dell’autore o collegarle alle sue vicende biografiche. Fra queste dovrebbe essere la Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40) e indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio. Il genere della consolatio, già coltivato nella tradizione filosofica ellenica, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), intorno a quali, a loro volta, ruota gran parte della riflessione di Seneca: a tale repertorio tematico egli torna a far riferimento anche nelle altre due consolationes pervenute. Tutte e due, tra l’altro, sono ascritte agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem, forse del 42, cerca di tranquillizzare la madre sulla propria condizione di esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra, probabilmente del 43, rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente il princeps per ottenere il ritorno a Roma – si tratta, infatti, dell’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo.

I singoli testi della raccolta Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o di problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive: uno Stoicismo, beninteso, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche.

I tre libri del De ira, ad esempio, scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle; all’ira, più precisamente, è dedicato il III libro. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca avrebbe inviato qualche anno dopo, quando Novato avrebbe assunto il cognomen Gallione (dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione) anche il De vita beata (forse del 58): quest’ultimo affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il tema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse, che gli venivano mosse (Tacito, Ann. XIII 42), di incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato, grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato (anche mediante la pratica dell’usura).

François-Léon Benouville, L’ira di Achille. Olio su tela, 1847. Montpellier, Musée Fabre.

Posto che l’essenza della felicità è nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’Epicureismo, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza, se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnauit, «nessuno ha condannato la saggezza alla povertà», 23). Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia, che resta un ideale mai pienamente conseguibile, dovrà saper «sopportare» gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare, secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere beni e ricchezze, ma non farsi possedere da essi.

Del resto, Seneca non pretende di essere un saggio, ma uno che cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. L’accusa di incoerenza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri pensatori del passato:

[18, 1] «Aliter» inquis «loqueris, aliter uiuis». Hoc, malignissima capita […], Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi uiuerent, sed quemadmodum esset et ipsis uiuendum. De uirtute, non de me loquor, et cum uitiis conuicium facio, in primis meis facio: potuero, uiuam quomodo oportet.

Parli in un modo – tu mi dici – e vivi in un altro. Queste accuse […] furono rivolte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavano non come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno anzitutto i miei. Quando ne sarò capace, vivrò secondo virtù. (trad. G. Garbarino)

Tryphe a banchetto. Mosaico, III sec. d.C. da Antakya. Antakya, Museo Archeologico.

Il superiore distacco del sapiens dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della trilogia dedicata all’amico Sereno, che aveva inteso abbandonare le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi.

Il primo dei tre dialoghi, pubblicato dopo il 41, esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità: proprio perché possiede la virtus, il sapiens non può ricevere offesa da parte degli uomini.

Il De tranquillitate animi, scritto all’epoca della collaborazione con Nerone e l’unico parzialmente in forma dialogica, affronta un problema fondamentale nella riflessione senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere di una vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca propone una mediazione, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche vigenti: l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi del tumulto cittadino, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche per ciò si tende a collocare il dialogo poco prima del 62), la scelta totale di una vita appartata è, invece, dichiarata nel De otio: un’opzione forzata, resa necessaria da una situazione politica ormai compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi.

Più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52, sembra risalire il De brevitate vitae, dedicato al suocero Paolino, praefectus annonae. L’opera affronta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che tale può sembrare perché non se ne sa afferrare l’essenza, ma la si disperde in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. La vita è lunga per chi sa impiegarla (vita, si uti scias, longa est, 2, 1), mentre appare brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) per chi sciupa il proprio tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi, rappresentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parrucchiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giorno canzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati senza costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile, ripetendo con «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente il saggio agli occupati.

Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta dei Dialogi, cioè il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae: il testo dibatte l’apparente contraddizione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra punire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, afferma Seneca, Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventure, le avversità che colpiscono chi non se le meriterebbe, non contraddicono tale disegno “provvidenziale”, ma sono, effettivamente, un segno della Providentia divina, che sa distinguere i saggi e, creando ostacoli, consente loro di perfezionarsi: così, il sapiens stoico realizza la propria natura razionale nel riconoscere il posto che, nell’ordine cosmico governato dal λόγος, è stato a lui assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Filosofia e potere

Dedicati a Lucilio e successivi al ritiro dalla vita pubblica, sono anche i Naturalium quaestionum libri VII, l’unica opera senecana di carattere scientifico pervenuta. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti, alle comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio) e sembra costituire il supporto “fisico” all’impianto filosofico di Seneca. Ma, in realtà, non c’è integrazione né organicità fra indagine e ricerca morale.

