ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.
Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.
Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).
M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).
Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.
La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio. Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).
Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.
Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.
Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.
La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.
Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.
Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς, φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.
Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).
Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.
Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).
Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.
Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.
Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.
Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.
Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.
Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.
Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.
I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.
Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.
Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.
Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.
Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.
Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.
Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.
Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):
Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.
Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.
Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme
Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.
I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.
Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.
Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.
Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).
Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.
Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.
Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di GothicusMaximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.
L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.
Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.
Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.
Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.
Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).
È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).
La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.
La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.
Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.
In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.
Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.
L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.
Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.
Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).
Bibliografia:
G. Alföldy, The Crisis of the Third Century as Seen by Contemporaries, GRBS 15 (1974), 89-111.
Bianchi Bandinelli R., Roma. La fine dell’arte antica, Milano 1970.
A.K. Bowman, P. Garnsey, A. Cameron (eds.), Cambridge Ancient History: The Crisis of Empire (A.D. 193-337), Cambridge 2005.
M. Cappelli, Per un pugno di barbari. Come Roma fu salvata dagli imperatori soldati, Milano 2021.
M.H. Dodgeon, S.N.C. Lieu (eds.), The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars (AD 226-363): A Documentary History, London-New York 1991.
E.R. Doods, Pagan and Christian in an Age of Anxiety: Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965.
J.F. Drinkwater, H. Elton (eds.), Fifth-Century Gaul. A Crisis of Identity?, Cambridge 1992.
P. Edwell, Rome and Persia at War: Imperial Competition and Contact, 193-363 CE, London-New York 2020.
H. Halfmann, Itinera Principum. Geschichte und Typologie der Kaiserreisen im römischen Reich, Stuttgart 1986.
F. Hartmann, Herrscherwechsel und Reichskrise. Untersuchungen zu den Ursachen und Konsequenzen der Herrscherwechsel im Imperium Romanum der Soldatenkaiserzeit (3. Jahrhundert n. Chr.), Frankfurt a.M.-Bern 1982.
O. Hekster, Rome and Its Empire, AD 193-284, Edinburgh 2008.
K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser, Berlin 2008.
E. Kettenhofen, Die römisch-persischen Kriege des 3. Jahrhunderts n. Chr., Wiensbaden 1982.
R. Lane Fox, Pagans and Christians: In the Mediterranean World from the Second Century AD to the Conversion of Constantine, London 1986.
R. MacMullen, Paganism in the Roman Empire, New Haven-London 1983.
A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 1973².
M. Sommer, Die Soldatenkaiser, Darmstadt 2014.
P. Southern, The Roman Empire from Severus to Constantine, London 2001.
S. Swain, M. Edwards (eds.), Approaching Late Antiquity: the Transformation from Early to Late Empire, Oxford 2004.
E.A. Thompson, Peasant Revolts in Late Roman Gaul and Spain, P&P 2 (1952), 11-23.
Da Alessandria a Roma. | Della vita di Plotino (Πλωτῖνος) si sa quasi esclusivamente quello che riferisce il suo discepolo Porfirio nella Vita Plotini. Infatti, non solo Plotino non parlò mai di sé nella sua opera, ma non volle parlarne nemmeno con gli amici più intimi. Scrive Porfirio (Plot. 1):
«Plotino, il filosofo dell’età nostra, aveva l’aspetto di uno che si vergogna di essere in un corpo. In virtù di tale disposizione d’animo, egli aveva ritegno a parlare della sua nascita, dei suoi genitori, del suo luogo di provenienza. Sdegnava a tal punto il mettersi a disposizione di un pittore o di uno scultore che ad Amelio, il quale voleva convincerlo a che gli si facesse il ritratto, rispose: “Non basta, dunque, trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire; ma voi pretendete addirittura che io consenta a lasciare una più durevole immagine di tal simulacro, come se fosse davvero qualcosa che valga la pena di vedere?”».
Stando alla Suda (π 1811 Adler), Plotino nacque a Licopoli, presso il Delta del Nilo (od. Sajin al-Kum?), verso il 205, il tredicesimo anno di principato di Settimio Severo. Nel 232, all’età di ventott’anni, Plotino iniziò a dedicarsi interamente alla filosofia, entrando a far parte del circolo di Ammonio Sacca ad Alessandria, presso il quale rimase fino al 243. Mentre frequentava la scuola di Ammonio, Plotino si era convinto della necessità di un contatto diretto con la sapienza orientale, che, probabilmente, considerava il completamento di quanto avesse appreso dal maestro.
La spedizione contro i Sassanidi di Gordiano III nel 243 sembrò, dunque, offrirgli l’occasione propizia di confrontarsi con Gimnosofisti e Magi; così, Plotino lasciò Alessandra per seguire l’imperatore (Porph. Plot. 3). Si rivelò tuttavia un’esperienza drammatica, che non gli poté dare alcuno dei frutti sperati: il giovane imperatore fu ucciso in Mesopotamia e il filosofo riparò ad Antiochia, riuscendo solo a stento a salvarsi. Di qui egli non poté o non volle far ritorno in Egitto (probabilmente Ammonio era scomparso) e decise di recarsi a Roma, dove giunse ancora nel 244, quando M. Giulio Filippo era ormai asceso alla porpora. Allora Plotino aveva ormai raggiunto i quarant’anni e si sentiva, perciò, maturo per aprire nella capitale dell’Impero una scuola tutta sua.
Per circa un decennio (244-253) il filosofo tenne lezioni, rifacendosi alle conversazioni di Ammonio e al suo metodo, lasciando largo spazio alla discussione e alla diretta ricerca di coloro che lo frequentavano, ma senza comporre nessuno scritto. Si trattava di mantenere fede al vecchio patto stretto con due suoi condiscepoli, Erennio e Origene, sebbene più tardi avesse scoperto che essi lo avevano tradito. Solo dal 254 Plotino ruppe gli indugi e si mise a scrivere pure lui. Quando Porfirio giunse a Roma nel 263, Plotino aveva già composto ben ventun trattati. Ne scrisse altri ventiquattro fra il 264 e il 268, e i restanti nove dopo il 268.
Porfirio, ammesso nella scuola, ricevette dal maestro l’incarico di emendare e riordinare i vari scritti (Porph. Plot. 3-8; 24-25). Siccome questi testi erano stati redatti senza un ordine preciso, Porfirio decise di seguire il modello adottato da Andronico di Rodi nella pubblicazione delle opere di Aristotele, cioè di radunare insieme i libri che trattavano tematiche molto vicine. In più, Porfirio si lasciò guidare dalla convinzione del significato metafisico del numero e, combinando con la «perfezione del numero sei» l’«enneade», cioè il numero nove, divise i cinquantaquattro trattati plotiniani in sei gruppi di nove ciascuno e raggruppò gli argomenti affini, graduandoli, a seconda della difficoltà. Nacquero così quelle Enneadi, che contengono uno dei più alti messaggi filosofici dell’antichità.
La pubblicazione di Porfirio del corpus plotiniano avvenne tra il 300 e il 305. Nulla, invece, è rimasto dell’edizione che approntò il discepolo Eustochio né dei Cento libri di scolii agli scritti del maestro, raccolti da Amelio.
Profondamente amato e stimato da tutti, anche per la dirittura della sua vita, per la sua aspirazione a costituire una società di «saggi» seguaci della vita platonica, Plotino non solo ebbe molti scolari, uomini e donne, ma a lui ci si rivolse quale consigliere, tutore, amministratore di beni. Il maestro godette dell’immensa stima degli imperatori Gallieno e Salonina: a tal proposito, Porfirio riferisce che il filosofo, avvalendosi dell’amicizia e dell’affetto degli Augusti, progettava di far sorgere in Campania una città di filosofi, che avrebbe avuto il nome di Πλατωνόπολις (Porph. Plot. 12). Plotino scomparve nel 270, all’età di 66 anni, a causa di un male (non ben identificabile) che gli procurò piaghe nelle mani e sui piedi e gli arrochì notevolmente la voce. Negli ultimi tempi, a causa di questa malattia, egli aveva abbandonato la scuola e gli amici, ritirandosi nella tenuta di un vecchio conoscente in Campania, dove spirò in solitudine.
Un oratore che parla in un’aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec. d.C. dal tempio di Ercole. Ostia, Museo Archeologico.
Caratteristiche e finalità della scuola plotiniana. | La scuola di Plotino non assomigliava probabilmente a nessuna delle precedenti. L’autorità e il prestigio che il filosofo si era acquistati presso l’aristocrazia furono tali che molti «al pensiero della morte imminente» gli affidavano i figli e le figlie da educare e i loro beni da conservare e amministrare, come «a un custode sacro e divino», sicché la casa in cui abitava (che apparteneva a una certa Gemina, di cui era ospite) brulicava di ragazzi, ragazze e vedove (Porph. Plot. 9). Da lui si recavano anche uomini politici al fine di comporre vertenze e liti e a lui si affidavano tutti come arbitro infallibile. Quanto al suo progetto di una città i cui abitanti avrebbero dovuto osservare «le leggi di Platone» (νόμοις… τοῖς Πλάτωνος), sebbene Gallieno e l’imperatrice Salonina avessero preso in seria considerazione la sua attuazione, fallì a causa delle trame dei cortigiani.
Le lezioni di Plotino erano frequentati da vari tipi di uditori. Alcuni erano occasionali e saltuari, attratti semplicemente dalla fama del maestro e, quindi, dalla curiosità. C’erano poi quelli che frequentavano con certa costanza, e fra questi comparivano numerosi senatori romani e nobili di origine orientale. Infine, c’erano i veri e propri «seguaci». È da notare che anche un certo numero di donne – come riferisce il biografo – prendeva parte alle lezioni. Agli scritti del maestro, invece, solo pochi avevano diritto di accesso, e solo dopo aver dimostrato di possedere precisi requisiti intellettuali e morali (Porph. Plot. 1-12).
Platone aveva fondato la sua Accademia per poter formare nella filosofia gli uomini che avrebbero dovuto rinnovare la πολιτεία; Aristotele aveva istituito il Peripato per organizzare in modo sistematico tutta la ricerca e tutto il sapere; Pirrone, Epicuro e altri avevano creato le loro scuole per cercare di dare alle persone l’ἀταραξία, la pace e la tranquillità dell’anima. La scuola di Plotino si prefiggeva un ulteriore fine: voleva insegnare agli aderenti a sciogliersi dalla vita di quaggiù per riunirsi al divino e poterlo contemplare fino al culmine di una trascendente unione estatica. Lo scopo della nuova istituzione era, dunque, religioso e mistico: quello stesso fine che stava alla base del progetto di Platonopoli.
Plotino. Busto (attribuito), marmo, c. 250-300, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.
II. Ripresa e conclusione della «seconda navigazione»
Lo sviluppo delle istanze medioplatoniche e neopitagoriche. | Il moderno lettore delle Enneadi può avere spesso l’impressione che molte tesi non vengano dimostrate o che, perlomeno, non vengano convenientemente giustificate. Ma chi si soffermasse a questa impressione e valutasse non adeguatamente fondata la speculazione plotiniana, cadrebbe in un grave errore di prospettiva e ne pregiudicherebbe in modo irreparabile la comprensione. Occorre tener presente, infatti, che, nel secolo immediatamente precedente, il medioplatonismo e il neopitagorismo avevano raggiunto la loro ἀκμή. Questi movimenti avevano messo definitivamente in crisi il materialismo dei grandi sistemi ellenistici, avevano recuperato gli esiti della platonica «seconda navigazione» e avevano addirittura tentato di integrarli e di rielaborarli, tenendo conto soprattutto degli apporti di Aristotele, senza trascurare le istanze precedenti. Plotino, insomma, trovò alcune verità filosofiche già guadagnate e giustificate dai suoi predecessori.
Tra l’altro, già in antico si era notata certa somiglianza fra alcune tesi di Numenio e alcune parallele tesi di Plotino; anzi, questa somiglianza apparve tanto forte che ad Atene si accusò Plotino addirittura di plagio! Uno dei discepoli, Amelio, si sentì in dovere di difendere il maestro e di confutare pubblicamente con uno scritto questa accusa (Porph. Plot. 17). Se quest’accusa è infondata, è comunque innegabile l’esistenza di tangenze tra i due pensatori. Plotino, in sostanza, riprese le istanze sostenute dai medioplatonici e dai neopitagorici, ma le sviluppò e le portò a maturazione con una profondità, una lucidità e un’audacia senza paragoni, tali da eclissare i suoi immediati predecessori.
III. Il sistema di Plotino nei suoi fondamenti e nella sua struttura
La prima ipostasi: l’uno. | È impossibile intendere l’originalità e la novità di Plotino, se non si comprende la riforma che egli apportò alla metafisica platonica e aristotelica, la quale aveva condotto a risultati che, per più di un aspetto, erano stati rivoluzionari. È ben vero che in Platone si possono rintracciare spunti plotiniani ante litteram e che nella successiva storia del platonismo e del neopitagorismo questi spunti siano lievitati in modo considerevole. Eppure, Plotino andò ben oltre con una vera e propria rifondazione della metafisica classica.
Il principio ultimo del reale per Aristotele era costituito dall’essenza (οὐσία) e dall’intelligenza del Motore immobile (νοῦς). Invece, per Plotino il principio era ancora ulteriore: l’uno (τὸ ἕν). Questo si situa al di là dell’essere e oltre l’intelligenza, è trascendente. L’uno, dunque, per Plotino è il fondamento e il principio assoluto di tutte le cose: ogni realtà, più precisamente, è tale solo in virtù della sua unità. Se l’unità di una cosa si spezza, quella cosa cessa di esistere. La sussistenza di un elemento dipende, dunque, dalla sua unità: se si toglie questa, si toglie l’essere della cosa.
Una volta stabilito che l’essere degli enti dipende dalla loro unità, da che cosa deriva questa loro unità? Secondo Plotino, tutti gli elementi fisici ricevono unità dall’anima, la quale è appunto attività creatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili; perciò, è fondamento della loro unità. Ma allora l’anima stessa è unità o piuttosto l’anima imprime unità, ma non coincide con essa, e deriva essa stessa la propria unità da qualcos’altro? La risposta di Plotino è chiarissima: esistono gradi differenti di unità. In tal senso, l’anima detiene un grado di unità superiore a quello dei corpi, ma non è essa stessa unità. Dunque, l’anima introduce nel mondo fisico l’unità, però, a sua volta, la riceve da ciò che sta al di sopra, vale a dire dall’intelligenza (νοῦς) e dall’essere (οὐσία).
Eppure, sia l’intelligenza sia l’essere, per quanto godano di un grado superiore all’anima, non sono l’uno, perché implicano molteplicità: dualità di pensante e pensato e molteplicità di idee, cioè la totalità delle realtà intellegibili. La radice dell’unità, dunque, è qualcosa che trascende lo stesso νοῦς, qualcosa di assolutamente scevro di qualsivoglia pluralità, è l’uno in sé (Plot. Enn. VI 9, 1-12).
Infinitudine, trascendenza, ineffabilità. | Caratteristica fondamentale dell’uno è l’infinitudine. Da questa occorre partire per comprendere le differenze fra la metafisica di Plotino e quella classica. L’infinitudine era stata attribuita al principio (ἀρχή) solo da alcuni antichi filosofi della natura e in dimensione fisica. In Platone e in Aristotele era prevalsa l’idea che l’infinito (ἀπείρων) comportasse imperfezione (che fosse, cioè, sinonimo di indeterminato, incompiuto), mentre il finito (in quanto determinato, compiuto) era stato associato con il perfetto. Platone aveva inteso il principio primo come limite (πέρας), mentre il principio materiale come l’illimitato e l’infinito (ἀπείρων). Aristotele, poi, aveva dichiarato impossibile l’esistenza dell’infinito in atto, concependolo come puramente potenziale e circoscrivendolo alla categoria della quantità; inoltre, aveva affermato che il perfetto implica sempre un fine e il fine un limite.
E, dunque, che cosa significa l’infinito nella dimensione dell’immateriale? L’infinito plotiniano non è spaziale né quantitativo, ma, come in certa misura già in Filone di Alessandria, è inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice. In tal senso, evidentemente, il concetto di potenza (δύναμις) assume non già il significato di potenzialità, poiché questo significato aristotelico era strutturalmente legato alla materia e al corporeo, ma di attività, come in Filone. Dunque, la potenza coincide con la forza attiva (ἐνέργεια), con l’atto puro, l’atto metafisico primo e supremo. Intendere l’uno come infinita potenza significa, dunque, concepirlo come infinita spirituale energia creatrice (Plot. Enn. V 5, 10-12; VI 9, 6).
Le rivoluzionarie conseguenze che il concetto positivo di infinito immateriale comportò nell’ambito della «seconda navigazione» furono le seguenti. L’uno non poteva essere inteso come idea (ἰδέα) platonica, perché forma ed essenza in Platone implicavano la finitudine, il limite, né tantomeno come sostanza immobile, eterna e separata, in senso aristotelico, perché anche questa essenza, ovvero il νοῦς, era concepita parimenti finita e determinata. Di conseguenza, siccome l’essere, com’era stato inteso e da Platone e da Aristotele, era l’essere dell’εἶδος e dell’οὐσία e, perciò, finito, si comprende per quale ragione Plotino sentisse la necessità di porre l’uno «al di sopra dell’essere e del pensiero» e di ribadire questa tesi nel corso di tutte le sue Enneadi. Era questa una nuova concezione di trascendenza, che, nell’ambito della grecità, non aveva se non assai vaghi precedenti, mentre aveva un chiaro antesignano in Filone Alessandrino. Il principio supremo per Plotino non solo trascendeva il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine, compresa quelle poste da Platone e da Aristotele all’intelligibile e all’intelligenza. Si comprende, insomma, come all’uno Plotino tendesse ad attribuire determinazioni prevalentemente negative e a dichiararlo perfino «ineffabile» (Plot. Enn. V 3, 13).
Anubis. Mosaico (dettaglio), fine II-inizi III sec. da una domus urbana di Ariminium. Rimini, Museo della Città.
Le caratterizzazioni positive dell’uno. |Con il termine «uno» (τὸ ἕν) Plotino designava il principio supremo, senza però indicare un particolare uno, cioè una determinata unità, ma l’uno-in-sé, la causa e la ragione d’essere di tutte le altre cose, l’assolutamente semplice che è ragion d’essere del complesso e del molteplice. Anche queste precisazioni, comunque, possono trarre in inganno, giacché la semplicità dell’uno non è povertà, ma è infinita potenza, quindi infinita ricchezza: l’uno è potenza di tutte le cose, nel senso che tutte le porta all’essere e nell’essere le mantiene (Plot. Enn. III 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).
L’altra categoria che Plotino usa di frequente per riferirsi al principio assoluto è «bene» (ἀγαθόν). Anche in questo caso, non si tratta di un particolare bene, ma del bene-in-sé, ovvero non di qualcosa che ha il bene, ma che è il bene stesso, il bene assolutamente trascendente (Plot. Enn. II 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).
Sulla base di quanto si è fin qui detto, è ora possibile chiarire meglio il senso delle affermazioni secondo cui l’uno è al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita. Plotino, evidentemente, non voleva dire che il principio primo fosse il non-essere, il non-pensiero o qualcosa che fosse privo di vita. Al contrario, egli intendeva significare che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’uno è alcunché di superiore a questi suoi prodotti. E, in effetti, Plotino usa questi termini quando si riferisce all’uno accompagnandolo con «per così dire», cioè in senso analogico, o addirittura parla di «super-pensiero», di «super-essere», di «super-vita» (Plot. Enn. VI 8, 14-16).
L’uno come attività auto-produttrice. |L’uno è la ragion d’essere di tutto ciò che a esso segue ed è tale proprio per il suo essere quello che è. Ma Plotino non si accontentava di una spiegazione a questo livello; egli pose una domanda ancora più radicale, toccando così i limiti estremi delle possibilità della metafisica: perché l’uno è ed è quello che è? Questo interrogativo, posto in altri termini, equivale alla seguente: perché esiste l’assoluto e perché l’assoluto è così com’è?
Innanzitutto, bisogna escludere che esso sia per caso o per accidente, perché possono esistere in siffatto modo solo le cose del mondo sensibile, soggette al divenire. In secondo luogo, esso può esistere per una libera scelta, del tipo di quella che presuppone l’esistenza di contrari sui quali deve operare, perché esso è al di là di tutto questo. Inoltre, non si può dire che esso esista di necessità, perché la necessità è a esso posteriore, anzi è proprio esso la legge e la necessità delle altre cose. E, ancora, non si può nemmeno parlare, nei confronti dell’assoluto, di un essere, di un’essenza e di una determinata natura e spiegare la sua attività in funzione della sua natura medesima, perché esso trascende ogni cosa e la sua attività è tale solo in senso analogico. Operari sequitur esse, avrebbero detto i filosofi medievali. Plotino per caratterizzare il suo assoluto avrebbe affermato il contrario: esse sequitur operari; o meglio, essere e operare, nell’assoluto, coincidono: il primo principio si auto-pone, crea sé stesso, è attività auto-produttrice. In esso la volontà corrisponde al suo atto e, quindi, al suo stesso essere: è volontà di essere ciò che è, è libertà totale e assoluta; vuole essere ciò che è, perché è quanto di più alto possa esistere, è valore supremo e supremo positivo (Plot. Enn. VI 8, 7).
Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del Sole. Olio su tela, 1899. Mosca, Tretyakov Gallery.
La processione di tutte le cose dall’uno. | Allora, perché e come dall’uno sono derivate tutte le altre cose? Perché l’uno, pago di sé stesso, non è rimasto in sé stesso? È questa, in fondo, la domanda metafisica di assai ardua soluzione. Anche il tentativo plotiniano di rispondere a questo problema rappresenta uno dei vertici della metafisica antica. Si tratta di una risposta originalissima, un unicum nella storia del pensiero occidentale.
Nel rispondere al quesito, Plotino si avvale, a più riprese, di immagini splendide, divenute giustamente famose. La più celebre è certamente quella della luce (Plot. Enn. IV 3, 17): la derivazione delle cose dall’uno è rappresentata come l’irraggiarsi della luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti in intensità, mentre la fonte della luce permane in sé senza mai spegnersi. Il primo cerchio luminoso prodotto è l’intelligenza, la seconda ipostasi (ὑπόστασις); il cerchio successivo è l’anima, la terza ipostasi. Il cerchio che viene dopo segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la materia, che abbisogna di un irraggiamento esterno, essendo ormai tenebra.
Plotino riprende questa immagine della luce (Plot. Enn. IV 1, 6) intrecciandola con altre: il fuoco che emana calore, la sostanza odorosa che emana profumo, il vivente che, giunto a maturità, genera. Altre due celebri immagini sono quella della sorgente inesauribile che genera i fiumi e quella dell’albero da frutto (Plot. Enn. III 8, 10). Infine, non meno interessante è l’immagine dei cerchi concentrici: l’uno è come il centro, la seconda ipostasi è come un cerchio immobile, mentre l’anima è come un cerchio mobile (Plot. Enn. IV 4, 10).
Queste immagini sono state spesso prese troppo alla lettera e alcuni interpreti si sono addirittura fermati a esse, fraintendendo così i concetti che esse dovrebbero chiarire. È sulla base di queste immagini che taluni hanno parlato di «emanazionismo», di «panteismo» e di «monismo». In realtà, le cose sono assai più complesse di quanto queste formule non lascino supporre. La plotiniana «processione dall’uno» era ben altra faccenda.
Da tutte le immagini usate dal filosofo si ricava che il principio rimane fisso e, restando, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo condiziona. Ciò che è generato è inferiore al generante e non serve al generante; il generato ha bisogno del generante, non viceversa (Plot. Enn. V 3, 12).
Ora, data la sua infinita perfezione e la sua trascendente potenza, l’uno generante non è forse «necessitato» a creare? Può la fonte di luce non emanare luce, la fonte d’acqua non zampillare acqua, l’oggetto profumato non diffondere profumo? È proprio su questo punto che le immagini traggono in inganno, rivelando solo un aspetto del pensiero plotiniano e velando l’altro, che è proprio quello più nuovo. Plotino distingueva due tipi differenti di attività dell’uno e delle altre ipostasi: da una parte, l’attività dell’ente, dall’altra quella che deriva dall’ente. La prima è immanente all’ente, per così dire, mentre la seconda esce dall’ente e si dirige all’esterno. In altri termini, l’attività dell’ente coincide con la singola realtà, mentre l’attività che deriva dall’ente si dirige ad altro. Applicando questa distinzione all’uno, si dovrà parlare di un’attività dell’uno e di un’attività che deriva dall’uno: l’attività dell’uno è quella che lo fa essere, lo mantiene e lo fa rimanere; invece, l’attività che deriva dall’uno è quella che fa sì che dall’uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. È chiaro che l’attività dall’uno dipenda strutturalmente dalla stessa attività dell’uno (Plot. Enn. V 4, 2).
La seconda ipostasi: l’intelligenza. | La generazione delle ipostasi implica un’ulteriore attività, che non è meno essenziale delle altre: senza di essa, infatti, le ipostasi stesse non potrebbero sussistere. Si tratta dell’attività del «rivolgersi» al principio da cui ciascuna deriva per «guardarlo» e «contemplarlo». E questa attività non è affatto espressa nelle immagini sopra ricordate. Di conseguenza, essa è stata misconosciuta (e talora del tutto ignorata) dagli interpreti, mentre essa rappresenta uno dei cardini attorno a cui ruota tutta la metafisica plotiniana. In particolare, per quanto riguarda la seconda ipostasi (νοῦς), è da rilevare che la potenza originaria non genera altro che qualcosa di indeterminato o informe; ciò può determinarsi e divenire forma soltanto «rivolgendosi» all’uno, guardandolo e contemplandolo.
Questo prodotto indeterminato e informe dell’uno è detto da Plotino «alterità» intelligibile, o «materia intelligibile», cioè pensiero indefinito, che può determinarsi appunto rivolgendosi all’uno. Tuttavia, anche questo «rivolgersi» all’uno non è ancora intelligenza, ma la causa che la fa essere. Plotino distingueva fra il «rivolgersi» della potenza all’uno, il quale la feconda e la informa, e il «riflettere» di questa potenza su sé stessa già fecondata. Questi due momenti, distinguibili solo logicamente e non cronologicamente, spiegano le due facce dell’intelligenza: nel primo momento nasce la sostanza (il contenuto del pensiero), nel secondo nasce il pensiero vero e proprio. Questa duplicità dei momenti giustifica altresì la nascita del molteplice (Plot. Enn. II 4-5; V 2, 1). Inoltre, la nascita della seconda ipostasi è il formarsi del molteplice: l’intelligenza, infatti, non pensa l’uno, ma pensa se medesima riempita e fecondata dall’uno; il molteplice sorge solamente all’interno della seconda ipostasi (Plot. Enn. VI 7, 16).
Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum
Essere, pensiero, vita. | Se per Plotino l’uno è «potenza di tutte le cose» e l’intelligenza è, a sua volta, «tutte le cose» (V 4, 2), l’intelligenza è, anzitutto, inscindibile unione di essere e pensiero, è l’essere puro di Platone, quell’essere che è pienamente e non può non essere, ed è, a un tempo, il pensiero di pensiero di cui parlava Aristotele. In secondo luogo, l’intelligenza è anche vita, è «il vivente perfetto», il «vivente in sé», «vita infinita», non necessariamente legato alla dimensione fisica, ma è spirituale, immateriale e fuori dalla temporalità (Plot. Enn. VI 6, 7-8).
L’intelligenza come «cosmo intelligibile». |Nel nuovo contesto della dottrina ipostatica dell’intelligenza, Plotino riprende un’espressione coniata da Filone, per cui il platonico Iperuranio diveniva «cosmo intelligibile». Cogliendo dall’Alessandrino una serie di spunti e sulla base della propria inedita concezione dell’intelligenza come strutturale unità di essere e pensiero, Plotino procedette alla più audace riforma della dottrina delle idee proposta dalla speculazione antica.
La modifica principale consistette nella trasformazione dell’idea da mero «intelligibile» a intelligenza, o meglio in qualcosa che fosse contemporaneamente intelligibile e intelligenza, sostanza pensante in cui pensante e pensato coincidessero. Le idee diventavano forze o potenze intelligenti, vive: insomma, «spiriti» (Plot. Enn. IV 8, 3).
Connessa a questa era l’ulteriore modifica della concezione del rapporto sussistente fra le idee, fra ciascuna idea e la totalità delle idee, e viceversa. Plotino, superando Platone, giunse ad affermare che ciascuna idea fosse in certo senso tutte le altre. Inoltre, nella misura in cui l’intelligenza rinserra in sé tutte le cose, esistono idee di tutte le cose, e non solo delle specie, ma anche di tutte le possibili differenze in cui può presentarsi la specie. Così, per esempio, non esiste un’unica idea di uomo, ma tante idee di uomo quante sono le differenti conformazioni degli uomini, quante sono le differenze tra un individuo e l’altro.
In Plotino si incontra, altresì, la dottrina dei numeri ideali, ma in parte approfondita e chiarita: i numeri ideali (da distinguere nettamente da quelli matematici!) derivano tutti dallo stesso uno. La diade sorge dall’uno medesimo ed è illimitata e può ricevere limite dall’uno stesso. I numeri ideali derivano dalla delimitazione della diade da parte dell’uno. Tali numeri sono la forza che divide l’essere e fa nascere la molteplicità delle cose (Plot. Enn. V 1, 5; VI 6, 9-15).
Tutto quanto sopra è stato detto spiega la ragione per cui Plotino, con espressione filoniana, abbia descritto con νοῦς il «cosmo intelligibile», mondo dell’ordine e dell’armonia spirituale, mondo della bellezza. Secondo Plotino, la bellezza, in generale, coincide con la forma: una cosa è bella per quanto possiede di forma. L’intelligenza, che è il mondo delle forme e delle idee, vale a dire il sistema perfettamente ordinato delle forme nella loro totalità è la suprema e assoluta bellezza (Plot. Enn. I 6; V 8).
Scena nilotica. Affresco, ante 79, dal Tempio di Iside (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La terza ipostasi: l’anima. | L’intelligenza è potenza inesauribile e infinita e, in quanto tale, «trabocca» e genera un’altra realtà, gerarchicamente inferiore: l’anima (ψυχή). Per spiegare la processione (ἀπόρροια) dell’anima dall’intelligenza, Plotino si rifaceva agli stessi schemi di cui si era servito per chiarire la processione dell’intelligenza dall’uno. Dunque, analogamente, egli distinse tra un’attività dell’intelligenza, che rivolge a sé stessa, e un’attività dall’intelligenza, rivolta all’esterno; la seconda attività deriva dalla prima e, anzi, è conseguenza della prima, in quanto è proprio in grazia del proprio rivolgersi a sé medesima che l’intelligenza produce qualcos’altro (Plot. Enn. V 3, 7; VI 2, 22).
Il risultato di tale attività, comunque, non è ancora anima: occorre, come si è visto per l’intelligenza nei confronti dell’uno, che anche il prodotto dell’attività che procede dall’intelligenza si rivolga a guardare e a contemplare l’intelligenza medesima. L’anima, infatti, come prodotto dell’attività dell’intelligenza, è nei confronti di questa come la materia rispetto alla forma o come l’indeterminato rispetto alla determinazione formale (Plot. Enn. II 4, 3; V 1, 3-6). Rivolgendosi all’intelligenza e contemplandola, l’anima, appunto, «attraverso l’intelligenza» stessa vede il bene, cioè l’uno; entra in possesso del bene medesimo. In ultima analisi, sta proprio in questo aggancio all’uno, tramite l’intelligenza, il fondamento supremo della realtà dell’anima per Plotino (Plot. Enn. VI 7, 31).
