Il 𝑆𝑖𝑚𝑝𝑜𝑠𝑖𝑜 di Platone

cfr. Platone, Simposio, introd. di V. DI BENEDETTO, trad. di F. FERRARI, Milano 1997, 67-73.

Il Simposio, composto da Platone intorno al 380 a.C., verso i cinquant’anni, si apre con una scena in cui ad Apollodoro, che ha incontrato Glaucone (fratello del filosofo) e altri amici, viene richiesto di raccontare dell’incontro svoltosi in casa di Agatone, in occasione della vittoria di questo poeta negli agoni tragici delle Lenee del 416. Apollodoro dichiara di poter esaudire la richiesta dell’amico, in quanto ha udito il racconto di quella riunione da un certo Aristodemo, un ammiratore di Socrate, che vi aveva preso parte personalmente insieme al maestro. Aristodemo aveva infatti incontrato Socrate per via, mentre questi si stava recando da Agatone e il maestro lo aveva persuaso a seguirlo laggiù. L’esordio dell’opera, costruito letteralmente “a incastro”, ha l’andamento di un grande racconto che riguarda il passato recente, ma considerato già mitico dall’autore; la drammatizzazione degli incontri tra amici è caratteristico di diversi dialoghi platonici.

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

Dopo la cena, Pausania, il retore, propone a tutti di bere con moderazione, evitando ogni eccesso dopo le bevute del giorno prima, durante i festeggiamenti di Agatone. Allora Erissimaco, il medico, suggerisce di trascorrere la serata tessendo a turno le lodi di Amore: Socrate, che aveva raggiunto l’incontro appena in tempo, e gli altri convitati approvano (Symp. 176a-178a). Il primo a parlare è il giovane Fedro, amasio (ἐρόμενος) di Erissimaco e appassionato della retorica sofistica: egli sostiene che Amore è il più antico fra gli dèi e ha elargito agli uomini i più splendidi favori, in quanto l’innamorato (ἐραστής) desidera distinguersi agli occhi dell’amato (ἐρόμενος). Così il dio instilla coraggio e spirito di sacrifico, come dimostrano i casi di Alcesti per Admeto e di Achille per Patroclo (Symp. 178a-180b). Tutto l’intervento di Fedro si muove secondo le linee degli encomi tradizionali, facendo assiduamente ricorso a exempla mitici e sottolineando il tema dell’utilità del dio, specialmente dal punto di vista sociale, comunitario.

Secondo a parlare è Pausania, per il quale non esiste un unico Amore, ma ve ne sono due, così come due sono le Afroditi corrispondenti, una celeste (Οὐράνια) e un’altra volgare (Πάνδημος). Qualsiasi umana azione di per sé non è buona né cattiva, ma merita lode solo se è compiuta con intenzioni oneste. L’Amore è caduto in discredito per l’uso volgare che molti ne fanno, mirando solo al corpo della persona amata. In alcune regioni della Grecia le relazioni omoerotiche sono consentite, in altre condannate. Il costume ateniese invece è ambiguo, in quanto l’amante viene incoraggiato, seppure, al contempo, ostacolato nei suoi tentativi di conquista, e l’amato viene biasimato nel momento in cui cede alle richieste dell’amante. Questa ambiguità è dovuta al desiderio di distinguere fra l’amante che ricerca e desidera soltanto il corpo e l’amante che invece aspira all’anima in vista di un rapporto duraturo. Solo se l’intenzione è onesta sia nell’amante che nell’amato, il comportamento omosessuale risulta lecito (Symp. 180c-185c). L’intervento del retore è tutto giocato su una serie di distinzioni che ruotano attorno alla fondamentale opposizione fra amore buono e amore cattivo, nonché fra orientamento eterosessuale e omosessuale: di quest’ultimo Pausania è fervente apologeta, come mostra nei fatti la relazione con Agatone. Che l’ἔρος sia precipuamente omoerotico (esclusivamente tra persone di sesso maschile) e che la donna si collochi in una posizione di manifesta marginalità è presentato nel Simposio, come dato ovvio e aproblematico.

Pittore Pistosseno. Afrodite sul cigno. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse su sfondo bianco, 460 a.C. ca. dalla Tomba F43 di Camiro (Rodi)

La teorizzazione più esplicita della superiorità dell’amore omosessuale (tra maschi) rispetto a quello eterosessuale – di quello omosessuale tra donne non se ne parla nemmeno – è appunto esposta proprio da Pausania; nella sua distinzione tra due diversi Amore e due diverse Afroditi, l’amore proprio della Πάνδημος è sia omosessuale che eterosessuale, mentre quello della Οὐράνια è specificamente omosessuale. Quest’ultimo è rapporto esclusivo tra uomini e ciò si basa sull’assunto che i maschi siano più forti e più intelligenti (nel senso che possiedono più νοῦν, «pensiero», «intelletto») dell’altro sesso: e chi ama un ragazzo attende l’età in cui incomincia a svilupparsi il suo νοῦν. Quindi, la distinzione tra i due tipi di Amore è fatta non solo sulla base della specializzazione omosessuale maschile dell’amore di Afrodite Οὐράνια, ma anche sulla base di una qualità diversa di amore, nel senso che chi ama di un amore volgare mira alla mera soddisfazione immediata di un impulso, mentre l’altro tipo di amore si propone una comunanza di vita, d’intenti e di ideali. Coerentemente al suo modo di argomentare, è il fatto che, ancor prima che si incominci la discussione, proprio Pausania non solo ha proposto di congedare la flautista (che, tra l’altro, era di condizioni servili), ma ha pure suggerito agli amici di invitarla ad andare a suonare alle donne della casa di Agatone. L’assunto fondamentale del discorso di Pausania per ciò che concerne una posizione di emarginazione della donna è fatto proprio da tutti gli altri partecipanti del convito e appare come un dato assolutamente ovvio, che non viene nemmeno posto in discussione. Ciò, insomma, nel Simposio non è nulla di nuovo; la grossa novità dell’opera, piuttosto, rispetto alla vita reale è l’invito a imparare a contenere i propri impulsi sessuali.

Ora sarebbe la volta di Aristofane, il poeta comico, che però è improvvisamente assalito dal singhiozzo. Interviene allora Erissimaco, che dottamente gli illustra il modo per liberarsene (Symp. 185c-e). In attesa che l’amico plachi il singhiozzo che lo tormenta, il suo posto è preso dallo stesso medico, che svolge la propria tesi partendo dall’osservazione che due tipi di Amore si manifestano in tutti i fenomeni naturali. In particolare – spiega –, nella pratica medica occorre compiacere ciò che nel corpo è sano e combattere ciò che è malato, facendo sì che i contrari (caldo/freddo, secco/umido) si attraggano reciprocamente, secondo una temperata armonia, così come nella musica l’artista deve produrre accordo fra l’acuto e il grave, suscitando amore e consenso fra di essi. Anche nella sfera meteorologica la condizione ottimale è raggiunta allorché vengono conciliate le opposte tendenze climatiche. Infine, nel campo della mantica e in ogni altra relazione tra uomini e dèi, instaurare armonia e comunicazione fra le due dimensioni significa favorire le inclinazioni amorose che nell’uomo tendono al lecito e alla verecondia; per converso, l’empietà scaturisce dal mancato assecondamento dell’amore continente (Symp. 185e-188e).

Pittore Epitteto. Scena di corteggiamento omoerotico. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, 520 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È caratteristico dell’orientamento mentale di Erissimaco il proporre una trattazione dell’eros al di là della sua connotazione specifica, in un tentativo sistematico di correlare sfere diverse dell’attività umana e dei fenomeni naturali muovendo dalla teoria dei contrari, che risaliva alla scienza ionica della natura del VI e del V secolo. È probabile che Platone «componesse questo discorso per ridicolizzare la tendenza di alcuni scienziati a formulare leggi eccessivamente generali che governerebbero i fenomeni dell’universo. Gli scrittori di medicina talvolta criticano queste generalizzazioni (p. es., Hp. vet. med. 13-16; vict. II 39), ma nondimeno talvolta vi fanno ricorso (p. es., Hp. vict. I 3-10; cfr. flat. 1-5). Nella misura in cui Erissimaco rompe con una trattazione dell’ἔρος come aspetto della sessualità umana, il suo discorso può essere considerato come un’anticipazione della trattazione offerta da Diotima dell’ἔρος in quanto viaggio a tentoni alla ricerca del Bene assoluto; ma il suo dualismo, che attribuisce un ἔρος positivamente cattivo all’ordine della natura, è estraneo alle speculazioni metafisiche di Diotima» (Dover).

Riavutosi dal singhiozzo, Aristofane prende finalmente la parola, ricostruendo una singolare storia dell’umanità: in origine gli esseri umani avevano quattro mani e quattro gambe, e due apparati genitali; e i generi erano tre, quello maschile, quello femminile e l’androgino. Questi esseri erano creature superbe e tentarono di dare la scalata al cielo per assalire gli dèi e spodestarli. Allora, per indebolirli e ricondurli all’ordine, Zeus li divise ciascuno in due metà, come le sogliole. Perciò, da quel momento ciascun essere umano cerca la propria “metà” perduta, e precisamente a questa ricerca dell’intero si dà nome di “amore” (Symp. 189a-193d).

Il discorso del commediografo riecheggia burlescamente e, ricorrendo a immagini che trovano talora riscontro nelle sue stesse commedie, le teorie dell’origine e il progresso del genere umano tanto in voga nel V secolo (cfr. Aesch. Prom. 436 ss.; Mosch. F 6 Nauck2; Emped. B 57-62 Diels-Kranz; Plat. Prot. 320c ss.). Ma la specificità dell’intervento di Aristofane sta soprattutto nel mettere la relazione erotica fra due esseri umani come fine in sé piuttosto che come mezzo o momento in vista di uno scopo diverso e superiore.

Dopo un intermezzo scherzoso fra Socrate e Agatone, interrotto da Fedro, Agatone stesso dichiara che Amore è il più beato, il più bello e il più giovane fra gli dèi. Da quando egli è nato, è cessata ogni discordia fra gli immortali. Amore è tenero, giusto, temperante, sapiente e ingenera negli uomini consimili virtù (Symp. 193d-197e). L’esposizione del giovane tragico procede per agglutinazioni successive e si espande in una fuga di determinazioni articolate secondo le norme della retorica gorgiana. Più che un contributo filosofico, il suo discorso si profila – anche intenzionalmente: «Sia dedicato da me al dio questo discorso, ben temperato, per quanto stia in me, a tratti di scherzo (παιδιά) a tratti di serietà misurata» – come un’efflorescenza di immagini eleganti, impreziosite dalla disposizione dei membri sintattici, che arieggiano le sequenze della lirica dei cori e delle monodie tragiche.

Pittore Duride. Giovanetto con leprotto in grembo. Pittura vascolare da una κύλιξ a figure rosse, 500-460 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Segue un ἔλεγχος, una confutazione ironica, attraverso cui Socrate costringe Agatone ad ammettere di «non aver capito niente di ciò che ha detto prima». Allora il maestro si accinge a riferire il discorso che avrebbe udito un giorno da Diotima, una sacerdotessa di Mantinea, che lo ammaestrò nelle cose d’amore. Amore – disse la donna – non è né bello né brutto, né buono né cattivo, né immortale né mortale, ma è intermedio fra questi opposti. Egli è nato da Povertà (Πενία) e da Espediente (Πόρος): pertanto, è povero ma ricco d’ingegno e di risorse. Chi ama ciò che è bello desidera che esso gli appartenga per sempre. Tutti gli esseri umani sono fecondi e aspirano a riprodursi. Il bello stimola, quindi, la generazione, il brutto la inibisce. Attraverso la generazione i mortali conseguono una forma di immortalità: dunque, amore è aspirazione a unirsi e a riprodursi. E la generazione si realizza non solo nella sfera del corpo e dei sensi, ma anche in quella dell’anima, dove pensieri e conoscenze vengono continuamente rinnovati. Gli esseri fertili nel corpo generano figli in carne e ossa, quelli fertili nell’anima generano conoscenza, arte e leggi. Dall’amore per la bellezza di un corpo l’amante passa a desiderare la bellezza che si manifesta in tutti i corpi belli, e poi in tutte le istituzioni e in tutte le scienze, finché non raggiungerà la contemplazione del Bello assoluto, immutabile e imperituro (Symp. 198a-212c). Il discorso della sacerdotessa – in realtà, di Platone, anche se non si può negare con certezza l’esistenza storica di Diotima – presuppone la teoria delle idee, in quanto (attraverso un processo di graduale astrazione, e in parte utilizzando il linguaggio proprio delle iniziazioni misteriche) esso tende a configurare un καλόν che sfugge a qualsiasi determinazione concreta e si identifica con il bene in sé.

Non appena Socrate termina il suo intervento, alla porta si sente bussare e fa il suo ingresso tumultuoso Alcibiade ubriaco fradicio. Dopo un battibecco scintillante di humour con Socrate e il padrone di casa, Alcibiade dichiara di voler tessere le lodi non già di Amore ma del proprio maestro e amante Socrate. Questi potrebbe essere paragonato nell’aspetto (naso camuso e occhi sporgenti) a un satiro o a un sileno; ma le sue parole producono un effetto prodigioso. Quand’era adolescente, Alcibiade cercò di sedurlo, ma Socrate resistette a qualsiasi assalto. Nella campagna militare di Potidea, il maestro aveva dimostrato un’incredibile resistenza ai disagi e un grande coraggio durante la ritirata ateniese: nessuno è simile a Socrate (Symp. 212c-222b).