Più o meno allo stesso periodo, intorno al 64, come attesta lo stesso autore in Epistulae ad Lucilium, 81, 3, risale un’altra opera filosofica tramandata autonomamente dai Dialogi, cioè i sette libri De beneficiis, dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiario, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati – si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti. L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una “monarchia illuminata”. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di quel progetto.

L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la propria concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione (Stupazzini lo ha definito il «manifesto della teoria politica» senecana). L’autore non mette in discussione la legittimità costituzionale del principatus, né le forme apertamente monarchiche che esso aveva ormai assunto: il potere unico era più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal λόγος, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formavano l’Impero; senza considerare, infine, che proprio il principato si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana, che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione senatoria. Il problema, piuttosto, era quello di avere un buon princeps: e, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarebbe stata la sua stessa coscienza, che lo avrebbe dovuto trattenere dal governare in modo dispotico. La clementia, che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di «filantropica benevolenza», era la virtù che avrebbe dovuto informare i suoi rapporti con gli altri, cives o peregrini: con essa, e non incutendo timore, l’imperatore avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione, che, da sempre, sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato.

È evidente, in questa concezione di un Principato “illuminato” e paternalistico, che affida alla coscienza del governante, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione con il princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltivò un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, come si è accennato, alla filosofia spettava un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale dell’imperatore e dell’élite politica, ma la rapida degenerazione del regime neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana dovette ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pose, dunque, al servizio dell’umanità.

Seneca-Socrate. Erma bifronte, I sec.-metà III sec. d.C. c. Berlin, Antikensammlung, Staatliche Museen.

La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae morales ad Lucilium

Se è vero, infatti, che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica dell’autore, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, rimase effettivamente forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione di Seneca successiva al suo ritiro egli si mosse soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale.

L’opera principale della sua produzione tarda, la maggiore e la più celebre in assoluto, sono le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di venti libri di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate appunto all’amico Lucilio, un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative; di buona cultura, era poeta e scrittore egli stesso.

Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare – varie lettere, infatti, richiamano quelle di Lucilio in risposta –, ipotesi, peraltro, non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera, come si è detto, è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62/3 d.C.); essa costituisce, in ogni caso, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.

Le lettere fondano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incline a trattare separatamente singoli temi etici. Un antecedente latino erano state le Epistulae di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chi sente l’esigenza della filosofia intensa come ricerca morale, come quotidiana pratica di saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune il fatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il legame stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impanca a maestro, ma parla sottovoce (umilissima uerba, 38, 1), considerando se stesso bisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale, il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.

Ma il modello delle Epistulae morales ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva con i discepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Seneca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigli utili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loro novità rispetto alla produzione epistolare precedente:

[15, 1] Mos antiquis fuit, usque ad meam servuatus aetatem, primis epistulae uerbis adicere: «Si uales bene est, ego ualeo». Recte nos dicimus: «Si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus.

Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in uso, di aggiungere alle prime parole della lettera: «Se stai bene, sono contento; io sto bene». Meglio, noi diciamo: «Se ti dedichi alla filosofia, sono contento; io sto bene». Stare bene, infatti, in definitiva, consiste in questo. Senza ciò l’animo soffre.

In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale, era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’attualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondare l’interiorità:

[118, 1-2] […] nec faciam quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam «si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit scribat». […] Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et uidere quam multarum rerum candidatus sit, et non suffragari.

[…] Non farò quel che Cicerone, uomo eloquentissimo, esige da Attico, cioè scrivergli «anche se non avrà nulla che gli sia venuto a fior di bocca». […] È preferibile affrontare le proprie debolezze che quelle altrui, analizzare se stessi e vedere a quante cose ci si candida e non dare alcun voto favorevole.

Naturalmente, non che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento alla sfera privata. anzi, ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anni remoti; c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono le espressioni di tenerezza per la giovane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o il resoconto dei fatti del giorno. Ma da questi eventi, di per sé irrilevanti, l’autore trae sempre spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che lo ha colpito lo spinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare di lusso lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù dell’uomo.