L’anima nel sistema plotiniano. | La caratteristica essenziale dell’intelligenza consiste nel pensare, donde la sua dualità – il pensiero è sempre pensiero dell’essere – e la sua molteplicità – l’essere è una molteplicità di idee. L’uno, sosteneva Plotino, se vuole pensare deve farsi intelligenza, dato che l’uno come tale non può pensare. Ora, anche l’anima pensa, almeno nella misura in cui guarda e contempla il principio che l’ha generata, l’intelletto; ma la sua essenza consiste non nel pensare – altrimenti, non si distinguerebbe dall’intelligenza –, ma nel produrre e nel dar vita a tutte le altre cose che sono, quelle sensibili, nell’ordinarle e nel governarle (Plot. Enn. IV 8, 3; V 6, 2).
Ora, è da notare che questo «guardare» dell’anima alle cose che sono dopo di lei, questo «ordinare», «reggere», «comandare», coincidono con il suo produrre, generare e far vivere queste stesse cose. L’anima è principio creatore di tutte le cose. L’anima è, di conseguenza, non solo principio di movimento, ma essa stessa è movimento come vita (V 2, 1).
In conclusione, si può dire che, come l’uno deve diventare intelletto per pensare, così deve farsi anima per generare tutte le cose del mondo visibile. L’anima, dunque, costituisce il momento estremo nel processo di espansione dell’infinita potenza dell’uno, l’ipostasi cosmogonica che coincide con il momento in cui l’incorporeo genera il corporeo, manifestandosi nella dimensione del sensibile. Non bisogna dimenticare che le ipostasi successive all’uno, da un lato, in un certo senso sono l’uno stesso, nella misura in cui questo è la fonte e la potenza di tutto e, dall’altro, non sono l’uno, ma differenziazioni della potenza dell’uno, in cui il nuovo che sorge non distrugge l’antico, ma deriva proprio dal permanere dell’antico.
Scena di sposalizio. Rilievo, marmo, c. 280, dal cosiddetto Sarcofago dell’Annona, da una camera sepolcrale di via Latina. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme
La posizione intermedia dell’anima. | Plotino assegna all’anima una «posizione intermedia» e la considera «l’ultima dea» (Plot. Enn. IV 8, 5), l’estrema realtà intelligibile, che confina con il sensibile ed è la causa stessa che genera il sensibile. L’anima possiede «due volti» (IV 6, 3), orientati nell’una e nell’altra direzione, ma ciò esclude che essa abbia una natura mista di incorporeo e corporeo. L’anima si trova in posizione intermedia e ha due facce, perché nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere incorporea, le «accade» di aver a che fare con il corporeo da essa stessa prodotto, condividendone alcune caratteristiche, ma non nel modo in cui tali tratti sono propri del corporeo stesso.
Non essendo a priori divisa, l’anima «diventa divisibile nei corpi», non nella maniera in cui sono divisi questi, ma «senza deflettere dall’unità del suo essere» (Plot. Enn. IV 1, 1-2). La divisibilità dell’anima non significa la sua frantumazione in parti staccate successiva l’una dall’altra come avviene per i corpi, ma l’entrare intera in tutte le parti del corpo diviso, dato che essa non ha grandezza. L’anima è, dunque, divisa-e-indivisa, una-e-molteplice, in quanto è principio che produce, regge e governa il mondo sensibile: con la sua unità molteplice e divisa essa elargisce la vita a tutte le cose, con la sua unità indivisibile le riunisce e le controlla; è tutta dappertutto e dappertutto identica.
La pluralità dell’anima. | La questione dell’unità e della molteplicità proprie dell’anima, per la verità, risulta ancora più complessa se la si guarda da un’altra angolatura. Plotino, infatti, parlava di una molteplicità dell’anima non solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale, gerarchico. Malgrado l’ampiezza del linguaggio delle Enneadi su questo argomento, che talvolta rasenta l’equivoco, sembra che la gerarchia delle anime cui Plotino fa riferimento sia la seguente. In primo luogo, esiste un’anima suprema, universale, ossia nella sua interezza e purezza, ipostasi del mondo intelligibile; in secondo luogo, c’è un’anima del tutto, quella del mondo sensibile, che pone, regge e governa l’universo medesimo (anima mundi); infine, ci sono le anime particolari, che non creano, ma animano e reggono i diversi singoli corpi: ciascuna di esse scende nel proprio corpo, con il quale ha un rapporto più stretto che non l’anima dell’universo. Dall’anima suprema, perciò, derivano tutte le altre. L’anima del tutto e quelle individuali sono della stessa natura di quella e si differenziano per la maggiore o minore vicinanza con i corpi (Plot. Enn. IV 3, 5-6; VI 4, 4).
Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
IV. La processione del sensibile dall’intelligibile, il significato e il valore del cosmo fisico
La processione della materia. | Elemento caratteristico del mondo fisico è la materia sensibile. Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma è puramente intellegibile. Quest’ultima detiene i caratteri propri dell’intellegibile medesimo: la semplicità, l’immutabilità e l’eternità. Diversamente, quella sensibile rivela tratti opposti. Secondo Plotino, caratteristica di ogni tipo di materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata, ma quella sensibile è un’immagine di quella intellegibile e, in quanto copia si allontana dall’essere dell’originale, consegnandosi al negativo e al male.
La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, cioè come estrema tappa di quel processo in cui l’impulso a creare e la forza produttiva si indeboliscono fino a esaurirsi completamente. La materia sensibile, anzi, diventa esaurimento totale e, quindi, privazione estrema della potenza dell’uno, dell’uno stesso e, in definitiva, del bene. Si noti che per Plotino il male non è inteso come forza negativa opposta alla positiva, ma come mancanza e privazione del positivo (Plot. Enn. I 8, 7; III 4, 15). Se la materia intellegibile è puro essere, quella sensibile deve necessariamente distinguersi come «non-essere»: beninteso, non si tratta del nulla, ma di ciò che è «diverso dall’essere» (I 8, 3). La materia fisica non è nulla di ciò che è proprio del mondo dell’essere, dell’intelligenza e dell’anima e, in genere, dell’intellegibile (Plot. Enn. III 4, 16; 6, 7).
Plotino cerca di determinare le ragioni di questa mancanza di ogni spessore ontologico proprio della materia. Essa è prodotta dall’anima, non dall’anima suprema, ma dal lembo estremo dell’anima universale, in cui la contemplazione si affievolisce, nella misura in cui l’anima si volge più a sé che all’intelligenza (Plot. Enn. III 9, 2; IV 3, 9).
Infine, Plotino cerca di approfondire ulteriormente la ragione della differente natura della materia rispetto alle realtà che la precedono puntando ancora una volta sul tipico concetto di contemplazione. L’anima superiore contempla e da questa contemplazione scaturisce la forza creatrice dell’anima cosmica. Questa forza creatrice è una contemplazione illanguidita, digradante quanto a intensità, tanto che «in quel digradare va quasi svanendo» (Plot. Enn. III 8, 5). E così la materia, prodotto di quest’attività che è languida contemplazione, non ha più la forza di volgersi verso chi l’ha generata e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla stessa anima sorreggerla, e quindi ordinarla, informarla, tenerla, in qualche modo, appesa all’essere. E così nasce, appunto, il cosmo sensibile.
Il disegno razionale del mondo. | Il mondo sensibile è costituito, nella sua totalità così come nelle sue parti, di materia e forma, ma a differenza della materia intellegibile, che è forza o potenza che perennemente cerca la sua forma, la possiede e in essa si attua, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma, ma solo inerte possibilità di rifletterla, senza esserne a fondo veramente informata e vivificata. Insomma, la materia sensibile è tale da essere incapace di costruire una vera unità con la forma. La forma penetra nella materia solo «in modo menzognero», come un oggetto che si rifletta nello specchio (Plot. Enn. I 8, 14; III 6, 13).
Per creare il mondo fisico l’anima pone dapprima la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che si spegne e diviene oscurità; successivamente le dà forma, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola alla luce (Plot. Enn. IV 3, 9). Plotino, dunque, perviene alla conclusione che nell’universo sensibile non solo la forma ha un netto predominio, ma, al limite, il cosmo si risolve quasi per intero nella forma.
Defunto fra Osiride e Anubis. Dipinto su sudario di una mummia, fine II-inizi III secolo, dall’Oasi del Fayyum. Mosca, Museo Pushkin.
Genesi della temporalità. | Il passaggio dal mondo intellegibile a quello sensibile comporta anche il transito dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. Quest’ultima, a detta di Plotino, coincide con l’attività stessa con cui l’anima crea il mondo fisico, cioè con quell’attività che produce qualcosa che è altro dall’intelligenza e dall’essere, che sono invece nella dimensione dell’eterno. L’eternità, per Plotino, è vita senza mutamento, che è presente tutta intera simultaneamente.
Ebbene, l’anima, per una sorta di «temerarietà» e «desiderio di appartenere a sé stessa» (V 1, 1) o per «desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù» (III 7, 11), non paga di vedere il tutto simultaneamente, esce dall’unità, avanza e si distende, per così dire, in un prolungamento e in una serie di atti che si succedono l’un l’altro, e crea così un mondo sensibile che è, sì, fatta a immagine dell’intellegibile, ma che fatalmente volge e pone in successione di prima e di poi ciò che colà, invece, era tutto insieme e simultaneo. Così facendo, l’anima temporalizza sé stessa e, di conseguenza, il suo prodotto. Il mondo è strutturalmente nel tempo, così come è nell’anima e per l’anima.
Ne deriva che la vita dell’anima è la vita nella dimensione della temporalità a differenza di quella dell’intelligenza che è nell’eternità: la vita come temporalità è vita che scorre in momenti successivi, che crea scorrendoli, è rivolta sempre a momenti ulteriori ed è carica dei momenti trascorsi. Plotino, insomma, ripropone amplificandola la definizione platonica di tempo come «immagine dell’eterno».
V. Origini, natura e destino dell’uomo
L’uomo prima della sua discesa nel mondo sensibile. | Nella concezione di Plotino, l’umanità non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste a esso sia pure in altra condizione, cioè come pura anima. Il filosofo afferma in tutta chiarezza che prima della nascita «noi eravamo lassù», nel mondo dell’essere e dell’intelligenza, «eravamo altri uomini» e anzi «dèi» (Plot. Enn. IV 4, 14), partecipi della vita spirituale del tutto, senza le scissioni e le lacerazioni che sono proprie della vita terrena. Anzi, Plotino precisa (IV 8, 4), addirittura, che le anime dei singoli erano in origine associate all’anima universale nel governo del mondo, come re accanto al signore supremo. Ma perché le anime degli uomini discendono nei corpi?
Si tratta dell’antico problema che aveva travagliato Platone e al quale egli non aveva saputo dare una soluzione conclusiva, oscillando fra opposte tesi: quella di una necessità ontologica e quella di una «colpa». Plotino riprende queste opposte posizioni e cerca di conciliarle, sulla base delle acquisizioni della sua riflessione metafisica.
Innanzitutto, occorre premettere che la ragione principale della discesa delle anime particolari nei corpi degli individui vada ricercata nella stessa legge che regola la processione (ἀπόρροια) di tutte le cose dall’uno. Secondo tale legge, dunque, l’anima mundi deve esplicare tutte le sue possibilità, producendo non solo l’universo in generale, ma anche, attraverso le anime particolari, tutti i viventi particolari, fra i quali anche gli uomini. Tutto ciò deve accadere, affinché l’infinita potenza dell’uno possa raggiungere la sua massima espressione, garantendo la perfezione del tutto. Insomma, come l’anima universale non può permanere come puro pensiero, altrimenti non si differenzierebbe dall’intelletto, così le anime particolari non possono permanere come intelligenze peculiari, ma devono assumere, per distinguersi dalla suprema intelligenza, la funzione che è loro propria, che consiste nell’ordinare, reggere e governare le cose sensibili.
È evidente che, così essendo, la discesa dell’anima nei corpi non è volontaria, in quanto non dipende da una scelta né da una liberazione dell’anima stessa, ma non può nemmeno costituire una colpa. Anzi, Plotino ammette addirittura che, se l’anima riesce a fuggire rapidamente dal corpo, non solo non riceve danno dall’aver assunto un corpo, ma un arricchimento, sia per aver contribuito all’attuazione delle potenzialità dell’universo sia per aver sofferto l’esperienza stessa del male, che le fa acquistare più chiara coscienza del bene e le permette di esplicare tutte le sue virtù.
Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.
L’uomo e i rapporti fra anima e corpo. | Plotino porta alle sue estreme conseguenze anche l’equazione di uomo e anima, identità stabilita per la prima volta da Socrate e ontologicamente sviluppata da Platone. Nulla vieta, sostiene il Licopolitano, che si chiami «io» anche l’insieme di anima e di corpo, ma resta pur sempre che «l’uomo vero» è solo l’anima, anzi «l’anima separata» e «separabile» (Plot. Enn. I 1, 10). In verità, in più parti delle Enneadi, si afferma che in ogni essere umano esistano tre uomini e non semplicemente l’uomo interiore e l’uomo empirico. Questa tesi, che di primo acchito più stupire, diventa molto meno paradossale, non solo se misurata con i parametri dell’ontologia plotiniana, ma altresì se ricollegata alla tradizione medioplatonica, dalla quale lo stesso neostoico Marco Aurelio aveva tratto la sua triplice distinzione dell’individuo in νοῦς, ψυχή e σῶμα. È questa, sostanzialmente, la tripartizione da cui Plotino prende le mosse, trasformandola secondo i moduli della sua ontologia e dandole, per così dire, un inusitato spessore metafisico, in grazia della teoria della processione.
Questa tripartizione è riproposta anche in termini di «anima», nel senso che i «tre uomini» possono essere considerati come tre anime o meglio «tre potenze» dell’anima, dato che il «primo uomo» non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con l’intelligenza; il «secondo uomo» è l’anima (o pensiero discorsivo), che è a mezzo fra l’intelligibile e il sensibile; il «terzo uomo» è l’anima che vivifica il corpo terreno (Plot. Enn. II 9, 2; IV 7, 6). Per Plotino, l’uomo è comprensibile solo nella dinamica di queste tre parti ed è un’anima che si serve del corpo. Tuttavia, da un lato, il corpo non è che una «caduta dell’anima» in ciò che è inferiore e l’anima è ragione governante il corpo, e in quanto tale mantiene su di esso una sua superiorità e un legame stretto con l’assoluto (Plot. Enn. IV 8, 8).
L’attività e le funzioni dell’anima. | Le attività elementari della vita vegetale e animale sono garantite dall’anima mundi: a questa, infatti, spetta la generazione del mondo, mentre le anime singole si occupano di produrre, vivificare e reggere ogni corpo. Come tutte le attività che sembrano appartenere ai corpi in generale sono, in realtà, proprie dell’anima che le produce, così tutte le attività che sembrerebbero appartenere al corpo particolare sono la diretta regia dell’anima che lo governa, cioè proprie e peculiari di quest’anima medesima. A tutti i livelli, l’anima è concepita come impassibile e capace solo di agire, perché l’incorporeo non può subire affezioni, in alcun modo, dal corporeo. Ma, allora, come si spiega la sensazione?
La risposta di Plotino è ingegnosa e distingue nettamente due tipi di sensazione: una esteriore, che non è altro se non l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi (in funzione della συμπάθεια che lega tutte le cose dell’universo fra loro e con il tutto), e la percezione sensitiva vera e propria, che è, invece, un atto conoscitivo dell’anima, che fattivamente coglie l’affezione. Dunque, quando si sente, il corpo umano patisce un’affezione da parte di un altro corpo; invece, l’anima entra in azione, non solo nel senso che «non le sfugge» (III 4, 2) l’affezione corporea, ma nel senso che essa «giudica» queste affezioni (III 6, 1). Anzi, per Plotino, nell’impressione sensoriale che si produce nel corpo umano, l’anima vede l’orma di forme intellegibili e, dunque, la stessa sensazione è, per l’anima, una forma di contemplazione dell’intelligibile nel sensibile.
Plotino attribuisce all’anima anche le facoltà dell’immaginazione e della memoria. Non il corpo di per sé né il corpo considerato in unione con l’anima sono capaci di ricordo, ma solo l’anima: il corpo è, al contrario, un impaccio e uno ostacolo al ricordare e, quindi, causa di oblio. Memoria e ricordo hanno però un rapporto strutturale con la temporalità, con il venir prima e dopo; l’anima, nella misura in cui entra in contatto con il corporeo, ha anche rapporto con la temporalità. Invece, tutto ciò che permane nell’identità e nell’eguaglianza dell’eterno non ha memoria, perché partecipa della simultanea presenza della totalità (Plot. Enn. IV 3, 26).
Diversa strutturalmente dalla memoria è la reminiscenza (ἀνάμνησις), la quale consiste in un conservare nell’anima ciò che all’anima stessa è in qualche modo connaturato, in quanto le deriva dal suo strutturale contatto con le realtà supreme. L’anima superiore è, infatti, agganciata eternamente all’intelletto: di conseguenza, nell’aldilà l’anima tende a lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, mentre nell’al-di-qua la reminiscenza delle cose supreme non può mai interamente oscurarsi (Plot. Enn. IV 3, 25-27). La più alta attività conoscitiva dell’anima consiste nel pensiero che coglie le idee e l’intelligenza; al di sopra di questa, però, l’anima possiede anche la capacità meta-razionale di cogliere lo stesso uno e con esso «unificarsi».
Allo stesso modo, sentimenti, passioni e volizioni e tutto ciò che a essi è legato vengono interpretati da Plotino come attività psichiche. Infatti, per il filosofo, è il corpo che patisce, mentre l’anima, propriamente, resta immune da affezione e agisce sul corpo, accorgendosi della passione del corpo e interessandosene di conseguenza.
La libertà dell’uomo. | L’attività più alta dell’anima consiste nella libertà. Da questo punto di vista, Plotino riprende le tradizionali dottrine platoniche e, come tutti i suoi predecessori, non riesce a liberarsi interamente dalle ipoteche dell’intellettualismo socratico. Ciononostante, sembra che egli abbia compiuto alcuni progressi, in virtù della sua nuova concezione dell’assoluto. L’uno, principio imprincipiato, è infatti essenzialmente libertà, volizione e causa di sé. Esso vuole e pone sé stesso, perché è bene. Pertanto, nell’assoluto la libertà coincide con la volontà del bene e nel voler essere bene.
Se così è, anche la libertà dell’uomo andrà cercata in questa stessa direzione. La libertà dell’intelligenza consiste nel porsi sulla scia del bene (IV 8, 4); analogamente, la libertà dell’anima consiste nel porre la propria forza operante sulle orme dell’intelletto e nell’agire di conseguenza, secondo quei modi che la portano a unirsi all’intelligenza, all’uno e al bene stessi. La libertà, dunque, secondo Plotino, non può consistere nell’attività pratica, cioè nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nelle virtù più alte, nella contemplazione e nell’estasi. La libertà e la volontà sovrana, insomma, consistono nell’immateriale: l’anima è libera nella misura in cui, tramite l’intelligenza, tende al bene (Plot. Enn. VI 8, 6-7).
Scena di offerta delle primizie. Affresco, fine II sec. dalla Tomba di Padiosir Petosiris, dal Qārat el-Muzawwaqa, Oasi di Dakhla (Egitto).
Le vie del ritorno all’assoluto. | Plotino ridimensiona la dottrina delle virtù. Quelle «civili», che erano state la base dell’etica classica, sono per il filosofo egiziano semplicemente un punto di partenza, non un punto d’arrivo: giustizia, saggezza, fortezza e temperanza, intese in senso «politico», sono solo capaci di assegnare limiti e misure ai desideri e di eliminare false opinioni; sono dunque solo un’orma del bene supremo. Queste virtù sono una condizione per diventare simili al dio, ma l’assimilazione al dio è qualcosa di superiore: appunto, superiori alle virtù «civili» sono quelle intese come «purificazioni». Infatti, mentre le virtù politiche si limitano a moderare le passioni, le virtù come purificazioni liberano l’individuo dalle passioni medesime, consentendo all’anima di unirsi a ciò che le è affine, l’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 1-3).
Quando l’anima ha raggiunto l’intelligenza e la contempla, allora, in questa contemplazione e imitazione, le virtù si trasfigurano. A questo punto, le virtù sono il modo di vivere dell’anima, che, distaccatasi dalle cose sensibili e rientrata totalmente in sé, vive in purezza la vita stessa degli dèi, assimilandosi all’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 7).
Per Plotino, le virtù non sono le uniche vie che portano a unirsi al divino: rifacendosi a Platone, egli valorizza anche l’erotica e la dialettica, che sono, sia pure a diverso titolo e in differente misura, modi diversi con i quali l’anima si distacca, si libera e si purifica dal corporeo e si avvicina all’assoluto. L’erotica plotiniana, come quella platonica, è strettamente connessa alla bellezza, che è fondamentalmente la forma a tutti i livelli. Anche la bellezza sensibile è forma, il tralucere della forma intellegibile nel sensibile. Nella misura in cui ciò che è bello è forma, è connaturale all’anima ed è, quindi, capace di far rientrare l’anima in sé e di riportarla al ricordo delle sue divine origini. E la «trafittura» che prova l’amante nel vedere il bello, non è altro che metafisico ricordo delle proprie origini trascendenti (Plot. Enn. I 6, 4; III 5).
La riunificazione all’uno. | Le vie del ritorno all’uno sono, sostanzialmente, un ripercorrere a ritroso la metafisica processione dall’uno e, siccome le successive ipostasi derivano da esso per una sorta di differenziazione e di alterità ontologica (alle quali nell’uomo si aggiungono anche alterità morali), è evidente che il ricongiungimento all’uno dovrà consistere proprio nell’eliminazione di ogni difformità in una sorta di semplificazione (Plot. Enn. VI 9, 11). Questo è possibile perché l’alterità non è nell’ipostasi dell’uno, ma in quelle che seguono all’uno, soprattutto nell’umano. Così, immune da qualsiasi diversità, l’uno è presente sempre negli uomini, ma gli uomini sono presenti all’uno soltanto quando eliminano la propria alterità.
Spogliarsi di quest’ultima significa per la persona rientrare in sé stessa, nella propria anima, distaccandosi dal corpo e da tutto ciò che a esso inerisce, ma anche dalla stessa parte affettiva dell’anima e di tutto ciò che le è connesso. L’anima stessa deve, inoltre, eliminare la parola, il discorso e la ragione discorsiva, tutto ciò che in qualsivoglia modo la possa dividere dall’uno, perfino la conoscenza riflessa del proprio essere (Plot. Enn. III 6, 5; VI 9, 7). La frase che riassume in maniera icastica questo processo di purificazione totale dell’anima è: Ἄφελε πάντα («Spogliati di tutto», Plot. Enn. V 3, 17). Si tratta, indubbiamente, della concezione più radicale che si riscontra nella storia del pensiero antico. Spogliarsi di tutto non significa affatto impoverire o annullare sé stessi, ma, al contrario, vuol dire accrescersi, riempiendosi di divino e di infinito.
Il filosofo in cattedra. Rilievo, marmo, c. 260-280, dal cosiddetto Sarcofago di Plotino. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
L’estasi. | La tangenza con l’uno è detta ἔκστασις, che non può essere una forma di scienza né di conoscenza intellettuale e razionale. Consiste piuttosto nel contemplare in stretto contatto (senza riflessa distinzione tra soggetto e oggetto) il contemplato, in una compresenza, se non in un’unificazione totale con esso. Anche a tal riguardo, non pochi interpreti sono caduti in errore e hanno confuso l’estasi con uno stato di incoscienza o con alcunché di irrazionale. In verità, Plotino concepiva questo elemento come uno stato di iper-coscienza, come qualcosa di iper-razionale. Nell’estasi l’anima vede sé stessa divinizzata, riempita dell’uno e, nell’ordine del possibile, pienamente assimilata a esso. Dunque, il contemplare estatico dell’anima è un partecipare alla sussistenza dell’uno con tutte le caratteristiche che di esso sono peculiari: ossia l’essere al di sopra dell’essere, del pensiero, della ragione e della coscienza (Plot. Enn. VI 9, 11).
Che la dottrina dell’estasi sia stata divulgata in Alessandria soprattutto da Filone è indubitabile, così com’è altrettanto certo che Plotino ne abbia più volte fatta esperienza diretta. Tuttavia, è da rilevare che, mentre Filone concepiva biblicamente l’estasi come grazia, ovvero come «dono gratuito» di Dio, Plotino la reinserisce in una prospettiva collegata alle categorie greche: il dio non fa dono di sé ai mortali, ma questi possono salire a lui e a lui unirsi per loro forza naturale.
L’asse portante del pensiero plotiniano consiste nell’idea di «contemplazione creatrice», che è l’esatto opposto di quell’emanazionismo di cui qualche interprete ha parlato. Iniziando l’ottavo trattato della III Enneade, in cui il maestro illustra proprio il concetto di contemplazione (θεωρία), che rivoluziona tutti gli schemi più consolidati, Plotino utilizza un tono scherzoso per attutire l’impatto della nuova dottrina con il lettore: tutto è contemplazione (Plot. Enn. III 8, 1). Ma subito il tono ritorna serio: Plotino dimostra i due punti estremi della dottrina, concernenti, rispettivamente, la natura e l’attività pratica. Che l’intelligenza contempli l’uno e l’anima l’intelligenza e, attraverso l’intelligenza, l’uno medesimo, non poteva sembrare paradossale, data la struttura delle ipostasi. Piuttosto, potevano risultare estranee alla contemplazione la natura e la prassi: anche loro, secondo la dottrina plotiniana, sono contemplazione e prodotto della contemplazione (III 8, 3).
È evidente che, come la natura contempla e crea in quanto è anima, così anche nelle anime particolari contemplazione e azione dovranno essere strutturalmente interconnesse. Non solo la prassi dipende dalla contemplazione, risultando tanto più ricca quanto più ricca è la contemplazione, ma essa tende pure a ritornare alla contemplazione. La prassi, perfino nel suo più basso grado, anche senza saperlo, tende a una contemplazione (Plot. Enn. III 8, 6).
Dunque, la vera forza creatrice, asserisce Plotino, non è l’azione (πρᾶξις), ma la contemplazione (θεωρία): portando alle estreme conseguenze la concezione platonica, in Plotino la contemplazione diviene un concetto metafisico generale. La spirituale attività del «vedere» si trasforma in creare. Perciò, l’uno è una sorta di auto-contemplazione; l’intelligenza è contemplazione dell’uno e di sé riempita dell’uno; l’anima è contemplazione dell’intelligenza e di sé ripiena di intelligenza; la natura, estremo lembo dell’anima, è contemplazione di sé; la stessa zione non è che un più debole grado di contemplazione. La contemplazione è silenzio: tutta la realtà è dunque contemplazione e silenzio.
In questo senso, il «ritorno» all’uno mediante l’estasi diviene non altro che il ritorno mediante la contemplazione dell’uno. Estasi ricorre una sola volta nelle Enneadi. Il significato più appropriato sarebbe «semplificazione», che, come si è visto, consiste nell’eliminazione dell’alterità, separazione da tutto ciò che è terreno e molteplice, contemplazione in cui soggetto contemplante e contemplato si fondono: Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῇδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῇδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον («Ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo», Plot. Enn. VI 9, 11).
Bibliografia:
F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, Vol. I, Roma-Bari 2006, 190-197.
M. Andolfo, L’ipostasi di Psiche in Plotino, Milano 1996.
E. Bréhier, Plotino, Milano 1976.
C. Carbonara, La filosofia di Plotino, Napoli 1964.
R. Chiaradonna, Filosofia tardoantica, Roma 2012.
C. Cilento, Saggi su Plotino, Milano 1973.
M. Di Pasquale Barbanti, Venticinque anni di studi plotiniani in Italia, Teoresi 29 (1974), 275-306.
G. Faggin, G. Reale, R. Radice (eds.), Plotino, Enneadi / Porfirio, Vita di Plotino, Milano 1992.
M.L. Gatti, Plotino e la metafisica della contemplazione, Milano 1996.
M. Gigante, L’Accademia flegrea da Cicerone a Plotino, in F. Romano (ed.), Momenti e problemi di storia del platonismo, Catania 1984, 84-95.
P. Hadot, Plotino, o la semplicità dello sguardo, Torino 1999.
V. Mathieu, Come leggere Plotino, Milano 2004.
P. Prini, Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore, Roma 1976.
G. Pugliese Carratelli, Platonopolis a Cuma?, PP 35 (1980), 440-442.
G. Pugliese Carratelli, Ancora su Platonopolis, PP 39 (1984), 146.
G. Reale, Il pensiero antico, Milano 2001, 447-473.
G. Reale, D. Antiseri, Il pensiero occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, 341-352.
P.M. Schuhl, P. Hadot, Le Néoplatonisme, Paris 1971.
V. Verra, Il neoplatonismo, in V. Mathieu (ed.), Questioni di storiografia filosofica, Brescia 1975, 399-444.
A. Zierl, Pensiero e parola in Plotino, Napoli 2006.
in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 628-636 [con blbliog. aggiornata].
La vita
La figura di Luciano di Samosata si distingue nettamente nel panorama culturale del II secolo, per la brillante personalità, per la vivacità dell’ingegno e per la vastità di interessi, che lo spinsero a una pluralità di ricerche sconosciuta ad altri esponenti della neosofistica. Con questo movimento culturale, inoltre, Luciano ebbe un rapporto assai critico: dapprima seguace entusiasta, se ne allontanò poi in maniera altrettanto decisa, per affrontare una nuova serie di esperienze culturali, nelle quali non mancò di mettere in luce il proprio carattere polemico e il suo stile arguto e mordace.
Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.