Busto di Socrate. Marmo, copia romana da originale greco del IV secolo a.C. dalla Villa dei Quintilii sulla Via Appia. Città del Vaticano, Musei Vaticani – Museo Pio Clementino.

Nella forma di encomio, Alcibiade offre un magistrale ritratto della figura del maestro, e dell’effetto quasi incantatorio che le sue parole sono solite produrre in chi lo ascolta. Poiché al tempo della composizione del dialogo Alcibiade era naturalmente ricordato come traditore di Atene, e la fama di Socrate risultava oscurata dall’esser stato maestro di un simile discepolo, è significativo che Platone faccia dire ad Alcibiade di non aver seguito gli insegnamenti socratici, trascurando se stesso per inseguire il successo e gli onori politici.

Un’altra folla di comasti gaudenti fa irruzione in casa di Agatone. Allora, alcuni convitati se ne vanno. Restano solo il padrone di casa, Aristofane e Socrate, che trascorrono il resto della notte conversando. Alla fine, tutti si addormentano, tranne il maestro, che si reca prima al Liceo e soltanto a notte inoltrata torna a casa a riposarsi (Symp. 222c-223d).

****

Bibliografia:

F. Buffière, Eros adolescent. La pédérastie dans la Grèce antique, Paris 1980.

M.G. Bonanno, Aristofane in Platone (Pax 412 et Symp. 190c), MC 12 (1977), 103-112

Id., I γελοῖοι λόγοι di Socrate: Plat. Symp. 221e, MC 13-14 (1978-79), 263-269.

H. Buchner, Eros und Sein: Erörterungen zu Platons Symposion, Bonn 1965.

F.M. Cornford, The Doctrine of Eros in Plato’s Symposium, in The Unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge 1967, 68-80.

G.J. De Vries, Marginal Notes on Plato’s Symposium, Mnemosyne 33 (1980), 349-351.

K.J. Dover, Greek Homosexuality, London 1978.

R. Eisner, A Case of Poetic Justice. Aristophanes’ Speech in the Symposium, CW 82 (1979), 417-418.

L. Giordano, Da Tucidide a Platone: il ruolo di Alcibiade nel Simposio, SCO 46 (1998), 1079-1110.

W.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, IV, Cambridge 1975, 365-396.

R. Hackforth, Immortality in Plato’s Symposium, CR 64 (1950), 43-45.

D.A. Hyland, Plato and the Question of Beauty, Bloomington 2008.

J.F. Miller, The Esoteric Unity of Plato’s Symposium, Apeiron 12 (1978), 12-25.

A. Motta, Socrate, i discorsi e gli agalmata theon: l’interno del Simposio di Platone, Vichiana 15 (2013), 6-18

J.L. Penwill, Men in Love. Aspects of Plato’s Symposium, Ramus 7 (1978), 143-175.

P. Plass, Plato’s Pregnant Lover, SymbOsl 53 (1978), 47-55.

G.K. Plochmann, Interpreting Plato’s Symposium, ModSch 48 (1970-71), 25-43.

M. Regali, La mimesis di sé nel discorso di Agatone. L’agone fra poesia e filosofia nel Simposio, in M. Tulli, M. Erler (eds.), Plato in Symposium. Selected Papers of the Tenth Symposium Platonicum, Sankt Augustin 2016, 204-208.

L. Segoloni, Socrate a banchetto: il Simposio di Platone e i Banchettanti di Aristofane, Roma 1994.

F.C.C. Sheffield, Alcibiades’ Speech: A Satyric Drama, G&R 48 (2001), 193-209.

D. Sider, Plato’s Symposium as Dionysian Festival, QUCC 33 (1980), 41-56.

L. Strauss, On Plato’s Symposium, Chicago 2001.

M.D. Usher, Satyr in Plato’s Symposium, AJPh 123 (2002), 205-228.

K. Vretska, Zu Form und Aufbau von Platons Symposion, Innsbruck 1962, 143-156.

Lastenea o Assiotea? La testimonianza di P.Oxy. 52 3656

Traduzione personale di C. Mᴇᴄᴄᴀʀɪᴇʟʟᴏ, 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠, 𝑂𝑛 𝑎 𝐹𝑒𝑚𝑎𝑙𝑒 𝑃𝑢𝑝𝑖𝑙 𝑜𝑓 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠, 𝑎𝑛𝑑 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠 (𝑃.𝑂𝑥𝑦. 𝐿𝐼𝐼 3656) (1136), in J. Bʀᴜsᴜᴇʟᴀs, D. Oʙʙɪɴᴋ, S. Sᴄʜᴏʀɴ (eds.), 𝐷𝑖𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑘𝑒𝑟 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒𝑑, Part IV: 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒. IV A. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. Fasc. 8. 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑃𝑎𝑝𝑦𝑟𝑖, Leiden-Boston in print. Consulted online on 06 July 2021 [link].

First published online: 2017.

Il 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656, pubblicato per la prima volta da P.J. Parsons nel 1984, preserva un frammento di testo in prosa che parla di un’allieva dell’Accademia platonica, ma il suo nome non si è conservato nei lacerti superstiti. Diverse fonti antiche (Dɪᴏɢ. III 46; IV 2; Aᴛʜᴇɴ. 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛. XII 546d; Aᴘᴜʟ. 𝑃𝑙𝑎𝑡. 1,4; Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 2; Tʜᴇᴍ. 𝑂𝑟. 23, 295c; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4) riferiscono della presenza di donne all’Accademia, ma fanno espressamente i nomi di due allieve di Platone e di Speusippo, Lastenea di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Il papiro in questione menziona probabilmente una di queste due, ma l’identità esatta rimane incerta.

Le due allieve sono spesso citate in coppia e indicate come le uniche due accademiche[1]. Lastenea e Assiotea sono menzionate come discepole di Platone nelle 𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖 di Diogene Laerzio, in Clemente di Alessandria, e negli anonimi 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑎 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑎𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎𝑒 (nei quali, però, la seconda è chiamata Dessitea)[2]. Il Laerzio le elenca anche tra gli allievi di Speusippo[3].

Benché le fonti antiche le riportino insieme, pare che si trattasse di due persone molto diverse. Innanzitutto, certa tradizione presenta Lastenea come amante e compagna di Speusippo: Ateneo (VII 279e; XII 546d) racconta che allieva e maestro avessero una relazione erotica, citando una presunta lettera che Dionisio II di Siracusa avrebbe inviato al filosofo, definisce la donna un’ἑταίρα e descrive Speusippo come un uomo dissoluto e incontinente, dedito unicamente al piacere[4]. Si tratta certamente di una notizia proveniente da una fonte ostile al nipote di Platone, che trova riscontro anche in un altro passo laerziano (IV 2) e in un testo epistolografico spurio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36 Hercher τῷ μὲν ἥδεϲθαι ᾧ Λαϲθένεια καὶ Ϲπεύϲιπποϲ χρῆται)[5].

Quanto ad Assiotea, invece, costei è ricordata dalla tradizione per l’abitudine di indossare indumenti maschili, come racconta già Dicearco[6]. Temistio, riprendendo il medesimo particolare, aggiunge che fu la lettura della 𝑅𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎 di Platone a indurla a dedicarsi alla filosofia[7]. L’abbigliamento maschile è menzionato 𝑒𝑛 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑛𝑡 anche da Olimpiodoro e da Filodemo: secondo il primo, tra i seguaci di Platone c’erano sia uomini sia γυναῖκαϲ ἀνδρείωι ϲχήματι, mentre il secondo attribuisce questa abitudine a due non meglio note discepole di Speusippo[8]. Benché Temistio dica espressamente che Assiotea nascondeva il suo sesso (𝑂𝑟. 23, 295c: λανθάνουϲα ἄχρι πόρρω ὅτι γυνὴ εἴη), la tradizione da cui ha attinto non ha motivo di insinuare che la donna frequentasse l’Accademia solo sotto mentite spoglie, poiché non sarebbe stata accolta come donna in un contesto esclusivamente maschile. Questo preconcetto potrebbe essere stato utilizzato dalla tradizione antiplatonica per evidenziare una contraddizione tra le opinioni scritte di Platone sull’uguaglianza dei sessi e le reali (presunte) dinamiche interne alla sua scuola[9]; tuttavia, una studentessa avrebbe potuto sfoggiare il τρίβων maschile solo per mettere in mostra con orgoglio il proprio 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 di filosofa, come fece anche la cinica Ipparchia, che era solita indossare un τρίβων e accompagnarsi a Cratete di Tebe[10].

Indizi per l’identificazione della scolara del 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656 sono forniti dal titolo di due opere ivi citate, il Περὶ ϲυνοχῆϲ di Ieronimo di Rodi e il Περὶ ἀλυπίαϲ di Aristofane il Peripatetico, che, tra l’altro, accenna alla singolare bellezza della donna (col. ii, ll. 16-18 ὡραίαν χαρίτων τε ἀνεπιτηδεύτων πλήρη οὖϲαν). Secondo Gigante (1985, 69; 1986, 60), che si avvale della testimonianza di Ateneo, la candidata migliore sarebbe Lastenea; invece, per Dorandi (1989, 58), che si concentra sull’aneddoto tradito da Temistio, la più probabile sarebbe Assiotea. Secondo questo studioso, infatti, un racconto nel quale una giovane donna ϲυνοχή (se questo termine indica davvero lo stato morale di essere «prigioniera delle passioni») si redime grazie a una conversione alla filosofia si adatterebbe perfettamente a un’opera dal titolo Περὶ ϲυνοχῆϲ (ciononostante, tale aneddoto non è attestato dalla tradizione precedente!). Sembra più probabile, comunque, che il riferimento all’allieva di Speusippo nel Περὶ ϲυνοχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎, sempre che il titolo e la sua interpretazione siano corretti) riguardi il maestro piuttosto che l’alunna stessa, dato che le fonti concordano nel descrivere Speusippo in preda alle passioni. Allo stesso modo, l’altro scritto, il Περὶ ἀλυπίαϲ, potrebbe indicare che il riferimento alla filosofa sia stato fatto in relazione alla proverbiale φιληδονία di Speusippo, forse per rimarcare una contraddizione tra il pensiero e lo stile di vita di costui, nell’ambito di un dibattito circa la concezione del piacere come male[11]. Non a caso, il riferimento alla bellezza della giovane filosofa sarebbe particolarmente adatto a un simile contesto: insomma, Lastenea appare la più probabile fra le due[12].

La datazione e la paternità del brano trasmesso dal papiro restano ignote. Le opere citate sembrano oscillare nella cronologia tra la fine del III secolo e gli inizi del II secolo a.C. Ora, se è plausibile collocare il documento a questa altezza cronologica, virtualmente, a titolo d’ipotesi, si potrebbe identificarne l’autore (ma non si esclude che possa trattarsi di un compilatore più tardo che ha citato testi di età ellenistica!) con uno dei seguenti biografi di filosofi:

1) Diocle di Magnesia, che scrisse sia una Ἐπιδρομὴ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑜𝑚𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (Dɪᴏɢ. VII 48; X 11) sia delle Βίοι τῶν φιλοϲόφων [𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (𝑖𝑏𝑖𝑑. II 54; 82)[13]. Un argomento, anche se un po’ debole, a favore di Diocle potrebbe essere l’uso nel papiro dell’epiteto Ἐρετρικόϲ anziché Ἐρετριεύϲ riferito a Menedemo alla col. ii, l. 7.

2) Sozione di Alessandria, autore delle Διαδοχαὶ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖], attivo probabilmente durante il primo quarto del II secolo a.C. e, secondo Wehrli, si servì di Ippoboto come fonte, qui menzionato nella col. ii, l. 5[14].

3) Eraclide Lembo, che epitomò le Διαδοχαί di Sozione[15]: il papiro potrebbe quindi conservare questa versione riassunta. La frequenza dei nomi delle fonti rende il frammento in esame molto diverso per carattere dall’epitome che Eraclide trasse dai 𝐿𝑒𝑔𝑖𝑠𝑙𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 di Ermippo di Smirne, conservata nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XI 1367 (= 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 3), nel quale in poco meno di una sessantina di linee (col. i, ll. 36 e 47; col. ii, l. 8) sono nominati solo tre autori. Ciononostante, una differenza nell’estensione e nella profondità dei dettagli tra l’epitome di Ermippo e quella di Sozione non è assolutamente improbabile[16]. A giudicare dai frammenti superstiti, Eraclide sembra mostrare una certa inclinazione per i pettegolezzi, le abitudini sessuali e gli aneddoti sui personaggi di cui parla, ma anche qualche imprecisione come epitomatore[17]. Questi aspetti potrebbero trovare paralleli nel papiro in esame. Eraclide ha certamente scritto di Menedemo di Eretria (si vd. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 15a e 15b = Dɪᴏɢ. II 138, 143) e di Platone (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 16 = Dɪᴏɢ. III 26). In particolare, von Fritz suggerisce che l’erroneo incontro di Platone e Menedemo di Eretria, di cui parla il Laerzio, potrebbe derivare proprio da Eraclide[18].

Comunque sia, è troppo poco ciò che è rimasto di questi storici da consentire un qualche collegamento sicuro con il frammento in questione, ed espositori meno noti di διαδοχαί, o addirittura del tutto sconosciuti, sono ipotesi altrettanto plausibili. Infine, bisogna tenere in conto che l’apparente carattere biografico e dossografico del documento papiraceo può essere solo una conseguenza della sua natura frammentaria: insomma, non è detto che l’opera a cui appartiene sia necessariamente una biografia.