Dunque, più degli altri generi della letteratura filosofica, l’epistula, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico-discepolo (sul modello delle scuole di filosofia), la lettera ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. Tra l’altro, allo stesso intento concorre l’uso di concludere ogni epistula, almeno nei primi tre libri, con una sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza su cui meditare.

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Seneca.

Rifacendosi a uno schema di procedimento in uso nel Giardino epicureo, che graduava i vari momenti del cammino verso la sapientia, Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui fa seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi alla forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla tendenza delle singole lettere, man mano che ci si addentra nell’epistolario, ad assimilarsi al trattato filosofico.

Non meno importante dell’aspetto teorico – più volte, anzi, Seneca polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici – è nella lettera quello parenetico: l’epistula tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare, al bene.

Oltre però a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline piuttosto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti – si è detto – per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui il saggio informa la propria vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti.

Col tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo, ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.

La convinzione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi i servi, per i quali l’autore trova parole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati con una passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazione della componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una “carità cristiana”. Ma le analogie con il Cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del carattere fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fastidio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacoli circensi.

Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.

Un motivo costantemente presente nella sua riflessione è quello della morte, vista non come oggetto di paura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema affermazione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Seneca raccomanda: «Medita la morte: chi ti dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere servo».

Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via della perfezione interiore, Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comunicare i risultati della propria speculazione agli altri, perché possano trarne giovamento. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore funge anche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo e centripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra “predicazione” e “interiorità”. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina, che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirittura inscindibili: «Bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te stesso» (15, 3). E anche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il bene dell’umanità, posteri inclusi:

[8, 1-2] In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. […] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo.

Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato e ho chiuso le porte di casa: per poter essere utile a un maggior numero di persone […]. Mi sono isolato non tanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle mie: ora agisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.

Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistulae, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium quale valore supremo: un otium che, beninteso, non è inerzia, ma alacre ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati anche loro nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistulae stesse possano esercitare il proprio benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore – resasi necessaria la rinuncia alla rivendicazioni sul terreno politico – è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile “drammatico”

Se fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent uerba nostra sed prosint (75, 5): queste si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma, ad esempio, di sententiae o di citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo di chi legge un precetto o una norma morale.

In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodare ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un succedersi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto, ma destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca assai ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nell’insegnamento dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica “puntillistica”, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa, fino a cristallizzarla nell’espressione epigrammatica. Di questo stile aguzzo e penetrante, che nella sua continua tensione non sa evitare una certa “teatralità”, Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico», secondo un’efficace definizione), che alterna i toni sommessi della meditazione interiore a quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa tra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.

Pseudo-Seneca. Busto, marmo, II sec. d.C. ca. Zürich, Archäologische Sammlung der Universität.

Le tragedie

Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie, delle quali nove sono generalmente ritenute autentiche (benché qualche dubbio sussista per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco (cothurnatae). Di queste tragedie, le sole, di tutta a letteratura latina, pervenute in forma non frammentaria, si sa molto poco circa le circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tantomeno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Sicché, nell’impossibilità di delineare una cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine in cui la tradizione manoscritta più autorevole le ha trasmesse.

L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia dell’eroe, che, provocata da Giunone, lo induce a uccidere moglie e figli; una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca, infine, ad Atene a purificarsi. Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono sofocleo sono improntate le Phoenissae, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Naturalmente ancora a Euripide (ma forse anche a un’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio) si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e, perciò, assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. Anche la Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell’Ippolito (quello superstite, ma anche quello, anteriore, perduto), nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus, che narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e, quindi, sposo della madre Giocasta: alla scoperta della tremenda verità, egli reagisce accecandosi. All’omonimo dramma di Eschilo si ispira, assai liberamente, l’Agamemnon, che rappresenta l’assassinio del re, dal ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Il Thyestes mette in scena, invece, il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in testi perduti di Sofocle e di Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente): animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Nell’Hercules Oetaeus (cioè “sull’Eta”, il monte su cui si svolge l’evento culminante del dramma dell’eroe), modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e, in realtà, dotato di potere mortale: tra dolori atroci l’eroe si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito l’assunzione fra gli dèi.