Luciano nacque intorno al 120 a Samosata, capitale della Commagene di Siria, figlio di una famiglia piuttosto modesta. Come narrò egli stesso in un’opera autobiografia, il Sogno, quando fu cresciuto abbastanza da dover pensare al proprio avvenire, i suoi genitori, ritenendo che i propri mezzi finanziari non fossero sufficienti per permettere al ragazzo di affrontare studi lunghi e costosi, pensarono di avviarlo all’arte del marmorario, mandandolo alla bottega di uno zio, che già esercitava questo mestiere. Tuttavia, l’apprendistato di Luciano durò assai poco, perché lo zio, infuriato con l’inesperto nipote che gli aveva rovinato un costoso blocco di marmo, lo cacciò in malo modo, con una solenne bastonata. Pesto e disperato, Luciano si addormentò; allora, in sogno, gli apparvero la Statuaria e l’Eloquenza, prospettando i vantaggi che ciascuna di loro avrebbe potuto offrirgli, se egli avesse scelto di dedicare a lei la propria esistenza. L’episodio, che è un’evidente trasposizione della storia di Eracle al bivio, narrata all’inizio del II libro dei Memorabili di Senofonte, segnò la vita di Luciano. Il giovane, infatti, abbracciando la carriera dell’eloquenza, si dedicò allo studio della lingua e della letteratura greca, delle quali acquisì ben presto grande padronanza, imparando con facilità il dialetto attico del periodo classico. Egli, dunque, intraprese la carriera del retore itinerante, che lo portò in varie città dell’Asia Minore, in Gallia e in Italia. A Roma Luciano ebbe modo di conoscere il filosofo Nigrino, che svolse un ruolo abbastanza importante nella sua vita. Trasferitosi per un certo periodo ad Atene, verso il 160 circa, sembra che i suoi interessi filosofici abbiano preso il sopravvento su quelli retorici e che lo abbiano avviato a studi ben più profondi e meditati. Si trattò, invero, di una parentesi piuttosto breve, perché, non molto tempo dopo, Luciano si dedicò di nuovo alla passione di sempre, i viaggi: in questo periodo, infatti, egli fu anche ad Antiochia, dove conobbe personalmente l’AugustusLucio Vero. Dal 165 in poi ritornò ancora ad Atene, che considerava la sua patria di adozione e se ne allontanò soltanto per ricoprire la prestigiosa carica di archistator praefecti Aegypti («segretario del prefetto d’Egitto»), conferitagli, nonostante la proprie origini orientali, grazie a influenti amicizie. Nel 175, però, si dimise dall’incarico – probabilmente per motivi politici, oppure forse per il suo temperamento irrequieto –, ritornando ad Atene. Da quel momento in poi, la sua vita pubblica non conobbe più avvenimenti di rilievo. Secondo le fonti antiche, la morte lo raggiunse non molto tempo dopo, verso la fine del principato di Marco Aurelio, intorno al 180 circa. A questo anno, infatti, risalgono i suoi ultimi scritti di cui si abbia notizia, l’Alessandro e il trattato in forma epistolare Come si deve scrivere la storia. Il lessico Suda, che fornisce di Luciano un giudizio assolutamente negativo, proclamandolo «erede del fuoco di Satana», narra che egli morì tragicamente, sbranato da una muta di cani, «perché fu nemico rabbioso della verità». La notizia, naturalmente, è da considerarsi leggendaria. La produzione letteraria di Luciano, infatti, tutta in prosa, è pervenuta in un corpus di ottanta scritti, alcuni dei quali spuri. La loro cronologia rappresenta per gli studiosi un problema assai complesso, che non sarà affrontato in questa sede; ci si limiterà, invece, per maggiore chiarezza, a suddividere le opere lucianee secondo il genere e i contenuti.
Gli scritti retorici
Al periodo in cui Luciano esercitò la professione di retore itinerante appartengono proemi e declamazioni (μελέται, «esercizi» retorici di vario argomento), fra i quali assume particolare importanza per il suo carattere autobiografico il già citato Sogno; a quest’opera si aggiunge l’Apologia, anch’essa di contenuto autobiografico, che Luciano compose negli anni della maturità, quando era cancelliere in Egitto, per difendersi dall’accusa di brama di onori – comportamento assolutamente inaccettabile in un filosofo cinico, quale egli stesso si professava. Interessante, come esempio di esercitazione retorica tesa a illustrare la potenza della sua dialettica, secondo la migliore tradizione dell’insegnamento sofistico, è il Tirannicida, in cui il protagonista commette un omicidio premeditato, eliminando il figlio di un tiranno. Straziato per il dolore, il padre, a sua volta, si toglie la vita e l’assassinio del ragazzo, nel discorso pronunciato in tribunale per difendersi, sostiene di aver diritto a riconoscimenti e onori per aver liberato la città da quel regime. Allo stesso genere appartiene il Diseredato, storia di un medico che guarisce il proprio padre da un attacco di follia: il genitore, però, rinsavito, disereda il figlio, perché costui rifiuta di prestare le proprie cure alla matrigna, anche lei vittima di un accesso di pazzia.
Ritratto virile. Busto, marmo, terzo quarto del II sec. d.C. Munich, Glyptothek.
Nello stesso gruppo di opere si possono annoverare l’Elogio della mosca e il Tribunale delle vocali. Quest’ultima, in particolare, è una querela esposta dal signor Sigma contro il signor Tau per appropriazione indebita e usurpazione di diritti, di fronte alla giuria delle vocali, perché negli autori attici il Tau ha abusivamente occupato il posto di Sigma nella grafia delle parole. In un altro scritto dal titolo significativo, Sei un Prometeo nei discorsi, l’autore, di fronte all’ammirazione entusiasta, ma un po’ eccessiva, di un suo allievo, ridimensiona obiettivamente le proprie capacità, sottolineando come i contenuti delle proprie opere non propongano alcunché di nuovo, ma il loro valore risieda soltanto nella consumata tecnica formale dell’esposizione.
Un cenno meritano anche le sue προλαλιαὶ o διαλέξεις, le «chiacchierate», che precedevano l’ἐπίδειξις, la «recitazione» vera e propria, e che miravano a suscitare la benevola attenzione del pubblico con il loro tono conversevole e garbato. In tutti questi scritti compaiono già gli elementi tipici dell’arte di Luciano: l’opposizione dialettica di opinioni opposte, la tendenza a un’ironia fine e sagace, lo stile chiaro e gradevole, caratterizzato da osservazioni spiritose e da un vivace umorismo, che spesso scaturisce dalla parodia di situazioni o personaggi, oltre che da un’ottima capacità di sfruttare il linguaggio a fini comici.
Scritti di polemica filosofica e religiosa
In uno dei numerosi scritti lucianei che contengono accenni autobiografici, il Due volte accusato, l’autore presenta se stesso in veste di imputato in un processo che gli è stato intentato dalla Retorica e dal Dialogo platonico. La prima lo accusa di averla abbandonata, mentre il secondo lo considera reo di aver distrutto la serietà e la profondità dei suoi contenuti, contaminandoli con la comicità e con la satira; nella sua difesa, Luciano ammette di aver abbandonato, verso i quarant’anni, la Retorica, che ormai «non aveva più la dignità di donna onesta, come ai tempi di Demostene, ma andava in giro truccata come una prostituta, tutta coperta di belletti». Per questo motivo egli aveva optato per la filosofia; ma seguendo l’impulso indagatore del suo animo inquieto, desideroso di novità e spiccatamente critico, non aveva potuto fare a meno di notare come anch’essa fosse cambiata rispetto al tempo antico. Perciò, egli aveva deciso di approfondire la propria analisi, per scoprire le ragioni di quel peggioramento, servendosi a questo scopo di quell’illustre strumento di dottrina che era stato il dialogo platonico, non senza averlo opportunamente modificato per adattarlo alle proprie esigenze (Due volte accusato, 30-32).
Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.
In effetti, in quel periodo della sua vita, Luciano si dedicò alla ricerca speculativa; il risultato fu una serie di scritti dal tono amaramente satirico contro la degenerazione del pensiero filosofico e della figura del saggio, ricchi di un umorismo pungente e dissacratore, che richiama alla memoria la commedia antica. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, una irriverente e spassosa parodia del Simposio di Platone, contenuta in un dialogo lucianeo con lo stesso titolo. Licino, persona seria e colta (in cui l’autore adombra se stesso), si reca dall’amico Aristeneto per prendere parte a un banchetto offerto per festeggiare le nozze della figlia: purtroppo, però, il padrone di casa ha avuto la malaugurata idea di invitare anche i rappresentanti di tutte le maggiori scuole filosofiche, nell’intento di conferire un tono intellettuale alla lieta occasione. Invece, l’unico risultato che riesce a ottenere è che il banchetto si trasformi in un’indegna gazzarra, durante la quale uno dei cinici, che era riuscito a imbucarsi alla festa senza essere stato invitato, approfitta della confusione per riempirsi la capace bisaccia di ghiotte vivande.
Boulanger Gustave Clarence Rudolphe, Il mercato degli schiavi.
Lo stesso tono umoristico e sarcastico nei confronti della degenerazione della filosofia caratterizza anche altri scritti di Luciano: nei Fuggitivi, ad esempio, i nuovi filosofi sono allegoricamente rappresentati come schiavi fuggiaschi (i pensatori “moderni” che si sono sottratti all’autorità dell’antica dottrina), acciuffati dai loro padroni e sottoposti a meritata punizione. Nelle Vite all’incanto, si immagina che Zeus metta all’asta, per venderli al miglior offerente, i fondatori delle principali scuole filosofiche – l’epicurea, la scettica, la peripatetica, la pitagorica –, ognuno dei quali ha preteso di indicare le direttive su cui gli uomini dovrebbero basare la propria esistenza. Il piacevole umorismo che caratterizza l’operetta scaturisce dal realismo con cui l’autore ha saputo ricostruire il clima di una vera vendita all’asta, con il banditore che magnifica i pregi della sua merce, il pubblico che osserva, chiacchiera, commenta, e i potenziali compratori che vogliono essere bene informati e controllare di persona, prima di fare la propria offerta.
Pittore Ambrogio. Giovane pescatore. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. ca.
Nel Pescatore, seguito dell’opera precedente, il protagonista, Parresiade («Colui che non ha peli sulla lingua») – che poi è l’autore stesso –, si trova coinvolto in una pericolosa situazione: infatti, Zeus ha concesso a tutti gli intellettuali, le cui vite sono state messe all’incanto, di ritornare un giorno tra i vivi per vendicarsi di colui che li ha così crudelmente scherniti. Parresiade, però, tiene una convincente apologia davanti alla Filosofia, dimostrando che quelli da lui perseguitati non sono stati che dei disonesti ciarlatani, colpevoli di aver avvilito a scopo di lucro l’insegnamento degli antichi maestri. In questo modo, Parresiade-Luciano è assolto e può dedicarsi al difficile compito di pescare (di qui il titolo del dialogo) i veri filosofi con la lenza e con l’amo, dall’alto dell’Acropoli di Atene, scartando senza pietà le creature spinose e repellenti che di tanto in tanto abboccano. In questo modo, il dialogo, che era stato con Platone lo strumento per eccellenza del discorso filosofico, con Luciano diviene l’arma prediletta per ridicolizzare gli avversari, criticando, insieme alle varie tendenze culturali, anche le più diffuse credenze religiose.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
Il tono derisorio nei confronti dei filosofastri raggiunge il vertice dell’asprezza in un opuscolo redatto in forma epistolare, la Morte di Peregrino. Costui era un filosofo cinico assai noto a cui si attribuiva anche una certa simpatia per il Cristianesimo e Luciano lo aveva conosciuto quando, di ritorno dall’Oriente, era giunto ad Atene. Nel 165 il filosofo aveva deciso di dimostrare la sua radicale protesta contro il malcostume dei tempi suoi con uno spettacolare suicidio, in occasione dei Giochi olimpici, buttandosi nel fuoco in pubblico. Ma Luciano vide nel gesto di quell’uomo soltanto una manifestazione di fanatismo per lui intollerabile e non esitò a esprimere tutta la propria disapprovazione, accomunando nella sua durissima critica anche la “superstizione” dei cristiani, che andava diffondendosi sempre più ampiamente.
Va, però, aggiunto che la lingua tagliente, ma imparziale, dello scrittore siro non risparmiò nemmeno la divinità suprema del pantheon pagano: in tre dialoghi, Zeus confutato, Zeus tragedo e il Concilio degli dèi, il signore dell’Olimpo si trova coinvolto in situazioni nelle quali la sua autorità appare messa gravemente in dubbio, senza che egli riesca a difenderla degnamente.
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., Tesoro dei Sifni (Delfi). Museo Archeologico di Delfi.
In contrasto con la satira pungente e distruttiva delle opere appena citate, si possono ricordare tre scritti lucianei dal tono meno aspramente polemico e, per certi aspetti, più costruttivo. Il primo, il Nigrino, espone in forma dialogica un incontro dell’autore con il filosofo neoplatonico, il quale si sforza di convertire Luciano alla sua dottrina, convincendolo a dedicarsi alla vita speculativa. A questo scopo, egli magnifica l’antica cultura e la nobiltà intellettuale di Atene, contrapponendola alla rozzezza dei Romani e alla loro indifferenza per le cose dello spirito. Il tono dell’opera è piuttosto violento e retorico e ciò induce a considerarla con un certo spirito critico; tuttavia, occorre riconoscerle almeno la sincerità con cui essa esprime il bisogno di trovare un rifugio nella cultura del passato e nel profondo senso civico e morale che l’animava, per sfuggire alle brutture del presente. Tale intento risulta chiaro anche dal Demonatte, biografia dell’omonimo filosofo cinico, che Luciano conobbe ad Atene e di cui ammirò la semplice e schietta onestà di vita e di pensiero. Altrettanto sereno e pacato è il tono dell’Ermotimo, un dialogo in cui il principale interlocutore è l’autore medesimo che, sotto lo pseudonimo di Licino, dimostra la vanità di ogni ricerca filosofica, fondandosi sui principi dello scetticismo e facendoli propri.
Dialoghi
Nel periodo della maturità, il dialogo rimase quasi esclusivamente il mezzo espressivo usato dallo scrittore siro, che se ne servì per comporre le sue opere più note e più meritatamente famose: le raccolte che comprendono i ventisei Dialoghi degli dèi, i quindici Dialoghi marini, gli altrettanti Dialoghi delle cortigiane e i trenta Dialoghi dei morti.
Nereide e Tritone. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem.
I primi due gruppi, caratterizzati da un tono umoristico di grande freschezza e vivacità, oltre che da uno stile esemplare per agilità, chiarezza e arguzia di linguaggio, rappresentano scene che hanno come protagonisti gli dèi dell’Olimpo e del mare, colti in umanissimi episodi della loro vita quotidiana, in un’ottica che, a iniziare da Callimaco, rimase tipica del periodo ellenistico e degli anni a esso successivi. Basterà citare, come significativo esempio, la scena famosissima del pomo della Discordia, rivissuta attraverso il racconto di due divinità marine, Panope e Galene, testimoni oculari dell’evento:
Teti e Peleo si erano già ritirati nel talamo accompagnati da Anfitrite e da Poseidone, quando Eris, in quel momento, di nascosto a tutti – poté farlo facilmente, perché alcuni bevevano, altri applaudivano, altri ancora erano intenti ad ascoltare Apollo che suonava la cetra e le Muse che cantavano –, gettò nella sala del banchetto un pomo bellissimo, tutto d’oro, o Galene! E sopra c’era scritto: “Mi prenda la bella”. Ed esso, rotolando, nemmeno a farlo apposta, si fermò dove se ne stavano a mensa Hera, Afrodite e Atena. Dopo che Hermes lo ebbe raccolto ed ebbe letto la scritta, noi Nereidi ammutolimmo. Infatti, che dovevamo fare, in presenza di quelle lì? Esse, invece, se lo contendevano e ciascuna pretendeva che il pomo toccasse a lei; e se Zeus non le avesse divise, la cosa sarebbe arrivata anche alle mani. Ma egli disse: “Non sarò certo io a decidere su quest’affare – eppure quelle pretendevano che fosse lui a giudicare –, andate sull’Ida dal figlio di Priamo, il quale ama la bellezza e sa distinguere il più bello e non sbaglierà certo il verdetto”[1].
Come è ben noto, il giudizio di Paride, che assegnò il pomo ad Afrodite, scatenò il decennale conflitto di Troia, la guerra più famosa di sempre; ma qui, niente lascia supporre la fatali conseguenze del gesto di Eris. L’attenzione dell’autore è tutta presa dall’atmosfera festosa del banchetto nunziale, con musica, canti e laute bevute (poco importa se chi suona è Apollo e se le voci sono quelle immortali delle Muse), e, subito dopo, dall’improvviso scintillio del pomo, che suscita la meraviglia di Panope (la «Tuttocchi»), che racconta l’episodio. Dopo la lettura delle parole incise sull’aureo frutto, nessuna delle Nereidi osa fiatare; non che si sentano meno belle delle altre, ma sono presenti «quelle lì», la sposa e due figlie di Zeus, tutt’e tre con un bel caratterino, visto che per poco non si azzuffano come donnette qualunque. E nemmeno il loro legittimo marito e padre, per quanto fulminante e altitonante, osa esprimere un giudizio che metterebbe a serio repentaglio la tranquillità familiare; preferisce scaricare la propria responsabilità sulle ignari spalle di un comune mortale, con piena indifferenza per ciò che accadrà.
Pieter Paul Rubens, Il giudizio di Paride. Olio su tela, 1601 c. London, National Gallery.
Nei Dialoghi delle cortigiane lo spunto satirico è meno evidente: lo scrittore descrive quel particolare mondo femminile senza troppi moralismi, con uno stile e un gusto che richiama i toni della Commedia Nea, alla quale Luciano si è evidentemente ispirato, ma senza raggiungere l’approfondimento psicologico che caratterizza i personaggi di Menandro.
Pittore Licaone, Odisseo incontra Elpenore nell’Ade. Pittura vascolare a figure rosse su pelike. attica, 440 a.C. ca. da Atene. Boston, Museum of Fine Arts.
Nei Dialoghi dei morti, invece, la satira moraleggiante torna a essere uno degli aspetti più frequenti e approfonditi. Oggetto dell’attenzione dell’autore sono, nella maggior parte dei casi, i falsi miti dell’esistenza umana: la ricchezza, il potere, la fama, la bellezza. Il personaggio-chiave è rappresentato dal filosofo cinico Menippo di Gadara, che porta con sé anche nell’Ade il suo spirito critico e dissacratore, dal quale non si salva niente e nessuno, né Mida né Creso con tutto il loro oro, né Sardanapalo con il fasto della sua regalità. Nireo, l’eroe più bello dopo Achille fra quelli che militarono a Troia, è ormai uguale a Tersite e non c’è più alcuna differenza tra il suo teschio e quello dell’uomo più brutto di tutto l’esercito acheo. E davvero sciocchi furono tutti quelli che, per Elena, presero parte al celeberrimo conflitto, senza riflettere che, entro breve tempo, del fulgido splendore della bellissima donna non sarebbero rimaste che poche ossa nude, uguali a tutte le altre, nello squallido nulla che è l’ultimo traguardo di ogni umana grandezza.
Opere di contenuto vario
Alla fase più tarda della vita e dell’attività di Luciano appartengono alcune opere di contenuto vario e meno facilmente ascrivibili a un genere preciso, anche se per stile e temi non si discostano molto dalla precedente produzione. Fra queste si possono ricordare i Saturnali, in cui lo scrittore medita amaramente sulle ingiustizie che avvelenano il mondo, prendendo spunto dalla solennità romana dei Saturnalia, in occasione della quale, per rievocare la mitica età dell’oro sotto il regno di Saturno (il greco Kronos), venivano momentaneamente abolite tutte le differenze sociali ed erano i padroni a servire i propri schiavi.
Trono di Saturno velato con Amorini. Rilievo, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Nell’Apologia, un opuscolo di carattere giudiziario e autobiografico prima ricordato, Luciano, che era stato molto duro nei confronti di chi accettava incarichi da lui considerati umilianti, anche se ben remunerati, in ricche case romane, tenta di giustificare la propria posizione di funzionario imperiale, mettendo in risalto la differenza fra un dipendente pubblico e chi, invece, si mette al servizio di un privato. Interessante è anche il breve trattato Come si deve scrivere la storia, redatto in forma epistolare e posteriore alla spedizione di Marco Aurelio contro i Parti, condotta nel 180. Prendendo spunto dalle adulatorie esagerazioni con cui gli storici contemporanei narravano le gesta degli imperatori, Luciano esprime una critica molto negativa nei confronti di questo stravolgimento della funzione della Storia e nella seconda parte dello scritto elenca alcune indicazioni per evitare simili errori, desumendole dalle opere degli storiografi ellenistici e, in particolare, da Polibio.
La Storia vera
Nel corpus degli scritti di Luciano è compresa anche un’opera in due libri, intitolata Storia vera. Nell’introduzione, l’autore informa di averla composta per il diletto e il riposo mentale del lettore, prendendo spunto, con una buona dose di ironia, dalle fantasiose storie di poeti e storici a partire da Omero per giungere a Ctesia di Cnido, il medico di Artaserse (metà V sec. a.C.) e ad Antonio Diogene, un romanziere del I secolo, finendo poi con Iambulo, autore di racconti fantastici, collocabile forse nel III sec. a.C. Tuttavia, prima di iniziare il suo racconto, Luciano avverte che l’unica cosa vera della sua storia è che non c’è niente di vero e che, perciò, «è assolutamente necessario che i lettori non ci credano per nulla».
Charles Meynier, Clio, musa della Storia. Olio su tela, 1800. Cleveland Museum of Art.
La narrazione, in prima persona, comincia nel momento in cui il protagonista-scrittore, per curiosità e per puro spirito di avventura, raccolti cinquanta compagni e noleggiata una nave, parte dalle Colonne d’Eracle per esplorare il misterioso Oceano Occidentale. Dopo ottanta giorni, i naviganti approdano a un’isola sconosciuta; in una selva trovano una colonna di bronzo con un’iscrizione in greco, che li informa che quello è il termine ultimo a cui giunsero Eracle e Dioniso. La presenza del dio è tuttora ben visibile nella straordinaria natura dell’isola, in cui scorre un fiume di vino e prospera una strana vigna, le cui piante hanno un solido tronco ben piantato in terra, ma a partire da una certa altezza si sviluppano in bellissimi corpi femminili, dalle cui dita nascono tralci e che hanno in testa, invece di capelli, viticci, pampini e grappoli. Esse accolgono festosamente Luciano e i suoi compagni, ma la loro cordialità cela un’insidia mortale; infatti, i marinai che le abbracciano non possono più staccarsi e divengono viti anch’essi, mettendo radici e tralci.
Partiti da quella terra infausta, i viaggiatori vengono sorpresi da una burrasca e, travolti da un violentissimo turbine di vento, sono sollevati in aria con tutta la nave. Dopo una navigazione “aerea” durata sette giorni e sette notti, essi approdano sulla Luna. Mentre stanno esplorando la grande sfera luminosa, vengono sorpresi e arrestati da guerrieri lunari, gli Ippoghipi, che cavalcano immensi uccelli rapaci, una sola delle cui penne è più lunga di un albero di nave. Condotti dal re, Endimione, che un tempo era stato un uomo e che era tato trasportato lassù perché Selene si era innamorata di lui, ricevono benevola accoglienza. Anzi, il sovrano chiede l’aiuto di Luciano e dei suoi compagni nella guerra che sta conducendo contro gli Elioti, gli abitanti del Sole. Lo scontro è terribile e sanguinoso; l’esercito avversario è comandato da Fetonte, che ha ai suoi ordini gli Aeroconopi (le «Zanzare aeree») e gli Ippomirmeci, enormi formiche alate, a cui si affiancano i mostruosi Nefelocentauri, metà uomini giganteschi e metà cavalli alati. Essi sono alleati del re solare, ma, per fortuna, giungono in ritardo, altrimenti, i Seleniti non avrebbero mai potuto vincere la battaglia.
William Faithorne, Lucian of Samosata. Incisione, 1664. London, National Portrait Gallery
Stipulata la pace, Luciano e i suoi amici si trattengono per un certo tempo sulla Luna, imparando a conoscere lo strano popolo che vi abita; non esistono donne, non si muore, ma ci si trasforma in aria, ci si ciba esclusivamente del fumo di rane arrostite sui carboni, bevendo rugiada liquefatta. I vestiti sono fatti di fili sottilissimi di rame, di cui vi è grande abbondanza e che vengono filati come lana; quando un Selenita si soffia il naso, dalle narici gli esce miele, mentre se suda, espelle latte. Dalle cipolle essi ricavano un olio profumatissimo e dalle viti ricavano l’acqua, prodotta da grappoli i cui acini sono grossi chicchi di grandine. Ma la cosa più strana è che i Seleniti possono riporre nel proprio ventre tutto ciò che vogliono, perché esso è come una bisaccia che si può aprire e chiudere a volontà; e poiché l’interno è foderato di una morbida e calda pelliccia, vi tengono dentro i neonati per ripararli dal freddo, dopo averli dati alla luce dal polpaccio di una gamba. Possono anche estrarsi gli occhi e rimetterseli a piacere; così i ricchi ne hanno molte paia, di vario colore, mentre i poveri non ne possiedono che un solo paio fra i componenti della famiglia e devono servirsene a turno.
Partiti dalla Luna e ripresa la navigazione celeste, Luciano e compagni incontrano, a metà strada fra il cielo e il mare, la città di Lychnopolis, abitata non da uomini ma da lucerne (λύχνοι); dopo una breve sosta, possono finalmente toccare di nuovo la superficie del mare e proseguire il viaggio. Dopo qualche giorno, la nave si imbatte in un numeroso branco di cetacei e balene; e la più grande di esse, un vero mostro marino, spalancate le fauci, si lancia verso l’imbarcazione e la inghiotte tutta intera. Trasferiti di colpo nell’immenso ventre dell’animale, Luciano e i suoi compagni vi scoprono una fitta selva popolata da uccelli marini; inoltratisi nel bosco, trovano un tempietto dedicato a Poseidone, presso il quale scorgono alcune tombe, contrassegnate ciascuna da una colonnina. In lontananza, poi, vedono una fattoria dal cui tetto si alza un filo di fumo e da cui giunge alle loro orecchie il latrato di un cane.
Giona e la Balena (dettaglio) dal Sarcofago «di Giona». Marmo, fine III sec. d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.
Messisi in cammino, incontrano di lì un vecchio e un giovanotto, che coltivano un orto pieno di verdure e di fiori, irrigato da una limpida sorgente che zampilla lì vicino. Ospitalmente accolti, vengono a sapere che il vecchio, di nome Scintaro, e suo figlio Cinira, originari di Cipro, inghiottiti anch’essi dalla balena, vivono nel suo ventre ormai da ventisette anni, nutrendosi di pesci e dei vegetali che vi coltivano. Inoltre, la selva fornisce loro piante di vite che danno un ottimo vino e la possibilità di cacciare gli uccelli che vi si rifugiano. L’unico pericolo è rappresentato dal fatto che in essa si annidano popoli selvaggi e inospitali, ma essi hanno imparato a difendersi e a tenerli lontani, perché costoro non conoscono l’uso delle armi e si servono solo di lische di pesce. Luciano e i suoi amici offrono allora aiuto al vecchio; così, sbarazzatisi una volta per sempre degli incomodi vicini, trascorrono un anno e otto mesi di vita comoda e pacifica nel ventre della balena. Durante questo periodo, hanno la possibilità di assistere, ben nascosti dietro gli enormi denti della balena, a uno scontro fra giganti che navigano su isole spinte a remi. Con la narrazione della battaglia fra isole termina il primo libro della Storia vera.
Il secondo libro riprende con il progetto di Luciano di abbandonare il ventre del cetaceo, perché lui e i suoi compagni si sentono ormai stanchi di quella vita monotona e sedentaria. Così, il vecchio Scintaro e il figlio decidono di seguirli; perciò, dopo aver trasportato la nave fino alla gola del mostro, essi danno fuoco alla selva, uccidendo la balena. Una volta ripreso il mare, però, vengono sorpresi dal gelido Borea, il vento del Nord, che trasforma le acque intorno a loro in un gigantesco lastrone di ghiaccio. I marinai, allora, sono costretti a scavarsi una caverna e a soggiornarvi fino al ritorno di una temperatura più mite, nutrendosi di pesce congelato. Quando, alla fine, i ghiacci si sciolgono, gli avventurosi viaggiatori giungono in un oceano di latte, da cui sorge un’isola di formaggio. Dopo avervi fatto una breve sosta, che offre loro un gradevole cambiamento di dieta, riescono a raggiungere un mare azzurrissimo, di acqua limpida e salata: è il mare dei Sugheropodi, delle strane creature in tutto e per tutto simili agli uomini, tranne che per i piedi di sughero, che permettono loro di correre velocemente sul pelo dell’acqua, senza mai affondare.
Oltrepassate le isole Sugherie, i naviganti giungono in vista di una terra sconosciuta, dalle cui coste si leva una brezza carica di dolcissimi profumi, come quelli che Erodoto aveva narrato che esalassero dall’Arabia Felice. Si tratta dell’Isola dei Beati, dove vivono le ombre dei giusti; essa è immersa in un’eterna primavera, allietata dal canto melodioso degli uccelli e dagli aromi di piante e di fiori meravigliosi. Invitato con i suoi compagni a banchetto, Luciano ha la possibilità di conoscere tutti i grandi personaggi del mito e della storia: poeti, filosofi, statisti, musici, eroi che vivono là in perfetta armonia, conversando, componendo e suonando musica, danzando, cantando e assistendo a giochi. Ma proprio mentre si stanno celebrando le Thanatasie – le festività più solenne per i Beati – organizzate da Achille e Teseo, si sparge l’allarmante voce che gli abitanti del Soggiorno degli Empi, elusa la sorveglianza dei loro custodi, stanno per assalire l’Isola felice, guidati dai più crudeli tiranni, fra i quali si distinguono Falaride d’Agrigento e l’egizio Busiride. Infatti, di lì a poco, ha luogo lo scontro: i Beati hanno la meglio, grazie soprattutto alla presenza di Achille, ma anche Socrate si dimostra un combattente davvero intrepido.
Salvator Rosa, Allegoria della Fortuna. Olio su tela, 1658 c.
Dopo questi fatti, un altro avvenimento, di ben diversa natura, sopraggiunge a turbare la quieta vita dell’Isola: Cinira, il figlio del vecchio Scintaro, giovane bello e aitante, si innamora, ricambiato, di Elena e decide di rapirla. Ma il progetto viene scoperto e Luciano e i compagni vengono cacciati; quando stanno per salpare, Odisseo, di nascosto a Penelope, consegna a Luciano una lettera per Calipso, perché l’isola della ninfa, figlia di Atlante, si trova sulla rotta che essi dovranno percorrere. Ma prima di giungervi, i naviganti approdano al Soggiorno degli Empi, in cui echeggiano continuamente grida e gemiti di dolore; la terra non produce che rovi ed è attraversata da tre fiumi, uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco, assolutamente invalicabile. Abbandonato in fretta quel luogo terribile e inospitale, i viaggiatori giungono all’isola dei Sogni, coperta di distese di papaveri e mandragore, dalla quale provengono tutti i sogni che allietano o rattristano il riposo dei mortali. Di là fanno rotta per l’isola di Calipso. La ninfa li accoglie ospitalmente e, letta l’epistola di Odisseo, scoppia in lacrime, commossa profondamente dal ricordo dell’eroe. Luciano, allora, conforta la ninfa e la rassicura, parlandole dell’affetto che Odisseo nutre ancora per lei; certamente sarebbe già venuto a trovarla, se Penelope non lo tenesse sotto stretto controllo.
Dopo aver lasciato l’isola, Luciano e i suoi vengono assaliti dai Colocintopirati, che navigano su enormi zucche svuotate e seccate, servendosi delle foglie delle zucche stesse come vele e dei semi come proiettili; e si troverebbero a malpartito, se non intervenissero, sui loro gusci di noce, i Carionauti, acerrimi nemici dei Colocintopirati: infatti, mentre gli equipaggi avversari si scontrano, Luciano e amici ne approfittano per svignarsela senza dare nell’occhio. Scampati alla battaglia, dopo altre mirabolanti avventure, essi incontrano le terre dei selvaggi Bucefali e quelle abitate dalle terribili Onoskelee: queste sono donne bellissime, che hanno, però, al posto delle gambe, zampe d’asino abilmente nascoste da lunghe vesti; inoltre, si nutrono di carne umana, attirando i viaggiatori con le loro lusinghe per poi ucciderli e divorarli. Allontanatisi in fretta, i naviganti arrivano in vista del continente australe, che sta agli antipodi del mondo conosciuto. Ringraziati gli dèi per aver finalmente raggiunto la meta, essi si accingono a sbarcare; ma ecco scatenarsi una violenta tempesta, che fracassa la nave e li costringe a salvarsi a nuoto, con le sole armi e qualche suppellettile. A questo punto, il racconto si chiude e Luciano si accomiata dai suoi lettori, promettendo di narrare in altri libri le nuove avventure.
Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Cabinet des médailles.
Opera di puro divertimento, la Storia vera non conosce limiti di spazio né di tempo, proprio come la fantasia del suo autore. La terra, il mare, il cielo, il mondo dei vivi e quello dei morti e perfino il ventre di un cetaceo mostruoso fanno da sfondo alle mirabolanti avventure del protagonista, sempre in moto, ma senza una meta precisa. Benché si affrontino tempeste e battaglie, si incontrino dèi e giganti, Seleniti marsupiali e donne-viti, in uno scenario di fenomeni naturali non meno strabilianti, il senso del drammatico o del pauroso sono completamente assenti, così come manca del tutto il tema della magia. Perfino i luoghi più strani e la dimensione ultraterrestre non appaiono altro che come un vario e inconsueto spettacolo, offerto agli occhi di un viaggiatore-narratore, che si compiace di raccontare, con un divertimento che prevale sullo stupore.
Al genere delle storie incredibili appartiene un altro romanzo, contenuto nel corpus lucianeo, ma considerato spurio; esso è intitolato Lucio o l’asino ed è scritto, invece che in attico, nel greco della koiné. Vi si narrano le avventure del giovane Lucio, il quale appassionato di magia, spia, con l’aiuto di un’ancella, una famosa maga che si sta trasformando in uccello, grazie a un unguento miracoloso di cui si cosparge il corpo. Dopo che la metamorfosi si è compiuta, la maga vola via; e Lucio, desideroso di imitarla, si spalma a sua volta di unguento: ma nella fretta, sbaglia contenitore e viene così mutato in asino, riuscendo a riacquistare l’aspetto umano soltanto dopo molte peripezie.
Secondo Fozio, patriarca di Costantinopoli (IX sec.), esisteva anche un’altra opera che trattava lo stesso argomento, le Metamorfosi di Lucio di Patrai, di cui però non si sa nulla; invece, lo spunto narrativo della trasformazione di Lucio in asino è stato sviluppato nei Metamorphoseon libri XI dello scrittore madaurese Apuleio (125 c.-post 170 c.). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con chiarezza i rapporti fra le due opere greche e quelli di entrambe con il romanzo di Apuleio, che si differenzia dalle prime per la maggiore ampiezza, per la ricchezza degli episodi collaterali e soprattutto per il contenuto, caratterizzato da evidenti riferimenti al culto misterico di Iside.
Pensiero, stile e fortuna di Luciano
Sebbene Luciano non abbia mai raggiunto una grande profondità speculativa e non possa essere considerato un pensatore originale, egli rimane tuttavia una delle personalità più significative del suo tempo. A lui è dovuta la creazione di un nuovo genere di dialogo, che ha saputo unire in modo singolarmente piacevole i contenuti del pensiero filosofico all’umorismo della commedia ed è servito a denunciare, con intelligente arguzia, molti degli aspetti negativi della vita e della cultura del tempo, a un pubblico certamente assai vasto. La dissacrante ironia dell’autore non ha risparmiato nessuna manifestazione della debolezza umana, ma ha stigmatizzato soprattutto le mistificazioni dei falsi maestri e dei falsi filosofi, nel tentativo di limitare il diffondersi di un dogmatismo che la sua mente razionale non poteva accettare e che lo ha portato ad accomunare nella sua critica anche qualunque forma di religione (Cristianesimo compreso). Infatti, pur dimostrando simpatia per gli epicurei e per i cinici, Luciano non ha mai accettato completamente il pensiero di nessuna scuola, fedele a uno scetticismo di fondo che scaturiva naturalmente dal suo ingegno mobile e vario. Incline per indole a un’ironia beffarda e corrosiva, questo intellettuale siro ha avuto, tuttavia, il suo più grande limite nel non saper proporre soluzioni alternative, limitandosi a distruggere senza creare: ma, ciononostante, è difficile sottrarsi al fascino di questo spirito arguto e versatile, ricco di capacità di osservazione e di espressione, dotato di un’eccezionale sensibilità linguistica e di una altrettanto straordinaria cultura, che lo ha portato a spaziare con felice eclettismo e con gusto sempre sicuro da Omero a Esiodo, da Euripide ad Aristofane, da Erodoto a Tucidide e a Platone, che gli offrì lo spunto formale per i suoi dialoghi.
La fortuna di Luciano fra i suoi contemporanei non fu grandissima; soltanto in epoca bizantina egli fu riscoperto da Fozio, che lo apprezzò per il suo stile e per il suo atteggiamento critico nei confronti di vari aspetti del mondo pagano. A partire dal XV secolo, Luciano fu ammirato e tradotto anche in Italia, quando le sue opere fornirono suggestioni a poeti come il Boiardo e ispirarono la pittura, attraverso l’arte di Botticelli e Mantegna. Soprattutto la Storia vera ha avuto grande importanza nella cultura europea, in vari periodi e a diversi livelli, perché a essa si rifecero Rabelais, Swift e Voltaire; e sia Le avventure del Barone di Münchhausen di Gottfried Bürger sia le ben note Avventure di Pinocchio sono in buona misura debitrici alla sua geniale e sbrigliata fantasia.
***
Bibliografia aggiornata:
Adams S.A., Lucian and the New Testament: An Evaluation of His Life, Work, and Relationship to New Testament Studies, ET 121 (2010), 594-600.
Aguirre Castro M., Verdad o mentira: Lo mitológico y lo fantástico en Luciano, CFC 10 (2000), 219-228.
Albini F., Luciano. L’amante della menzogna, Venezia 1993.
Alfonsi L., Le Menippee di Varrone, in ANRW I.3 (1973), 26-59.
Allinson F.G., Lucian: Satirist and Artist, New York 1927 (rist. New York 1927).
Anderson G., Lucian: Themes and Variation in the Second Sophistic, Leiden 1976.
Anderson G., Studies in Lucian’s Comic Fiction, Leiden 1976.
Anderson G., Lucian’s Classics: some short cuts to culture, BICS 23 (1976), 59-68.
Anderson G., Metrical Howlers in Lucian, Hermes 104 (1976), 254-256.
Anderson G., Some Alleged Relationships in Lucian’s Opuscula, AJPh 97 (1976), 262-275.
Anderson G., Some Notes on Lucian’s Navigium, Mnemosyne 30 (1977), 363-368.
Anderson G., Lucian and the Authorship of De Saltatione, GRBS 18 (1977), 275-286.
Anderson G., Patterns in Lucian’s Prolaliae, Philologus 121 (1977), 313-315.
Anderson G., Lucian’s Nigrinus: The Problem of Form, GRBS 19 (1978), 367-374.
Anderson G., Patterns in Lucian’s Quotations, BICS 25 (1978), 97-100.
Anderson G., Motifs and Techniques in Lucian’s De Parasito, Phoenix 33 (1979), 59-66.
Anderson G., Arrian’s Anabasis Alexandri and Lucian’s Historia, Historia 29 (1980), 119-124.
Anderson G., Some sources of Lucian, Icaromenippus 25, Philologus 124 (1980), 159-161.
Anderson G., Lucian Timon 4: another case of skhptovn/skh’ptron?, JHS 100 (1980), 182.
Anderson G., Lucian: a sophist’s sophist, YCS 27 (1982), 61-92.
Anderson G., The pepaideumenos in Action: Sophists and their Outlook in the Early Empire, in ANRW II 33.1 (1989), 79-208.
Anderson G., The Second Sophistic: Some Problems of Perspective, in Russell D.A. (ed.), Antonine literature, Oxford 1990, 91-110.
Anderson G., Tradition and Reality in Lucian, CR 41 (1991), 40-42 [Rec. Jones 1972].
Anderson G., Lucian: Tradition versus Reality, in ANRW II 34.2 (1994), 1422-1447.
Andò V., Luciano critico d’arte, Palermo 1975.
Andò V., Luciano. Il lutto, Palermo 1984.
Andrade N.J, Syrian Identity in the Greco-Roman World, Cambridge 2013.
Andrade N.J. – Rush E., Introduction: Lucian, A Protean Pepaideumenos, ICS 41 (2016), 151-184.
André J.-M., Les Ecoles philosophiques aux deux premiers siècles de l’Empire, in ANRW II 36.1 (1987), 5-77.
Andrisano A.M., Il mito di Orfeo tra poesia e prosa. Citazioni e riscritture in Luciano di Samosata (Imagines, Adversus Indoctum), in Andrisano A.M. – Fabbri P. (eds.), La favola di Orfeo. Letteratura, immagine, performance, Ferrara 2009, 35-57.
Angeli Bernardini P., La comicità di Luciano e la tradizione: Un nuovo studio sull’umorismo nell’antichità, QUCC 37 (1991), 143-149.
Angeli Bernardini P., Umorismo e serio-comico nell’opera di Luciano, in Jäkel S. – Timonen A. (eds.), Laughter down the Centuries, vol. I, Turku 1994, 113-120.
Angeli Bernardini P. (ed.), Luciano. Anacarsi, Pordenone 1995.
Angeli Bernardini P., Vista e udito nella lode per un danzatore: Luciano, De salt. 63, in Gentili B. – Perusino F. (eds.), Mousike. Metrica ritmica e musica greca in memoria di Giovanni Comotti, Roma 1995, 287-293.
Angeli Bernardini P., Esiodo e l’Elicona nella parodia di Luciano: Adversus indoctum 3, in Hurst A. – Schachter A. (éds.), La montagne des Muses, Genève 1996, 87-96.
Anguissola A., Il galateo dell’intenditore. Nota a Luciano, Philopseudes 18, SCO 64 (2018), 339-352.
Attardo S. I. (ed.), Encyclopedia of Humor Studies, Los Angeles 2014.
Avenarius G., Lukians Schrift zur Geschichtsschreibung, Meisenheim am Glan 1956.
Aygon M., L’ekphrasis et la notion de la description dans la rhétorique antique, Pallas 41 (1994), 41-56.
Babelon E., Le faux prophète Alexandre d’Abobotichos, RN (1900), 1-30.
Beard M., Laughter in Ancient Rome, Berkeley 2014.
Bagnani G., Peregrinus Proteus and the Christians, Historia 4 (1955), 107-112.
Baldwin B., Lucian as Social Satirist, CQ 11 (1961), 199-208.
Baldwin B., The Pseudologistes of Lucian, CR 12 (1962).
Baldwin B., Studies in Lucian, Toronto 1973.
Baldwin B., Lucian and Theophrastus, Mnemosyne 30 (1977), 174 ss.
Baldwin B., Lucian, de hist. conscr. 34: An Unnoticed Aristotelian Source, Philologus 121 (1977), 165-168.
Baldwin B., Lucian and Europa. Variations on a Theme, AClass 23 (1980), 117.
Baldwin B., The date and purpose of the Philopatris, YCS 27 (1982), 321-344.
Baldwin B., Alexander, Hannibal, and Scipio in Lucian, EM 58 (1990), 51-60.
Barberis F., Introduzione a Luciano. Racconti fantastici, Milano1977.
Bartley A., A Lucian for our Times, Cambridge 2009.
Bartsch S., Decoding the Ancient Novel. The Reader and the Role of Description in Heliodorus and Achilles Tatius, Oxford 1989.
Beltrametti A., Mimesi parodica e parodia della mimesi, in Lanza D. – Longo O. (eds.), Il meraviglioso e il verosimile, Firenze 1989, 211-225.
Beltrametti A., La parodia letteraria, in Lo spazio letterario della Grecia antica. I. La produzione e la circolazione del testo. III. I Greci e Roma. Roma 1994, 275-302.
Berdozzo F., Die lukianische Schrift Über die Opfer, Paideia 62 (2007), 59-76.
Berdozzo F., Götter, Mythen, Philosophen. Lukian und die paganen Göttervorstellungen seiner Zeit, Berlin-Boston 2011.
Berti E., Alle origini della fortuna di Luciano nell’Europa occidentale, SCO 37 (1987), 303-351.
Betz H.D., Lukian von Samosata und das Christentum, NT 3 (1959), 226-237.
Betz H.D., Lukian von Samosata und das Neue Testament. Religionsgeschichtliche und paränetische Parallelen, Berlin 1961.
Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du colloque international de Lyon organisé au centre d’études romaines et gallo-romaines les 30 septembre-1er octobre 1993, Lyon 1994.
Billault A., Lucien et la parodie de circonstance, Rhetorica 15 (1997), 193-210.
Billault A., Comment Lucien écrit l’histoire : La déesse syrienne, in Lachenaud G. – Longrée D. (éds.), Grecs et Romains aux prises avec l’histoire. Représentations, récits et idéologie, Colloque de Nantes et Angers, II, Rennes 2003, 425-436.
Billault A., Lucien et Aristophane : à propos de l’« Icaroménippe », in Brillet-Dubois P. – Parmentier É. (éds.), Φιλoλογία. Mélanges offerts à Michel Casevitz, Lyon 2006, 261-267.
Billault A., Une biographie singulière : Alexandre ou le faux prophète de Lucien, REG 123 (2009), 623-639.
Blümner H., Archäologische Studien zu Lucian, Breslau 1867.
Boehringer S. – Blondell R., Revenge of the Hetairistria: The Reception of Plato’s Symposium inLucian’sFifth Dialogue of the Courtesans, Arethusa 47 (2014), 231-264.
Boland J., Aréthas, scholiaste de Lucien, AA 90 (1975), 244-250.
Bolderman P.M., Studia lucianea, Lugduni Batavorum 1893.
Bompaire J., Lucien écrivain. Imitation et création, Paris 1958.
Bompaire J., Quelques personnifications littéraires chez Lucien et dans la littérature impériale, in Duchemin J. (éd.), Mythe et personnification, Actes du colloque du Grand Palais (Paris), 7-8 mai 1977, Paris 1980, 77-82.
Bompaire J., Le destin dans le ‘Zeus Confondu’ de Lucien de Samosate, in Visage du destin dans les mythologies, Mélanges J. Duchemin, Actes du Colloque de Chantilly, 1er-2 mai 1980, Paris 1983, 131-136.
Bompaire J., Comment lire les Histoires vraies de Lucien, in Hommage à Henri Le Bonniec. Res Sacrae, Bruxelles 1988.
Bompaire J., Lucien. Œuvres. Tome I, Paris 1993.
Bompaire J., Quatre styles d’autobiographie au IIe siècles après J.-C. : Aelius Aristide, Lucien, Marc-Aurèle, Galien, in Baslez M.F.– Hoffmann Ph. – Pernot L. (éds.), L’invention de l’autobiographie d’Hésiode à Saint Augustin, Paris 1993, 199-209.
Bompaire J., L’Atticisme de Lucien, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 65-75.
Bompaire J., Le loisir selon Lucien, in André J.-M. – Dangel J. – Demont P. (éds.), Le loisirs et l’héritage de la culture classique, Bruxelles 1996.
Bompaire J., Le sentiment de la nature dans la littérature grecque au siècle des Antonins. Le cas de Lucien, observateur de la nature, Genève 2000, 291-298.
Bompaire J., Lucien, Œuvres. Tome IV, Paris 2008.
Bonazzi M., Luciano e lo Scetticismo del suo tempo, in Mestre – Gómez Cardó (2010), 38-48 [trad. fr. = Lucien et le scepticisme de son époque, in Aubert-Baillot S. – Guérin C. – Morlet S. (dir.), La philosophie des non-philosophes dans l’Empire romain (Ier-IIIe s.), Paris 2019].
Borg B.E., Bilder zum Hören – Bilder zum Sehen: Lukians Ekphraseis und die Rekonstruktion antiker Kunstwerke, Millennium 1 (2004), 25-57.
Bornmann F., Giuoco allusivo e parodia letteraria nelle Vere storie di Luciano, in Storia poesia e pensiero nel mondo antico. Studi in onore di Marcello Gigante, Napoli 1994, 63-67.
Bosman P., Selling cynicism: the pragmatics of Diogenes comic performances, CQ 56 (2006), 93-104.
Bosman P., Lucian among the Cynics: the Zeus Refuted and Cynic Tradition, CQ 62 (2012), 785-795.
Bottéro J., Le Pays-Sans-Retour, in Kappler C., Apocalypses et voyages dans l’au-delà, Paris 1987.
Boudreaux P., Le lexique de Lucien, RPh 30 (1906), 51-53.
Bouquiaux-Simon O., Lucien citateur d’Homère, AC 24 (1960), 5-17.
Bouquiaux-Simon O., Les lectures homériques de Lucien, Bruxelles 1968.
Bowen A., Mary Shelley’s Rose-Eating Cat, Lucian, and “Frankenstein”, KSJ 45 (1996), 16-19.
Bowersock G., Greek Sophists in the Roman Empire, Oxford 1969.
Bowie E.L., Greeks and their Past in the Second Sophistic, P&P 46 (1970), 3-41 [rist. in Finley M.I. (ed.), Studies in Ancient Society, London-Boston 1974, 166-209].
Bowie E.L., The Importance of Sophists, YCS 27 (1982), 29-59.
Bowie E.L., Greek Sophists and Greek Poetry in the Second Sophistic, in ANRW II 33.1 (1989), 209-258.
Bowie E.L., Greek Poetry in Antonine Age, in Russel D. (ed.), Antonine Literature, Oxford 1990, 53-90.
Bragues G., The Market for Philosophers: An Interpretation of Lucian’s Satire on Philosophy, IR 9 (2004), 227-251.
Brandão J.L., O Olhar no espelho: deuses e homens em Luciano de Samósata, Argos 19 (1995), 15-40.
Brandt S., Zu Lucians Hahn 24. 12, und Icaromen. 18, Philologus *** (1910), 157-159.
Branham R.B., The Comic as Critic: Revenging Epicurus. A Study on Lucian’s Art of Comic Narrative, CA 3 (1984), 143-163.
Branham R.B., Unruly Eloquence. Lucian and the Comedy of Traditions, Cambridge Mass.-London Branham R.B., The wisdom of Lucian’s Tiresias, JHS 109 (1989), 159-160
Branham R.B. – Goulet-Cazé M.-O. (eds.), The Cynics: The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, Berkeley 1996.
Branham R.B., Satire, in Grafton A. – Most G.W. – Settis S. (eds.), The Classical Tradition, Cambridge-London 2010, 862-865.
Braun E., Lukian. Unter doppelter Anklage, Frankfurt am Main 1992.
Bremmer J.N., Travestite Dionysos, in Padilla M.W. (ed.), Rites of passage in ancient Greece: literature, religion, society, Lewisburg (Pa.) 1999, 183-200.
Bretzigheimer G., Lukians Dialoge Εἰκόνες – Ὑπὲρ τῶν εἰκόνων. Ein Beitrag zur Literaturtheorie und Homerkritik, RhM 135 (1992), 161-187.
Briand M., Lucien et Homère dans les Histoires Vraies : Pratique et théorie de la fiction au temps de la seconde sophistique, Lalies 25 (2005), 127-140.
Brillet-Dubois P., L’art formulaire d’Homère dans les Histoires vraies de Lucien, Gaia 10 (2006), 219-234.
Brown A.S., From the Golden Age to the Isles of the Blest, Mnemosyne 51 (1998), 385-410.
Bruns I., Lucians philosophische Satiren, RhM 43 (1888), 86-103; 161-96.
Bruns I., Lucian und Oenomaos, RhM 44 (1889), 374-396.
Briand M., Des mœurs sexuelles des Sélénites (Lucien, Histoires vraies,I, 22) : entre satire queer et constructionnisme incarné, le sexe qui donne à rire et à penser, Archimède [en ligne] 5 (2018).
Byl S., Lucien et la vieillesse, LEC 46 (1978), 317-325.
Cabrero M., El Prometeo de Luciano: La humanidad tras la retórica, FloIll 12 (2001), 47-63.
Cabrero M., Elogio de la mentira. Sobre las Narrativas verdaderas de Luciano de Samósata, Bahía Blanca 2006.
Cabrero M., El humor luciánico en las «Narrativas verdaderas»: una estética del desencanto, REC 35 (2008), 47-60.
Camerotto A., Le metamorfosi della parola: studi sulla parodia in Luciano di Samosata, Pisa-Roma 1998.
Camerotto A., Come diventare un eroe. Le virtù e le imprese di Trygaios Athmoneus, ITFC 6 (2006-2007), 257-287.
Camerotto A. (ed.), Luciano di Samosata. Icaromenippo, Alessandria 2009.
Canfora L., s.v. Luciano, in Dizionario degli scrittori greci e latini, II, Milano 1987, 1263-1271.
Cannatà Fera M., Intertestualità in Luciano: a proposito di una recente edizione, RFIC 125 (1997), 496-504.
Cannatà Fera M., Comunicazione e umorismo: l’Ippia di Luciano, in AA.VV., La ‘parola’ delle immagini e delle forme di scrittura. Modi e tecniche della comunicazione nel mondo antico, Messina 1998, 229-242.
Capelle W., Der Spötter von Samosata, Socrates 2 (1914), 606-622.
Carsana C., Gli «altri mondi» nella satira di Luciano, in Id. – Schettino M.T. (eds.), Utopia e utopie nel pensiero storico antico, Roma 2008, 177-184.
Casevitz M., La création verbale chez Lucien : le Lexiphanes, Lexiphane et Lucien, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 77-86.
Casson L., Selected Satires of Lucian, New York 1962.
Caster M., Lucien et la pensée religieuse de son temps, Paris 1937.
Caster M., Etude sur Alexandre ou le faux prophète de Lucien, Paris 1938.
Celentano M.S., Comicità, umorismo e arte oratoria nella teoria retorica antica, Eikasmos 6 (1995), 161-174.
Chabert S., L’atticisme de Lucien, Paris 1897.
Chaniotis A., Old Wine in a New Skin: Tradition and Innovation in the Cult Foundation of Alexanderof Abonouteichos, Electrum 6 (2002), 67-85.
von Christ-Schmid W. – Schmid W. – Stählin O., Geschichte der Griechischen Literatur, II 2, München 19246, 710-745.
Cistaro M., Sotto il velo di Pantea. Imagines e Pro imaginibus di Luciano, Messina 2009.
Citti V., Il turbamento di Zeus (Luc. I.Tr. 14), Eikasmos 3 (1992), 221-222.
Citti F., Epicuro in Luciano. Epicur. 542 Us. (ap. Sen. epist. 19,10), Paideia 49 (1994), 179-190.
Clay D., Lucian of Samosata: Four Philosophical Lives (Nigrinus, Demonax, Peregrinus, Alexander Pseudomantis), in ANRW II, 36.5 (1992), 3406-3450.
Coenen J., Lukian. Zeus tragodos. Überlieferungsgeschichte, Text und Kommentar, Meisenheim am Glan 1977.
Conacher D.J., Prometheus as Founder of the Arts, GRBS 18 (1977), 189-206.
Cornet G., Les hors-la-loi chez Lucien : le jeu du mensonge et de la vérité, in Wolff C. (éd.), Les exclus dans l’Antiquité. Actes du colloque organisé à Lyonles 23-24 septembre 2004, Paris 2007, 107-117.
Courtney E., Parody and Literary Allusion in Menippean Satire, Philologus 106 (1962), 86-100.
Croiset M., Essai sur la vie et les œuvres de Lucien, Paris 1882 [archive.org].
Curti C., Luciano e i Cristiani, in Miscellanea di studi di Letteratura cristiana antica, Catania 1954, 86-109.
D’Agostino V., La favola del bivio in Senofonte, in Luciano e in Silio Italico, RSC 2 (1954), 173-184.
D’Agostino V., Figurazioni simboliche della vita umana nelle opere di Luciano, RSC 4 (1956), 203-215.
Dane J.A., Parody: Critical Concepts versus Literary Practices, Aristophanes to Sterne, Norman 1988.
Daumer V., Lucien de Samosate et la secte chrétienne, Paris 1957.
Dawson D., Cities of the Gods. Communist Utopias in Greek Thought, New York 1992.
Decleva-Caizzi F., s.v. Cinici, in Dizionario degli scrittori greci e latini I, Milano 1988, 509.
Deferrari R.J., Lucian’s Atticism: The Morphology of the Verb, diss. Princeton 1916 (= rist. Amsterdam 1969).
Degani E., Insulto ed escrologia in Aristofane, Dioniso 57 (1987), 31-47.
de la Hoz Montoya J., La manutención de Demonacte (Luc. Dem. 63), ARYS 2 (1999), 183-204.
de la Hoz Montoya J., El suicidio de Peregrino y la religiosidad del cinismo altoimperial, FI 11 (2000), 99-120.
de la Hoz Montoya J., Sóstrato, un evérgeta beocio, Habis 31 (2000), 311-325.
Delatte A., Le sage-témoin dans la philosophie stoïco-cynique, BAB ser. 5, 39 (1953), 166-186.
Del Corno D. – Ghirga C. – Romussi R. (eds.), Luciano. I filosofi all’asta, Il pescatore, La morte di Peregrino, Milano 2004.
Delz J., Lukians Kenntnis der athenischen Antiquitäten, diss. Basel 1950.
Delz J., Gnomon 32 (1960), rec. Bompaire (1958).
Desmond W., Cynics, Stocksfield 2008.
Desrousseaux A.M., Notes critiques sur le Dialogues des morts de Lucien, Paris 1885.
Destro A. – Pesce M., Le voyage céleste. Tradition d’un genre ou schéma culturel en contexte?, in Belayche N. – Dubois J.-D. (éds.), L’Oiseau et le poisson. Cohabitations religieuses dans les mondes grec et romain, Paris 2011, 361-386.
Di Branco M., La città dei filosofi. Storia di Atene da Marco Aurelio a Giustiniano, Firenze 2006.
Dickie M.W., Lucian’s Gods: Lucian’s Understanding of the Divine, in Bremmer J.N. – Dirven L., The Author of “De Dea Syria” and His Cultural Heritage, Numen 44 (1997), 153-179.
Dickie M.W., Divine Epiphany in Lucian’s Account of the Oracle of Alexander of Abonuteichos, ICS 29 (2004), 159-182.
Di Marco M. (ed.), Timone di Fliunte. Silli, Introduzione, edizione critica, traduzione e commento, Roma 1989.
Dobrov G.W., The sophist on his craft: Art, text, and self-construction in Lucian, Helios 29 (2002), 173-192.
Döhring P., De Luciano Atticistarum irrisore, Berolini 1916.
Dolcetti P., Filosofia e filosofi in Luciano: stoici epicurei scettici, AST 20 (1996), 57-157.
Dolcetti P., Personificazioni, scelte di vita e scelte letterarie nell’opera di Luciano, Bologna 1998, 245-261.
Dolcetti P., I «Dialoghi degli dèi» di Luciano: il racconto mitico tra passato e futuro, AOFL 7 (2012), 64-73.
Dorati M., Platone ed Eupoli (Protagora 314c-316a), QUCC 50 (1995), 87-103.
Dover K.J., The Freedom of the Intellectual in Greek Society, Talanta 7 (1976), 24-54.
Dressen A., From Dante to Landino: Botticelli’s Calumny of Apelles and its Sources, MKIF 59 (2017), 324-339.
Dubel S., Dialogue et autoportrait : les masques de Lucien, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 19-26.
Dubuisson M., Lucien et Rome, AS 15-17 (1984-1986), 185-207.
Dudley R.R., A History of Cynicism: From Diogenes to the 6th Century A.D., London 1937 (= 1968).
Edwards M.J., Satire and Verisimilitude: Christianity in Lucian’s Peregrinus, Historia 38 (1989), 89-98.
Edwards M.J., Lucian and the Rhetoric of Philosophy: the Hermotimus, AC 62 (1993), 195-202.
Edwards M.J., Lucian of Samosata in the Christian Memory, Byzantion 80 (2010), 142-156.
Elsner J., Describing Self in the language of Other: Pseudo (?) Lucian at the temple of Hierapolis, in Goldhill S. (ed.), Being Greek Under Rome, Cambridge 2001, 123-153.
Emeljanow V., A Note on the Cynic Shortcut to Happiness, Mnemosyne 18 (1965), 182-184.
Erskine A. (eds.), The Gods of Ancient Greece: Identities and Transformations, Edinburgh 2010, 248-361.
Esposito G., Il contenuto e le fonti scettiche dell’Ermotimo di Luciano, RRAN 65 (1995), 163-184.
Evans S., Ritual Lament in Lucian, in Bartley A. (ed.), A Lucian for our Times, Cambridge 2009, 65-78.
Fantham E. – Rummel E. (eds.), Literary and Educational Writings 7: Volume 7: De virtute / Oratio funebris / Encomium medicinae / De puero / Tyrannicida / Ovid / Prudentis / Galen / Lingua, Volume 29, Toronto 1989.
Farioli M., Mundus alter. Utopie e distopie nella commedia greca antica, Milano 2001.
Fattal M., La figure d’Héraclite qui pleure chez Lucien de Samosate (Les Sectes à l’encan, 14), in Guglielmo M. – Gianotti G.F. (eds.), Filosofia, storia, immaginario mitologico, Alessandria 1997, 175-180.
Fauth W., Utopische Inseln in den Wahren Geschichten des Lukian, Gymnasium 86 (1979), 39-58.
Felton D., The Animated Statues of Lucian’s Philopseudes, CB 77 (2001), 75-86.
Fernandez Robbio M.S., La defensa de la propia obra en Luciano de Samosata, Boletín GEC 16 (2012), 173-178.
Fields D., The Reflections of Satire: Lucian and Peregrinus, TAPhA 143 (2013), 213-245.
Flinterman J.-J., The Date of Lucian’s Visit to Abonuteichos, ZPE 119 (1997), 280-282.
Floridi L., La silloge di epigrammi ‘lucianei’ del codice Riccardiano 25, RFIC 142, 2014, pp. 103-120.
Floridi L., Un saggio di scultura verbale: a proposito di Luc. IM 9, Hermes 143 (2015), 83-100.
Floridi L., Polifemo tra letteratura e iconografia:Luc. DMar. 1 e 2, AevAnt 17 (2017), 245-274.
Floridi L., «Lacune» e selezioni mitiche: Luc. DMar. 3 («Poseidone e Alfeo»), «Acme» 71.2, 2018, pp. 9-20.
Floridi L., Luc. DMar. 14: Perseo e Andromeda tra iconografia e teatro (con un’appendice su DMar. 12), «Aevum Antiquum» 18, 2018, pp. 215-255.
Follet S., Lucien et l’Athènes des Antonins, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 131-139.
Fox R.L., Pagans and Christians, Middlesex 1986.
Franco C., Intellettuali e potere nel mondo greco-romano, Roma 2006.
Frazier F., Deux images de banquets de lettrés : les ‘Propos de table’ de Plutarque et le ‘Banquet’ de Lucien, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 125-130
Fuchs D., Diogenes the Cynic, Alexander the Great, and Menippean Satire in Gulliver’s Travels, AuA 54, 2008.
Fuentes González P.P., s.v. Lucien de Samosate, in Goulet R. (éd.), Dictionnaire des Philosophes Antiques, vol. IV, Paris 2005, 131-160.
Fuentes González P.P., Le Démonax de Lucien entre réalité et fiction, Prometheus 35 (2009), 139-158.
Fumarola V., Conversione e satira antiromana nel Nigrino di Luciano, PP 6 (1951), 182-207.
Fumarola V., La più recente critica su Luciano, A&R 9 (1964), 97-107.
Funk K., Untersuchungen über die Lukianische Vita Demonactis, Leipzig 1907, 561-674.