Come si vede, il papiro contiene i resti di tre colonne, ma solo la col. ii presenta un testo significativo. È visibile un margine superiore di 3 cm, oltre a due 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑐𝑜𝑙𝑢𝑚𝑛𝑖𝑎 di circa 2 cm ciascuno. Le linee, contenente ciascuna circa 15 lettere, sono tracciate lungo le fibre in una grafia formale inclinata nel cosiddetto “stile severo”, che può essere tranquillamente attribuita alla fine del II o agli inizi del III secolo d.C.[19]

Lo scriba principale usa la παράγραφος in combinazione con lo spazio vuoto per contrassegnare una forte interpunzione (col. ii, ll. 7 e 11). Altri due tipi di segni marginali, χ e διπλῆ, sono stati aggiunti con un inchiostro diverso: si tratta forse di annotazioni dei lettori. La χ è apposta prima della col. ii, l. 2, 4, 6, 9 e 12, dove ricorrono i nomi propri (di filosofi o autori), ma è usato in modo incoerente, dato che il nome di Ippoboto alla l. 5 non è contrassegnato. La διπλῆ nella col. ii, l. 16 sembra evidenziare una citazione più specifica, quella di Aristofane il Peripatetico; altre quattro διπλαῖ sono state utilizzate nella colonna iii, ma mancano le linee da esse contrassegnate (ll. 11, 14, 17, 19). Una παράγραφος è visibile anche nella col. iii sotto la perduta l. 15.

P. Oxy. 52 3656 (II-III sec. d.C.). Anonimo, A proposito di una discepola di Platone, Speusippo e Menedemo = FGrHist. 1136 F 1 [papyri.info].

 [20]col. icol. iicol. iii





5




10  



15




20
]..
]
]α̣
].
]ηϲ
]
]
]
].[ ]
]
]
]
].[ ]
]
] ̣α
]
]α̣
].
…    
διήκουϲε δὲ με-
τὰ τὴν Πλάτωνοϲ
τελευτὴν καὶ Ϲπευ-         
ϲίππου καθὰ λέγει
ὁ Ἱππόβοτοϲ (F 6a Gigante), αὖθιϲ δὲ       
καὶ Μενεδήμου τοῦ
Ἐρετρικοῦ. ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ
περὶ αὐτῆϲ καὶ Ἱερώ-      
νυμοϲ[21] ὁ Ῥόδιοϲ ἐν
τῷ Περὶ ϲυνοχῆϲ[22]
ϲυνγράμματι (F 55 White). ἱϲτο-
ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ[23]
ὁ περιπατητικὸϲ
ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ
ἀλυπίαϲ τὴν μείρα-
κα[24] ὡραίαν χαρίτων
τε ἀνεπιτηδεύτων
πλήρη οὖϲαν νεα
̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν[25]
[𝑐𝑎.9     ] ̣[26]οϲκαι
. . . .
 






. . . . .
φηναμ̣[
.[            
.[            
.[            
.[
[            
.[
[
[
[
[  

Traduzione (col. ii):

Dopo la morte di Platone, ella, secondo Ippoboto, divenne discepola di Speusippo e, infine, di Menedemo di Eretria. Ieronimo di Rodi parla di lei in un suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎 (?). Parimenti, anche Aristofane il Peripatetico nella sua opera 𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒 racconta che questa ragazza era nel fiore della giovinezza e piena di grazia non ricercata… intorno a lei (?).

Commento (col. ii):

1-4 διήκουϲε δὲ με|τὰ τὴν Πλάτωνοϲ | τελευτὴν καὶ Ϲπευ|ϲίππου. La parte superstite del documento non afferma esplicitamente che l’anonima filosofa fosse stata allieva di Platone, ma il fraseggio di queste linee e in particolare il καὶ alla l. 3 – che allude al fatto che Speusippo sia stato maestro dopo qualcun altro – fanno fortemente supporre che Platone sia stato sua guida prima di Speusippo.

4 καθὰ λέγει: è un’espressione tipicamente dossografica; cfr. l’uso frequente di καθά φηϲιν nel Laerzio per introdurre la fonte impiegata. (𝑒.𝑔. I 1; VI 102; IX 25).

5 ὁ Ἱππόβοτοϲ. F 6a Gigante (cfr. Gɪɢᴀɴᴛᴇ [1985]). Ippoboto visse probabilmente tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.[27] La sua 𝑎𝑐𝑚𝑒́ è collocata da Gigante nella prima metà del II secolo a.C.[28] Glucker sostiene in modo meno convincente una datazione fino al I secolo a.C.[29] Il Laerzio conserva i titoli di due opere, una Περὶ αἱρέϲεων (I 19; II 88) e una Τῶν φιλοϲόφων ἀναγραφή (I 42), e alcuni frammenti, tra cui un aneddoto su Menedemo il Cinico (VI 102), che è diverso dal Menedemo menzionato in 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656.

6-7 Μενεδήμου τοῦ | Ἐρετρικοῦ. 𝑆𝑆𝑅 III F 25; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,68, T 1. Lastenea e Assiotea non sono altrimenti associate a Menedemo. Menedemo di Eretria, discepolo del socratico Fedone e poi fondatore della scuola di Eretria, visse probabilmente dal 350/45 al 266/1 a.C.[30] Se la filosofa in questione fu allieva di Platone, morto nel 348/7, allora si dovrebbero ipotizzare per lei almeno due decenni di attività filosofica. Ciò non è impossibile, se iniziò a seguire Platone da giovanissima (cfr ll. 15-16 μείρακα)[31]. Tuttavia, come sostiene in maniera convincente Knoepfler, è probabile che il Menedemo menzionato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 sia erroneamente chiamato Ἐρετρικόϲ, mentre in realtà si intende proprio Menedemo di Pirra[32]: quest’ultimo, un Accademico battuto da Senocrate nella successione a Speusippo, fondò una sua propria scuola, e venne parodiato insieme a Platone e Speusippo in un frammento di Epicrate, autore della Commedia di Mezzo[33]. Secondo Knoepfler, l’autore del testo conservato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 deve aver trovato il nome di Menedemo senza ulteriori specificazioni nella sua fonte, e gli ha erroneamente attribuito l’epiteto di Ἐρετρικόϲ; ciò sarebbe indicato anche dall’uso impreciso dello ctetico Ἐρετρικόϲ al posto dell’etnico Ἐρετριεύϲ, che Knoepfler considera un tratto più tardo. Si può notare che il Laerzio chiama sempre Menedemo Ἐρετριεύϲ, mentre usa regolarmente Ἐρετρικόϲ per indicare la sua scuola e i suoi discepoli; soltanto in un caso riferisce questo nome allo stesso Menedemo (Dɪᴏɢ. VI 91; nessun riscontro è attestato a parte 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656). Vale la pena notare che la fonte citata di questo passo è Diocle di Magnesia, che è un possibile candidato per l’attribuzione del papiro. Nessuna fonte è allegata alla menzione di Menedemo nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, a differenza di quello di Speusippo, e non si può escludere che Menedemo sia stato aggiunto proprio come un altro membro dell’Accademia (con l’epiteto sbagliato!), riflettendo il raggruppamento trovato in Epicrate, ma non aveva alcun rapporto con Lastenea o Assiotea.

7 ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ. Lo scriba principale ha corretto un errore αὖθιϲ δὲ, chiaramente indotto dalle due righe sopra, che si trova nella stessa posizione sulla riga. La correzione è stata apportata modificando la forma di υ in quella di φ, eliminando θιϲ con un solo tratto orizzontale e aggiungendo ηγηϲατο nello spazio interlineare superiore.

8-9 Ἱερώ|νυμοϲ ὁ Ῥόδιοϲ. F 55 White; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,61, T 1. Il peripatetico Ieronimo di Rodi visse nel III secolo a.C. (ca. 290-230 a.C.)[34]. Il Laerzio (II 105) gli attribuisce un Περὶ ἐποχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜) e un’opera in almeno due libri dal titolo Ϲποράδην ὑπομνήματα (𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑠𝑒), da cui trae informazioni – per lo più aneddotiche – su Talete e Anassagora (I 26; II 14).

10 Περὶ ϲυνοχῆϲ. Come si è appena accennato, Dɪᴏɢ. II 105 attribuisce a Ieronimo un Περὶ ἐποχῆϲ (Hɪᴇʀᴏɴ.¹ F 24 Wehrli = 54b White). Per questo motivo, sottolineando l’ambiguità semantica di ϲυνοχή (che tra l’altro significa «detenzione, prigionia, oppressione», ma anche «coesione, compattezza»), poco ideale in un titolo, Gottschalk ha emendato la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 tradita dal papiro ϲυνοχῆϲ in ἐποχῆϲ («fermata, sospensione di giudizio»)[35]. Non è da escludere che si tratti di due opere diverse, ma, come ha notato da Gigante, la tradizione manoscritta di Diogene mostra diversi esempi di scambio di preverbi e preposizioni[36]. Gigante difende la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 del papiro e interpreta ϲυνοχή come uno stato di «coercizione» fisica o psicologica. In effetti, ciò sarebbe confermato dalla rappresentazione canzonatoria di Fedone di Elide – maestro di Speusippo – come δοῦλοϲ («servo»), che il Laerzio attribuisce al Περὶ ἐποχῆϲ di Ieronimo: probabilmente non si tratta di una mera invenzione, ed è plausibile che Fedone abbia sperimentato quella triste condizione dopo l’espugnazione della sua città nel 401 a.C. Ora, se le cose stanno così, allora la vicenda della giovane allieva potrebbe essere la storia della liberazione di una donna da qualsiasi tipo di servitù – secondo Gigante e Dorandi, si tratterebbe di una «schiavitù delle passioni»[37]. L’editore del papiro, Parsons, ha valutato i diversi significati filosofici della parola ϲυνοχή, quali «inibizione del movimento nel sonno» ([Aʀɪsᴛᴏᴛ.] 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑡. 1,2 p. 816b39), «coesione dell’universo» (Cʜʀʏsɪᴘ. 𝑆𝑉𝐹 II F 550), «continuità nel luogo o nella forma» (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ.⁴ 𝑆𝑉𝐹 III F 260), e «mantenimento della felicità» (Eᴘɪᴄᴜʀ. F 361 Usener), pur notando che «il significato di “afflizione” o “prigionia” non sembra essere attestato prima del I secolo a.C.»[38]: i primi paralleli, considerati da Gigante, si trovano appunto in due papiri documentali dell’epoca, nei quali ϲυνοχή è inteso letteralmente come «prigione» (𝑃. 𝐿𝑜𝑛𝑑. II 354, l. 24 e 𝐵𝐺𝑈 VIII 1821, l. 21; cfr. 𝐿𝑆𝐽 II 5). White, invece, propende per Περὶ ἐποχῆϲ come unico titolo corretto: ἐποχή si riferirebbe tecnicamente alla «”sospensione del giudizio” associata ad Arcesilao di Pitane e alla sua ‘Nuova Accademia”», che fu obiettivo polemico o quantomeno un conoscente di Ieronimo di Rodi[39]. In effetti, nel contesto di una discussione sullo Scetticismo accademico, un riferimento all’«eredità di Socrate, compreso Platone e altri socratici» non sarebbe del tutto fuori luogo[40]. Tuttavia, sebbene questo possa spiegare la rilevanza della trattazione di Ieronimo su Fedone, è più difficile immaginare un contesto adatto per una menzione di Lastenea o Assiotea: ma si può ipotizzare, per esempio, che un aneddoto ostile sia stato inserito in una discussione polemica sull’epistemologia o sulla teoria etica di Speusippo.

11-15 ἱϲτο|ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ | ὁ περιπατητικὸϲ | ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ | ἀλυπίαϲ. 𝐶𝑃𝐹 I 1, 1, 23, T 1. Si menziona un filosofo peripatetico di nome Aristofane, non altrimenti attestato. Sull’identità di costui, si possono considerare tre diverse opzioni: 1) si ha a che fare con un autore sconosciuto; 2) la fonte è, in realtà, Aristofane di Bisanzio, che qui è insolitamente presentato come un Peripatetico; 3) si è verificato un problema testuale, forse una corruttela. Tralasciando la prima, se si assume la seconda opzione, forse occorre considerare un’accezione “liquida” di περιπατητικὸϲ, nome che sarebbe stato qui impiegato per indicare genericamente uno «studioso», oppure – e sembra un poco più plausibile – designerebbe una qualche connessione con il Peripato, se si pensa, per esempio, alle analisi filologiche di Aristofane di Bisanzio sugli studi di zoologia di Aristotele[41]. Ora, un altro problema è che non è attestato da nessuna parte che Aristofane di Bisanzio abbia redatto un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma questo titolo si trova elencato nella 𝑆𝑢𝑑𝑎 fra i testi del suo presunto maestro, Eratostene (𝑆𝑢𝑑𝑎 ε 2898); come quest’ultimo, in effetti, Aristofane potrebbe aver nutrito sia interessi linguistico-grammaticali sia di natura filosofica[42]. Se, dunque, questo Aristofane “il Peripatetico” fosse il filologo alessandrino, si avrebbe una maggiore certezza circa la datazione dell’opera conservata dal 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, dato che il Bizantino visse circa tra il 265/57 e il 190/80 a.C.[43]

Quanto alla possibile corruttela, Gigante ha proposto di emendare Ἀριϲτοφάνηϲ con Ἀριϲτόξενοϲ, sebbene un Περὶ ἀλυπίαϲ non sia tra le opere conosciute di quest’ultimo[44]. In alternativa, si potrebbe pensare ad Aristone il Peripatetico (originario di Ceo, da non confondere con l’omonimo stoico di Chio). Nemmeno per lui, in realtà, è attestato un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma sembra plausibile per l’autore di una lettera su 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑛𝑧𝑎, citata nel 𝑆𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑧𝑖 di Filodemo[45].