Francisco de Zurbarán, La morte di Ercole. Olio su tela, 1634. Madrid, Museo del Prado.

I drammi scritti da Seneca, oltre a costituire una preziosa testimonianza di un intero genere letterario, sono importanti anche come documento della ripresa del teatro tragico latino, dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea aveva fatto per promuovere una rinascita dell’attività teatrale: in questo progetto, tra le altre, si inseriva la produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., in cui la polemica anti-tirannica connessa al soggetto forse aveva avuto come bersaglio M. Antonio. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l’élite intellettuale senatoria sembrò, in effetti, ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime dispotico di certi principes. Tra l’altro, nella tragedia latina, che riprendeva ed esaltava un aspetto già fondamentale in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide.

I tragediografi di età giulio-claudia e flavia di cui si ha notizie furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana del I secolo d.C. Si apprende dagli Annales di Tacito che, sotto il principato di Tiberio, Mamerco Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a togliersi la vita perché in un suo dramma, l’Atreus, erano state ravvisate allusioni all’imperatore. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche il consolato: di lui avrebbe scritto una biografia l’amico Plinio il Vecchio. Pomponio Secondo, oltre a tragedie cothurnatae, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. Si può ricordare, infine, all’epoca di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figurò come interlocutore nel Dialogus de oratoribus di Tacito; delle sue tragedie si conoscono vari titoli, fra cui quelli di due praetextae, il Cato e il Domitius.

La scarsità di notizie sulle tragedie senecane non consente, però, di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che si conosce, anzi, sulla destinazione della letteratura tragica in età già anteriore a Seneca – e cioè che si continuava, sì, a rappresentare normalmente in scena i drammi, ma che ci si poteva anche limitare a leggerli nelle sale di recitazione (odea) – ha indotto gli studiosi a credere (anche sulla base di certe loro peculiarità stilistiche) che quelle di Seneca fossero tragedie destinate prevalentemente alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per talune di esse, la rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, la più diffusa, anche se non tutti gli argomenti di questa tesi sono ugualmente probanti: per esempio, la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano incompatibili con i canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero presupporre, piuttosto che smentire, una messinscena, laddove una semplice lettura avrebbe limitato, se non del tutto annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico.

Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come opposizione fra mens bona e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche – come, per esempio, nella vicenda di Ercole, il tema dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà – rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro di Seneca non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica.

Genève, Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 190, 1 (1410 c.), f. 20r, illustrazione dal De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, raffigurante Atreo che imbandisce a Tieste le membra dei figli.

L’analogia, però, non va troppo accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria (che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato, messinscene paradigmatiche di conflitti interiori), sia perché, nell’universo tragico, il λόγος, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni atroci e orrorosi, e su questo scenario terrificante si scatena la lotta delle forze del male: battaglia che non investe soltanto la psiche dell’uomo, che viene scagliata fin nei suoi angoli più reconditi, spesso attraverso lunghi ed elaborati monologhi, ma il mondo intero, concepito – stoicamente – come unità fisica e morale, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un particolare rilievo, fra le forme in cui più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito politico sul tema del potere, che, come si è visto, occupa un posto centrale nella riflessione e nella biografia senecane.

Di quasi tutte le tragedie dell’autore, come si è detto, si dispone dei corrispettivi precedenti greci, nei confronti dei quali si possono valutare l’atteggiamento che Seneca ha tenuto. Atteggiamento che, rispetto a quello dei drammaturghi latini arcaici, denota, da un lato, una maggiore autonomia (dopo la grande stagione augustea, infatti, la letteratura latina non si limitò più a “tradurre”, ma si misurò alla pari con quella ellenica, in libera emulazione) e, al tempo stesso, però, presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impianto drammatico.

Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il linguaggio poetico delle tragedie senecane ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali, nonché il particolare tipo di senario, già adottato nel teatro tragico augusteo e vicino piuttosto, nel suo rigido schema, al trimetro giambico greco e oraziano che non al più libero senario arcaico.

Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulus espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle sententiae, si sa, è alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stichiche (cioè un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da sempre, infatti, sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (per esempio, nei cataloghi geografici e mitologici), in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.

Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ἐκφράσεις), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica, che alterano i tempi dello sviluppo scenico inserendosi così nella tendenza, propria del teatro senecano, a isolare singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” dovessero essere letti nelle sale di recitazione).

Uno stile, insomma, che con i suoi tratti più peculiari, si inquadra agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i più rappresentativi.

Claudia Ottavia. Busto, marmo, età giulio-claudia, ante 62 d.C. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragedia d’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Seneca stesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissuadere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun autore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre, la morte del princeps è descritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi, non può essere stata scritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C., tre anni prima dell’imperatore.

Nella vicenda Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze con Poppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione del pupillo, ma è consigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fattori dell’ex moglie, il princeps mette in atto il suo delitto: la donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di forza e coraggio stoici. In chiusura della tragedia, appare l’ombra di Agrippina, madre di Nerone e anche lei sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino i delitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631). Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui l’amato Nerone, tremante, affonda nella propria gola il pugnale crudele.

L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli ambienti dell’opposizione senatoria. Si è ipotizzato che l’autore possa essere stato il tragediografo L. Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annaea, il cui praenomen avrebbe facilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere stata composta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisione di particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, sia perché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbe stata possibile se egli fosse stato ancora in vita. Inoltre, l’Octavia è stata conservata da un ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggiormente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia è stata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente o, quantomeno, vicino agli ambienti senatori, che conoscevano assai bene i comportamenti etici, il pensiero e la produzione letteraria di Seneca: alcuni passi, infatti, sono la trasposizione in versi dei Dialogi del filosofo.

L’ambiente culturale che ha espresso quest’opera, dunque, è certamente senatorio. Lo dimostra – come si accennava sopra – la considerazione dell’imperatore come di un tiranno assassino e il fatto che non compaia mai il Senato, ormai ridotto all’ombra di se stesso, ma solo il popolo anonimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i fruitori del testo, certamente destinata alla sola lettura, come si apprende a proposito delle tragedie di Curiazio Materno dal Dialogus tacitiano, che si immagina iniziato «il giorno dopo a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura (recitauerat) del Catone» (una tragedia che, avendo per protagonista il personaggio simbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi circa il contenuto di opposizione al regime imperiale: e Tacito, infatti, aggiunge che la recitatio «urtò la suscettibilità dei potenti»). In questo clima culturale assai teso, nel quale la tragedia assurse a genere della “resistenza” senatoria alla tirannide imperiale, s’inseriva l’Octavia.

Ormai il genere tragico non aveva più un avvenire: infatti, non sarebbe sopravvissuto alle epurazioni neroniane e alla politica di ricambio dei Flavii, che sostituirono alla vecchia nobilitas una nuova classe di funzionari italici e provinciali.

Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Apokolokyntosis

Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo intitolano due dei manoscritti principali che lo hanno trasmesso) o Divi Claudii Apokolokyntosis (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo); il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokyntosis, fornito dallo storico Cassio Dione (LX 35). Questa parola implicherebbe un riferimento a («zucca»), forse come emblema di stupidità, e secondo Dione si tratterebbe di una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal Senato post mortem. Il fatto che nel testo senecano non ci sia accenno a una zucca, e che l’apoteosi, di fatto, non abbia luogo, ha fatto sorgere dubbi sull’identificazione dell’opera menzionata da Dione con il Ludus, dubbi che oggi giustamente sono quasi del tutto dissolti: il curioso termine, dunque, andrà inteso non come «trasformazione in zucca», ma piuttosto come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio aveva goduto. Altri dubbi e perplessità sono stati suscitati dal fatto che, a quanto si sa da Tacito (Ann. XIII 3), lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore defunto (pronunciata da Nerone), ed è parso a molti insostenibile un così radicale contrasto di comportamento.

La difficoltà ad ammettere che, subito dopo gli elogi ufficiali, Seneca potesse dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio ha anche indotto diversi studiosi a posticipare, a torto, la data di composizione (attorno al 60) di un pamphlet che si giustificava solo se reso pubblico (magari in forma anonima) sull’onda di un evento, come la divinizzazione di Claudio, che, dietro il fragile velo dell’ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica – la composizione dell’opera va, quindi, collocata nello stesso 54.

Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.