Fusillo M., Le miroir de la Lune. L’Histoire vraie de Lucien de la satire à l’utopie, Poétique 73 (1988), 109-135 (= The Mirror of the Moon: Lucian’s A True Story – From Satire to Utopia, in Swain S. [ed.], Oxford Readings in the Greek Novel, Oxford 1999, 351-381).
Fusillo M., La citazione menippea (sondaggi su Luciano), in De Vivo A. – Spina L., “Come dice il poeta…”. Percorsi greci e latini di parole poetiche, Napoli 1992, 21-42.
Futre Pinheiro M.P. – Schmeling G. – Cueva E.P. (eds.), The Ancient Novel and the Frontiers of Genre, Groningen 2014.
Gabrieli P., L’encomio di una favorita imperiale in due opuscoli lucianei, RRAL, Roma 1934, 29-101.
Gainsford P., Satire and the Marginal Text: Lucian ParodiesDiktys (VH 2.25–26), Hermes 139 (2011), 97-105.
Gallardo M.D., Los simposios de Luciano, Ateneo, Metodio y Luciano, CFC 4 (1972).
Gallavotti C., Il Nigrino di Luciano, A&R 11 (1930), 182-207.
Gallavotti C., Luciano nella sua evoluzione artistica spirituale, Lanciano 1932.
Gangloff A., Peuples et préjugés chez Dion de Pruse et Lucien de Samosate, REG 120 (2007), 63-86.
García Valdés M., Estudio critico-textual de Adversus indoctum de Luciano, Emérita 65 (1997), 65-75.
Gardiner E., Greek and Roman Hell: Visions, Tours and Descriptions of the Infernal Otherworld, New York 2019.
Gargiulo T., Una parodia epicurea del De parasito di Luciano, SIFC 6 (1988), 232-235.
Gargiulo T., Per una lettura del Prometheus di Luciano. Struttura, motivi, interpretazione, Lexis 11 (1993), 189-214.
Gassino I., Voir et savoir : les difficultés de la connaissance chez Lucien, in Villard L. (dir.), Couleurs et vision dans l’Antiquité classique, Rouen 2002, 167-177.
Gassino I., De la comédie humaine à la comédie divine : politique, philosophieet iconographie : les vecteurs de la satire des dieux chez Lucien, NA 8-9 (2012-2013), 91-114.
Gazza V., I tre scritti affini di Luciano: I. Tr., I. conf., Deor. conc., Aevum 27 (1953), 1-17.
Gazza V., Luciano di Samosata e la polemica sulla filosofia, RILSL 88 (1955), 373-414.
Gelston H.M., Lucian the Satirist, CO 15 (1937), 9-10.
Georgiadou A. – Larmour D.H.J., Lucian and Historiographic: ‘De historia conscribenda’ and ‘Verae historiae’, in ANRW II, 34.2 (1994), 1448-1509.
Georgiadou A. – Larmour D.H.J., The prolaliae to Lucian’s Verae Historiae, Eranos 93 (1995), 100-112.
Georgiadou A. – Larmour D.H.J., Lucian’s Science Fiction. Novel True Histories: Interpretation and Commentary, Leiden 1998.
Georgiadou A. – Larmour D.H.J., Lucian’s Verae Historiae as Philosophical Parody, Historia 126 (1999), 310-325.
Gerhardt M., Bemerkungen zur Rezeption des Aristobulos von Kassandreia. Lukian und die Ἀλεξάνδρου Ἀνάβασις Arrians, in Brüggemann T. et al. (eds.), Studia hellenistica et historiographica. Festschrift für Andreas Mehl, Gutenberg 2010, 59-72.
Gernet L., La Cité future et le pays des morts, REG 46 (1933), 293-310.
Gilhuly K., The Phallic Lesbian: Philosophy, Comedy, and Social Inversion in Lucian’s Dialogues of the Courtesans, in Faraone Ch.A – McClure L.K. (eds.), Prostitutes and Courtesans in the Ancient World, Madison 2006, 274-294.
Goeken J., Eloge et description : l’esprit du banquet dans La Salle (Peri tou oikou) de Lucien, in Abbamonte G. – Miletti L. – Spina L. (eds.), Discorsi alla prova. Atti del Quinto Colloquio italo-francese, Napoli – S. Maria di Castellabate (Sa) 21-23 settembre 2006, Napoli 2009, 189-223.
Goldschmidt E.P., The First Edition of Lucian of Samosata, JWCI 14 (1951), 7-20.
Gómez Cardó P., Luciano y la escuela, in Fernandez Delgado J.A. – Pordomingo F. – Stramaglia A. (edd.), Escuela y Literatura en Grecia Antigua, Actas del Simposio Internacional Universidad de Salamanca, 17-19 Noviembre de 2004, Cassino 2007, 485-496.
Gómez Cardó P., El aprendiz de rapsodo, o de cuando Homero cruzó la laguna Estigia, Emerita 80, 2012, 13-29.
Gómez Cardó P., El grajo de Esopo: Luciano y la tradición yámbica, NA 8-9 (2012-2013), 183-212.
Gómez Cardó P., Menippus, a Truly Living Ghost in Lucian’s Necromancy, in Romero-González D. – Muñoz-Gallarte I. – Laguna-Mariscal G. (eds.), Visitors from beyond the Grave. Ghosts in World Literature, Córdoba 2019, 47-64.
Gonzàlez Julià Ll., Luciano ensaya la novela escénica: apariencia episódica y estructura unitaria de los Diálogos de los muertos, Emerita 79 (2011), 357-379.
Goulet-Cazé M.O., L’ascèse cynique. Un commentaire de Diogène Laërce VI 70-71, Paris 1986.
Goulet-Cazé M.O., Le Cynicisme à l’époque impériale, in ANRW II 36.4 (1990), 2720-2833.
Goulet-Cazé M.O., Le livre VI de Diogène Laërce: Analyse de sa structure et réflexions méthodologiques, in ANRW II 36.6 (1992), 3880-4048.
Goulet-Cazé M.O., Who was the First Dog?, in Id. – Bracht Branham R. (eds.), The Cynics: The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, Berkeley 1996, 414-415.
Goulet-Cazé M.O., Cinismo, in Brunschwig J. – Lloyd G.E.R. (eds.), Il sapere greco: dizionario critico, Vol. 2, Torino 2007, 413-429.
Grawehr M., Of Toddlers and Donkeys. Roman Lamps with Slaves and Self-Representations of Slaves, in Binsfeld A. – Ghetta M. (eds.), Ubi servi erant? Die Ikonographie von Sklaven und Freigelassenen in der römischen Kunst, Stuttgart 2019, 91-118.
van Groningen B.A., Ad Luciani Muscae laudationem, Mnemosyne (1930), 384.
van Groningen B.A., General Literary Tendencies in the Second Century A.D., Mnemosyne 18 (1965), 41-56.
Grube G.M.A., The Greek and Roman Critics, London 1965.
Guast W., Lucian and Declamation, CPh 113 (2018), 189-205.
Guastella G., Topi e parassiti, la tradizione di mangiare il cibo altrui, in Longo O. – Scarpi P. (eds.), Homo Edens. Regimi, Miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, Verona 1989, 343-50.
Guillén Preckler F., Testimonio de Luciano sobre los cristianos, Helmantica 26 (1975), 249-257.
Guillén Preckler F., Algunas cuestiones de vocabulario del De morte Peregrini 11-15, Helmantica 27 (1976), 113-119.
Haley S.P., Lucian’s “Laena and Clonarium”: Voyeurism or a Challenge to Assumption?, in Rabinowitz N.S. – Auanger L. (eds.), Among Women, Austin 2002, 286-303.
Hall J.A., Lucian’s Satire, New York 1981.
Halliwell S., The Use of Laughter in Greek Culture, CQ 41 (1991), 279-296.
Halliwell S., Comic Satire and Freedom of Speech in Classical Athens, JHS 111 (1991), 48-70.
Halliwell S., Aischrology, Shame, and Comedy, in Sluiter I. – Rosen R.M. (eds.), Free Speech in Classical Antiquity, Leiden-Boston 2004, 115-144.
Halliwell S., Greek Laughter: A Study of Cultural Psychology from Homer to Early Christianity, Cambridge 2008.
Halpern S., The First Exploration of a Slip of the Tongue, CJ 57 (1962), 355-358.
Hartog F., Lo specchio di Erodoto, Milano 1992 (= Le miroir d’Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre, Paris 1991).
Heath M., Oratory and Declamation, in Porter S. (ed.), A Handbook of Classical Rhetoric, Leiden 1997, 393-420.
Helm R., Lucian und die Philosophenschulen, NJKA 9 (1902), 188-213; 263-278; 351-369.
Helm R., Lukian und Menipp, Leipzig-Berlin 1906.
Helm R., s.v. Kynismus, in RE XII (1924), 3-24.
Helm R., s.v. Lukian, in RE XIII (1927), 1728-1777.
Hemmerdinger B., G archétype conservé du corpus le plus long de Lucien, Boll. Class. 15 (1994), ***.
Highet G., The Anatomy of Satire, Princeton 1962.
Hime H.W.L., Lucian the Syrian Satirist, London 1900.
Hirzel R., Der Dialog: Ein literarhistorischer Versuch, I-II, Leipzig 1895 [part. Luc. II, 311 ss.].
Hock R.F., Simon the Shoemaker as an Ideal Cynic, GRBS 17 (1976), 41-53.
Höistad R., Cynic Hero and Cynic King. Studies in the Cynic Conception of Man, Uppsala 1948.
Homeyer H. (ed.), Lukian. Wie man Geschichte schreiben soll, München 1965.
Hornsby H.M., The Cynicism of Peregrinus Proteus, Hermathena 48 (1933), 65-84.
Householder F.W., The Mock Decrees in Lucian, TAPhA 71 (1940), 199-216.
Householder F.W., Literary Quotation and Allusion in Lucian, New York 1941.
Householder F.W., Παρῳδία, CPh 39 (1944), 1-9.
Houston G.W., Lucian’s Navigium and the Dimensions of the Isis, AJPh 108 (1987), 444-450.
Humble N. – Sidwell K., Dreams of Glory: Lucian as Autobiographer, in McGing B. – Mossman J. (eds.), The Limits of Ancient Biography, Swansea 2007, 213-226.
Husson G., Lucien. Le navire ou les souhaits, voll. I-II, Paris 1970.
Husson G., Lucien philosophe du rire ou ‘Pour ce que rire est le propre de l’homme’, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 177-184.
Hutcheon L., Ironie et parodie : stratégie et structure, Poétique 36 (1978), 467-477.
Hutchinson S., Luciano, precursor de Cervantes, in Robert Lauer A. – Reichenberger K (eds.), Cervantes y su mundo, III, Kassel 2005, 241-262.
Iannucci A., Da Samotracia a Oxford. Il Sogno di Luciano (e Thomas Hardy) tra biografia, finzione letteraria e parodia, AOFL 2 (2009), 99-118.
Iannucci A., Il prezzo dei filosofi, GOL 11 (2011).
Ikegami Y., A Linguistic Essai on Parody, Linguistics 55 (1969), 13-31.
Innocenti P., Luciano di Samosata e l’epicureismo, RCSF 33 (1978), 30-53.
Ipiranga Júnior P., Luciano e a experimentação biográfica: filosofia e religião, NA 8-9 (2012-2013), 161-182.
Jacobson H., Lucian’s Charon and the Odyssey, MD 43 (1999), 221-222.
Jazdzewska K., Tales of Two Lives in Xenophon’s Hiero, Plutarch’s Gryllos, and Lucian’s Cock, Hermes, 143 (2015), 141-152.
Joly R., La réfutation des analogies dans l’Hermotime de Lucien, AC 50 (1981), 417-426.
Joly R., L’eau sur la table. Lorsque Lucien éclaire Hippocrate, AC 60 (1991), 208-213.
Jones C.P., Two Enemies of Lucian, GRBS 13 (1972), 475-487.
Jones C.P., A Syrian at Lyon, AJPh 100 (1978), 336-353.
Jones C.P., Culture and Society in Lucian, Cambridge-London 1986.
Jouan F., Le Diogène de Dion Chrysostome, in Goulet-Cazé M.O. – Goulet R. (éds.), Le Cynisme ancien et ses prolongements, Paris 1993, 381-397.
Jouan F., Mythe, histoire et philosophie dans les ‘Dialogues des morts’, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 27-35.
Jouanno C., Mythe et allégorie dans l’œuvre de Lucien, Kentron 24 (2008), 183-225.
Jufresa M., El teatre, metàfora de la vida a Llucià, Itaca 19 (2003), 171-186.
Kalitan D., In Search of the Sorcerer’s Apprentice: between Lucian and Walt Disney, JECS 1 (2012), 94-101.
Karavas O., «Love, you tyrant of gods and men»: The Tyranny of Love on gods and men in Lucian of Samosata, in The Proceedings of the 1st International Symposium in Delphi “Love in Ancient Greece”, Athens 2004, 70-73.
Karavas O., Lucien et la tragédie, Berlin-New York, 2005.
Karavas O., El orador-cisne: Luciano, los rétores y la retórica, CFC 16 (2006), 157-164.
Karavas O., Laprésence de Sophocle chez Lucien de Samosate, in XII International Meeting on Ancient Greek Drama. Symposium Proceedings, European Cultural Centre of Delphi, Delphi 2007, 137-150.
Karavas O., Lucien de Samosate et la poésie hellénistique, QUCC 88 (2008), 109-117.
Karavas O., Apollon pseudomenos: Lucian, the Fake Oracles and the False Prophets, Eranos 105 (2008-2009), 90-97.
Karavas O., La religiosité de Lucien, in Bartley A. (ed.), A Lucian for our Times, Newcastle 2009, 137-144.
Karavas O., Luciano, los cristianos y Jesucristo, in Mestre F. – Gómez Cardó P. (eds.), Lucian of Samosata…, Barcelona, 2010, 115-120.
Karavas O., Adamantios Coray et ses corrections inédites sur Lucien : le ms. Chios 490, p. 455-576, NA 8-9 (2012-2013), 115-159.
Karavas O., Estudio crítico-textual del Ocipo de Pseudo-Luciano según las notas de Johannes Sykutris, in Mestre F. – Gómez Cardó P. (eds.), Three Centuries of Greek Culture under the Roman Empire. Homo Romanus Graeca Oratione, Barcelona 2013, 319-335.
Karavas O., Algunas observaciones sobre el humor de Luciano, in Mamolar Sánchez I. (ed.), Saber reírse. El humor desde la Antigüedad hasta nuestros días, Madrid 2014, 73-88.
Karavas O., La paratragédie comme spectacle chez Lucien, in Camerotto A. – Maso S. (eds.), La satira del successo. La spettacolarizzazione della cultura nel mondo antico (tra retorica, filosofia, religione, potere e società), Milano-Udine, 2017, 105-120.
Keil B., Über Lukians Phalariden, Hermes 48 (1913), 494-521.
Kemezis A.M., Lucian, Fronto, and the Absence of Contemporary Historiography under the Antonines, AJPh 131 (2010), 285-325.
Kemezis A.M., Greek Ethnicity and the Second Sophistic, in McInerney J. (ed.), A Companion to Ethnicity in the Ancient Mediterranean, Malden 2014, 390-404.
Kennedy G., The Art of Rhetoric in the Roman World 300 B.C.-A.D. 300, Princeton 1972.
Kennedy G., Greek Rhetoric under Christian Emperors, Princeton 1983.
Kennedy K., Cynic Rhetoric: The Ethics and Tactics of Resistance, RhetR 18 (1999-2000), 26-45.
Kennell N.M., Herodes Atticus and the Rhetoric of Tyranny, CPh 92 (1997), 346-362.
Kim L., The Literary Heritage as Language: Atticism and the Second Sophistic, in Bakker E.J. (ed.), A Companion to the Ancient Greek Language, Chichester-Malden 2010, 468-482.
Kim L., Homer between History and Fiction in Imperial Greek Literature, Cambridge 2012.
Kindstrand J.F., Homer in der Zweiten Sophistik. Studien zu der Homerlektüre und dem Homerbild bei Dion von Prusa, Maximos von Tyros und Ailios Aristeides, Uppsala 1973.
Kindstrand J.F., Bion of Borysthenes. A Collection of the Fragments with Introduction and Commentary, Uppsala 1976.
Kirk E.P., Menippean Satire. An annotated Catalogue of Texts and Criticism, New York-London 1980.
Kinzel T., Philosophie als Lebensweise: Zum Verhältnis von Erkenntnis und Leben am Beispiel von Lukians platonischem Dialog „Hermotimos“, in Seidl H. (ed.), Erkennen und Leben. Philosophische Beiträge zum Lebensbezug menschlicher Erkenntnis, Hildesheim 2002, 171-192.
Kock Th., Lukian und die Komödie, RhM 43 (1888), 29-59.
Kokolakis M., Gladiatorial Games and Animal Baiting in Lucian, Platon 10 (1958), 328-361.
Kokolakis M., Lucian and the Tragic Performances in his Time, Platon 12 (1960), 67-109.
König J., The Cynic and Christian Lives of Lucian’s Peregrinus, in McGing B. – Mossman J. (eds.), The Limits of Ancient Biography, Swansea 2007, 227-254.
von Koppenfels W., Mundus alter et idem. Utopiefiktion und menippeische Satire, Poetica 13 (1981), 16-65.
von Koppenfels W., KATASKOPOS oder der Blick von der Höhe: ein menippeischer Streifzug, A&A 47 (2001), 1-20.
von Koppenfels W., Der andere Blick oder Das Vermächtnis des Menippos: paradoxe Perspektiven in der europäischen Literatur, München 2007.
Korus K., The Motif of Panthea in Lucian’s Encomium, Eos 69 (1981), 47-56.
Korus K., The Theory of Humour in Lucian of Samosata, Eos 72 (1984), 295-313.
Korus K., Funktionen der literarischen Gattungen bei Lukian, Eos 74 (1986), 29-38.
Korus K., Zur Chronologie der Schriften Lukians, Philologus 130 (1986), 96-103.
Krumeich R. – Pechstein N. – Seidensticker B. (eds.), Das griechische Satyrspiel, Darmstadt 1999.
Kuin I.N.I., Diogenes vs. Demonax: Laughter as Philosophy in Lucian, in Destrée P. – Trivigno F. (eds.), Laughter, Humor, and Comedy in Ancient Philosophy, Oxford 2019, 263-284.
Kussl R., Die Metamorphoses des Lucius von Patrai: Untersuchungen zu Photius Bibl. 129, RhM 133 (1990), 379-388.
Laird A., Fiction as a Discourse of Philosophy in Lucian’s Verae Historiae, in Zimmerman M. – Panayotakis S. – Keulen W. (eds.), The Ancient Novel and Beyond, Boston-Leiden 2003, 115-127.
Lämmle R., Poetik des Satyrspiels, Heidelberg 2013.
Lana I., Tracce di dottrine cosmopolitiche in Grecia prima del Cinismo, in Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 231-273 (= RFIC 29 [1951], 193-216; 317-338).
Langholf V., Lucian und die Medizin: Zu einer tragischen Katharsis bei den Abderiten (De historia conscribenda § 1), in ANRW II 37.3 (1996), 2793-2841.
Lanza D., Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressoridel senso comune, Torino 1997.
Lanza D., Luciano: gli dèi al caleidoscopio, in Darbo-Peschanski C. (dir.), La citation dans l’Antiquité. Actes du colloque du PARSA Lyon, ENS LSH (6-8 novembre 2002), Grenoble 2004, 189-198.
La Penna A., L’intellettuale emarginato nell’antichità, Maia 42 (1990), 3-20.
Laplace M.M.J., L’ekphrasis de la parole d’apparat dans l’Electrum et le De domo de Lucien, et la représentation des deux styles d’une esthétique inspirée de Pindare et de Platon, JHS 116 (1996), 158-165.
Ledergerber J., Lukian und die altattische Komödie, Einsiedeln 1904-1905.
van der Leest J., Lucian in Egypt, GRBS 26 (1985), 75-82.
Lefebvre K., Parallel Plays: Lucian’s Philosophers and the Stage, ICS 41 (2016), 201-218.
Legrand Ph.E., Sur le Timon de Lucien, REA 9 (1907), 132-154.
Legrand Ph.E., Les Dialogues des courtisanes comparés avec la Comédie, REG 20 (1907), 176-231 (cfr. REG 21 [1908], 39-79).
Le Morvan A., La description artistique chez Lucien, REG 45 (1932).
Lesky A, Apuleius von Madaura und Lukios von Patrai, Hermes 76 (1941), 43-74.
Levine D.B., Lucian, True History 2.26 Reconsidered: Lust and Punishment, Helios 18 (1991), 31-33.
Levine E.I., The Peasant’s Banquet: Gluttony on the Move in the Greek Poetic Consciousness, Eisodos 1 (2015), 9-21.
Lincoln B., The Hell Hound, JIES 7 (1979), 273-386.
Litt Th., Lucians Nigrinos, RhM 64 (1909), 98-107.
Livrea E., Callimaco e gli asini, SIFC 89 (1996), 56-58.
Loiacono G., Il riso di Luciano, Catania 1932.
Lomiento L. (ed.), Cercidas. Testimonia et Fragmenta, Roma 1993.
Long A.A., The Socratic Tradition: Diogenes, Crates, and Hellenistic Ethics, in Bracht Branham R. – Goulet-Cazé M.-O. (eds.), The Cynics: The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, Berkeley 1996, 28-46.
Longo V., Luciano e l’Ermotimo, Genova 1964.
Longo V. (ed.), Dialoghi di Luciano, III, Torino 1976.
Macleod M.D., Ἀν with the Future in Lucian and the Solecist, CQ 6 (1956), 102-111.
Macleod M.D., A note on Lucian Prometheus es in verbis, CQ 6 (1956), 237.
Macleod M.D., A Homeric Parody in Lucian, CR 10 (1960), 103 [D. mort. 5.2]
Macleod M.D., Lucian’s Activities as a μισαλάζων, Philologus 123 (1979), 326-328.
Macleod M.D., Lucian’s Relationship to Arrian, Philologus 131 (1987), 257-264.
Macleod M.D., Lucianic Studies since 1930, in ANRW II 34.2 (1994), 1362-1421.
Maffei S., Le Imagines di Luciano: un “patchwork” di capolavori antichi. Problema di un metodo combinatorio, SCO 36 (1986), 147-164.
Maffei S. (ed.), Luciano di Samosata. Descrizioni di opere d’arte, Torino 1994.
Mainoldi C., Cani mitici e rituali tra il regno dei morti e il mondo dei viventi, QUCC 8 (1981), 7-41.
van Mal-Maeder D., Les détournements homériques dans l’Histoire Vraie de Lucien : Le rapatriement d’une tradition littéraire, EdL 2 (1992), 123-146.
Manieri A., Alcune riflessioni sul rapporto poesia-pittura nella teoria degli antichi, QUCC 50 (1995), 133-140.
Marasco G., Lo storico e il suo pubblico: Luciano e gli storici della guerra partica di Lucio Vero, Itaca 9-11 (1993-1995), 137-149.
Marciniak P.T., Reinventing Lucian in Byzantium, DOP 70 (2016), 209-224.
Marciniak P.T., The Paradoxical Enkomion and the Byzantine Reception of Lucian’s “Praise of the fly”, MEG 19 (2019), 141-150.
Marcovich M., Pythagoras as Cock, AJPh 97 (1976), 331-335.
Marini N., Il modello omerico in Luciano ed Eliodoro. Un caso di μετακόσμησις descrittiva, in Arrighetti G. (ed.), Poesia greca, Ricerche di Filologia classica 4, Pisa ***.
Marsh D., Beyond the Pillars of Hercules: Voyage and Veracity in Exploration Narratives, AnnItal 10 (1992), 134-148.
Marsh D., Lucian, in Grafton A. – Most G.W. – Settis S. (eds.), The Classical Tradition, Cambridge-London 2010, 544-546.
Martin A., Lucien et l’Égypte, in Mestre F. – Gómez Cardó P. (eds.), Lucian of Samosata. Greek Writer and Roman Citizen, Barcelona 2010, 191-201.
Martin R., The Scythian Accent: Anacharsis and the Cynics, in Bracht Branham R. – Goulet-Cazé M.-O. (eds.), The Cynics: The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, Berkeley 1996, 136-155.
Martin P., Cleansing the Palate: Vomit and Satire in Lucian’s Lexiphanes, ICS 43 (2018), 507-520.
Massimo D., Dialogo col vento occidentale. Il ratto di Europa in Luciano, Dial. Mar. 15, A&R 12 (2018), 476-485.
Mason H., Fabula Graecanica: Apuleius and his Greek Sources, in Hijmans B.L. – van der Paardt T. (eds.), Aspects of Apuleius’ Golden Ass, Groningen 1979, 1-15.
Mason H., Greek and Latin Versions of the Ass-Story, in ANRW II, 34.2 (1994), 1666-1707.
Mason H., s.v. Greek and Roman Narrative. Forms of the Novel in the Ancient World, in Schellinger P. et al. (eds.), Encyclopedia of the Novel, vol. I (A-L), Chicago-London 1998, 515-520.
Matteuzzi M., Sviluppi narrativi di giuochi linguistici nella Storia Vera di Luciano, Maia 27 (1975), 225-229.
Matteuzzi M., Luciano e la ‘commedia umana’, in Gendre R. (ed.), Lathe biosas: ricordando Ennio S. Burioni, Alessandria 1998, 219-226.
Matteuzzi M., A proposito di Omero «babilonese» (Lucian. V.H. II 20), Sandalion 23-25 (2000-2002), 49-51.
Mattioli E., Luciano e l’Umanesimo, Napoli 1980.
Mattioli E., La poetica di Luciano, in Studi di poetica e retorica, Modena 1993, 7-68.
McCarthy B.P., Lucian and Menippus, YCS 4 (1934).
Menini R., Lucien de Samosate à Paris : notes complémentaires sur un exemplaire annoté (BnF Rés. Z 247), in Millet O. – Sanchi L.-A. (dir.), Paris, carrefour culturel autour de 1500, Paris 2016, 151-167.
Mestre F. – Gómez Cardó P., Retórica, comedia, diálogo. La fusión de géneros en la literatura griega del s. II d.C., Myrtia 16 (2001), 111-122.
Mestre F. – Gómez Cardó P., Power and the Abuse of the Power in the Works of Lucian, in Bartley A. (ed.), A Lucian for our Time, Cambridge 2009, 93-107.
Mestre F. – Gómez Cardó P. (eds.), Lucian of Samosata. Greek Writer and Roman Citizen, Barcelona 2010.
Miralles C., Los cinicos, una contracultura en el mundo antiguo, EClás 61 (1970), 347-377.
Mirto M.S., La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica, Roma 2007.
Moggi M., Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in Bettini M. (ed.), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, a cura di M., Roma-Bari 1992, 51-76.
Moles J., Le cosmopolitisme cynique, in Goulet-Cazé M.-O. – Goulet R. (éds.), Le Cynisme ancien et ses prolongements, Paris 1993, 259-280.
von Möllendorff P., Auf der Suche nach der verlogenen Wahrheit. Lukians wahre Geschichten, Tübingen 2000.
von Möllendorff P., Grübler, Schwätzer, Scharlatane – das Bild des Intellektuellen bei Lukian, Pegasus-Onlinezeitschrift 7 (2007), 31-45.
Momigliano A., La libertà di parola nel mondo antico, RSI 83 (1971), 499-524.
Montanari F., Ekphrasis e verità storica nella critica di Luciano, in Ricerche di filologia classica, II, Pisa 1984, 111-123.
Montanari F., Virtutes elocutionis et narrationis nella storiografia secondo Luciano, ibid. III, Pisa 1987, 53-65.
Montanari U., Storia Vera di Luciano: per un nuovo esame delle fonti, Convivium 31 (1963), 207-214.
Montanari U., L’officina di Luciano di Samosata, CFC 6 (1996), 251-260.
Morgan J.R., Lucian’s True Histories and the Wonders beyond Thule of Antonius Diogenes, CQ 35 (1985), 475-490.
Moricca U., A proposito del Πλοῖονἢεὐχαίdi Luciano, RFIC 42 (1914), 316-333; 457-476.
Mras K., Die prolalia bei den griechischen Schriftstellern, WS 64 (1949), 71-81.
Mrozek S., Zu den Preisen und Löhnen bei Lukian, Eos 59 (1971), 231-239.
Müller L., De Luciani dialogorum rhetoricorum compositione, Eos 32 (1929), 559-586.
Müller R., Demokrit – der „lachende Philosoph“, in Jäkel S. – Timonen A. (eds.), Laughter down the Centuries, I, Turku 1994, 39-51.
Müller S., Trügerische Bilder. Lukians Umgang mit Tyrannen – und Orienttopoi in seinen Hades Szenen, Gymnasium 120 (2013), 169-192.
Nasrallah L., Mapping the World: Justin, Tatian, Lucian, and the Second Sophistic, HThR 98 (2005), 283-314.
Neef E., Lukians Verhältnis zu den Philosophenschulen und seine μίμησις literarischer Vorbilder, Berlin 1940.
Nenci G., Il motivo dell’autopsia nella storiografia greca, SCO 3 (1953), 14-46.
Nenci G., Pratiche alimentari e forme di definizione e distinzione sociale nella Grecia arcaica, in Longo O. – Scarpi P. (eds.), Homo Edens. Regimi, Miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, Verona 1989, 25-30.
Nesselrath H.-G., Lukians Parasitendialog. Untersuchungen und Kommentar, Berlin-New York 1985.
Nesselrath H.-G., Lucian’s Introductions, in Russell D.A. (ed.), Antonine literature, Oxford 1990, 111-140.
Nesselrath H.-G., Kaiserzeitlicher Skeptizismus in Platonischen Gewand: Lukian Hermotimos, in ANRW II 36.5 (1992), 3451-3582.
Nesselrath H.-G., Parody and Later Greek Comedy, HSCPh 95 (1993), 181-195.
Nesselrath H.-G., Utopie-Parodie in Lukians Wahren Geschichten, in Ax W. – Glei R.F. (eds.), Literaturparodie in Antike und Mittelalter, Trier 1993, 41-56.
Nesselrath H.-G., Menippeisches in der Spätantike: Von Lukian zu Julians Caesares und zu Claudians In Rufinum, MH 51 (1994), 30 ss.
Nesselrath H.-G., Lucien et le Cynisme, AC 67 (1998 [1999]), 121-135.
Nesselrath H.-G., Lukian und die antike Philosophie, in Ebner M., Gzella H., Nesselrath H.-G., Ribbat E. (eds.), Lukian. Die Lügenfreunde oder: der Ungläubige, Darmstadt 2001, 135-152.
Nesselrath H.-G., Lukian und die Magie, in Ebner M., Gzella H., Nesselrath H.-G., Ribbat E. (eds.), Lukian. Die Lügenfreunde oder: der Ungläubige, Darmstadt 2001, 153-166.
Nesselrath H.-G., Homerphilologie auf der Insel der Seligen: Lukian, VH II 20, in Reichel M. – Rengakos A. (eds.), Epea Pteroenta. Beiträge zur Homerforschung, Stuttgart 2002, 151-162.
Nesselrath H.-G., s.v. Lucianus, in NP 7 (2005), 836-845.
Nesselrath H.-G., Lucian and Archilochus, or: How to Make Use of the Ancient Iambographers in the Context of the Second Sophistic, in Finglass P.J. – Collard C.– Richardson N.J. (eds.), Hesperos. Studies in Ancient Greek Poetry Presented to M.L. West on his Seventieth Birthday, Oxford 2007, 132-142.