Montanari, con certa riserva, ha ipotizzato che il Περὶ ἀλυπίαϲ attribuito ad Aristofane possa essere, in realtà, il titolo di uno scritto di Ieronimo, dato che quest’ultimo era ben noto per la sua teoria, secondo la quale l’assenza di dolore sia il bene più grande[46]. Può essere interessante osservare anche che “Peripatetico” era un attributo attestato proprio per Ieronimo: cfr., per es., Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟. II 21, 127; Aᴛʜᴇɴ. XIII 602a; e si vd. la questione al riguardo in Cɪᴄ. 𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑛. 5, 14 = F 11 White. L’espunzione di Ἀριϲτοφάνηϲ, che lascerebbe soltanto ὁ περιπατητικόϲ riferito a Ierononimo, sarebbe forse una soluzione, ma è difficile spiegare come quel nome possa essere entrato nel testo.

Infine, si potrebbe ancora ipotizzare che Aristofane di Bisanzio abbia parlato di Lastenea nel suo 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, citata da Ateneo (cfr. n. 42 𝑠𝑢𝑝𝑟𝑎), mentre un Peripatetico (Aristone o il suddetto Ieronimo?) ha fatto riferimento alla sua avvenenza in un Περὶ ἀλυπίαϲ, contestualizzando la relazione fra la donna e Speusippo. Un goffo epitomatore, se di epitome si tratta il testo nel papiro, attingendo a una fonte in cui sono menzionati entrambi gli autori, potrebbe aver confuso il nome del primo con l’epiteto e il titolo dell’opera del secondo. Oppure, parimenti, uno scriba può aver accidentalmente omesso alcune parole o linee, saltando da ciò che seguiva il nome Ἀριϲτοφάνηϲ (𝑒.𝑔. ὁ γραμματικόϲ) a ὁ περιπατητικόϲ: un equivoco errore di copiatura (forse), ma di tipo diverso, occorre anche alla l. 7.

14 ὁμοίωϲ. Questo avverbio si trova di consueto nei resoconti dossografici per indicare l’accordo fra le fonti citate (si vd., per es., Dɪᴏɢ. III 47; VII 87; 148; VIII 51). Mentre in questo passo sembra esserci un’asimmetria fra le due frasi che ὁμοίωϲ dovrebbe equiparare: da un lato, si ha solo un riferimento generico all’aspetto della giovane allieva nel trattato di Ieronimo; dall’altro, c’è una specifica informazione attribuita ad Aristofane (?). Questo potrebbe essere un indizio della natura suntiva del testo papiraceo (compatibile, per esempio, con l’epitomatore Eraclide Lembo): si potrebbe immaginare che la fonte dell’autore del documento abbia attribuito a Ieronimo una specifica informazione, in linea con il riferimento alla bellezza fisica della fanciulla contenuta nel catalogo aristofaneo; mentre lo scriba l’avrebbe omessa, inserendo nel proprio testo soltanto il nome della fonte e il titolo dell’opera. Si noti che la presenza di ὁμοίωϲ potrebbe essere spiegata anche se il Περὶ ἀλυπίαϲ fosse opera di Ieronimo e il nome di Aristofane un’interpolazione; in questo senso, si potrebbe tradurre: «Ieronimo ha parlato della ragazza nel suo Περὶ ϲυνοχῆϲ; così, nel suo Περὶ ἀλυπίαϲ il Peripatetico riferisce…».

15-18 τὴν μείρα|κα ὡραίαν χαρίτων | τε ἀνεπιτηδεύτων | πλήρη οὖϲαν. È probabile che ἱϲτορεῖ (ll. 11-12) regga un’infinitiva (𝑒.𝑔. Dɪᴏᴅ. I 15, 2; III 44, 3; ecc.), con οὖϲαν, che è un participio circostanziale, ma non si può escludere l’uso di un participio predicativo (Iᴏs. 𝐴𝐽 1, 108); quindi, non si può dire se questa frase termini prima o dopo νεα.

18-20? νεα | [ ̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν | [ 𝑐𝑎. 9 ] ̣οϲκαι. περὶ αὐτῆϲ (l. 8) è complemento d’argomento, mentre è probabile – ma non sicuro – che qui π̣ερὶ αὐτήν (o soltanto αὑτήν) abbia un valore diverso, forse un complemento di luogo: si potrebbe colmare la lacuna con νεα|[νε]ί̣[α]ϲ̣ (l. νεανίαϲ) π̣ερὶ αὑτὴν | [ἀεὶ ἔχειν], cioè «aveva sempre attorno a sé dei giovanotti» (cfr. Lᴜᴄ. 𝑉𝐻 1, 15 ὁ αϲιλεὺϲ τοὺϲ ἀρίϲτουϲ περὶ αὑτὸν ἔχων, e Dɪᴏɴ. XI 2, 1 τοῖϲ θραϲυτάτοιϲ τῶν νέων, οὓϲ εἶχον ἕκαϲτοι περὶ αὑτούϲ). Si osservi che le due tracce visibili alla l. 19 sono indicate da Parsons rispettivamente come «top of upright» e «short horizontal or arc just below the letter-tops».

20 ] ̣. τ. potrebbe trattarsi della traccia di un αὐτὸϲ o un οὗτοϲ (?). Un’espressione, come οὗτοϲ (𝑠𝑐𝑖𝑙. Aristofane) καὶ (un’altra fonte) λέγουϲι(ν)/φαϲι(ν)/ἱϲτοροῦϲι(ν), continuerebbe il racconto dossografico.

Michel Corneille il Giovane, Aspasia fra i filosofi dell’antica Grecia. Olio su tela, 1670 c. Château de Versailles.

***

Edizioni e traduzioni:

J. Bᴏʟʟᴀɴsᴇ́ᴇ (ed.), 𝐹𝑒𝑙𝑖𝑥 𝐽𝑎𝑐𝑜𝑏𝑦. 𝐷𝑖𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑘𝑒𝑟 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒𝑑. 𝐼𝑉. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒. 𝐼𝑉 𝐴. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. 𝐹𝑎𝑠𝑐. 3. 𝐻𝑒𝑟𝑚𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠 𝑜𝑓 𝑆𝑚𝑦𝑟𝑛𝑎, Leiden-Boston-Köln 1999.

𝐶𝑃𝐹 = 𝐶𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑝𝑖𝑟𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖𝑐𝑖 𝑔𝑟𝑒𝑐𝑖 𝑒 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑖. 𝑇𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑒 𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑐𝑜 𝑛𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑝𝑖𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑔𝑟𝑒𝑐𝑎 𝑒 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎, Firenze 1989-.

M.R. Dɪʟᴛs (ed.), 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑐𝑙𝑖𝑑𝑖𝑠 𝐿𝑒𝑚𝑏𝑖 𝑒𝑥𝑐𝑒𝑟𝑝𝑡𝑎 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑎𝑟𝑢𝑚, Durham 1971.

I. Gᴀʟʟᴏ (ed.), 𝐹𝑟𝑎𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑏𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑎 𝑝𝑎𝑝𝑖𝑟𝑖. Vol. I: 𝐿𝑎 𝑏𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑎 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎, Roma 1975.

K. Gᴀɪsᴇʀ (ed.), 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑜𝑑𝑒𝑚𝑠 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑢𝑚 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑢𝑚 1, Stuttgart-Bad Cannstatt 1988.

G. Gɪᴀɴɴᴀɴᴛᴏɴɪ (ed.), 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑡 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 𝑟𝑒𝑙𝑖𝑞𝑢𝑖𝑎𝑒 (𝑆𝑆𝑅), I-IV, Napoli 1990.

M. Gɪɢᴀɴᴛᴇ, 𝐼 𝑓𝑟𝑎𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐼𝑝𝑝𝑜𝑏𝑜𝑡𝑜: 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑎 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖𝑐𝑎, in A. Mᴀsᴛʀᴏᴄɪɴǫᴜᴇ (ed.), 𝑂𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑎 𝑃𝑖𝑒𝑟𝑜 𝑇𝑟𝑒𝑣𝑒𝑠, Padova 1983, 151-193.

Iᴅ., 𝐴𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐼𝑝𝑝𝑜𝑏𝑜𝑡𝑒𝑎, PP 40 (1985), 69.

F. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ, 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ𝑎𝑛𝑒𝑠 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐𝑢𝑠 (𝐵𝑦𝑧𝑎𝑛𝑡𝑖𝑢𝑠?), in 𝐶𝑃𝐹, 1, 1, Firenze 1989, 248-250.

A.F. Nᴀᴛᴏʟɪ, 𝑇ℎ𝑒 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟 𝑜𝑓 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑠 𝑡𝑜 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑖𝑝 𝐼𝐼. 𝐼𝑛𝑡𝑟𝑜𝑑𝑢𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛, 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐶𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑦, Stuttgart 2004.

P.J. Pᴀʀsᴏɴs, 3656. 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦, 𝑇ℎ𝑒 𝑂𝑥𝑦𝑟ℎ𝑦𝑛𝑐ℎ𝑢𝑠 𝑃𝑎𝑝𝑦𝑟𝑖 𝐿𝐼𝐼, London 1984, 47-50.

G. Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ, 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑛𝑒 Sul modo di liberare dalla superbia 𝑛𝑒𝑙 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑚𝑜 𝑙𝑖𝑏𝑟𝑜 De vitiis 𝑑𝑖 𝐹𝑖𝑙𝑜𝑑𝑒𝑚𝑜, Firenze 2007 = rec. G. Iɴᴅᴇʟʟɪ, GFA 13 (2010), 1015-1067.

G. Rᴏᴇᴘᴇʀ (ed.), 𝐿𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 𝐴𝑏𝑢𝑙𝑝ℎ𝑎𝑟𝑎𝑔𝑖𝑎𝑛𝑎𝑒 𝐴𝑙𝑡𝑒𝑟𝑎𝑒: 𝐷𝑒 𝐻𝑜𝑛𝑎𝑖𝑛𝑖 𝑉𝑖𝑡𝑎 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑠, Gdansk 1866.

L. Tᴀʀᴀ́ɴ (ed.), 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑠 𝑜𝑓 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠. 𝐴 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑦, 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑎 𝐶𝑜𝑙𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑅𝑒𝑙𝑎𝑡𝑒𝑑 𝑇𝑒𝑥𝑡𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐶𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑦, Leiden 1981.

F. Wᴇʜʀʟɪ (ed.), 𝐷𝑖𝑒 𝑆𝑐ℎ𝑢𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠: 𝑇𝑒𝑥𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑑 𝐾𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟. 𝐼: 𝐷𝑖𝑘𝑎𝑖𝑎𝑟𝑐ℎ𝑜𝑠, Basel-Stuttgart 1967².

Iᴅ., 𝐷𝑖𝑒 𝑆𝑐ℎ𝑢𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠: 𝑇𝑒𝑥𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑑 𝐾𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟. 𝑋: 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑠 𝑣𝑜𝑛 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑜𝑠, 𝐾𝑟𝑖𝑡𝑜𝑙𝑎𝑜𝑠 𝑢𝑛𝑑 𝑠𝑒𝑖𝑛𝑒 𝑆𝑐ℎ𝑢̈𝑙𝑒𝑟, Basel-Stuttgart 1969².

Iᴅ., 𝐷𝑖𝑒 𝑆𝑐ℎ𝑢𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠: Supplementband II: Sotion, Basel-Stuttgart 1978.

S.A. Wʜɪᴛᴇ, 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑜𝑓 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑒𝑠. 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑜𝑢𝑟𝑐𝑒𝑠, 𝑇𝑒𝑥𝑡 𝑎𝑛𝑑 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛, in Iᴅ., W.W. Fᴏʀᴛᴇɴʙᴀᴜɢʜ (eds), 𝐿𝑦𝑐𝑜 𝑜𝑓 𝑇𝑟𝑜𝑎𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑜𝑓 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑒𝑠. 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛, New Brunswick 2004, 79-276.

***

Studi

H. Bʟᴏᴄʜ, 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑑𝑒𝑠 𝐿𝑒𝑚𝑏𝑜𝑠 𝑎𝑛𝑑 ℎ𝑖𝑠 𝐸𝑝𝑖𝑡𝑜𝑚𝑒 𝑜𝑓 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑡𝑙𝑒’𝑠 𝑃𝑜𝑙𝑖𝑡𝑒𝑖𝑎𝑖, TAPhA 71 (1940), 31-40.

F. Dᴇᴄʟᴇᴠᴀ-Cᴀɪᴢᴢɪ, 𝑃𝑖𝑟𝑟𝑜𝑛𝑖𝑎𝑛𝑖 𝑒𝑑 𝑎𝑐𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝐼𝐼𝐼 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑎.𝐶., in H. Fʟᴀsʜᴀʀ, O. Gɪɢᴏɴ (eds), 𝐴𝑠𝑝𝑒𝑐𝑡𝑠 𝑑𝑒 𝑙𝑎 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑒 ℎ𝑒𝑙𝑙𝑒́𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒, Vandœuvres-Genève 1986, 165-167.

L. Dᴇʟ Cᴏʀsᴏ, 𝐿𝑜 “𝑠𝑡𝑖𝑙𝑒 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑜” 𝑛𝑒𝑖 𝑃.𝑂𝑥𝑦: 𝑢𝑛𝑎 𝑙𝑖𝑠𝑡𝑎, Aegyptus 86 (2006), 81-106.

T. Dᴏʀᴀɴᴅɪ, 𝐴𝑠𝑠𝑖𝑜𝑡𝑒𝑎 𝑒 𝐿𝑎𝑠𝑡𝑒𝑛𝑖𝑎: 𝑑𝑢𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙’𝐴𝑐𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑎, AATC 54 (1989), 51-66.