Il princeps, verso il quale il filosofo nutriva personali motivi di risentimento, appena morto (il 13 ottobre del 54, forse avvelenato da Agrippina Minore) ascende all’Olimpo per essere accolto fra gli dèi, in base alla decretata apoteosi. Ma questi, riuniti in un’assemblea a mezza via tra i concilia deorum omerici e le sedute del Senato, dopo un duro intervento di Augusto, che affonda la proposta di divinizzazione, lo spediscono nell’Ade. Passando per Roma, il dio mancato s’imbatte nel proprio sontuoso funerale seguito da gente contenta (omnes laeti, hilares) e solo allora realizza d’essere veramente morto (ubi uidit funus suum intellexit se mortuum esse, 12, 3). Quindi, scene agli inferi, dove prima diviene schiavo di Caligola, poi del liberto Menandro, al cui servizio continuerà a fare quello che aveva fatto in vita, istruire processi e dare ascolto ai liberti: una condanna di contrappasso, per così dire. Allo scherno dell’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’operetta, parole di elogio per il successore, preconizzando l’avvento di un’età di splendore e di rinnovamento.

La descrizione di Claudio è feroce: di lui sono messi in luce impietosamente i difetti fisici e morali. L’imperatore è zoppo, balbuziente, brutto al punto da potersi ascrivere a stento alla specie umana (quasi homo). Il ritratto morale è conforme all’immagine che ne davano i contemporanei. Egli era, anche da vivo, pubblicamente considerato – certamente a torto – inetto, debole, spietato, succube dei suoi potenti liberti. Quando Nerone, leggendo la laudatio funebris, ne elogiò l’avvedutezza e il senno, «nessuno – scrive Tacito (Ann. XIII 3, 1) – seppe trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, sfoggiasse grande eloquenza». Claudio era, insomma, oggetto di scherno negli ambienti di corte anche prima che fosse scritta questa feroce menippea dell’«apoteosi negata».

Pur possedendo i caratteri formali della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l’iniziatore di questa forma letteraria), ovvero il prosimetrum, lo spudaigelaion (“serio-faceto”), l’aggressività espressiva, l’indignatio polemica, e tutti i topoi propri del genere (quali, ad esempio, l’ascesa in cielo e la discesa agli inferi), il Ludus de morte Claudii sembra discostarsi dal modello del filosofo gadarense almeno per l’assenza di un tratto: la demistificazione. La feroce caricatura, infatti, non disvela nulla che non appartenesse all’immagine pubblica del personaggio messo alla berlina, abitualmente deriso e fatto oggetto di strali ironici, critiche, battute pesanti (come ricorda Tacito). Della letteratura satirica mancano l’intento tradizionale, la censura dei costumi. Non sono tipici della menippea originaria, ma nemmeno di quella varroniana, l’attacco ad personam e la tempestività dell’invettiva, che, in questo caso, è composta subito post mortem di Claudio – giacché «libelli così o si scrivono subito o non si scrivono più» (R. Roncali). Da questo punto di vista, il Ludus è più vicino alla satira luciliana, che sbertucciava i primores populi e non esitava a bollare il vizioso per nome, o a certa libellistica polemica d’età giulio-claudia di cui si ha notizia da Svetonio.

La scrittura di questo caustico pamphlet è agile, scorrevole, varia nell’alternanza di livelli stilistici alti e bassi. Si passa dai toni piani della lingua colloquiale, nelle parti prosastiche, alla parodia della magniloquenza epico-tragica nelle parti metriche. L’alternanza di aulico e volgare, i ricalchi e gli adattamenti parodici dei classici, le ironiche citazioni in greco, le frequenti assonanze con la prosa filosofica fanno di questo libello un finissimo divertissement letterario.

Apoteosi di Tib. Claudio Germanico Augusto, nelle vesti di Giove Capitolino. Statua, marmo, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il ritmo rapido e serrato trascina velocemente il lettore da una scena all’altra (dalla terra al cielo, dal cielo alla terra e poi agli inferi) senza intoppi narrativi. La vivacità degli episodi e la verve satirica hanno fatto pensare anche alla possibilità di una destinazione scenica (non solo di lettura) negli ambienti del palatium.