Nesselrath H.-G., Vom kleinen Meisterdieb zum vielgeplagten Götterboten: Hermes in den Göttergesprächen Lukians, Schmitz Ch. (ed.), Mythos im Alltag – Alltag im Mythos. Die Banalität des Alltags in unterschiedlichen literarischen Verwendungskontexten, München 2010, 147-159.
Nesselrath H.-G., Philosophers and Philotimia in Lucian’s Perspective, in Roskam G. – de Pourcq M. – van der Stockt L. (eds.), The Lash of Ambition: Plutarch, Imperial Greek Literature and the Dynamics of Philotimia, Louvain 2012, 153-167.
Nesselrath H.-G., Wundergeschichten in der Perspektive eines paganen satirischen Skeptikers: Lukian von Samosata, in Nicklas T. – Spittler J.E. (eds.), Credible, Incredible: The Miraculous in the Ancient Mediterranean, Tübingen 2013, 37-55.
Nesselrath H.-G., Language and (in-)Authenticity: The case of the (Ps.-)Lucianic Onos, in Martínez J. (ed.), Fakes and Forgers of Classical Literature, Leiden-Boston 2014, 195-205.
Nesselrath H.-G., Two Syrians on Greek Paideia: Lucian and Tatian, in Xenis G.A. (ed.), Literature, Scholarship, Philosophy, and History. Classical Studies in Memory of Ioannis Taifacos, Stuttgart 2015, 129-142.
Nesselrath H.-G., Faire parler les Enfers : La catabase de Ménippe et les Dialogues des morts de Lucien, in Marquis E. – Billault A. (éds.), Mixis : Le mélange des genres chez Lucien de Samosate, Paris 2017, 93-101.
Nesselrath H.-G., Skeletons, shades and feasting heroes. The manifold underworlds of Lucian of Samosata, in Tanaseanu-Döbler I. et al. (eds.), Reading the Way to the Netherworld. Education and the Representations of the Beyond in Later Antiquity, Göttingen 2017, 45-60.
Newman N., Sailing to the Underworld on a Sea of Milk: Orphic Allusion and the. Transition to the Underworld in Lucian’s Verae Historiae, NECJ 42 (2015), 102-119.
Ní Mheallaigh K., “Plato alone was not there…”: Platonic presences in Lucian, Hermathena 179 (2005), 89-103.
Ní Mheallaigh K., Pseudo-documentarism and the limits of ancient fiction, AJPh 129 (2008), 403-431.
Ní Mheallaigh K., Monumental fallacy: the teleology of origins in Lucian’s “Verae Historiae“, in Bartley A. (ed.), A Lucian for our Times, Cambridge 2009, 11-28.
Ní Mheallaigh K., The Game of the Name: Onymity and the Contract of Reading in Lucian, in Mestre F. – Gómez Cardó P. (eds.), Lucian of Samosata. Greek Writer and Roman Citizen, Barcelona 2010, 83-94.
Ní Mheallaigh K., Reading Fiction with Lucian: Fakes, Freaks and Hyperreality, Cambridge 2014.
Noussia M., Παρῳδία e filosofia in Cratete Tebano, in Pretagostini R. – Dettori E. (eds.), La cultura ellenistica. L’opera letteraria e l’esegesi antica, Atti del Convegno COFIN 2001 (Università di Roma Tor Vergata, 22-24 settembre 2003), Roma 2004, 127-135.
Noussia M., La Nekyia di Platone e di Cratete Tebano, in Vetta M. – Catenacci C. (eds.), I luoghi e la poesia nella Grecia antica, Atti del Convegno Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara (20-22 aprile 2004), Alessandria 2006, 279-293.
Ogden D., Greek and Roman Necromancy, Princeton 2001.
Ogden D., The Apprentice’s Sorcerer: Pancrates and his Powers in Context (Lucian, Philopseudes 33-36), AC 47 (2004), 101-126.
Ogden D., Eucrates and Demainete: Lucian, Philopseudes 27-8, CQ 54 (2004), 484-493.
Ogden D., Lucian’s Tale of the Sorcerer’s Apprentice in Context, in AA.VV., Through a Glass Darkly: Magic, Dreams and Prophecy in Ancient Egypt, Swansea 2006, 121-144.
Ogden D., The Love of Wisdom and the Love of Lies: The Philosophers and Philosophical Voices of Lucian’s Philopseudes, in Morgan J.R. – Jones M. (eds.), Philosophical Presences in the Ancient Novel, Groningen 2007, 177-204.
Oliver J.H., The Actuality of Lucian’s Assembly of the Gods, AJPh 101 (1980), 304-313.
Onfray M., Cynismes : Portrait du philosophe en chien, Paris 1990.
Oudot-Lutz E., La représentation des Athéniens dans l’œuvre de Lucien, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 141-148.
Pack R., The Volatilisation of Peregrinus Proteus, AJPh 67 (1946), 334-345.
Padilla M.W., The Myths of Herakles in Ancient Greece. Survey and Profile, Lanham-New York-Oxford 1998.
Pavese C.O., Zeuxis, Luciano e Sebastiano Ricci: La famiglia dei centauri, A.D. 4 (1991), 152-155.
Pawlak M., How to be sarcastic in Greek: Typical means of signalling sarcasm in the New Testament and Lucian, Humor 32 (2019), 545-564.
Pellizer E., Della zuffa simpotica, in Vetta M. (ed.), Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica, Roma-Bari 1983, 29-41 (= rist. in Fabian K. et. al. [eds.], ΟΙΝΕΡΑΤΕΥΧΗ. Studi triestini di poesia conviviale, Piacenza 1991, 31-41).
Pellizer E., L’ironia, il sarcasmo e la beffa: strategie dell’omiletica, Lexis 12 (1994), 1-9.
Perea Yébenes S., La Elocuencia mató a Gerión. Una lectura de Luciano: la prolaliá Héracles. PhilHisp 13 (1998), 287-293.
Peretti A., Luciano, un intellettuale greco contro Roma, Firenze 1946.
Pernot L., Lucien et Dion de Pruse, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 109-116.
Perri C., On Alluding, Poetics 7 (1978), 289-307.
Perry B.E., The Metamorphoses Ascribed to Lucius of Patrae, New York 1920.
Perry B.E., The Ancient Romances: A Literary-Historical Account on their Origin, Berkeley-Los Angeles 1967.
Perry B.E., Who was Lucius of Patrae?, CJ 44 (1968), 97-101.
Peterson A., Philosophers Redux: The Hermotimus, the Fisherman, and the Role of Dead Philosophers, ICS 41 (2016), 185-200.
Petrides A., Lucian’s On Dance and the Poetics of the Pantomime Mask, in Harrison G.W.M. – Liapis V. (eds.), Performance in Greek and Roman Theatre, Leiden 2013, 433-450.
Piccirilli L., Il primo caso di autodafé letterario: il rogo dei libri di Protagora, SIFC 90 (1997), 17-23.
Pinto M., Fatti e figure della storia romana nelle opere di Luciano, Vichiana 3 (1974), 227-238.
Pinto M., Presenza di Esiodo nelle opere di Luciano, RIL 108 (1974), 972-990
Piot H., Un personnage de Lucien,Ménippe, Rennes 1914.
Pirrotta S., Il “lavoro onirico” di Luciano. Alcune riflessioni sui meccanismi allusivi e sulla funzione del Somnium tra (pseudo)autobiografia, autocelebrazione e dichiarazione di poetica, SemRom 1 (2012), 363-381.
Polański T., Is It or Is It Not Lucian’s? An Art Historian’s Supplement to the Controversy over the Authorship of “The Syrian Goddess”, PKFK 27 (1998), 161-186.
Popma K.J., Luciani De sacrificiis, Amstelodami 1931.
Praechter K., Skeptisches bei Lukian, Philologus 51 (1892), 284-293.
Pratesi R., Timone, Luciano e Menippo: rapporti nell’ambito di un genere letterario, Prometheus 11 (1985), 40-68.
Pratesi R., Note ai Silli di Timone di Fliunte, Prometheus 12 (1986), 39-56; 123-138.
Putnam E.J., Lucian the Sophist, CPh 4 (1909), 162-177.
Quacquarelli A., La retorica antica al bivio, Roma 1956.
Raaflaub K.A., Aristocracy and Freedom of Speech in the Greco-Roman World, in Sluiter I. – Rosen R.M. (eds.), Free Speech in Classical Antiquity, Leiden-Boston 2004, 41-61.
Raina G., Il sogno di Luciano tra autobiografia e mitopoiesi, Maia 53 (2001), 399-409.
Raina G., Luciano, un laudator temporis acti?: leggendo tra le righe del Rhetorum praeceptor, in Cajani G. – Lanza D. (eds.), L’antico degli antichi, Palermo 2001, 101-109.
Raina G., Semantica della δόξα in Luciano, Sandalion 31 (2008), 83-103.
Ramelli I.L.E., Tracce di Montanismo nel Peregrino di Luciano?, Aevum 79 (2005), 79-94.
Ramelli I.L.E., “Ethos” and “Logos”: A Second-Century Debate between “Pagan” and Christian Philosophers, VC 69 (2015), 123-156.
Ramelli I.L.E., Lucian’s Peregrinus as Holy Man and Charlatan and the Construction of the Contrast between Holy Men and Charlatans in the Acts of Mari, in Panayotakis S. – Schmeling G. – Paschalis M. (eds.), Holy Men and Charlatans in the Ancient Novel, Groningen 2015, 105-120.
Ranke C.F., Pollux et Lucianus, Quedlinberg 1831.
Reardon B.P., Courants littéraires grecs des IIème et IIIème siècles après J.-C., Paris 1971, 159-161.
Reardon B.P., Lucien et la fiction, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 9-12.
Rein Th., Sprichwörter und sprichwörtliche Redensarten bei Lukian, diss. Tübingen 1894.
Reitzenstein R., Hellenistische Wundererzählungen, Leipzig 1906.
Relihan J.C., On the Origin of “Menippean Satire” as the Name of a Literary Genre, CPh 79 (1984), 226-229.
Relihan J.C., Vainglorious Menippus in the Dialogues of the Dead, ICS 12 (1987), 185-206.
Relihan J.C., Menippus the Cynic in the Greek Anthology, SyllClass 1 (1989), 58-61.
Relihan J.C., Menippus, the Cur from Crete, Prometheus 16 (1990), 217-224.
Relihan J.C., Ancient Menippean Satire, Baltimore-London 1993.
Relihan J.C., Menippus in antiquity and the Renaissance, in Bracht Branham R. – Goulet-Cazé M.-O. (eds.), The Cynics: The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, Berkeley 1996, 265-293.
Rich A.N.M., The Cynic Conception of αὐτάρκεια, Mnemosyne 9 (1956), 23-29.
Richard H., Über die Lykinosdialoge des Lukian, progr. Hamburg 1886.
Richardson B., Make It Old: Lucian’s “A True Story”, Joyce’s “Ulysses”, and Homeric Patterns in Ancient Fiction, CLS 37 (2000), 371-383.
Richter D.S., Lives and Afterlives of Lucian of Samosata, Arion 13 (2005), 75-100.
Richter D.S., Lucian of Samosata, in Id. – Johnson W.A. (eds.), The Oxford Handbook of the Second Sophistic, I, Oxford 2017, chap. 21.
Riemschneider M., Ist Lukian eine zuverlässige Quelle?, Altertum 13 (1967), 94-98.
Riikonen H.K., Menippean Satire as a Literary Genre, Helsinki 1987.
Robert L., Lucien en son temps, in A Travers l’Asie Mineure, Poètes et Prosateurs, Monnaies Grecques, Voyageurs et Géographie, Paris 1980, 393-436.
Robertson J.C., Humor in Three Philosophical Dialogues of Lucian, APhA (1913), XLV-XLVII.
Robinson M., Lucien and His Influence in Europe, London 1979.
Roca Ferrer J., Kynikòs trópos. Cinismo y Subversión Literaria en la Antigüedad, Barcelona 1974.
Rodríguez Moreno I., Δαίμονες, ἥρωες y ἄγγελοι en la filosofı́a presocrática, Habis 26 (1995), 29-46.
Rohde E., Griechische Roman Und Seine Vorläufer, Leipzig 19143, 279-281.
Rohde E., Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, III, Bari 19702 (= Psyche: Seelenkult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, Freiburg in Brisgau 1890-94).
Roisman H.M., Lucian’s Courtesans: Vulnerable Women in a Difficult Occupation, in Clarck Ch. – Foster E. – Hallett J.P. (eds.), Kinesis: The Ancient Depiction of Gesture, Motion, and Emotion, Ann Arbor 2015, 188-206.
Rolleston J.D., Lucian and Medicine, Janus 20 (1915), 83-108.
Romeri L., ΙΔΙΩΤΑΙet ΦΙΛΟΣΟΦΟΙà la table de Lucien, REG 114 (2001), 647-655.
Room J., Wax, Stone, and Promethean Clay: Lucian as Plastic Artist, CA 9 (1990), 74-98.
Rosen R.M., Lucian’s Aristophanes: On Understanding Old Comedy in the Roman Imperial Period, in Marshall C.W. – Hawkins T. (eds.), Athenian Comedy in the Roman Empire, London et al. 2016, 141-162.
Roussel M., Voyages extra-terrestres chez Lucien, in Voyageurs et Antiquité classique, textes rassemblés par H. Duchêne, Dijon 2003, 100-109.
Russell D.A., Greek Declamation, Cambridge 1983.
Russo G., Alcune questioni mitografiche negli Scolii di Areta a Luciano, Lares 68 (2002), 637-642.
Russo G., Sull’ordinamento dei Dialogi mortuorum di Luciano, Hermes 137 (2009), 463-473.
Rütten U., Fantasie und Lachkultur: Lukians wahre Geschichten, Tübingen 1997.
Sabnis S., Lucian’s Lychnopolis and the Problem of Slave Surveillance, AJPh 132 (2011), 205-242.
Sachs J., Observations on Lucian, TAPhA 11 (1880), 66-71.
Saïd S., Le « je » de Lucien, in Baslez M.F. – Hoffmann Ph. – Pernot L. (éds.), L’invention de l’autobiographie d’Hésiode à Saint Augustin, Paris 1993, 253-270.
Saïd S., Lucien ethnographe, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 149-170.
Santini L., Autoritratto dell’artista: Luciano nella προλαλιά Dioniso, AUF Sez. Lett. 2 (2001), 73-97.
Scarcella A.M., Luciano, le Storie vere e il Furor mathematicus, GIF 16 (1985), 249-257.
Scarcella A.M., Mythe et ironie : Les Vraies histoires de Lucien, in Jouan F. – Deforge B. (éds.), Peuples et pays mythiques, Paris 1988, 169-176.
Schissel von Fleschenberg O., Novellenkränze Lukians, RF 1, Halle 1912.
Schlapbach K., The logoi of Philosophers in Lucian of Samosata, CA 29 (2010), 250-277.
Schmid W., Bemerkungen über Lucians Leben und Schriften, Ph 50 (1891), 297-319.
Schmidt O., Metapher und Gleichnis in den Schriften Lukians, diss. Zürich 1897.
Schmidt V., Lukian über die Auferstehung der Toten, VC 49 (1995), 388-392.
Schmitt W.O., Bemerkungen zu Lukians Schrift Wie man Geschichte schreiben muss, Klio 66 (1984), 443-455.
Schouler B., Lucien entre technè et paideia, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 95-108.
Schröder B.-J., „Eulen nach Athen“. Ein Vorschlag zu Lukians „Nigrinus“, Hermes 128 (2000), 435-442.
Schulze P., Lukianos als Quelle für die Kenntnis der Tragödie, NJPP 135 (1887), 117-128.
Schwartz J., Lucien de Samosate, Philopseudes et De morte Peregrini, Paris 1951.
Schwartz J., La « conversion » de Lucien de Samosate, AC 1964.
Schwartz J., Biographie de Lucien de Samosate, Bruxelles-Berchem 1965.
Schwartz J., Lucien de Samosate et certains écrits juifs, RHPhR 49 (1969), 135-140.
Schwartz J., Onomastique des philosophes chez Lucien de Samosate et Alciphron, AC 51 (1982), 259-264.
Sciolla L., Gli artifici della finzione poetica nella Storia Vera di Luciano, Foggia 1988.
Sheldon W.D., Lucian and His Translators, SR 27 (1919), 17-31.
Sider D., As is the Generation of Leaves in Homer, Simonides, Horace, and Stobaios, Arethusa 29 (1996), 263-282.
Sidwell K., New Thoughts on Lucian’s Piscator and Eupolis’ Demes, in Bartley A. (ed.), A Lucian for our Times, Cambridge 2009, 109-118.
Simon A., Gorgonen und Sirenen. Repräsentation und Petrifikation in Lukians Lobrede auf einen schönen Saal, in Lőrincz C. (ed.), Zwischen Pygmalion und Gorgo. Die Gegenwart des Bildes in der Sprache. Kulturverlag Kadmos, Berlin, 2013, 55-96.
Sinko Th., De Luciani libellorum ordine et mutua ratione, Eos 14 (1908), 113-158.
Stengel A., De Luciani Veris Historiis, diss. Berlin 1911.
Sluiter I., Communicating Cynicism: Diogenes’ Gangsta Rap, in Frede D. – Inwood B. (eds.), Language and Learning: Philosophy of Language in the Hellenistic Age, Cambridge 2005, 139-163.
Smith E.J., On Lucian’s Nigrinos, AJPh 18 (1897), 339-341.
Sourvinou-Inwood C., Crime and Punishment: Tityos, Tantalos and Sisyphos in Odyssey 11, BICS 33 (1986), 37-58.
Sourvinou-Inwood C., “Reading” Greek Death. To the End of the Classical Period, Oxford 1995.
Spina L., Tersite a Roma, Vichiana 13 (1984), 350-363.
Spina L., L’oratore scriteriato. Per una storia letteraria e politica di Tersite, Napoli 2001.
Steinrück M., Iambos: Studien zum Publikum einer Gattung in der frühgriechischen Literatur, Hildesheim-New York 2000.
Stengel A., De Luciani veris historiis, Berlin, diss. Rostock, 1911.
Stoianovici L., Le Prométhée de Lucien. Différences par rapport aux versions classiques d’Hésiode et d’Eschyle, StudClass 3 (1961), 385-393.
Storti G., Lucian among the Witches. The Reappearance of the Philopseudes in a Seventeenth-Century Treatise, QRO 10 (2018), 55-66.
Swanson R.A., The True, the False, and the Truly False: Lucian’s Philosophical Science Fiction, SFS 3 (1976), 228-239.
Strohmaier G., Übersehenes zur Biografie Lukians, Philologus 120 (1976), 117-122.
Tagliabue A., Heliodorus’ reading of Lucian’s Toxaris, Mnemosyne (2015), 1-23.
Tarrant H., Dialogue and Orality in a post-platonic Age, in Mackay E.A. (ed.), Signs of Orality. The Oral and its Influence in the Greek and Roman World, Leiden-Boston-Köln 1999, 181-197.
Tamiolaki M., Lucien précurseur de la Liar School of Herodotus : aspects de la réception d’Hérodote dans l’Histoire Vraie, in Alaux J. (éd.), Etudes sur Hérodote, Rennes 2013 : 145-158.
Tamiolaki M., Satire and Historiography: The Reception of Classical Models and the Construction of the Author’s Persona in Lucian’s “De historia conscribenda”, Mnemosyne 68 (2015), 917-936.
Tamiolaki M., Lucian on Truth and Lies in Ancient Historiography. The Theory and its Limits, in Hau L. – Ruffel I. (eds.), Truth and History in the Ancient World. Pluralising the Past, London 2016, 267-283.
Tamiolaki M., Writing for Posterity in Ancient Historiography. Lucian’s Perspective, in Lianeri A. (ed.), Future Time in and Through Ancient Historiography, Berlin 2016, 267-282.
Tamiolaki M., Das Problem der Wahrheit in der antiken Geschichtsschreibung. Beobachtungen zu Lukians De Historia Conscribenda, in Blank T. – Maier F. (eds.) Die symphonischen Schwestern: Narrative Konstruktion von „Wahrheiten“ in der nachklassischen Geschichtsschreibung, Stuttgart 2018, 49-68.
Tannenbaum L., Blake’s News from Hell: The Marriage of Heaven and Hell and the Lucianic Tradition, ELH 43 (1976), 74-99.
Thalmann W.G., Thersites: Comedy, Scapegoats, and Heroic Ideology in the Iliad, TAPhA 118 (1988), 1-28.
Thimme A., Zwei Festvorlesungen des Lukianos, JkPh 37 (1888), 562-566.
Thiry H., La diffusion du mythe de Cerbère (ca. 540-400), ZA 22 (1972), 61-70.
Tomassi G., L’allegoria di Penia nel Timone di Luciano, ARF 9 (2007), 109-124.
Tomassi G., L’allegoria di Pluto in Luciano, Aevum 84 (2010), 251-268.
Tomassi G., Luciano di Samosata. Timone o il misantropo, Berlin-New York 2011.
Tomassi G., Le parodie di decreti nei Dialoghi lucianei. Una rassegna, Athenaeum 99 (2011), 525-547.
Tomassi G., Proverbi in Luciano di Samosata, PhAnt 4 (2011), 99-121.
Tomassi G., Il tipo del filosofo in Alcifrone fra commedia attica, biografia ellenistica e satira lucianea, Aevum 86 (2012), 231-249.
Tomassi G., Luciano di Samosata, La nave o le preghiere: introduzione, traduzione e commento, Berlin 2019.
Tondriau J., L’avis de Lucien sur la divinisation des humains, MH 5 (1948), 124-132.
Traina A., L’aiuola che ci fa tanto feroci. Per la storia di un topos, in Poeti latini (e neolatini) I, Bologna 1975, 305-335.
Trapp M., Cynics, BICS 94 (2007), 189-203.
Trédé M., Comique et Mimesis dans l’œuvre de Lucien de Samosate, in Billault A. (éd.), Lucien de Samosate. Actes du Colloque de Lyon (septembre 1993), Lyon 1994, 185-189.
Trédé M., Le théâtre comme métaphore au IIe s. ap. J.-C. : survivances et métamorphoses, CRAI 2 (2002), 581-605.
Trencsényi-Waldapfel I., Das Thomas-Evangelium aus NagcHammâdi und Lukian von Samosata, AOASH 13 (1961), 131-133.
Ureña Bracero J., El diálogo de Luciano: ejecucion, naturaleza, y procedimentos de humor, Amsterdam 1995.
Valverde García A., El Icaromenipo de Luciano de Samósata: un ejemplo de sátira menipea, Habis 30 (1999), 225-235.
Varel L., Lucien et les Chrétiens, SC 3 (1961), 377-383.
Venchi R., La presunta conversione di Luciano, Roma 1934.
Vernant J.-P., Corps obscur, corps éclatant, in Malamoud Ch. – Vernant J.-P. (dirs.), Corps des dieux, Paris 1986, 19-45.
Victor U., Eine scheinbar misslungene Parodie Lukians, Hermes 124 (1996), 506-507.
Villani B., L’ironia nelle Prolaliae di Luciano, QDF 14 (2000), 217-231.
Visa-Ondarçuhu V., La notion de parrhèsia (παρρησία) chez Lucien, Pallas 72 (2006), 261-278.
Visa-Ondarçuhu V., Parler et penser grec : les Scythes Anacharsis et Toxaris et l’expérience rhétorique de Lucien, REA 110 (2008), 175-194.
Visa-Ondarçuhu V., Sur un air d’Archiloque : les références au poète chez Dion de Pruse et Lucien, Pallas 77 (2008), 91-110.
Walz S., Die geschichtliche Kenntnisse des Lukians, diss. Tübingen 1921.
West M.L., La filosofia greca arcaica e l’Oriente, Bologna 1993 (= Early Greek Philosophy and the Orient, Oxford 1971).
Whitman C.H., Aristophanes and the Comic Hero, Cambridge 1964.
Whitmarsh T.J.G., Greek Literature and the Roman Empire: The Politics of Imitation, Oxford 2001
Whitmarsh T.J.G., “Greece is the World”: Exile and Identity in the Second Sophistic, in Goldhill S. (ed.), Being Greek under Rome, Cambridge 2001, 269-305.
Whitmarsh T., Varia Lucianea, CR 53 (2003), 75-78.
Whitmarsh T.J.G., Lucian, in De Jong I. – Nünlist R. – Bowie A. (eds.), Narrators, Narratees, and Narratives in Ancient Greek Literature. Studies in Ancient Greek Narrative, Volume One, Leiden-Boston 2004, 465-476.
Whitmarsh T.J.G., The Second Sophistic, Oxford 2005.
Wilhelm A., Das Epithalamion in Lukianos’ Συμπόσιον ἢ Λαπίθαι, WS 56 (1938), 54-89.
Willi A., Old Persian in Athens revisited (Ar. Ach. 100), Mnemosyne 57 (2004), 657-681.
Zecchini G., Osservazioni sul presunto modello del «Come si deve scrivere la storia» di Luciano, in Broilo F. (ed.), in Xenia. Scritti in onore di Piero Treves, Roma 1985, 247-252.
Zeitlin F.I., Visions and Revisions of Homer, in Goldhill S. (ed.), Being Greek under Rome. Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of Empire, Cambridge 2001, 195-266.
Ziegler E., De Luciano poetarum indice et imitatione, diss. Gottingae 1872.
Zimmermann B., Nephelokokkygia. Riflessioni sull’utopia comica, in Rösler W. – Zimmermann B. (eds.), Carnevale e utopia nella Grecia Antica, Bari 1991, 53-101.
Testo greco da A.H. ARMSTRONG (ed.), Plotinus, Ennead, Volume I: Porphyry on the Life of Plotinus. Ennead I, Cambridge MA. 1969, 229-264; trad. it. di G. BERTAGNI.
ΠΕΡΙ ΤΟΥ ΚΑΛΟΥ
Afrodite Anadyomene. Torso, marmo, III-II sec. a.C. ca.
Autore anonimo. Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Paris, Musée du Louvre.
[1] La bellezza si trova soprattutto nella vista; ed è anche nell’udito, nella combinazione delle parole e nella musica di tutti i generi; infatti, le melodie e i ritmi sono belli; ed è anche, risalendo dalla sensazione verso un dominio superiore, nelle occupazioni, nelle azioni e nelle maniere d’essere che sono belle; e ancora c’è bellezza nella scienza e nella virtù. C’è una bellezza anteriore a questa? Ecco il tema di cui adesso tratteremo. Che cosa fa in modo che la vista possa percepire la bellezza nei corpi e l’udito nei suoni? Perché tutto ciò che è intimamente legato all’anima è bello? Ed è a causa di una sola e identica bellezza che tutte le cose belle sono belle, oppure c’è una bellezza che è propria dei corpi e ce n’è un’altra per gli altri esseri? E che cosa sono queste differenti bellezze o, meglio, che cos’è la bellezza? Certi esseri, come i corpi, sono belli non per la loro stessa essenza, ma per partecipazione; altri sono belli in se stessi, come la virtù. E questo è evidente: infatti gli stessi corpi a volte sono belli, a volte non lo sono, come se l’essere del corpo fosse differente dall’essere della bellezza. Che cos’è questa bellezza che è presente nei corpi? Questa è la prima cosa da indagare. Che cos’è, dunque, che attira lo sguardo di chi osserva, e fa volgere il capo, e fa provare la gioia della contemplazione? Se noi scopriamo che cos’è questa bellezza dei corpi, forse potremo servircene come di una scala per contemplare le altre bellezze. Tutti, per così dire, affermano che la bellezza visibile nasce dalla simmetria delle parti, l’una in rapporto all’altra, e ciascuna in rapporto all’insieme; a questa simmetria si aggiunge la bellezza del colore; dunque, la bellezza di tutti gli esseri è la loro simmetria e la loro misura; per chi pensa così, l’essere bello non sarà un essere semplice, ma soltanto e necessariamente un essere composto; l’insieme di questo essere sarà bello e ciascuna parte non sarà bella in sé, ma solo nella sua armonia con le altre. Però, se l’insieme è bello, bisogna pure che le parti siano belle anch’esse; certo, una bella cosa non può essere fatta di parti brutte: tutto ciò che la compone deve esser bello. E ancora: se fosse vera questa opinione, i colori belli, come la luce del Sole, sarebbero al di fuori della bellezza, perché sono semplici e non derivano affatto la loro bellezza dall’armonia delle parti. E l’oro, come mai è bello? E le luci che vediamo nella notte che cosa le rende belle? La stessa cosa per i suoni: svanirebbe la bellezza di un suono semplice, mentre spesso ciascuno dei suoni che compongono un brano musicale è bello anche da solo. E quando si vede lo stesso viso, con le proporzioni che restano identiche, ma un po’ appare bello, un po’ brutto, come si fa a non riconoscere che la bellezza che è nelle proporzioni è cosa diversa dalle proporzioni stesse, e che è per un’altra ragione che un viso ben proporzionato è bello? E se, passando alle belle occupazioni e ai discorsi belli, si vuol ancora vedere nella simmetria la causa della loro bellezza, che cosa significa parlare di simmetria per le occupazioni belle, per le leggi, per le conoscenze o per le scienze? I teoremi sono simmetrici gli uni agli altri: è questo che si vuol dire? O che essi sono in accordo tra loro? Ma può esserci consenso e accordo anche tra opinioni malvagie. Questa opinione: «la temperanza è una stoltezza» è in pieno accordo con quest’altra: «La giustizia è un’ingenuità generosa». Tra l’una e l’altra c’è corrispondenza e concordanza. Da ultimo, la virtù certamente rende bella l’anima, ed essa è bella in modo più reale delle bellezze sensibili di cui abbiamo prima parlato: ma in che senso essa avrà delle parti simmetriche? Non ci sono affatto parti simmetriche nella virtù, al modo in cui le grandezze o i numeri sono simmetrici, anche se è vero che l’anima contiene una molteplicità di parti. Infatti, secondo quali rapporti nasce la combinazione o la fusione delle parti dell’anima e dei teoremi scientifici? E l’intelligenza, che è isolata: in che consisterà la sua bellezza?
[2] Riprendiamo dunque il nostro discorso e diciamo subito che cos’è la bellezza dei corpi. È una qualità che diventa sensibile sin dalla prima impressione; attraverso l’intuizione l’anima la percepisce, la riconosce e l’accoglie in sé, plasmandosi in qualche modo su di essa. Quando invece ha l’intuizione di una cosa brutta, l’anima si agita e la rifiuta, respingendola come cosa che non si accorda con lei e che le è estranea. Ora, noi affermiamo che l’anima, per sua natura, è affine all’essenza delle realtà superiori ed è lieta, contemplando gli esseri della sua stessa natura, o almeno le loro tracce; attratta dalla loro vista, le rapporta a se stessa e sale così al ricordo di sé e di ciò che le appartiene. Ebbene, quale somiglianza può esservi tra le cose di quaggiù e quelle superiori? Se c’è somiglianza, deve essere possibile osservarla. Per quanto riguarda la bellezza, qual è la natura delle une e delle altre? La nostra tesi è che le cose sensibili sono belle perché partecipano di un’idea. Infatti, tutto ciò che è destinato a ricevere una forma e un’idea, ma non l’ha ancora, è privo di qualsiasi bellezza ed è estraneo alla ragione divina, perché non partecipa né della sua razionalità né della sua forma: è il brutto in assoluto. Ma brutto è persino tutto ciò che è sé dominato dalla forma e dalla ragione, ma non perfettamente: e questo accade perché la materia non può essere plasmata in modo perfetto secondo un’idea, ricevendo così la forma. Dunque, l’idea si avvicina alla materia e pone ordine tra le parti multiple, di cui una cosa è fatta, combinandole insieme. L’idea le riconduce a un tutto ordinato, e crea l’unità accordandole loro, perché essa stessa è una, e l’essere che prende da lei la forma deve dunque essere uno, almeno nei limiti in cui può esserlo una cosa composta da molte parti. La bellezza prende così dimora in questo essere, così ricondotto a unità, ed essa si dà sia a tutte le sue singole parti sia all’insieme. Quando poi la bellezza prende dimora in un essere che è già uno ed omogeneo, allora essa splende interamente: è come se la potenza della natura, procedendo come fa l’uomo attraverso l’arte, donasse la bellezza, nel primo caso, a una casa tutta intera con tutte le sue parti, nel secondo caso a una sola pietra. Così la bellezza del corpo deriva dalla partecipazione alla razionalità che proviene da Dio.