K. Gᴀɪsᴇʀ, 𝐿𝑎 𝑏𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝐹𝑖𝑙𝑜𝑑𝑒𝑚𝑜. 𝑁𝑢𝑜𝑣𝑖 𝑑𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑎𝑙 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, CHerc 13 (1983), 53-62.

M. Gɪɢᴀɴᴛᴇ, 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑎 𝑒 𝑑𝑜𝑠𝑠𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝐷𝑖𝑜𝑔𝑒𝑛𝑒 𝐿𝑎𝑒𝑟𝑧𝑖𝑜, Elenchos 7 (1986), 57-63.

J. Gʟᴜᴄᴋᴇʀ, 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑜𝑐ℎ𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐿𝑎𝑡𝑒 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑦, Göttingen 1978.

H. Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ, 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐 𝑅𝑒𝑎𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑡𝑜 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑜𝑙𝑜𝑔𝑦, in S.A. Wʜɪᴛᴇ, W.W. Fᴏʀᴛᴇɴʙᴀᴜɢʜ (eds), 𝐿𝑦𝑐𝑜 𝑜𝑓 𝑇𝑟𝑜𝑎𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑜𝑓 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑒𝑠. 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛, New Brunswick 2004, 375-388.

R. Gᴏᴜʟᴇᴛ, 𝑠.𝑣. 𝐴𝑥𝑖𝑜𝑡ℎ𝑒́𝑎 𝑑𝑒 𝑃ℎ𝑙𝑖𝑜𝑛𝑡𝑒, in Iᴅ. (éd.), 𝐷𝑖𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑛𝑎𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠, I, Paris 1989, 690-691.

R. Gᴏᴜʟᴇᴛ, T. Dᴏʀᴀɴᴅɪ, 𝑠.𝑣. 𝐿𝑎𝑠𝑡ℎ𝑒́𝑛𝑒𝑖𝑎 𝑑𝑒 𝑀𝑎𝑛𝑡𝑖𝑛𝑒́𝑒, in R. Gᴏᴜʟᴇᴛ (éd.), 𝐷𝑖𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑛𝑎𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠, IV, Paris 2005, 82-83.

U. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ, 𝐾𝑦𝑛𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒 𝐺𝑟𝑒𝑛𝑧𝑢̈𝑏𝑒𝑟𝑠𝑐ℎ𝑟𝑒𝑖𝑡𝑢𝑛𝑔𝑒𝑛. 𝐷𝑖𝑒 𝑔𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑛 𝐻𝑖𝑝𝑝𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖𝑎, E. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ (ed.), 𝐺𝑒𝑠𝑐ℎ𝑙𝑒𝑐ℎ𝑡𝑒𝑟𝑑𝑒𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑛 𝑢𝑛𝑑 𝐺𝑒𝑠𝑐ℎ𝑙𝑒𝑐ℎ𝑡𝑒𝑟𝑔𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒𝑛 𝑖𝑛 𝑑𝑒𝑟 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑘𝑒, Stuttgart 2007, 229-246.

D. Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ, 𝐿𝑎 𝑉𝑖𝑒 𝑑𝑒 𝑀𝑒́𝑛𝑒́𝑑𝑒̀𝑚𝑒 𝑑’𝐸́𝑟𝑒̀𝑡𝑟𝑖𝑒 𝑑𝑒 𝐷𝑖𝑜𝑔𝑒̀𝑛𝑒 𝐿𝑎𝑒̈𝑟𝑐𝑒, Basel 1991.

Iᴅ., 𝑀𝑒́𝑛𝑒́𝑑𝑒̀𝑚𝑒 𝑑𝑒 𝑃𝑦𝑟𝑟ℎ𝑎, 𝑝𝑟𝑜𝑥𝑒̀𝑛𝑒 𝑑𝑒 𝐷𝑒𝑙𝑝ℎ𝑒𝑠. 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑒́𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑞𝑢𝑒 𝑎̀ 𝑙’ℎ𝑖𝑠𝑡𝑜𝑖𝑟𝑒 𝑑’𝑢𝑛 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑒 𝑒𝑡 𝑑𝑒 𝑠𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑒́, in R.W.V. Cᴀᴛʟɪɴɢ (ed.), 𝑂𝑛𝑜𝑚𝑎𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑜𝑠: 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑁𝑎𝑚𝑒𝑠 𝑃𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒𝑑 𝑡𝑜 𝐸𝑙𝑎𝑖𝑛𝑒 𝑀𝑎𝑡𝑡ℎ𝑒𝑤𝑠, Oxford 2010, 65-81.

F. Lᴇᴏ, 𝐷𝑖𝑒 𝑔𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ-𝑟𝑜̈𝑚𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑒 𝑛𝑎𝑐ℎ 𝑖ℎ𝑟𝑒𝑟 𝑙𝑖𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐹𝑜𝑟𝑚, Leipzig 1901.

E. Mᴀᴛᴇʟʟɪ, 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑖𝑛 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑒𝑠, in S.A. Wʜɪᴛᴇ, W.W. Fᴏʀᴛᴇɴʙᴀᴜɢʜ (eds), 𝐿𝑦𝑐𝑜 𝑜𝑓 𝑇𝑟𝑜𝑎𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑖𝑒𝑟𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑜𝑓 𝑅ℎ𝑜𝑑𝑒𝑠. 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛, New Brunswick 2004, 289-314.

F. Mᴇʀʟᴀɴ, 𝑍𝑢𝑟 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠, Philologus 103 (1959), 198-214.

F. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ, 𝑠.𝑣. 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ𝑎𝑛𝑒𝑠, in H. Cᴀɴᴄɪᴋ, H. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (eds), 𝐵𝑟𝑖𝑙𝑙’𝑠 𝑁𝑒𝑢𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑙𝑦. 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑖𝑡𝑦, 1, Leiden-Boston 2002, 1132-1135.

F. Mᴜᴄᴄɪᴏʟɪ, 𝐷𝑖𝑜𝑛𝑖𝑠𝑖𝑜 𝐼𝐼. 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑎, Bologna 1999.

M.B. Oɢɪʟᴠɪᴇ, 𝑊𝑜𝑚𝑒𝑛 𝑖𝑛 𝑆𝑐𝑖𝑒𝑛𝑐𝑒. 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑖𝑡𝑦 𝑇ℎ𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑁𝑖𝑛𝑒𝑡𝑒𝑒𝑛𝑡ℎ 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑢𝑟𝑦. 𝐴 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐷𝑖𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑎𝑟𝑦 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝐴𝑛𝑛𝑜𝑡𝑎𝑡𝑒𝑑 𝐵𝑖𝑏𝑙𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦, Cambridge, Mass., 1986.

R. Pꜰᴇɪꜰꜰᴇʀ, 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦 𝑜𝑓 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙𝑎𝑟𝑠ℎ𝑖𝑝. 𝐹𝑟𝑜𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝐵𝑒𝑔𝑖𝑛𝑛𝑖𝑛𝑔𝑠 𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 𝐸𝑛𝑑 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐴𝑔𝑒, Oxford 1968.

C.H. Rᴏʙᴇʀᴛs, 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑦 𝐻𝑎𝑛𝑑𝑠. 350 𝐵.𝐶.-𝐴.𝐷. 400, Oxford-London 1955.

D.T. Rᴜɴɪᴀ, 𝑠.𝑣. 𝐷𝑖𝑜𝑐𝑙𝑒𝑠⁹, in H. Cᴀɴᴄɪᴋ, H. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (eds), 𝐵𝑟𝑖𝑙𝑙’𝑠 𝑁𝑒𝑢𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑙𝑦. 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑖𝑡𝑦, 4, Leiden-Boston 2004, 427-428.

Iᴅ., 𝑠.𝑣. 𝐻𝑖𝑝𝑝𝑜𝑏𝑜𝑡𝑢𝑠, in H. Cᴀɴᴄɪᴋ, H. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (eds), 𝐵𝑟𝑖𝑙𝑙’𝑠 𝑁𝑒𝑢𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑙𝑦. 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑖𝑡𝑦, 6, Leiden-Boston 2005, 348.

Iᴅ., 𝑠.𝑣. 𝑆𝑜𝑡𝑖𝑜𝑛², in H. Cᴀɴᴄɪᴋ, H. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (eds), 𝐵𝑟𝑖𝑙𝑙’𝑠 𝑁𝑒𝑢𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑙𝑦. 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑖𝑡𝑦, 13, Leiden-Boston 2008, 670.

G. Sᴄʜᴇᴘᴇɴs, S. Sᴄʜᴏʀɴ, 𝑉𝑒𝑟𝑘𝑢̈𝑟𝑧𝑢𝑛𝑔𝑒𝑛 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑑 𝑣𝑜𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑒 𝑖𝑛 𝑘𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟 𝑢𝑛𝑑 ℎ𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟 𝑍𝑒𝑖𝑡, in M. Hᴏʀsᴛᴇʀ, C. Rᴇɪᴛᴢ (eds), 𝐶𝑜𝑛𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑛𝑔 𝑇𝑒𝑥𝑡𝑠 – 𝐶𝑜𝑛𝑑𝑒𝑛𝑠𝑒𝑑 𝑇𝑒𝑥𝑡𝑠, Stuttgart 2010, 395-434.

J.P. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ, 𝑠.𝑣. 𝐻𝑒́𝑟𝑎𝑐𝑙𝑖𝑑𝑒 𝐿𝑒𝑚𝑏𝑜𝑠, in R. Gᴏᴜʟᴇᴛ (éd.), 𝐷𝑖𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑛𝑎𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠, III, Paris 2000, 568-571.

S. Sᴄʜᴏʀɴ, 𝑊𝑒𝑟 𝑤𝑢𝑟𝑑𝑒 𝑖𝑛 𝑑𝑒𝑟 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑘𝑒 𝑎𝑙𝑠 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑘𝑒𝑟 𝑏𝑒𝑧𝑒𝑖𝑐ℎ𝑛𝑒𝑡?, WJA 27 (2003), 39-69.

J.E. Sᴋɪɴɴᴇʀ, 𝑇ℎ𝑒 𝐼𝑛𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝐸𝑡ℎ𝑛𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. 𝐹𝑟𝑜𝑚 𝐻𝑜𝑚𝑒𝑟 𝑡𝑜 𝐻𝑒𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑢𝑠. 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘𝑠 𝑂𝑣𝑒𝑟𝑠𝑒𝑎𝑠, Oxford 2012.

A. Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs, 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎. 𝑇ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑒𝑐𝑑𝑜𝑡𝑒𝑠 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑟𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑡ℎ𝑒 𝐿𝑖𝑓𝑒 𝑎𝑛𝑑 𝑊𝑟𝑖𝑡𝑖𝑛𝑔𝑠 𝑜𝑓 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜, Leiden 1976.

G. Vᴇʀʜᴀssᴇʟᴛ, 𝐴 𝑁𝑒𝑤 𝑅𝑒𝑎𝑑𝑖𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑜𝑑𝑒𝑚𝑢𝑠’ 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 (𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, 𝐶𝑜𝑙. 2) 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑂𝑏𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑜𝑛 𝐷𝑖𝑐𝑎𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ𝑢𝑠 𝑖𝑛 𝐶𝑜𝑙. 𝑌 (𝐹 46𝑏 𝑀𝑖𝑟ℎ𝑎𝑑𝑦), CErc 43 (2013), 17-26.

S. Vᴏɢᴛ, 𝐶ℎ𝑎𝑟𝑎𝑐𝑡𝑒𝑟𝑠 𝑖𝑛 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜, in W.W. Fᴏʀᴛᴇɴʙᴀᴜɢʜ, S.A. Wʜɪᴛᴇ (eds), 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑜𝑓 𝐶𝑒𝑜𝑠. 𝑇𝑒𝑥𝑡, 𝑇𝑟𝑎𝑛𝑠𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛, New Brunswick-London 2006, 261-278.

K. ᴠᴏɴ Fʀɪᴛᴢ, 𝑠.𝑣. 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠, 𝑅𝐸 15, 1 (1931), 788-789.

S. Wᴇsᴛ, 𝑆𝑎𝑡𝑦𝑟𝑢𝑠: 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐 𝑜𝑟 𝐴𝑙𝑒𝑥𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑎𝑛?, GRBS 15 (1974), 279-287.


Note:

[1] Le testimonianze sul loro conto sono state raccolte e discusse da Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989). Per una panoramica sulle due donne, si vd. anche Gᴏᴜʟᴇᴛ (1989) e Gᴏᴜʟᴇᴛ, Dᴏʀᴀɴᴅɪ (2005).

[2] Dɪᴏɢ. III 46, Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 19; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4, 25-26. Nella versione araba della vita di Platone, inclusa nella 𝑇𝑎ʾ𝑟𝑖̄𝑘ℎ 𝑎𝑙-ℎ̣𝑢𝑘𝑎𝑚𝑎̄ʾ [𝐿𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖] di Ibn al-Qifti (1172-1248), si racconta che Assiotea e Lastenea fossero le mogli del filosofo e non sue allieve (24, 2-8 Lippert); cfr. la traduzione latina in Roeper (1866, 12-13) con commento 𝑎𝑑 𝑙𝑜𝑐.