Gli Epigrammi

Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono adespoti, ma siccome tre di essi, in un altro codice, sono attribuiti all’autore, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione a lui, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso, ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La fortuna

Già si è accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rimproverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo insegnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degni di lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sempre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X 1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, leggevano solamente le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1, 126).

Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolo pronunciarono sullo stile “moderno” dello scrittore. In particolare, Frontone sconsigliava all’imperatore M. Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensavano i difetti, consistenti in un’eloquenza aggrovigliata (confusam… eloquentiam) e nella tendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti positivi, poi, gli sembravano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento, ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).

Non molto più benevolo fu il giudizio di Gellio, che dedicò a Seneca un intero capitolo delle Noctes Atticae (XII 2): il filosofo era ritenuto ineptus et insubidus homo per le critiche da lui espresse (ne XXII libro delle Epistulae morales, che non è giunto) riguardo all’oratoria ciceroniana.

Il contenuto etico delle Epistulae e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spesso, fraintendendone il pensiero, lo considerarono uno degli spiriti nobili del paganesimo più vicini al Cristianesimo. Tertulliano usava l’espressione Seneca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20, 1). Lattanzio lo considerava omnium Stoicorum acutissimus; tra l’altro, questi scrisse, inaugurando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioè ai cristiani) similia locutus est! (Ist. I 5, 28). Girolamo lo nominava di frequente nei suoi testi e per primo citò un carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso, che è pervenuto. In realtà, i punti di contatto tra la filosofia senecana e la teologia paolina erano ben pochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza esterna che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67 d.C.), si avvalevano per la loro “predicazione” del mezzo delle lettere. Il carteggio, comunque, contribuì alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero il contrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli sia dipesa dalla fama medievale di Seneca e dalla diffusione della leggenda sulla sua conversione.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Reg. lat. 1500, f. 62r, illustrazione delle Troades.

In età medievale, infatti, grande fu la fortuna del «Seneca morale», come lo chiamò Dante (Inf. IV 141) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo, che sicuramente lesse. La sua morte era stata intesa come martirio cristiano, secondo una leggenda che, attraverso il Roman de la rose, confluì poi nel Novellino. Quest’ultimo, inoltre, presenta aneddoti della vita di Seneca (tolti dai Fiori dei filosofi) come veri exempla, cioè testimonianze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare.

Una prova ulteriore della fama goduta dal filosofo nel Medioevo consiste nel gran numero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, il Liber de moribus, ecc.). L’autore divenne assai popolare nei secoli XII e XIII: a questo periodo, infatti, risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari monasteri, come quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conservazione dei Dialogi, che, in seguito, ebbero grande diffusione nell’Europa settentrionale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesse per il teatro senecano fu espresso, poi, dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.

Le Epistulae morales ad Lucilium e alcuni trattati furono letti anche da Petrarca e da Boccaccio, i quali, però, non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fu considerato un autore nazionale e tradotto e commentato persino da re Alfonso V in persona.

Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse un Seneca Philosophus da un Seneca Tragicus. L’editio princeps delle opere filosofiche fu quella napoletana del 1475.

Nel XVI secolo Seneca assurse a maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’ammirazione di Montaigne, i cui scritti furono densi di citazioni tratte dalle Epistulae morales e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuitica, poi protestante. Le tragedie dell’orrore, inoltre, con il loro barocco cupo e truculento, furono di grande attualità sia in Italia, sia nell’Inghilterra elisabettiana. Così il teatro senecano influenzò moltissimo Shakespeare (in particolare, nel Macbeth e nell’Hamlet). Lessero Seneca anche Racine e Corneille: quest’ultimo, soprattutto, nella Médée e nella Phèdre imitò le tragedie omonime dell’autore latino.

Barcelona, Archivo de la Corona de Aragón. Col. Manuscritos, Sant Cugat 11 (XIV sec.), f. 1r., illustrazione di una miscellanea con le opere morali di Seneca, che raffigura l’autore intento a leggere, davanti a un armarium.

Anche Voltaire conobbe le opere morali e Alfieri fu influenzato dalle vibranti e cupe scene del teatro di Seneca.

Nell’Ottocento lo scrittore latino continuò a essere letto dagli intellettuali. Criticato da Hegel, che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammarato da Schopenhauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancor oggi continua a costituire uno dei capisaldi della paideia umanistica. Non così per il Seneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo, sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si è aggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.