Venere accovacciata. Marmo. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico del III secolo a.C. Córdoba, Museo Arqueológico y Etnológico.
[3] C’è nell’anima una facoltà che corrisponde alla razionale bellezza di origine divina, e, dunque, sa riconoscerla; è proprio questa la facoltà che permette all’anima di giudicare le cose che le sono affini, benché le altre facoltà contribuiscano anch’esse. Forse l’anima pronuncia questo giudizio commisurando la cosa bella all’idea di bellezza che è in lei, servendosi di questa idea come ci si serve di un regolo per giudicare se una linea è diritta. Ma come può la bellezza delle cose sensibili accordarsi con la bellezza dell’idea, che è anteriore ad ogni corpo? È lo stesso che chiedersi come l’architetto, che ha costruito la casa reale lasciandosi guidare dall’idea di casa che aveva nella sua mente, possa valutare che questa casa reale sia bella. Può farlo perché l’essere esteriore della casa – se si fa astrazione dalle pietre – non è che l’idea interiore che si è sì suddivisa nella massa esteriore della materia, ma continua a manifestare, pur nella molteplicità, il suo essere indivisibile. Dunque, quando percepiamo nei corpi un’idea che plasma e domina la natura materiale – di per sé informe e per nulla affine all’idea – e ci rendiamo conto che c’è nelle cose sensibili una forma che si distingue perché subordina a sé tutte le altre, allora noi percepiamo d’un sol colpo la sparsa molteplicità della materia, riportandola e riducendola all’unità interiore e indivisibile dell’idea che vive in noi. Così percepiamo la forma delle cose sensibili perché è adatta e intonata a noi, e la accettiamo come affine alla nostra unità interiore. Allo stesso modo, un uomo onesto percepisce la dolcezza che osserva sul volto di un giovane come un segno di virtù che si accorda con la sua stessa vera virtù, che è quella interiore. La bellezza di un colore, che è qualcosa di semplice, nasce da una forma che domina l’oscurità della materia e dalla presenza nel colore di una luce incorporea, che è ragione e idea. Per questo più degli altri corpi, il fuoco è bello in se stesso: paragonato agli altri elementi che compongono la materia, ha quasi il rango dell’idea. Infatti, ha in natura la posizione più alta, è il più leggero tra tutti i corpi, al punto da essere quasi immateriale. Rimane sempre puro, perché non accoglie in sé gli altri elementi che compongono la materia, mentre tutti gli altri accolgono in se stessi in fuoco: essi, infatti, possono riscaldarsi, mentre il fuoco non può raffreddarsi. Solo il fuoco per sua natura possiede i colori e da lui le altre cose ricevono la forma e il colore. Il fuoco brilla di luce chiara simile a un’idea. Le cose a lui inferiori quando si allontanano dalla sua luce cessano di essere belle, perché esse non partecipano interamente dell’idea del colore. Vi sono poi le armonie musicali impercettibili ai sensi che danno vita alle armonie sensibili. Per merito loro l’anima diventa capace di intuire la bellezza, grazie all’identità che esse introducono in un soggetto differente. Ne segue che le armonie sensibili derivano da rapporti numerici che non sono affatto rapporti qualsiasi, ma sono subordinati all’azione sovrana di una forma. Ho detto così abbastanza sulle bellezze sensibili, immagini e ombre che, in fuga dal loro mondo, vengono nella materia, la ordinano e le danno l’aspetto che tanto ci commuove.
[4] Quanto alle realtà belle di grado più elevato, non ci è dato di percepirle attraverso le sensazioni, ma la nostra anima le vede e sa giudicarle belle anche senza l’aiuto degli organi di senso. Ma per far questo dobbiamo elevare il nostro spirito e raggiungere lo stato della contemplazione, dopo aver lasciato in basso il mondo delle sensazioni. Non si può dir nulla sulla bellezza delle cose sensibili senza averle viste e riconosciute come belle (se si è, per esempio, ciechi dalla nascita); allo stesso modo, non si può dire se una maniera di comportarsi è bella se non si vive dentro di sé con amore questa bellezza; e così è per le scienze e le altre realtà simili. Dobbiamo divenire capaci di vedere come è bello il volto della giustizia e della temperanza: non sono così belle né la stella del mattino né la stella della sera. Solo un’anima capace di contemplazione sa intuire questo genere così elevato di bellezza. E l’intuizione provoca gioia, provoca commozione e stupore in modo ben più forte che nel caso precedente, perché adesso l’anima contempla la realtà che ha il carattere della verità. L’anima, nel contemplare le realtà belle, prova grandi emozioni: lo stupore, la dolce tensione dello spirito, il desiderio, l’amore, la deliziosa eccitazione. Ed è possibile provare queste emozioni (e l’anima le prova di fatto) anche contemplando le cose belle visibili solo allo spirito: tutte le anime le provano, ma soprattutto quelle più sensibili al richiamo dell’amore. Ed è così anche per la bellezza dei corpi: tutti la vedono, ma non tutti ne sentono egualmente il fascino. Coloro che lo sentono di più, ebbene quelli dobbiamo davvero dire che sono sensibili all’amore.
[5] Bisogna, quindi, chiarire che cos’è l’amore per le cose non sensibili. Che emozioni provate quando sentite che un’azione è bella? Che sentimenti provate di fronte al carattere di una persona bella, alle abitudini di vita moderate, e più in generale alla virtù e alla bellezza dell’anima? E vedendo la vostra stessa bellezza interiore, che cosa provate? Che cos’è questa follia, questa emozione, questo desiderio di stare raccolti in voi stessi quasi non aveste un corpo? Perché è questo che prova chi vive davvero l’amore nella propria anima. E qual è l’oggetto dell’amore? Non certo una forma, un colore, una grandezza: è, invece, l’anima che non ha colore, ma splende di invisibile luce, illuminata dalla temperanza e dalle altre virtù. Così l’amore vi colpisce tutte le volte che vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza d’animo, la correttezza del carattere, la purezza dei costumi, il coraggio su un volto dall’espressione ferma, la gravità, il rispetto di sé che è il segno di un’anima calma, serena ed impassibile. Su tutto questo splende la luce dell’intelligenza, che è di natura divina. Dunque, per tutte queste cose noi proviamo inclinazione e amore: ma in che senso le diciamo belle? Non c’è dubbio infatti che lo siano, e chiunque le contempli affermerà che esse sono la vera realtà. Ma di che natura sono queste realtà? Nella loro essenza sono belle, non c’è dubbio, ma la ragione desidera ancora sapere che cosa esse siano e perché esse fanno sì che l’anima che le possiede faccia innamorare le altre di sé. Che cos’è, dunque, che come una luce splende su tutte le virtù? Vogliamo, per ragionar per contrari, procedere per opposizioni e domandarci cos’è la bruttezza? Forse sarà utile per comprendere l’oggetto delle nostre ricerche sapere che cos’è la bruttezza e perché essa si manifesta. Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta. Essa è piena di un gran numero di desideri e delle più profonde inquietudini, paurosa per vigliaccheria, invidiosa per grettezza. Quest’anima pensa bene, ma non pensa che a oggetti mortali e bassi: sempre tortuosa, incline ai piaceri impuri, vive la vita delle passioni del corpo e trova il suo piacere solo nella bruttezza. Non diremo allora che la sua bruttezza è sopravvenuta dall’esterno su quest’anima come una malattia che la offende, la rende impura e ne fa un impasto confuso di mali? Così la sua vita e le sue sensazioni hanno perduto la loro purezza: l’anima conduce una vita oscurata dall’impurità del male, una vita contaminata dai germi della morte. Essa non è più capace di vedere ciò che un’anima deve vedere: non le è più consentito di raccogliersi in se stessa perché essa è continuamente attirata nella regione dell’esteriorità, inferiore e carica di oscurità. Impura, travolta da ogni lato per l’attrazione delle cose sensibili, essa è mescolata con molti caratteri del corpo. Poiché essa ha accolto in sé la forma della materia, differente da lei, ne è rimasta contaminata, e la sua stessa natura è rimasta inquinata da ciò che è inferiore. È come se un tale immerso nel fango di un pantano non mostrasse più la sua bellezza, ma di lui si vedesse soltanto il fango di cui è coperto. La bruttezza è sopravvenuta su di lui per l’aggiunta di un elemento estraneo e sarà una bella impresa riacquistare la propria bellezza: dovrà pulirsi e lavarsi bene e solo così tornerà ad essere quel che egli era. Abbiamo dunque ragione di dire che la bruttezza dell’anima deriva da questo mescolarsi impuro con il corpo e dalle inclinazioni verso la materia. La bruttezza per l’anima è il non essere in sé pura, come per l’oro è di essere mescolato a terra: se si toglie questa terra, l’oro rimane ed è bello perché depurato dalle scorie di altre materie e puro in se stesso. Nello stesso modo, isolata dai desideri che provengono dal corpo, con cui essa aveva legami troppo stretti, liberata dalle altre passioni, purificata da tutte le scorie della materia, l’anima rimane pura in se stessa, tolte tutte le brutte impurità che le provenivano da una natura diversa dalla sua.
Amore e Psiche. Statua, marmo, IV sec. d.C., dalla Domus di Amore e Psiche (Ostia).
[6] È proprio come dice un vecchio detto: la temperanza, il coraggio, tutte le virtù e la prudenza stessa sono delle purificazioni. È per questo che gli iniziati ai Misteri dicono con parole velate che l’anima non purificata persino nell’Ade vivrà in un pantano, perché l’essere impuro ama il fango a causa dei suoi vizi, come i porci il cui corpo è impuro. In che consisterà dunque la vera temperanza se non nel non unirsi ai piaceri del corpo, ma a fuggirli come impuri? Essi non permettono all’anima di rimanere pura. Il coraggio consisterà nel non temere la morte. Ora la morte è la separazione dell’anima dal corpo. Non temerà questa separazione quell’anima che è vissuta isolata dal corpo. La grandezza d’animo nasce dal disprezzo delle cose che passano. La prudenza è il pensiero stesso che si allontana da tutto ciò che passa e conduce l’anima verso l’alto. L’anima, una volta purificata, diviene dunque una pura forma, pura razionalità. Essa diviene pura realtà intellettuale, liberata da ogni scoria di materia. Così appartiene interamente alla sfera di ciò che è divino, là dove è la sorgente della bellezza: da lì, infatti, proviene tutto ciò che è bello. Dunque, l’anima restituita alla pura intellegibilità torna ad essere bella. Ma l’intelligenza e ciò che ne deriva è per l’anima una bellezza propria e non le deriva dall’esterno, perché l’anima pura è adesso realmente se stessa. Per questo si dice – con ragione – che il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rendersi simile a Dio, perché da Dio deriva la bellezza e tutto ciò che costituisce l’essenza della vera realtà. Ma la bellezza è realtà autentica, la bruttezza è una natura differente da questa realtà. La bruttezza e il male, quanto alla loro origine, sono la stessa cosa, così come sono la stessa cosa il buono e il bello. Il bene e la bellezza si identificano. Bisogna dunque ricercare con mezzi analoghi il bello e il buono, il brutto e il cattivo. Bisogna anzitutto fissare il principio che la bellezza è il bene e da questo bene l’intelligenza deriva immediatamente la sua bellezza. E l’anima è bella per l’intelligenza: le altre bellezze, delle azioni e dei costumi, derivano dal fatto che l’anima imprime in esse la sua forma. L’anima poi produce tutto ciò che chiamiamo corpo, ed essendo un essere di natura divina – frammento della bellezza divina – essa rende belle tutte le cose con cui entra in contatto e che domina, almeno nei limiti in cui ad esse è consentito partecipare della bellezza.
[7] Bisogna dunque risalire verso il Bene, che è ciò a cui tende ogni anima. Chi l’ha visto, sa cosa voglio dire, e in che senso esso è bello. Come Bene, è desiderato e il desiderio tende verso di lui; ma lo si raggiunge solo risalendo verso la regione superiore, piegandosi verso di lui e spogliandosi dei vestiti indossati nella discesa. Nello stesso modo chi sale ai santuari dei templi deve purificarsi, deporre i suoi vecchi abiti e avanzare nudo; e, infine, abbandonato lungo questa salita tutto ciò che è estraneo a Dio, può guardare da solo a solo nel suo isolamento, nella sua semplicità e purezza, l’Essere da cui tutto dipende, verso cui tutto guarda, perché è l’essere, la vita e il pensiero; perché è causa della vita, dell’intelligenza e dell’essere. Se lo si vede, quest’Essere, quale amore e quale desiderio sentirà l’anima che vorrà unirsi a lui! E quale emozione accompagnerà questo piacere! Infatti, colui che non l’ha ancora visto, può tendere verso di lui come verso un bene: ma colui che l’ha visto, lo amerà per la sua bellezza, sarà colmo di commozione e di piacere, di gioioso stupore, di amore pieno e desiderio ardente. Dimenticherà gli altri amori e disprezzerà le pretese bellezze da cui prima era attratto. È questo che provano tutti coloro che hanno conosciuto le forme divine o demoniche e non ammettono ormai la bellezza degli altri corpi. Questo crediamo che essi provino, se hanno visto il bello in sé in tutta la sua purezza, non il bello che è appesantito dal corpo e dalla materia, ma quello che – puro – è al di sopra della terra e del cielo. Tutte le altre bellezze sono acquisite, non pure, ma frutto di un misto, non originarie: tutte vengono dal puro bello in sé. Se, dunque, si vede il bello in sé – che dona la bellezza ad ogni cosa pur restando puro in se stesso e senza ricevere nulla dall’esterno – non si resterà forse in questa contemplazione godendo in lui? Quale bellezza ci mancherà ancora? È questa, infatti, la vera e originaria bellezza che rende belli coloro che la amano e degni di essere a loro volta amati. È qui per l’anima la più grande e suprema battaglia, per la quale essa concentra tutti i suoi sforzi, per non restare senza la più alta delle visioni. Se l’anima raggiunge questa meta, allora è felice grazie a questa visione della bellezza; se non la raggiunge, è davvero infelice. Infatti, chi non sa godere della bellezza del colore e dei corpi belli non è più infelice di chi non ha potere, o di chi non ha fatto carriera, o non è un re. Infelice è colui che non incontra affatto la bellezza, e lui solo. Per incontrarla, bisogna lasciare là dove sono i regni e il potere dell’intera terra, del mare e del cielo, se grazie a questo abbandono ci si può volgere nella direzione che permette di vederla.
[8] Qual è, dunque, il modo per ottenere questa visione? Quale il mezzo? Come potremo contemplare questa bellezza immensa che resta in qualche modo protetta nell’interiorità del suo santuario e che non si mostra all’esterno, perché i profani possano vederla? Suvvia, chi può vada dunque e la segua fin nella sua intimità: abbandonata la visione sensibile, che è propria degli occhi, non dobbiamo rivolgerci più verso lo splendore dei corpi che pure prima ammiravamo tanto. Infatti, se pur osserviamo la bellezza dei corpi, non dobbiamo rivolgerle la nostra attenzione, ma sapere che essa è un’immagine, una traccia, un’ombra: dobbiamo, invece, rivolgerci verso quella bellezza di cui la bellezza dei corpi è immagine. Chi, infatti, si rivolge alla bellezza sensibile per conoscerla come se essa fosse in sé reale, sarà simile all’uomo che volle vedere la sua immagine bella riflessa sull’acqua (come la favola, credo, lascia ben intendere). E così cadde nell’acqua profonda, e sparì. Allo stesso modo capita a chi si lascia attrarre dalla bellezza dei corpi e non l’abbandona; non sarà però il suo corpo a cadere nelle profondità oscure e funeste per l’intelligenza, ma la sua anima: egli vivrà con le ombre, cieco abitante dell’Ade. Rifugiamoci, dunque, presso la nostra cara patria: ecco il vero consiglio che dobbiamo darci. Ma come potremo rifugiarci là? Per quale sentiero risalire alla nostra meta? Faremo come Ulisse, che fuggì – dicono – dalla maga Circe e da Calipso: egli non volle rimanere presso di loro, malgrado il piacere degli occhi e tutte le bellezze sensibili di cui poteva godere presso di loro. La nostra patria è il luogo da cui siamo venuti, e nostro padre è là. Cosa sono, dunque, questo viaggio e questa fuga? Non lo compiremo con i nostri piedi, perché non si tratta di passare da una terra a un’altra. Non si tratta di preparare dei cavalli o una nave, ma di distogliere lo sguardo dalle realtà sensibili e, chiusi gli occhi dinnanzi ad esse, cambiare questa maniera di guardare con un’altra. Si tratta, quindi, di risvegliare in noi un’altra facoltà, che tutti possediamo, ma ben pochi usano.
Venere. Testa, marmo, II sec. d.C. Boston, Museum of Fine Arts.
[9] Che cosa vedono, dunque, questi occhi interiori? Appena risvegliati, certo non possono sostenere la vista delle realtà luminose. Bisogna abituare l’anima pian piano a osservare dapprima le belle abitudini di vita, poi le opere – e non intendo gli oggetti materiali prodotti dal lavoro dell’artigiano, ma le azioni degli uomini buoni. Subito dopo, bisogna che ci educhiamo a osservare l’anima di coloro che compiono azioni belle. Come si fa a scrutare dentro l’anima di un uomo buono per scoprire la sua bellezza? Coraggio, ritorna in te stesso e osservati: se non vedi ancora la bellezza nella tua interiorità, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli scalpella il blocco di marmo, togliendone delle parti, leviga, affina il marmo finché non avrà ottenuto una statua dalle belle linee. Anche tu, allora, togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché in essa non splenda il divino splendore della virtù e alla tua vista interiore appaia la temperanza assisa sul suo sacro trono. La tua anima si è così trasformata? Ti vedi in questo modo? Hai tu con te stesso un rapporto puro, senza che alcun ostacolo si frapponga fra te e te, senza che nulla di estraneo abbia inquinato la tua purezza interiore? Sei tu, interamente, divenuto splendente di pura luce? Non una luce – dico – che si può misurare per forma o dimensione, che può diminuire o aumentare indefinitamente per grandezza, ma una luce assolutamente al di là di ogni misura, perché essa è superiore a ogni grandezza e a ogni quantità? Riesci adesso a vederti così? Tu stesso allora sei divenuto pura visione, vivi presso te stesso e, pur restando nel mondo di quaggiù, ti sei innalzato interiormente. Allora, senza più bisogno di guida, fissa il tuo sguardo e osserva. Il tuo occhio interiore ha dinnanzi a sé una grande bellezza. Ma se cerchi di contemplarla con occhio ammalato, o non pulito, o debole, avrai troppo poca energia per vedere gli oggetti più brillanti e non vedrai nulla, anche se sei dinnanzi a un oggetto che può essere visto. Bisogna che i tuoi occhi si rendano simili all’oggetto da vedere, e gli siano pari, perché solo così potranno fermarsi a contemplarlo. Mai un occhio vedrà il Sole senza essere divenuto simile al Sole, né un’anima contemplerà la bellezza senza essere divenuta bella. Che ciascun essere divenga simile a Dio e bello, se vuol contemplare Dio e la bellezza. Innalzandosi verso la luce, giungerà dapprima presso l’intelligenza, e qui potrà osservare che tutte le idee sono belle e si accorgerà che è lì la bellezza, proprio nelle idee. Per esse, infatti, che sono i prodotti e l’essenza stessa dell’intelligenza, esiste ogni realtà bella. Ciò che è al di là della bellezza, noi lo identifichiamo come la natura del bene, e il bello le è dinnanzi. Anzi, per usare una formula d’insieme, si dirà che il primo principio è il bello, ma – per fare una distinzione tra ciò che è intellegibile – bisognerà distinguere il bello, che è il luogo delle idee, dal Bene che è al di là del bello e che ne è la sorgente e il principio. Ovvero si comincerà col fare del bello e del bene un solo e identico principio. Ma, in ogni caso, il bello è nel regno delle cose che possono essere colte con la mente.
La Lettera a Temistio di Giuliano Imperatore segna un importante capitolo nel dibattito antico sulla figura del filosofo. La sua composizione è stata situata dagli interpreti o nel 355 d.C., quando Giuliano fu nominato Cesare da Costanzo II, oppure alla fine del 361 (sempre che non si ammetta, come pure è stato suggerito, una composizione in due fasi)[1].
Nella lettera Giuliano risponde a un testo precedente di Temistio che, purtroppo, non possediamo. Possiamo, tuttavia, ricostruirne il contenuto generale. Le orazioni di Temistio contengono una ripetuta difesa della sua scelta di essere pienamente impegnato nella politica venendo meno a quella che ad altri appariva come la corretta vita filosofica. Certamente Temistio si confrontava con alcuni oppositori i quali gli rimproveravano il successo politico. Notevole importanza hanno, a questo riguardo, le Orazionicomposte tra il 355 (anno della sua nomina a senatore per opera di Costanzo II) e il 360 circa. Esse costituiscono il retroterra della discussione con Giuliano. Rispondendo ai suoi detrattori, e difendendo la sua scelta di vita come autenticamente filosofica, Temistio elabora un’articolata posizione sul rapporto tra politica e filosofia, secondo la quale non solo non vi è opposizione tra le due, ma la politica è il naturale completamento della filosofia affinché i filosofi non siano tali solo a parole (cfr. Or. 20, 239 a-d): da qui la critica, di ascendenza platonica (Platone, Resp., VI, 486 b), rivolta ai filosofi non socievoli e selvaggi (cfr. Or. 21, 253 c; Or. 22)[2].
A questa concezione si associa una ben definita dottrina della regalità come intrinsecamente associata alla filosofia e superiore al vincolo delle leggi (il sovrano non ne è dunque affatto un semplice guardiano), che Temistio certamente mutua da fonti tradizionali (la dottrina è ben attestata in fonti ellenistiche e imperiali come le orazioni di Dione Crisostomo e i trattati pseudo-pitagorici sulla regalità), ma alla quale conferisce un rilievo peculiare. Il re filantropo, come Costanzo, è per Temistio «la legge in persona ed è al di sopra delle leggi» (Or. 1, 15 b)[3]: egli rimedia così all’imperfezione delle leggi ed è capace di mitigarne la severità adattandole alle situazioni particolari. Per Temistio, pertanto, un imperatore deve essere un autentico filosofo-re, filantropo e pienamente impegnato nella pratica di governo, incarnazione vivente della legge e immagine del governo divino nel mondo[4].
Giuliano. Solidus, Sirmium, 361 d.C. Au. 4,41 gr. Recto. Busto barbato, diademato con perle e paludato, voltato a destra, dell’imperatore. Legenda: Fl(avius) Iulianus p(ater) p(atriae) Aug(ustus).
Temistio aveva invitato Giuliano a seguire questo modello nello scambio precedente la Lettera, paragonando la condizione del sovrano a quella di Eracle e Dioniso, i quali furono allo stesso tempo filosofi e re (Ad Them. 253 c)[5]. Nella sua risposta, però, Giuliano appare ben poco lusingato e respinge l’esortazione di Temistio, distaccandosene in alcuni punti e prendendo le distanze dalla figura del re filosofo. Egli, d’altronde, distingue la sua posizione rispetto a coloro che hanno una piena formazione filosofica (Ad Them. 254 b). La critica dell’unione tra monarchia e filosofia passa attraverso il confronto tra le figure di Socrate e Alessandro, che Giuliano propone a tutto vantaggio del primo: anche se Socrate non è stato signore di nessuno, egli ha in realtà compiuto imprese più grandi di Alessandro salvando molti uomini con la filosofia (Ad Them. 264 c–d). Inoltre, Giuliano si richiama alle Leggi di Platone difendendo il primato delle leggi rispetto al monarca, che ne è guardiano restando sottoposto a esse (Ad Them. 257 d–259 b, cfr. anche 261 a–d). Quindi argomenta che Aristotele (il filosofo di cui Temistio è interprete autorevole) non sostiene affatto l’unità di filosofia e vita politica, ma rivendica la priorità della prima sulla seconda (Ad Them. 263 b–d).
Fatte salve tutte le convenzioni retoriche, il tono di Giuliano è decisamente poco cordiale ed è plausibile che la Lettera a Temistio abbia raffreddato i rapporti tra i due[6]. Durante il regno di Giuliano, Temistio non fu oggetto di persecuzione, ma con buona probabilità mantenne una posizione di riserbo rimanendo sostanzialmente in disparte[7]. La sua attività pubblica riprese con l’orazione Per il consolato dell’imperatore Gioviano, nella quale traspaiono allusioni critiche a Giuliano e al suo governo[8]. Senza ripercorrere nel dettaglio le argomentazioni della Lettera, mi limito a sottolinearne alcuni punti salienti. In primo luogo, è notevole la professione di modestia che apre l’Epistola. Giuliano distingue accuratamente la sua condizione rispetto a quella del re-filosofo auspicato da Temistio. Egli, dunque si dichiara consapevole di non possedere alcuna dote eccezionale per natura: rispetto alla filosofia nutre soltanto un amore che le vicissitudini hanno conservato sterile (Ad Them. 254 b). Il compito che gli prospetta Temistio appare pertanto a Giuliano superiore alle proprie capacità. Non è un passo isolato, perché altre volte Giuliano dichiara di non essere un vero e compiuto filosofo, ma solo di aspirare alla filosofia senza averla raggiunta pienamente[9].
Filosofo a pieno titolo è per lui il maestro Massimo di Efeso – allievo di Edesio, a sua volta allievo di Giamblico, ed esponente di spicco del neoplatonismo teurgico proprio della cosiddetta “scuola di Pergamo” –, che Giuliano venera tanto da suscitare la disapprovazione dei contemporanei (cfr. Ammiano Marcellino, XXII, 7, 3–4)[10].
Spesso si prende la professione di modestia di Giuliano alla lettera e la si adduce come prova della sua mediocre statura filosofica. In realtà, come vedremo meglio in seguito, la situazione è forse più complessa. Per adesso basterà notare che nella Lettera l’iniziale professione di modestia si associa allo sforzo profuso da Giuliano per dimostrare la sua padronanza delle questioni filosofiche evocate da Temistio. Per questo motivo, è importante soffermarsi sul modo in cui Giuliano richiama le autorità filosofiche. In primo luogo, egli si confronta con Epicuro. Nelle Orazioni Temistio condanna il “Vivi nascosto” di Epicuro considerandolo un precetto assolutamente negativo «per il quale non è naturale che l’uomo sia sociale e civile» (Or. 26, 324 a; cfr. Or. 20, 236 a) e rispetto a cui il filosofo autentico deve contrapporsi attraverso l’impegno pubblico. Giuliano ne è consapevole e accuratamente differenzia la sua posizione da quella epicurea: egli non ritiene affatto che vada perseguita una vita contemplativa al completo riparo dalla politica (Ad Them. 255 b; 259 b)[11]. D’altra parte, Giuliano precisa che non bisogna spingere alla vita politica qualsiasi uomo e anzi si deve tenerne lontani quelli meno dotati di qualità intrinseche e non ancora completamente formati: a conferma di questo, fa menzione dell’esempio di Socrate, che cercò di trattenere dalla politica il giovane Glaucone e Alcibiade (senza per altro riuscirvi con quest’ultimo) (Ad Them. 255 c). Questa visione dell’insegnamento socratico, nettamente contrapposto all’impegno politico, tornerà più oltre nella Lettera, nel parallelo già richiamato tra Socrate e Alessandro Magno.
Segue una sezione critica rispetto agli Stoici: nella politica non dominano solo la virtù e la retta intenzione, ma hanno
un ruolo cruciale «la fortuna, il caso e le altre cause esterne di questo tipo che interferiscono nella vita pratica» (Ad Them. 255 d). A torto Crisippo non ha riconosciuto l’importanza di simili fattori, che sfuggono al nostro controllo e rendono l’azione politica incerta. Lo dimostrano Catone e Dione di Sicilia, ai quali virtù e impegno politico non offrirono garanzia alcuna di successo e felicità. Inoltre, anche quando la fortuna arrechi i suoi benefici, non sempre le conseguenze sono positive: lo dimostra Alessandro il quale si lasciò sedurre e rovinare dalla buona fortuna «mostrandosi più crudele e orgoglioso di Dario e Serse, dopo che divenne padrone del loro impero» (Ad Them. 257 a).
Il confronto con Temistio diviene serrato quando Giuliano oppone al suo interlocutore proprio i modelli filosofici a cui quest’ultimo si richiamava: gli scritti di Platone e Aristotele, l’esempio di Socrate. Due citazioni dalle Leggi (IV, 709 b e IV, 713 c-714 a) sono usate da Giuliano a conferma sia dell’importanza di caso e fortuna nelle vicende umane, sia dei limiti intrinseci al governo in questo mondo. Solo un re divino come Crono potrebbe arrestare questa situazione: egli infatti, conoscendo la debolezza degli uomini, mise a capo delle città non uomini, ma esseri di stirpe superiore, ossia dei demoni. Tuttavia la nostra condizione è differente e l’unico rimedio è affidarsi alla legge come principio regolatore. Giuliano, insomma, non fa suo tanto il modello politico della Repubblica di Platone e non esalta la figura del re filosofo nella città ideale. Piuttosto, egli si fonda sulle Leggi per cercare una sorta di “second best”, ossia la migliore approssimazione possibile del governo ideale in un mondo imperfetto, dove il caso e la fortuna pongono limiti invalicabili all’azione umana[12].
Il fondamento di questa buona approssimazione è dato dalle leggi, delle quali chi governa deve essere guardiano. In breve: per Giuliano l’ideale del filosofo re è talmente alto da essere irrealizzabile per un uomo: solo un essere divino o un demone potrebbero conformarsi a questo compito. Ma questo, tiene a ribadire, non significa certo che egli cerchi rifugio in una vita contemplativa estranea al mondo: «non è mai avvenuto […] che io sia stato visto preferire questo alle fatiche» (Ad Them. 259 b).