[3] Dɪᴏɢ. IV 2. La testimonianza isolata di Giamblico (𝑉𝑃 267) include una Λαϲθένεια Ἀρκάδιϲϲα tra le più illustri intellettuali pitagoriche (Πυθαγορίδεϲ γυναῖκεϲ αἱ ἐπιφανέϲται). Considerando la ben attestata presenza femminile tra i Pitagorici, Wᴇʜʀʟɪ (1967, 55) ipotizza che Assiotea e Lastenea fossero in realtà membri della scuola pitagorica e fossero state erroneamente collegate all’Accademia di Platone da una tradizione successiva; Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 184 n. 13) sostiene il contrario. Tuttavia, mentre appare improbabile che ci fossero due Lastenea omonime nelle due scuole (con buona pace di Oɢɪʟᴠɪᴇ [1986, 119]), non c’è motivo di escludere che Lastenea di Mantinea possa aver frequentato entrambe le scuole. Su questa linea, e nonostante la mancanza di prove su una connessione tra Assiotea e i Pitagorici, Gᴀɪsᴇʀ (1988, 363) ipotizza che la filosofa sia stata prima pitagorica a Fliunte, sede del pitagorismo, e poi sia divenuta un’accademica ad Atene.

[4] Dɪᴏɢ. IV 1 dice infatti che il filosofo era un uomo «collerico e incapace di dominare i piaceri» (ὀργίλος καὶ ἡδονῶν ἥττων); mentre in IV 4, riprendendo Timoteo di Atene (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1079 F 2), il dossografo descrive le conseguenze fisiche della dissolutezza di Speusippo (τὸ σῶμα διακεχυμένος, «fisicamente infiacchito») e riporta un aneddoto secondo cui il filosofo, incontrando un uomo ricco innamorato di una donna sgraziata, si sarebbe offerto di trovargliene una più bella per dieci talenti. La notizia è in qualche modo estremizzata da Tᴇʀᴛᴜʟ. 𝘈𝘱𝘰𝘭. 46, 10, che racconta che Speusippo morì «commettendo adulterio» (𝑎𝑢𝑑𝑖𝑜 𝑒𝑡 𝑞𝑢𝑒𝑛𝑑𝑎𝑚 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑠𝑠𝑒).

[5] Su queste lettere, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 223), che ritiene spurie sia l’epistola (o le epistole) citate da Ateneo e Diogene Laerzio, sia 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36, in linea con il generale accordo degli studiosi per cui le 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡𝑢𝑙𝑎𝑒 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎𝑒 sarebbero un falso di età imperiale fondato, comunque, sulla storicità dell’ostilità tra i due corrispondenti (eccetto 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 30, che Speusippo avrebbe inviato a Filippo II, su cui si vd. da ultimo Nᴀᴛᴏʟɪ [2004]). Si noti che il Laerzio ha incluso le «Lettere a Dione, Dionisio e Filippo» nel catalogo della produzione speusippea (IV 4). Sulla tradizione riguardante il rapporto tra Dionisio II e Speusippo, si vd. anche Mᴜᴄᴄɪᴏʟɪ (1999, 275), che ritiene che la loro corrispondenza riflettesse una realtà storica, mentre Mᴇʀʟᴀɴ (1959, 207-209) con sicurezza la considera un autentico scambio epistolare.

[6] Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. F 44 Wehrli = 50 Mirhady = 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 F 62 (L’informazione che quest’ultimo tramanda è comunemente riferita al suo Περὶ βίων [𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑒]), citato in Dɪᴏɢ. III 46.

[7] 𝑂𝑟. 23, 295c-d. Temistio chiama Assiotea «l’Arcade», confondendola probabilmente con Lastenea, ma si tratterebbe di uno scambio intenzionale: in questo modo il racconto della sua conversione alla filosofia, ambientato in una regione tradizionalmente considerata primitiva e remota, appare certamente più avvincente (cfr. Sᴋɪɴɴᴇʀ 2012, 108-109). Ora, benché questo aneddoto si adatti alla forza protrettica dei dialoghi platonici, menzionati anche in Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 = F 63b = Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 1, 11‑45, è molto probabilmente fittizio. Del resto, la conversione alla filosofia è un 𝑡𝑜́𝑝𝑜𝑠 biografico e, difatti, sempre Temistio tramanda una storia simile, tratta da Aristotele (F 64 Rose³ = F 658 Gigon), circa un agricoltore corinzio, il quale, dopo aver letto il 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑎, avrebbe abbandonato i suoi campi per dedicarsi totalmente alla filosofia.

[8] Oʟʏᴍᴘ. 𝐼𝑛 𝐴𝑙𝑐. 2, 147-150 Westerink; Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 6, 25-27 Dorandi. È possibile, ma tutt’altro che certo, che un altro passo dell’𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 di Filodemo di Gadara menzioni la sola Assiotea (col. Y 37 – 2, 1), riferendo che ella fosse solita indossare abiti maschili: cfr. Gᴇɪsᴇʀ (1983, 60 e 1988, 154) e Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 54-55), ma si noti che il passo è pesantemente interpolato sulla base di diverse 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 incerte, come ha recentemente dimostrato Vᴇʀʜᴀssᴇʟᴛ (2013).

[9] Così Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 183-184).

[10] Cfr. Dɪᴏɢ. VI 93, che cita un frammento delle Δίδυμαι [𝐺𝑒𝑚𝑒𝑙𝑙𝑒] di Menandro (F 114 K.-A.), e VI 97; cfr. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ (2007, 239 con n. 39). Questa pratica è in linea con le istruzioni di Zenone di Cizio circa l’abbigliamento comune fra uomini e donne: si vd. Dɪᴏɢ. VII 33 (= 𝑆𝑉𝐹 I F 257) e Pʜʟᴅ. 𝑆𝑡𝑜𝑖𝑐. col. 19, 12-14 Dorandi.

[11] Cfr. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 177-180) e i frammenti di etica dello stesso Speusippo (F 73-89 Isnardi-Parente).

[12] Wᴇʜʀʟɪ (1978, 15). Sul rapporto tra Speusippo e la bellezza femminile, cfr. ancora l’aneddoto riportato da Dɪᴏɢ. IV 4. A questo proposito, una tradizione ostile al filosofo potrebbe anche aver fatto leva sulla dedica da parte sua di alcune statue alle Cariti nel sacrario alle Muse, fatto erigere da Platone nell’Accademia: 𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 1, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 5).

[13] Si vd. Rᴜɴɪᴀ 2004.

[14] Sulla sua cronologia, si vd. Rᴜɴɪᴀ (2008).

[15] Si vd. Dɪᴏɢ. V 79; VIII 7; IX 1 (Hᴇʀᴀᴄʟ.³ 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 8-10). Sulla cronologia del Lembo, si vd. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (2000).

[16] Si vd. in part. Sᴄʜᴇᴘᴇɴs, Sᴄʜᴏʀɴ (2010, 422-428), ma già Gᴀʟʟᴏ (1975, 28-31).

[17] Dɪʟᴛs (1971, 9); Bʟᴏᴄʜ (1940, 36-37). Si vd. anche 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 T 5 con il commento di Bollansée.

[18] Vᴏɴ Fʀɪᴛᴢ (1931).

[19] Come paralleli paleografici, si possono citare 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. I 26 (= 𝑃. 𝐿𝑖𝑡. 𝐿𝑜𝑛𝑑. 129) e 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XXXIV 2703, entrambi effettivamente datati alla seconda metà del II secolo: cfr. Rᴏʙᴇʀᴛs (1955, 19) e Dᴇʟ Cᴏʀsᴏ (2006, 95).

[20] 𝐸𝑑. Pᴀʀsᴏɴs (1984); 𝑝𝑎𝑝𝑦𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑝𝑠𝑎 𝑖𝑛𝑠𝑝𝑒𝑥𝑖.

[21] 9 ϊερω- 𝑝𝑎𝑝.

[22] 10 ϲυνοχῆϲ : ἐποχῆϲ Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ

[23] 12 Ἀριϲτοφάνηϲ : Ἀριϲτόξενοϲ 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑡𝑎𝑣𝑖𝑡 Gɪɢᴀɴᴛᴇ, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 Ἀρίϲτων

[24] 15 μιρα- 𝑝𝑎𝑝.

[25] 19 αὐτήν Pᴀʀsᴏɴs, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 αὑτήν.

[26] 20 ] ̣τ 𝑣𝑒𝑙 γ Pᴀʀsᴏɴs

[27] Rᴜɴɪᴀ (2005).

[28] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1983).

[29] Gʟᴜᴄᴋᴇʀ (1978, 176-179).

[30] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (1991, 16-18; 203 n. 92).

[31] Diogene Laerzio riferisce che Menedemo di Eretria visitò l’Accademia di Atene e incontrò Platone (II 125: ἀνῆλθεν εἰϲ Ἀκαδημείαν πρὸϲ Πλάτωνα, καὶ θηραθεὶϲ κατέλιπε τὴν ϲτρατείαν). Piuttosto che indicare che la ricostruzione accettata della cronologia di Menedemo è sbagliata, questo passo deriva probabilmente da una confusione tra questo Menedemo e Menedemo di Pirra, che fu uno studente dell’Accademia fino alla morte di Speusippo, o da una fonte in cui è menzionata soltanto l’Accademia, e non Platone.

[32] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (2010, 78-80).

[33] Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. col. 6,41-7,10 Dorandi; Eᴘɪᴄʀ. F 10 K.-A.

[34] Si vd. Mᴀᴛᴇʟʟɪ (2004).

[35] Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376-377).

[36] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 60-61).

[37] Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 58).

[38] Pᴀʀsᴏɴs (1984, 50).

[39] Wʜɪᴛᴇ (2004, 213). Sui rapporti tra Ieronimo e Arcesilao, si vd. Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376).

[40] Wʜɪᴛᴇ (2004, 211).

[41] Fin dai saggi di Lᴇᴏ (1901, 118), molti studiosi contemporanei hanno ipotizzato che un legame con la scuola alessandrina e la compilazione di biografie, un genere solitamente associato al Peripato, costituissero un elemento sufficiente perché uno studioso antico fosse designato “peripatetico”. Si vd. 𝑒.𝑔. i casi di Ermippo e Satiro (Pꜰᴇɪꜰꜰᴇʀ [1968, 129-130], e 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Wᴇsᴛ [1974, 280-281]), Agatarchide di Cnido e il grammatico Tolomeo, citato da Sᴇxᴛ. 𝑆. 1, 60 (Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ [1989, 249]). Sᴄʜᴏʀɴ (2003), invece, ha mostrato che l’uso dell’epiteto περιπατητικὸϲ è di solito meglio giustificato e designa un’effettiva formazione filosofica aristotelica. Nel caso in questione, comunque, il titolo dello scritto attribuito ad Aristofane non lascia intendere un’opera di tipo biografico e, perciò, l’argomento della connessione al Peripato tramite questo genere letterario si rivelerebbe piuttosto debole. In ogni caso, data la frammentarietà delle informazioni pervenute sulla vita e sulle opere di Aristofane, non è possibile escludere completamente un qualche legame più concreto con la scuola peripatetica.

[42] Va ricordato che ad Aristofane di Bisanzio è inoltre attribuito un 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, un catalogo di 135 ἑταῖραι con il quale Ateneo di Naucrati sembra avere avuto una certa dimestichezza (si vd. in part. Aᴛʜᴇɴ. XIII 567a e 583d-e; cfr. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 347 T 2). In effetti, un’opera del genere sembrerebbe pertinente alla bellezza fisica dell’allieva accademica, soprattutto considerando che Lastenea compare nei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 come ἑταίρα di Speusippo. Ciononostante, una relazione tra il catalogo delle cortigiane e il titolo περὶ ἀλυπίαϲ sembra poco convincente e meramente congetturale.

[43] Sulla vita di Aristofane di Bisanzio, si vd. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (2002).

[44] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 62).

[45] Pʜɪʟᴏᴅ. 𝐴𝑑𝑢𝑙. col. 10, 10-16, 38 Jensen. La lettera è attribuita a un certo Aristone, ma senza ulteriori specificazioni, e gli studiosi moderni l’hanno variamente attribuita o ad Aristone di Ceo o quello di Chio; si vd. però Vᴏɢᴛ (2006) per un’attribuzione convincente al primo e per ulteriore bibliografia sulla questione. Sugli argomenti piuttosto deboli addotti a favore dello Stoico nell’ultima edizione di Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ (2007), cfr. Iɴᴅᴇʟʟɪ (2010). In ogni caso, non meraviglierebbe se un’opera di Aristone di Chio fosse stata erroneamente attribuita al filosofo di Ceo in antico: la confusione tra i due omonimi, e quasi contemporanei, iniziò già nel II secolo a.C. (cfr. Dɪᴏɢ. VII 163).

[46] Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (1989, 249-250). Sulla teoria di Ieronimo, si vd. in part. F 20A e 20B White.

L’arte di saper ascoltare

di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].

Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Frederic Leighton, Fatidica. Olio su tela, 1893. Liverpool, National Museum, Lady Lever Art Gallery.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Lottatori degli Uffizi. Marmo, copia romana da originale greco di III sec. a.C. Firenze, Museo degli Uffizi.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.

Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), f. 25r. Canto X, 31-33 Dante incontra Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».

Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).

Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.

Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».

Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.

Un oratore sulla Pnice. Illustrazione di Anna Tzortzi [link].
Plutarco biasima poi l’abitudine di rivolgere a chi parla, fosse anche il più grande oratore di tutti i tempi, complimenti quali “divino”, “ispirato”, “insuperabile”, come se non bastassero i “bene!”, i “bravo!” e i “giusto!” che si riservano ai grandi maestri: un vezzo che oggi è ancora più frequente quando i “personaggi” che appaiono in televisione sono tutti “magnifici”, “stupendi”, “sublimi”, “eccezionali”: attori, cantanti, calciatori e così via. Né bastano gli applausi: spesso, addirittura, tutti si alzano in piedi!

Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).

«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».

Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Louis J. Lebrun, Il discorso di Socrate. Olio su tela, 1867

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.

L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.

Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».

Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.

Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).

La fortuna di Plutarco

di B. SCARDIGLI, Introduzione alle Vite parallele di Plutarco (Agesilao-Pompeo), ed. E. LUPPINO MANES, Milano 1996, 5-14.

Plutarco nacque attorno al 45 d.C. nella cittadina di Cheronea in Beozia. Della famiglia parla con calore e rispetto, tanto del padre Autobulo, del nonno Lampria e dei fratelli Lampria e Timone, quanto della moglie Timossena e dei figli. Studiò ad Atene, seguendo soprattutto le lezioni di Ammonio, filosofo platonico[1]. A Cheronea rivestì cariche pubbliche e fondò una scuola. Dal 95 fu sacerdote del santuario di Delfi. Ricevette la cittadinanza romana (portò il nome gentilizio di Mestrio) e tra il 98 e il 117 gli ornamenta consularia, cioè le insegne proprie di un console. La condizione economica agiata gli permise di fare molti viaggi in Asia, in Egitto, nell’Italia settentrionale e a Roma[2], dove tenne conferenze e strinse amicizia con personaggi autorevoli, tanto che dedicò le Vite parallele, le Quaestiones conviviales e il De profectibus in virtute a Q. Sosio Senecione, consolare di alto rango[3].

Plutarco. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Delfi, Museo Archeologico.

È significativo che dopo la prima decade delle Vite Plutarco (Aem. I 1) dichiari di voler continuare, per suo personale piacere, l’opera concepita su sollecitazione di altri; è altrettanto significativo che proprio la prima copia della nuova decade (Emilio Paolo – Timoleonte) sia la più idealizzata di tutte[4].

Plutarco è uno degli scrittori più fertili dell’antichità e uno dei più letti in tutte le epoche. La maggior parte delle sue opere, composte a Cheronea, nacque da occasioni ben precise ed era anche destinata a mantenere le relazioni con gli amici vicini e lontani e con i vecchi scolari.

L’opera si divide in due corpora: da un lato i Moralia, dall’altro le biografie. I Moralia sono saggi che trattano questioni di etica, antiquaria, filosofia, religione, retorica, di critica letteraria e di politica: questi ultimi sono in genere i più vicini all’altro corpus, quello delle biografie, consistente in ventidue coppie greco-romane (di cui una perduta[5] e una eccezionalmente composta di quattro Vite: Agide e Cleomene – i due Gracchi); vi erano anche biografie singole, di cui alcune perdute, altre rimaste allo stadio di progetto[6], come l’Eracle, il Leonida (De Her. Malignitate 32, 866b), il Metello Numidico (Mar. 29), il Cratete e forse la Vita di Scipione Emiliano, se il partner dell’Epaminonda era l’Africano[7]; due superstiti (l’Arato e l’Artaserse). Plutarco scrisse inoltre le Vite degli Imperatori fino ai Flavi (sono conservate quelle di Galba e di Otone), redatte diverso tempo prima delle Vite parallele.

Anche se i due grandi ambiti tematici a prima vista sembrano distanziarsi l’uno dall’altro, essi hanno in realtà non pochi elementi in comune: gli stessi temi infatti si ripropongono spesso in opere da diversi punti di vista[8].

Plutarco. Stele, marmo, 126 d.C. con iscrizione onorifica (Syll.³ 843A, Δελφοὶ Χαιρωνεῦσιν ὑμοῦ Πλούταρχον ἔθηκαν τοῖς Ἀμφικτυόνων δόγματι πειθόμενοι). Delfi, Museo Archeologico.

Obiettivo delle Vite parallele era ricordare ai Romani, ormai dominatori dell’intero mondo mediterraneo (della Grecia da due secoli e mezzo), il glorioso passato del popolo greco e invitare i Greci a un atteggiamento conciliante nei confronti di Roma[9], così da prevenire malintesi e litigi[10]. A questo scopo le biografie comparate si prestavano assai meglio di un testo storico[11], poiché la lettura della Vita di un Grande coinvolge un pubblico più largo e offre un ampio materiale di confronto.

Il pubblico al quale Plutarco si rivolge è greco e romano[12], ma il destinatario privilegiato è certamente quello greco, al quale vengono illustrati istituzioni, costumi e termini romani[13]. Non conosciamo le reazioni dei contemporanei, non sappiamo se i Greci si sentissero, per esempio, onorati o piuttosto umiliati dal confronto con gli eroi del passato romano, se i Romani riconoscessero i Greci come popolazione alla pari in virtù della loro superiorità culturale, o se li guardassero dall’alto in basso, a causa della loro ormai scarsa rilevanza politica[14].

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.

In Plutarco, che era convinto del valore assoluto della cultura greca, il Greco è spesso colui che gode della migliore e più eletta educazione, che manifesta un gusto più raffinato di fronte all’arte, che s’intende di filosofia[15], e che vive in modo speciale la quotidianità, anche se nella vita pubblica è un noto statista o comandante militare.

Personaggi come Coriolano, Mario e Catone Censore, invece, sono uomini rudi, anche se ottimi generali. I Romani più colti e più abili a controllare i πάθη e lo θυμός hanno avuto un’educazione greca: in alcuni essa rimane alla superficie (come in Antonio, e per certi aspetti anche in Marcello), mentre in altri ancora penetra in profondità (in Emilio Paolo, Lucullo, Catone Uticense, Cicerone, Bruto e nei Gracchi[16]: e questi – pur con qualche elemento di riserva – costituiscono il gruppo di eroi romani preferito da Plutarco!).

Vittoria. Testa, marmo, copia romana del II secolo d.C. dell’originale di Peonio. Stoà di Attalo, Museo dell’Antica Agorà, Atene.

Gli studi moderni riguardanti il corpus delle Vite concentrano l’attenzione prevalentemente sui seguenti temi:

  1. il periodo in cui Plutarco vive e i suoi governanti; questioni di programma, di metodo e di redazione (l’ordine cronologico della composizione, i rinvii interni, l’eventuale redazione contemporanea di più biografie, l’utilizzo per la preparazione di riassunti di letture fatte, di aiuto per parte di terzi, ecc.);
  2. la scelta dei personaggi e delle fonti e il loro reciproco rapporto[17]. Spesso Plutarco rivela una mano felice in ambedue i settori (su alcuni personaggi soprattutto sapremmo molto poco, se non disponessimo delle biografie); nel caso di non pochi autori antichi dobbiamo solo a lui, se abbiamo un’idea della loro opera (o di parte di essa), spesso di qualità eccellente, come le Storie di Posidonio o di Asinio Pollione o come, in altro campo, le relazioni scritte di testimoni oculari, per esempio di ufficiali che parteciparono alle guerre partiche di Crasso e poi di Antonio;
  3. le tecniche usate da Plutarco, che hanno reso accessibile un modo di procedere assai frequente negli autori antichi (manipolazioni, semplificazioni, contaminazioni, spostamenti, connessioni di avvenimenti non collegati nella fonte o non collegabili, aggiunte, puntigliose spiegazioni dei fatti);
  4. il ruolo particolare dei paragrafi finali (synkriseis) e i criteri di accoppiamento. I contributi riguardano perciò l’esame dei fattori che differenziano due eroi e di ciò che li unisce, le coppie a cui manca la synkrisis, quelle in cui il partner romano precede quello greco, il livello letterario delle synkriseis, giudicato modesto e prevalentemente moralistico[18]; inoltre le discrepanze tra il materiale della synkrisis e quello delle Vite;
  5. la fortuna di Plutarco, sia nei Moralia, sia nelle biografie, nelle diverse epoche.

I contributi sui primi quattro punti sono di solito elaborati nelle varie introduzioni e nelle note alle singole biografie pubblicate in questa collana; qualche informazione in più diamo sull’ultimo.

Timoleonte si appresta a salpare per la Sicilia. Illustrazione da W.H. WESTON – W. RAINEY (eds.), Plutarch’s Lives for Boys and Girls, New York 1900, 102.

Pochi autori hanno conosciuto, nel corso della tradizione storica, periodi di fama incontrastata e quasi mitica come il Plutarco delle Vite parallele, l’unico forse, fra i classici, che in certe età abbia eguagliato la fortuna di Orazio o di Virgilio.

Plutarco fu conosciuto e ammirato dai contemporanei (vir doctissimus ac prudentissimus lo qualificava, a trent’anni dalla morte, Aulo Gellio nelle sue Notti Attiche I 26, 4) e il suo culto continuò in età bizantina, sia fra i pagani sia fra i cristiani, che nei suoi scritti trovavano consonanza di principi etici e umanitari.

Nel Medioevo di lui si predilesse la raccolta dei Moralia, un insieme di opuscoli di vera erudizione, in cui il gusto della curiosità enciclopedica si unisce all’interesse per problematiche filosofiche e morali, esteso alle sfere più intime e quotidiane della vita (l’educazione dei figli, i rapporti coniugali, la gestione del patrimonio).

Con l’Umanesimo e il Rinascimento, l’insorgere di un nuovo senso dell’individualità, volto a cercare nei classici il proprio modello, riportò l’attenzione sulle biografie, che i dotti greci, affluiti in Italia dopo la caduta di Costantinopoli, contribuirono a divulgare, e di cui furono fatte traduzioni in latino[19], epitomi[20], imitazioni[21]. I grandi personaggi di Plutarco cominciarono ad alimentare l’immaginario poetico, offrendo materiale d’ispirazione in campo letterario, teatrale e anche figurativo[22]. «Al ritratto degli altri – scrive H. Barrow – Plutarco aggiunse il proprio autoritratto, inconsciamente disegnato nelle Vite e nei Moralia: il ritratto dell’uomo buono, che viveva umilmente in accordo con i più alti modelli della classicità, sereno con se stesso, di aiuto per gli amici; l’ideale di un “veramente perfetto” gentiluomo, che la nuova Europa stava cercando. Forse nessun esplicito programma di scrittore raggiunse mai una più alta misura di successo»[23].

Fra i secoli XVI e XVIII la fama di Plutarco tocca il suo apogeo, come attesta il moltiplicarsi di edizioni e traduzioni. Escono in Francia l’edizione completa dello Stephanus (Paris 1572) e la famosissima traduzione di J. Amyot (Les Vies des Hommes Illustres, Paris 1559; Les Oeuvres Morales, Paris 1572)[24]; in Inghilterra la traduzione di Th. North (1579, con dedica alla regina Elisabetta) cui attinse Shakespeare, e più tardi quella intrapresa da quarantun studiosi sotto la guida di J. Dryden (1683-1686). Sono inoltre da ricordare l’edizione tedesca delle Vite curata da J.J. Reiske (1716-1774), che procedette a una nuova collazione dei manoscritti, e l’edizione olandese dei Moralia pubblicata da D. Wyttenbach (Oxford 1795-1830), al quale si deve anche il lessico plutarcheo (Leipzig 1830, rist. 1962) tuttora indispensabile. Personaggi prediletti delle Vite furono, di volta in volta, gli eroi della guerra, come Alessandro e Cesare, o gli eroi del dovere, come Coriolano, o quelli delle virtù repubblicane, come Catone Uticense e Bruto, idoleggiati nell’età della Rivoluzione francese. In Francia, dove la traduzione di Amyot divenne patrimonio diffuso, ne furono entusiasti estimatori Montaigne («è un filosofo che ci insegna la virtù», Essais, II, p. XXXII), Corneille, che dalle Vite trasse materia per i drammi Sertorio e Agesilao, Racine, che se ne ispirò per il Mitridate, Pascal, Molière[25]; in Inghilterra Shakespeare, cui la lettura di Plutarco offrì la traccia per le tragedie Coriolano, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra[26]; in Italia D’Azeglio, Leopardi, Alfieri, che allo spirito plutarcheo informò la sua stessa autobiografia[27]; in Germania Goethe, Schiller, Lichtenberg, Jean Paul[28] e molti altri[29]. Alla suggestione di Plutarco non si sottrassero neppure gli uomini di potere, principi assoluti come Enrico IV di Francia e Giacomo I d’Inghilterra, e «illuminati» come Federico II di Prussia; rivoluzionari e repubblicani come Franklin e Washington fino a Robespierre e a Napoleone[30]; del suo influsso risentirono anche gli antesignani del moderno pensiero educativo, Rousseau e Pestalozzi.

London, British Library. The Lives of the Noble Greeks and Romans. Traduzione inglese di T. North. London 1579 [link].
Nella seconda metà dell’Ottocento tuttavia la scena cambia: il lavoro erudito si restringe nell’ambito degli specialisti (anche se molti artisti, come Wagner e D’Annunzio, continueranno ad amare Plutarco). Vengono allora alla luce edizioni critiche di scritti singoli, sia dei Moralia sia delle Vite, talora provvisti di commento minuzioso. Si interviene drasticamente sul corpus dei Moralia, negando l’autenticità di alcuni opuscoli tramandati nel cosiddetto catalogo di Lamprias (III-IV sec. d.C.).

Dopo i moltissimi contributi dell’inizio del Novecento, spesso intesi a illustrare aspetti particolari delle Vite[31] o a studiare le fonti plutarchee o lo schema biografico; dopo le ricerche volte a individuare la provenienza di questo tipo di biografie (peripatetica, alessandrina, di ispirazione stoica), o a far distinzione tra categorie moralistiche e narrazione storica, corrispondente all’alternativa tra passi «eidologici» e passi «cronografici» (secondo la terminologia di Weizsäcker), oggi si sta dando, sembra con frutto, nuovo impulso all’interpretazione delle biografie per opera non tanto di studiosi tedeschi (il cui interesse attuale è senz’altro diminuito rispetto ai lavori delle generazioni di un Wilamowitz, di Weizsäcker e Ziegler), quanto soprattutto di anglo-americani (Stadter, Jones, Wardman, Russel, Pelling, Swain e altri), di un grande studioso francese (R. Flacelière) e della scuola, di italiani (Valgiglio, Piccirilli, Manfredini, Desideri, Guerrini e altri), ma anche di studiosi di altri Paesi.