È però soprattutto nella cruciale sezione dedicata ad Aristotele che emerge la «rispettosa animosità» tipica della Lettera. Traspare qui la competizione rispetto a Temistio. Giuliano sembra far uso dell’arma della dissimulazione. Se egli trascriverà dei passi di Aristotele a suo sostegno, non lo farà per portare «nottole agli Ateniesi», ma per dimostrare a Temistio che non trascura assolutamente gli scritti quel filosofo (Ad Them. 260 c–d). In realtà, proprio richiamandosi ad Aristotele Giuliano contesta due tesi centrali di Temistio: la concezione della regalità e l’unione tra filosofia e attività politica. Fondandosi su Pol. III, 16, 1286 b (22)-1287 a (29) Giuliano si oppone all’idea che la monarchia dinastica sia la forma migliore di governo, sostenendo, ancora una volta, che il monarca sia servo e custode delle leggi. Inoltre, Giuliano contesta la lettura di Pol. VII, 3, 1325 b (21)-(22) offerta da Temistio nella sua precedente missiva, rivendicando anche nell’interpretazione di quel passo il primato della vita contemplativa sulla vita attiva. Gli «architetti delle nobili azioni» menzionati da Aristotele non sono infatti i re, come proposto da Temistio, ma i legislatori e i filosofi politici, ossia «coloro che agiscono con l’intelletto e con la parola» non «quanti operano autonomamente e compiono azioni politiche» (Ad Them. 263 d).
Infine, è l’esempio di Socrate a essere ricordato in un senso diametralmente opposto rispetto a Temistio. Se per l’oratore Socrate incarna l’unione di filosofia e impegno politico, per Giuliano la grandezza di Socrate risiede tutta nella filosofia contemplativa. È questo che ha permesso a Socrate di sopravanzare Alessandro, le cui imprese, secondo Giuliano, non hanno condotto nessuno a diventare più saggio:
Al contrario, quanti oggi si salvano grazie alla filosofia, si salvano attraverso Socrate. E non sono il solo a pensar questo: anche Aristotele, prima di me, sembra averlo pensato, quando dice che del suo trattato teologico (ἐπὶ τῇ θεολογικῇ συγγραφῇ)[13] gli conveniva esser fiero non meno di chi distrusse la potenza persiana (Ad Them. 264 d–265 a).
Con questo nuovo richiamo ad Aristotele, si chiude la discussione delle autorità filosofiche nella Lettera. Il bilancio può essere riassunto come segue. Come Temistio, Giuliano respinge il “Vivi nascosto” di Epicuro e rivendica il proprio impegno pratico. Il suo non è affatto un elogio della vita contemplativa al riparo dall’azione. Né Temistio né Giuliano ritengono che filosofia e impegno politico vadano separati: per tutti e due, la filosofia deve incarnarsi in una vita filosofica attiva nel mondo[14].
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Mentre, però, Temistio proclama l’unione di filosofia e impegno pratico, Giuliano difende la priorità della prima a scapito del secondo. Mentre Temistio concepisce la regalità come un’immagine del governo divino del mondo, ritenendo il monarca superiore al vincolo delle leggi, Giuliano differenzia nettamente la condizione umana rispetto a quella divina, facendo propria la tesi che il monarca sia guardiano delle leggi. Certamente la Letteraa Temistio appare, a una prima lettura, come un elogio della speculazione filosofica. Tuttavia, a ben guardare la situazione è più complessa. Per Giuliano la concezione della filosofia difesa da Temistio è troppo “mondana” e, di conseguenza, di rango inferiore rispetto all’autentica speculazione filosofica. Da qui l’enfatico richiamo ad Aristotele, che avrebbe giudicato il valore del suo trattato di teologia non inferiore alla vittoria nelle guerre persiane. Scopo di Giuliano, però, non è rimuovere l’azione pratica dalla filosofia, ma, se mai, regolare l’azione a partire da una corretta visione della filosofia, che non l’abbassi alla posizione di un’attività umana soggetta ai limiti del mondo sensibile e governato dalla fortuna. Vi è certamente una differenza di tono tra la Lettera gli scritti successivi in cui Giuliano appare sempre più cosciente di essere un filosofo e monarca scelto dagli dèi (si veda, in particolare il celebre mito autobiografico in Ad Heraclium cynicum 227 c–234 c). Il suo scarto rispetto a Eracle e Dioniso, chiaramente enunciato in apertura della Lettera, tende ad annullarsi. Egli continua a distinguere la sua condizione da quella del vero filosofo, ma la separazione è meno marcata che nella Lettera a Temistio. Tuttavia, questa innegabile differenza di tono non deve indurre a porre un’inconciliabile contraddizione tra queste opere. Si può affermare che la Lettera a Temistio è la pars destruens di un discorso positivamente elaborato nelle orazioni successive.
Nella Lettera, Giuliano si preoccupa di criticare una concezione falsa della filosofia (o per meglio dire della vita filosofica), che ne misconosce l’autentico rango e finisce per abbassare la filosofia al governo delle contingenze umane, senza riguardo per la sua vera natura divina. Nelle orazioni successive (in particolare i discorsi teologici Alla Madre degli dèi e A Helios re), Giuliano presenta l’autentica concezione della filosofia ed elabora, a partire da essa, la propria visione teologica e politica, secondo la quale l’οἰκουμένη romana è stata creata nella sua universalità dalla provvidenza divina[15].
Il carattere della filosofia
Nell’Orazione funebre per il padre (Eugenio, anch’egli un filosofo, nel descrivere il quale Temistio illustra in realtà la propria posizione intellettuale)[16], Temistio descrive così il suo atteggiamento verso la filosofia:
Il volto dunque e l’aspetto intero di Aristotele erano presenti ai misteri, ma tutti insieme si aprivano i santuari dei sapienti ed egli ne contemplava le dottrine, quelle che Pitagora di Samo portò nell’Ellade dall’Egitto e poi quelle di Zenone di Cizio nel Portico. Egli infatti era sempre pronto a dimostrare che i riti del grande Platone si celebrano poco lontano, anzi nel recinto del medesimo tempio, e non cambiava i paramenti sacerdotali passando dal Liceo all’Accademia, anzi più volte, dopo aver cominciato la celebrazione sacrificando ad Aristotele, le completava sacrificando a Platone (Or. 20, 235 c).
Da queste linee traspare una visione armonica della tradizione filosofica ellenica (fatte salve le debite eccezioni, in particolare Epicuro che tuttavia non è condannato completamente), nella quale hanno una posizione eminente Platone e Aristotele. Temistio sottolinea il reciproco accordo delle loro dottrine. Il linguaggio dei misteri è usato, ma in un contesto esclusivamente filosofico (niente affatto inusuale e risalente, in ultima analisi, a Platone: cfr. Symp. 210 a–211 b). Pitagora è nominato, ma non ha una posizione privilegiata e non si ha certamente una lettura in senso pitagorico della tradizione filosofica. Nessun cenno è fatto alla teurgia e agli Oracoli caldaici[17].
Può essere interessante mettere in parallelo questi aspetti della posizione di Temistio con la concezione concordistica della filosofia greca difesa da Porfirio e fondata sull’idea che vi sia un’armonia tra le filosofie di Platone e di Aristotele[18]. Anche l’enfasi moderata posta su Pitagora è simile alla posizione porfiriana (in Porfirio non si ha una lettura in senso pitagorizzante dell’intera filosofia greca simile a quella poi sviluppata da Giamblico)[19]. Infine, può messa in parallelo con il platonismo di Plotino e Porfirio l’assenza di riferimenti, sopra richiamata, agli Oracoli caldaici e alla teurgia. Sebbene la questione sia complessa e le valutazioni degli specialisti non siano unanimi, Porfirio accordava un ruolo tutto sommato marginale agli Oracoli, non li metteva affatto al centro del proprio progetto filosofico e teologico, e manteneva rispetto alle pratiche teurgiche un atteggiamento di relativo distacco, accordando invece un chiaro privilegio a un tipo di purificazione intellettuale[20].
Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.
Il parallelo tra Temistio e Porfirio va considerato con molta prudenza, poiché manca uno studio approfondito che metta in parallelo le Parafrasi temistiane con ciò che possiamo ricostruire dell’esegesi aristotelica di Porfirio. È dunque opportuno sospendere il giudizio, anche se i paralleli prima richiamati rimangono piuttosto interessanti. Maggiore sicurezza, invece, si può avere sull’atteggiamento ostile di Temistio verso Giamblico e i suoi seguaci. In effetti, nelle sue parafrasi di Aristotele, Temistio si attiene a un metodo esegetico sobrio, attento all’esegesi del testo aristotelico e fondato principalmente sui commenti peripatetici (in particolare Alessandro di Afrodisia)[21]. Ciò ha portato alcuni interpreti a supporre che Temistio sia l’ultimo filosofo peripatetico antico e che le sue tesi siano inassimilabili al platonismo[22]. È un’interpretazione poco persuasiva: come si è appena osservato, l’ideale difeso da Temistio si fonda, se mai, sull’armonia tra le dottrine di Aristotele e di Platone.
Certamente, però, Temistio è ben lontano dal platonismo di Giamblico e dal suo metodo esegetico. In questa prospettiva, acquista notevole importanza la testimonianza di Boezio, secondo cui Temistio riteneva inautentico il trattato di Archita sulle categorie (cfr. Boezio, In Cat., PL64, 162 a), a cui Giamblico aveva invece accordato una posizione centrale nell’interpretazione di Aristotele rivendicando l’origine pitagorica della dottrina (cfr. Simplicio, In Cat., 2, 15-25). Più che un improbabile scrupolo ‘filologico’[23], la tesi di Temistio appare come una vera e propria critica dell’esegesi pitagorizzante di Giamblico, che era probabilmente sviluppata dai filosofi vicini a Giuliano (in particolare Prisco come vedremo tra poco)[24]. Ancora una volta, è interessante osservare che l’esegesi aristotelica di Temistio è invece più simile a quella di Porfirio, il quale (per quanto possiamo ricostruire) si attenne sostanzialmente al metodo dei commentatori peripatetici introducendo solo dei riferimenti molto discreti al platonismo[25].
Ben diversa è la posizione di Giuliano rispetto alla filosofia del suo tempo. In un passo del discorso Alla Madre degli dèi, egli – prendendo le distanze dal peripatetico Senarco – descrive precisamente il suo atteggiamento rispetto alle autorità filosofiche:
Lasciamo pure ai Peripatetici più consumati di stabilire con sottigliezza se quanto dice [Senarco] sia giusto o no; tuttavia è chiaro a chiunque che le sua idee non mi stanno bene, poiché io ritengo che le teorie dello stesso Aristotele siano incomplete, se non si integrano con quelle di Platone (εἰς ταὐτὸ τοῖς Πλάτωνος ἀγοί) e, ancora di più, con gli oracoli resi dagli dèi (Ad Matrem deorum 162 c-d)[26].
È, riassunto in poche parole, il programma filosofico e religioso di Giamblico. Lo studio di Aristotele non è affatto escluso, ma è subordinato a quello di Platone ed entrambi devono essere integrati da una rivelazione di tipo sopra-razionale, ossia «gli oracoli resi dagli dèi»[27]. La differenza rispetto a Temistio è evidente ed è confermata dalla loro diversa concezione dei destinatari dell’insegnamento filosofico. Per Temistio, tutti possono godere dei benefici della filosofia a prescindere dalla rispettiva formazione e dalla provenienza sociale (cfr. Or. 20, 240 b; Or. 22, 265ad; Or. 26, 313d, 324b-325a; Or. 28, 341 d); viceversa Giuliano, seguendo la linea pitagorico-giamblichea, insiste sul carattere rigidamente esoterico delle dottrine filosofiche più elevate, che non sono accessibili al volgo (cfr. Ad Heraclium cynicum 221 c–d; Ad Matrem deorum 172d). Sarebbe però affrettato opporre in modo rigido Giuliano e Temistio. In realtà, gran parte del loro programma filosofico è identico ed è fondato sulla lettura e il commento dei testi normativi della παιδεία ellenica, in particolare, Platone e Aristotele, nella convinzione che le loro tesi principali siano in reciproco accordo. La differenza sta nel modo in cui questa lettura è condotta. Mentre in Temistio l’esegesi filosofica è il vertice della παιδεία e non rinvia a una rivelazione superiore, in Giuliano è netta la subordinazione alla rivelazione ricevuta attraverso gli oracoli. Solo la teurgia permette all’anima di purificarsi e rendersi simile a dio: i «misteri» della filosofia celebrati dal padre di Temistio, se non sono completati da una rivelazione superiore, rimangono insufficienti[28].
Medaglione con la scritta «omnia tibi [f]elicia». Mosaico, IV sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunisi, Musée National du Bardo.Un documento interessante è, a questo proposito, la Lettera 12 Bidez indirizzata da Giuliano a Prisco (discepolo di Edesio – a sua volta discepolo di Giamblico – maestro di Giuliano ad Atene e influente membro della sua cerchia). La datazione è dibattuta, ma Richard Goulet ha proposto con buoni argomenti che vada collocata dopo il pronunciamento di Parigi nel 360[29]. Giuliano invita Prisco a raggiungerlo e, nel farlo, lo prega di cercargli una copia di «tutte le opere di Giamblico sul mio omonimo», ossia, con ogni probabilità, il commento di Giamblico agli Oracoli caldaici, del quale il genero della sorella di Prisco possiede una copia corretta[30].
Gli specialisti si sono soffermati su queste linee, ponendo in luce il legame di Giuliano rispetto a Giamblico e la sua dipendenza dal platonismo teurgico. L’atteggiamento di Giuliano è confermato dalla sua affermazione per cui proprio mentre sta scrivendo gli si è manifestato anche un «segno meraviglioso». Poco dopo, infine, Giuliano afferma di essere un ammiratore fanatico di Giamblico in filosofia e «del mio omonimo [ossia Giuliano il teurgo] in teosofia».
La lettera, però, non fornisce solo queste indicazioni e non è soltanto una appassionata dichiarazione di entusiasmo per il platonismo teurgico. Giuliano offre importanti informazioni sul dibattito nelle scuole neoplatoniche posteriori a Giamblico. Egli invita, infatti, Prisco a non seguire i seguaci di Teodoro, i quali affermavano che Giamblico era un ambizioso. Sappiamo, in effetti, che Teodoro di Asine, pur essendo probabilmente allievo di Giamblico, si distaccò nettamente dalle posizioni del proprio maestro tornando al platonismo intellettualistico di matrice plotiniana e porfiriana.
Evidentemente, Teodoro non era rimasto affatto isolato nel suo atteggiamento, se Giuliano si preoccupa così tanto della possibile influenza dei suoi discepoli (probabilmente attivi ad Atene) su Prisco[31].
A questa importante indicazione sulla prima posterità di Giamblico, sulla quale torneremo tra poco, se ne aggiunge un’altra. La lettera si chiude con un elogio delle «sillogi» (συναγωγαί) di Aristotele apprestate da Prisco. Ancora una volta, Giuliano associa l’elogio di un platonico (Prisco, come prima aveva celebrato Giamblico) alla presa di distanza rispetto a un suo concorrente: se prima era Teodoro di Asine, ora è il caso di Porfirio, sui cui lavori aristotelici Giuliano si esprime in modo apertamente critico:
Lo scrittore di Tiro ha saputo inserire solo pochi elementi di logica in numerosi libri, tu, invece, con un solo libro, hai fatto forse di me un baccante nella filosofia aristotelica, e non un semplice nartecoforo[32].
Giamblico e Prisco sono dunque entrambi esponenti di una filosofia ispirata e veramente divina rispetto a cui Giuliano proclama il suo entusiasmo. Dall’altra parte stanno Teodoro di Asine e Porfirio, esponenti di un platonismo al quale egli guarda con diffidenza[33]. Gli studiosi dibattono sull’effettiva conoscenza delle opere aristoteliche posseduta da Giuliano[34]. Certamente non si può provare che Giuliano le avesse lette estesamente (ma neppure che non le conoscesse affatto) ed è possibile che egli si fondasse in gran parte su sintesi o compendi come quelli di Prisco. D’altra parte, i riferimenti ad Aristotele sono piuttosto numerosi nelle sue opere. Si è visto che nella Lettera a Temistio Giuliano critica il suo interlocutore e antico maestro per aver male interpretato passi della Politica. Inoltre, una tradizione ben attestata informa che Giuliano si interessò a questioni di logica aristotelica intervenendo in una controversia sulla dottrina del sillogismo[35].
In tutto questo non c’è a ben guardare niente di sorprendente. Giamblico e la sua scuola non rinnegarono minimamente gli aspetti tecnici e scolastici della formazione filosofica: essi si proposero invece di integrarli in un contesto più ampio, pitagorico in filosofia e coronato dalla rivelazione degli Oracoli. Quando, d’altronde, Temistio delinea il ritratto caricaturale del filosofo impostore e vanaglorioso, al quale egli si contrappone e in cui alcuni hanno riconosciuto Massimo di Efeso, egli ne mette in luce proprio l’ostentazione della tecnica filosofica (Or. 21, 247 c)[36].
Certamente questi autori non erano filosofi professionali e accademici e sicuramente lo studio della filosofia, anche nei suoi aspetti più astratti e tecnici, era indissociabile dallo sforzo di purificazione. Tuttavia, non si trattava neanche di «guru» e non ha alcun senso ridurre la loro posizione filosofica a una specie di ideologia identitaria o «religione del libro»[37]. Figure carismatiche e «pagan holy men»[38] potevano disporre di un’ottima e tecnica preparazione filosofica: i due aspetti sono inscindibili ed è del tutto fuorviante privilegiare l’uno a scapito dell’altro[39].
L’Accademia di Platone. Mosaico, I sec. a.C., dalla Casa di T. Siminio Stefano a Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Giuliano prosegue, a suo modo, anche questo punto del loro programma filosofico. Non è dunque corretto opporre rigidamente una corrente ispirata e religiosa del neoplatonismo a una corrente “analitica”, scolastica e incline ai tecnicismi filosofici. La differenza di Giamblico e dei suoi seguaci rispetto a Porfirio e ai suoi seguaci non sta nel fatto di leggere e interpretare Aristotele, confrontandosi con aspetti tecnici del suo pensiero, ma nella maniera di leggere Aristotele. Per Porfirio, l’esegesi rimane confinata al pensiero aristotelico (del quale si sostiene comunque la compatibilità rispetto alla filosofia di Platone), i punti dottrinali tipicamente platonici sono introdotti, ma in modo per lo più discreto e riservando l’approfondimento di essi a una fase successiva del curriculum. Il riferimento alla filosofia di Pitagora non ha un ruolo privilegiato. La situazione è del tutto diversa in Giamblico, come possiamo evincere soprattutto dalle testimonianze sul suo commento perduto alle Categorie conservate in Simplicio. Come attesta Simplicio, Giamblico, pur seguendo spesso Porfirio alla lettera, si distingueva da lui per l’esegesi pitagorizzante (riteneva infatti che il trattato pitagorico sulle Categorie attribuito ad Archita fosse stata la fonte a cui si era ispirato Aristotele) e per l’introduzione di una «dottrina intellettuale» (νοερά θεωρία), ossia di una dottrina che faceva riferimento agli intelligibili (cfr. Simplicio, In Cat., 2, 13-14)[40]. Forse Prisco aveva composto le sue sillogi seguendo lo stesso metodo di Giamblico: da qui l’apprezzamento di Giuliano.
Si ritiene talora che Giamblico abbia segnato una svolta irreversibile nel platonismo tardoantico e che il suo platonismo teurgico sia sta accettato ben presto nei circoli filosofici pagani diventando una specie di ortodossia[41]. Le Lettere di Giuliano e le Orazioni di Temistio dimostrano che ciò non è vero. Per quanto possiamo riscostruire, le resistenze non mancarono tra gli stessi seguaci di Giamblico, se è vero che Teodoro ritornò a posizioni plotiniane e Dessippo, la cui opera sulle Categorie di Aristotele è parzialmente conservata, passò quasi del tutto sotto silenzio l’interpretazione pitagorica del proprio maestro[42]. Come si è osservato sopra, Temistio reagisce a sua volta con scarsissimo entusiasmo alla svolta di Giamblico. D’altra parte, lo stesso rapporto di Giuliano rispetto a Giamblico è tutt’altro che semplice da definire. Certamente, Giuliano subisce profondamente l’influenza del programma filosofico e religioso giamblicheo, ma sarebbe affrettato ritenere che la restaurazione pagana di Giuliano sia una diretta applicazione del platonismo teurgico di Giamblico. La realtà è molto più complessa e sfaccettata e, se mai, si deve proprio a Giuliano (è il tratto principale della sua originalità filosofica) l’aver costruito una versione politica della teurgia, tanto da configurarla come una sorta di «religione di stato»[43]. È solo con Giuliano che la teurgia di Giamblico si innesta in una vera e propria teologia politica. Gli aspetti più complessi delle elaborazioni metafisiche sono abbandonati, mentre si dà pieno risalto a una dimensione politica che invano si cercherebbe, almeno in queste proporzioni, nel pensiero dei maestri neoplatonici[44].
Conclusione
Il dibattito sulla figura del filosofo nella Lettera a Temistio può acquistare un senso più ricco e storicamente fondato se valutato in questa prospettiva. Come si è già osservato, le professioni di modestia di Giuliano vanno considerate con prudenza. Certamente egli afferma di non avere una completa formazione filosofica, ma ciò non gli impedisce di contestare l’esegesi aristotelica di Temistio, suo antico maestro. È altrettanto indubbio che Giuliano separi nettamente la propria condizione rispetto a quella del re filosofo, e si dichiari incapace di accogliere su di sé un carico tanto pesante. Tuttavia, anche queste parole vanno accolte con cautela. Senza disconoscerne la sincerità, si è però giustamente notato che Giuliano fa proprio un preciso schema argomentativo di origine platonica (Platone, Resp. VI, 489 c), secondo il quale coloro meglio dotati per governare non lo fanno spontaneamente, ma devono essere convinti e persuasi ad accettare il loro incarico[45].
Meno si è qualificati a governare, tanto più si è disposti a prendere il potere. Considerate in questa prospettiva, le professioni di modestia filosofica di Giuliano appaiono, in realtà, rivendicazioni di una reale competenza fondata su una filosofia divina e ispirata (ma non per questo meno precisa e rigorosa), che egli riteneva superiore a quella dei suoi avversari (Porfirio, Teodoro, Temistio). Parimenti, la sua concezione modesta della sovranità è in realtà la rivendicazione di una regalità ben superiore rispetto a quella teorizzata da Temistio, perché fondata su una concezione divina del governo della quale Giuliano si riteneva portatore. Nel suo insieme, il dibattito tra Giuliano e Temistio esprime la ricchezza e complessità di temi proprio del pensiero tardoantico, che non si lascia formulare correttamente attraverso rigide e semplicistiche dicotomie (vita teoretica vs vita pratica; ispirazione religiosa vs tecnicismo filosofico). Proprio in questo fatto risiede il suo interesse[46].
[3] Delle orazioni di Temistio, si cita la traduzione in Temistio, Discorsi, a cura di Maisano R., Torino 1995. Sulla sua concezione politica e la differenza rispetto al neoplatonismo, cfr. Cfr. O’Meara D.J., op. cit., pp. 206-208.
[4] Questa concezione si trova pienamente esplicitata nell’Or. 5 per il consolato dell’imperatore Gioviano: «Vuoi sapere qual è il contributo che può venire dalla filosofia? Essa può dirti che “il principe è legge vivente”, legge divina scesa dall’alto nel nostro tempo, emanazione della natura divina che si è appressata alla terra, che si rivolge costantemente al bene ed è pronta a imitarlo […] (Or. 5, 64 b). I luoghi temistiani in cui viene formulata sono numerosi: cfr. Or. 1, 4b-6b, 8a-c; Or. 10, 132b-c; Or. 11, 146c-147b. Lo studio di riferimento è Downey G., Philanthropia in Religion and Statecraft in the Fourth Century after Christ, Historia 4 (1955), pp. 199-208.
[5] Cfr. Elm S., op. cit., p. 105 e, sul paragone tra Giuliano ed Eracle, Pagliara A., op. cit., pp. 38-41.
[8] Su questo punto mi limito a rinviare a Cracco Ruggini L., Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo (Roma, Atene, Costantinopoli; Numa, Empedocle, Cristo), in Studi storici in onore di O. Bertolini, vol. 1, Pisa 1972, pp. 177-300, in part. pp. 224-234.
[13] L’identificazione di questo scritto è problematica. È possibile che si trattasse di una raccolta di sezioni di argomento teologico tratte da opere aristoteliche: cfr. Micalella D., La Politica di Aristotele in Giuliano imperatore, in Ricerche di Filologia Classica, III: Interpretazioni antiche e moderne di testi greci, Pisa 1987, pp. 67-81.
[14] Su questo punto rinvio ancora una volta all’analisi illuminante di Elm S., op. cit., p. 105.
[15] Rinvio ancora a Elm S., op. cit., pp. 286-321.
[17] Gli Oracoli caldaici consistevano probabilmente in una silloge di responsi oracolari in esametri (ora perduti e trasmessi parzialmente solo attraverso fonti posteriori). La loro composizione è usualmente fatta risalire al ii secolo d.C. ed è associata alle due enigmatiche figure di Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo. Gli Oracoli, ispirati al Timeo di Platone e influenzati dalla teologia medioplatonica, assunsero una posizione assolutamente centrale nel neoplatonismo a partire da Giamblico, diventando il fondamento della “rivelazione” religiosa neoplatonica in accordo alla quale l’ascesa dell’uomo al divino non può essere conseguita mediante il solo intelletto, ma richiede l’adozione di precise pratiche rituali (Franz Cumont arrivò a definirli come la «Bibbia dei Neoplatonici»). La letteratura sull’argomento è vastissima e non è questa la sede per fornirne un resoconto. Un’aggiornata ed equilibrata discussione può trovarsi in Tanaseanu Döbler I., Theurgy in Late Antiquity: The Invention of a Ritual Tradition, Göttingen 2013.
[18] Tra i molti contributi dedicati a questo tema, mi limito a segnalare Karamanolis G., Plato and Aristotle in Agreement? Platonists on Aristotle from Antiochus to Porphyry, Oxford 2006, pp. 243-330.
[20] A mia conoscenza, manca a tutt’oggi uno studio dettagliato sul rapporto Temistio-Porfirio. Alcune osservazioni si trovano in Vanderspoel J., op. cit., p. 26. Tuttavia, l’analisi di Vanderspoel muove dall’assunto, ora superato, che Temistio riprenda argomenti anticristiani di Porfirio nell’Or. 5. Per una critica di questa interpretazione, avanzata a suo tempo da Dagron, cfr. Cracco Ruggini L., op. cit., p. 221 ss. Cfr. anche Heather P. – Moncur D. (dir.), op. cit., p. 170 n. 109.
[23] Simile a quello che, ad esempio, conduce un philologos (ossia un letterato) a giudicare come inautentica un’opera falsamente attribuita a Galeno e messa in vendita in una libreria nel Sandalario, in base allo stile e all’intestazione: l’aneddoto è riportato in Galeno, De libris suis, XIX, 8-9 Kühn.
[24] Non sarebbe affatto un caso isolato perché allusioni polemiche al platonismo giamblicheo sono ben riconoscibili nelle Orazioni di Temistio: si vd. supra, n. 20.
[28] L’atteggiamento di Giuliano rispetto alla teurgia è comunque complesso e non può senz’altro essere assimilato a quello di Giamblico: cfr. Tanaseanu Döbler I., op. cit., pp. 144-148.
[30] L’identificazione di questo oscuro personaggio è molto difficile. Con argomenti interessanti, Goulet R., op. cit., suggerisce che si tratti di Giamblico II (da non confondere con il più famoso Giamblico di Calcide), nipote di Sopatro di Apamea e, a sua volta, filosofo neoplatonico, al quale si deve probabilmente l’introduzione ad Atene del platonismo di Giamblico.
[31] Un’ottima presentazione sintetica di questo intricato dossier si trova in Goulet R., op. cit., pp. 42-43.
[32] Sul testo di queste linee, cfr. Goulet R., s.v. Priscus de Thesprotie, p. 1531.
[33] È significativo che anche nel discorso Alla Madre degli dèi Giuliano sembri guardare con una certa distanza all’esegesi porfiriana del mito di Attis, che egli dichiara di non aver letto: cfr. Ad Matrem deorum 161 c.
[34] Scetticismo (forse eccessivo) in proposito è espresso da Bouffartigue J., op. cit., pp. 197-214.
[35] Riferimenti in Goulet R., op. cit., p. 44 n. 73. La notizia è riportata da Ammonio, in An. Pr., 31, 11-23 e dallo scritto di Temistio In risposta a Massimo sulla riduzione dei sillogismi di seconda e terza figura a quelli di prima, conservato in arabo ed edito (ancorché in modo insoddisfacente) in Badawi ʽA., La transmission de la philosophie grecque au monde arabe, Paris 19872.
[36] Sappiamo da Simplicio che Massimo fu autore di un commento alle Categorie: cfr. Simpl., in Cat., 1, 15.
[37] È la tesi avanzata in Athanassiadi P., op. cit.
[39] Mi riferisco, in particolare, ad Athanassiadi P., op. cit. Le ripetute svalutazioni della «tecnica» filosofica (cfr. pp. 126, 206-207, etc.) e l’enfatica affermazione (riferita a Giamblico e Damascio) per cui «le fondement de la philosophie est la religion» (p. 189), caratterizzano la lettura sostanzialmente a-filosofica del platonismo tardoantico offerta nel suo libro.
[41] Tesi sostenuta, ancora una volta, in Athanassiadi P., op. cit. (cfr. p. es. p. 172: «sa [scil. di Giamblico] méthode d’enseignement, ses règles et son interprétation furent religieusement observées pendant plusieurs siècles: le carcan de Jamblique dispensait de l’obligation de penser par soi-même»). Va detto, però, che la valutazione di Giamblico negli studi recenti è decisamente più articolata e si tende a mettere sempre maggiormente in luce la portata filosofica e argomentativa delle sue concezioni. Si vedano, ad esempio, gli studi raccolti in Iamblichus and the Foundations of Late Platonism, Afonasin E. – Dillon J. – Finamore J. (dir.), Leiden 2012.
[43] Così De Vita M.C., op. cit., pp. 247-252; si veda, nel medesimo senso, Tanaseanu Döbler I., op. cit., pp. 136-148. Sul rapporto tra platonismo e pensiero politico in Giuliano, cfr. il fondamentale studio di Elm S., op. cit. più volte richiamato. L’importanza del condizionamento cristiano in Giuliano è stata recentemente ben illustrata da De Vita M.C., op. cit., secondo la quale il progetto di restaurazione pagana può essere compreso sotto certi aspetti come un tentativo di emulazione della religione combattuta. Nel programma teurgico di Giuliano sarebbe così percepibile la «volontà di riorganizzare la liturgia pagana sul modello di questa cristiana» (p. 241).
[44] Ciò non vuol dire affatto che manchino importanti spunti di filosofia politica nelle loro opere. Particolare rilievo hanno, a questo proposito, alcune Lettere di Giamblico conservate nell’Antologia di Giovanni Stobeo (cfr. Taormina D.P. – Piccione R.M., Giamblico. I frammenti delle Epistole, Introduzione, testo, traduzione e commento, Napoli 2010) sulle quali ha da tempo, e opportunamente, attirato l’attenzione O’Meara D.J., op. cit., pp. 99-100 e passim. Per una presentazione sintetica, cfr. Chiaradonna R., op. cit., pp. 746-748.
[45] Seguo l’analisi illuminante di Elm S., op. cit, p. 74: «The greater the reluctance to accept public office, the higher the leadership potential […] Julian’s declaration to his friends and confidants of his desire for the philosophical life thus complemented rather than contradicted his activities as Caesar and military commander»; si vd. anche ibid., pp. 160-161.
[46] Desidero ringraziare Maria Carmen De Vita ed Elisa Coda, che hanno letto una prima versione di questo studio, per i loro suggerimenti. Sono, naturalmente, il solo responsabile di eventuali errori.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.