 

***

Bibliografia:

 

ALTKAMP (1933) = Altkamp I., Die Gestaltung Caesars bei Plutarch und Shakespeare, diss. Bonn 1933.

AULOTTE (1968) = Aulotte R., Una rivalité d’humanistes : Erasme et Longueil, traducteurs de Plutarque, BHR 30 (1968), 549-573.

AULOTTE (1971) = Aulotte R., Plutarque en France au XVIe siècle : trois opuscules moraux traduits par A. du Saix, Pierre de Saint-Julien et Jacques Amyot, Paris 1971.

BABUT (1975) = Babut D., Ἱστορία οἷον ὕλη φιλοσοφίας : Histoire et réflexion morale dans l’œuvre de Plutarque, REG 87 (1975), 206-219 [link].

BARROW (1967) = Barrow R.H., Plutarch and His Times, London 1967 [link].

BOULOGNE (1990) = Boulogne J., Le sens des ‘Questions Romaines’ de Plutarque, REG 102 (1990), 471-476 [link].

BUCKLER (1978) = Buckler J., Plutarch on Trials of Pelopidas and Epameinondas (369 B.C.), CPh 73 (1978), 36-42.

CRINITI (1979) = Criniti N., Per una storia del plutarchismo occidentale, NRS 63 (1979), 187-203 [link].

DESIDERI (1992) = Desideri P., La formazione delle coppie nelle “Vite” plutarchee, ANRW 2.33.6 (1992), 4470-4486.

DONINI (1986) = Donini P.L., Plutarco, Ammonio e l’Accademia, in Brenk F.E., Gallo I. (eds.), Miscellanea Plutarchea, Ferrara 1986, 97-110.

FROST (1980) = Frost F.J., Plutarch’s Themistocles. A Historical Commentary, Princeton 1980.

GABBA (1961) = Gabba E. (ed.), Racconti di storia greca, racconti di storia romana, scelti dalle Vite parallele di Plutarco, volgarizzate da Marcello Adriano il Giovane, Firenze 1961 [link].

GARZETTI (1954) = Garzetti A. (ed.), Plutarchi Vita Caesaris, Firenze 1954.

GEIGER (1974) = Geiger J., Plutarch and Rome, SCI 1 (1974), 137-143.

GEIGER (1981) = Geiger J., Plutarch’s Parallel Lives: the Choice of Heroes, Hermes 109 (1981), 85-104 [link].

GEIGER (1988) = Geiger J., Nepos and Plutarch. From Latin to Greek Political Biography, ICS 13 (1988), 245-256.

GERHARD (1977) = Gerhard E., Der Wortschatz der französischen Übersetzungen von Plutarchs ‘Vies parallèles’ (1595-1694): Lexikologische Untersuchungen zur Herausbildung des français littéraire vom 16. zum 17. Jahrhundert, Tübingen 1977 [link].

GIUSTINIANI (1961) = Giustiniani V.R., Sulle traduzioni latine delle ‘Vite’ di Plutarco nel. Quattrocento, Rinascimento 2 (1961), 3-62.

GIUSTINIANI (1979) = Giustiniani V.R., Plutarch und die humanistische Ethik, in Ruegg W., Wuttke D. (eds.), Ethik im Humanismus, Boppard 1979, 45-62.

GOESSLER (1962) = Goessler L., Plutarchs Gedanken über die Ehe, Diss. Zürich 1962 [link].

GOMME (1945) = Gomme A.W., A Historical Commentary on Thucydides, vol. I, Oxford 1945.

GOSSAGE (1967) = Gossage A.J., Plutarch, in Dorey T.A. (ed.), Latin Biography, London 1967, 45-77.

GREEN (1979) = Green C.D., Plutarch Revised: A Study of Shakespeare’s Last Roman Tragedies and their Sources, Salzburg 1979.

GUERRINI (1985a) = Guerrini R., Plutarco e l’iconografia umanistica a Roma nel Cinquecento, in Fagiolo M. (ed.), Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, atti del convegno tenuto all’Accademia dei Lincei (Roma, 19-30 ottobre 1982), Roma 1985, 87-108.

GUERRINI (1985b) = Guerrini R., Dal testo all’immagine. La «pittura di storia» nel Rinascimento, in Settis S. (ed.), Memoria dell’antico nell’arte italiana, II, I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, 43-93.

GUERRINI (1985c) = Guerrini R., Plutarco e la cultura figurativa nell’età di Paolo III: Castel Sant’Angelo, Sala Paolina, Racar 12 (1985), 179-187.

HALE SHACKFORD (1974) = Hale Shackford M., Plutarch in Renaissance England with special reference to Shakespeare, Folcroft 1974.

HARRISON (1987) = Harrison G.W.M., Rhetoric, Writing, and Plutarch, AS 18 (1987), 271-279 [link].

HERBERT (1957) = Herbert K., The Identity of Plutarch’s Lost Scipio, AJPh 78 (1957), 83-88.

HIRZEL (1912) = Hirzel R., Plutarch, Leipzig 1912.

HOWARD (1970) = Howard M.W., The Influence of Plutarch in the Major European Literature of the Eighteenth Century, diss. Maryland 1967 [= Chapel Hill 1970].

JONES (1971) = Jones C.P., Plutarch and Rome, Oxford 1971 [link].

LAMOTTE (1980) = Lamotte M., Montaigne et Rousseau, lecteurs de Plutarque, diss. Univ., New York 1980.

LATMOUR (1988) = Latmour D.H.J., Plutarch’s Compositional Methods in the Theseus and Romulus, TAPhA 118 (1988), 361-375.

LATMOUR (1992) = Latmour D.H.J., Making Parallels: Synkrisis and Plutarch’s ‘Themistocles and Camillus, ANRW 2.33.6 (1992), 4154-4200.

MEYER (1975) = Meyer R. (ed.), The Classic Pages: Classical Reading of Eighteenth-Century Americans, Pennsylvania 1975 [link].

MOMIGLIANO (1949) = Momigliano A., s.v. Plutarco di Cheronea, EncIt 27 (1935 [1949]), 556-560 [link].

PELLING (1986) = Pelling C.B.R., Synkrisis in Plutarch’s Lives, in Brenk F.E., Gallo I. (eds.), Miscellanea Plutarchea, Ferrara 1986, 83-96.

PELLING (1988a) = Pelling C.B.R., Plutarch. Life of Antony, Oxford 1988 [link].

PELLING (1988b) = Pelling C.B.R., Aspects of Plutarch’s Characterization, ICS 13 (1988), 257-274 [link].

PELLING (1989) = Pelling C.B.R., Plutarch. Roman Heroes and Greek Culture, in Griffin M.T., Barnes J. (eds.), Philosophia Togata, Oxford 1989, 199-232.

PHILIPPS (1957) = Philipps E.D., Three Greek Writers on the Roman Empire, C&M 18 (1957), 102-119.

RESTA (1926) = Resta G., Le epitomi di Plutarco nel Quattrocento, Padova 1926 [link].

RUSSELL (1966) = Russell D.A., On Reading Plutarch’s Lives, G&R 13 (1966),

RUSSELL (1968) = Russell D.A., On reading Plutarch’s Moralia, G&R 15 (1968), 130-146 [link].

RUSSELL (1972) = Russell D.A., Plutarch, London 1972.

SIMMS (1974) = Simms L., Plutarch’s Knowledge of Rome, Diss. Chapel Hill 1974.

STADTER (1965) = Stadter Ph., Plutarch’s Historical Methods, Harvard 1965 [link].

STADTER (1987) = Stadter Ph., The Rhetoric of Plutarch’s Pericles, AS 18 (1987), 251-269.

STADTER (1989) = Stadter Ph., A Commentary on Plutarch’s Pericles, Chapel Hill-London 1989 [link].

SWAIN (1990a) = Swain S.C.R., Hellenic Culture and the Roman Heroes of Plutarch, JHS 110 (1990), 126-145 [link].

SWAIN (1990b) = Swain S., Plutarch’s Lives of Cicero, Cato and Brutus, Hermes 118 (1990), 192-203 [link].

TUPLIN (1984) = Tuplin C.J., Pausanias and Plutarch’s Epaminondas, CQ 34 (1984), 346-358 [link].

VALGIGLIO (1987) = Valgiglio E., Plutarco, Dizionario degli Autori Greci e Latini, vol. III, Milano 1987.

VAN DER VALK (1982) = van der Valk M., Notes on the Composition and Arrangement of the Biographies of Plutarch, in Naldini M. (ed.), Studi in onore di Aristide Colonna, Perugia 1982, 301-337.

WARDMAN  (1974) = Wardman A.E., Plutarch’s Lives, London 1974 [link].

WEBER (1959) = Weber H., Die Staats und Rechtslehre Plutarchs von Chaironeia, Bonn 1959.

WEISS (1953) = Weiss R., Lo studio di Plutarco nel Trecento, PP 32 (1953), 321-342.

WILAMOWITZ (1967) = von Wilamowitz U., Plutarch als Biograph, in Reden und Vorträge, II, Berlin 19675.

ZIEGLER = Ziegler K., s.v. Plutarchos von Chaironeia, RE XXI (1951), 895-896.

***

Note:

[1] Cfr. Russell (1968), 132 ss.; Donini (1986), 97 ss.

[2] Si vd. per es., Barrow (1967), cap. V: “Plutarch Abroad”; Jones (1971), cap. 6 ss. con Geiger (1974), 141.

[3] Wardman (1974), 37 s. Su Romani importanti con i quali Plutarco fece conoscenza si vd., per es., Philipps (1957), 102 ss.; Jones (1971), 48 ss.; Simms (1974), cap. I; Geiger (1988), 245 ss.; e Swain (1990), 128 ss.

[4] Cfr. Ingenkamp H.G., Plutarch’s Two Aims in His Lives of Aemilius Paulus and Timoleon, Convegno Oxford cit.

[5] Epaminondas-Scipio (Africanus maior?): cfr. Herbert (1957), 83 ss. Forse conteneva un’introduzione generale al corpus, cfr. Gossage (1967), 48; e Geiger (1981), 87. Scettico Desideri (1992), 4472 s. Sull’Epaminonda adesso, si vd. Tuplin (1984), 346 ss.

[6] Si vd., per es., Wilamowitz (1967), 258 n. 1.

[7] Secondo Wilamowitz (1967), 260, era l’Emiliano; e così per Herbert (1957), 83 ss. Secondo Ziegler (1951), 895-896 si trattava, invece, di Scipione Africano.

[8] Wardman (1974), 37. Si vd. per es. il Pelopida e diversi passi analoghi in scritti etici; cfr. Buckler (1978), 36 ss.; corrispondenze tra passi delle Vite di Romolo, Publicola e Alessandro col De mul. virt., l’Amatorius e altri in Stadter (1965), 30 ss.; 80 ss.; 103 ss.; 112 ss.; su passi nelle Vite di Licurgo, Numa, Solone, Dione e Bruto e nei Moralia: Goessler (1962) passim; l’importanza della retorica sia per le Vite sia per i Moralia in Russell (1972), 21 ss.; Harrison (1987), 271 ss.; Stadter (1987), 251 ss. e Stadter (1989), XXXVIII ss. In generale, si vd. Valgiglio (1987), 1738, 1740 ss.

[9] Cfr. il programma simile di Dionigi di Alicarnasso (vd. però n. 11). Su Plutarco, per es., Wilamowitz (1967), 259 s.; Weber (1959), 78; Gomme (1945), 55; Jones (1971), 103 s.; Barrow (1967), 56 ss.; Simms (1974), 238 ss; Boulogne (1990), 473 ss.

[10] Diversa la situazione per gli storici di formazione greca nell’Impero romano dopo Plutarco (Appiano, Arriano, Dione Cassio), poiché essi partecipavano attivamente alla vita politica di Roma (cfr. Pelling [1988a], 9).

[11] Un compito simile, in qualità di storico, si assumeva Dionigi «per mostrare ai Greci che i Romani non erano barbari, bensì ben disposti verso la cultura greca e, di fatto, di origine greca essi stessi». Il programma di Dionigi – a differenza di quello di Plutarco – era ben precisato fin dall’inizio e perseguiva precisi intenti propagandistici: cfr. Babut (1975), 208 ss.

[12] Wilamowitz (1967), 258 ss.

[13] Pelling (1988a), 8; Wardman (1974), 37 ss.; naturalmente contava anche su un pubblico romano: cfr. Wilamowitz (1967), 258.

[14] Cfr. Russell (1972), 31.

[15] Cfr. Pelling (1989), 200 ss. e (1988b), 266 ss.; Desideri (1992), 4486, che opportunamente parla di una «sorta di divisione funzionale delle rispettive competenze nell’ambito di una complementarietà globale: alla Grecia l’elaborazione e la diffusione dei valori culturali, a Roma la realizzazione dei grandi progetti politici».

[16] Cfr. Swain (1990b), 192 ss. e (1990a), 131 ss. Su Cicerone, si vd. però Pelling (1989), 218 ss.

[17] Cfr. Wardman (1974), 234 ss.; Geiger (1981), 104; Pelling (1986), 83 ss.

[18] Cfr. anche van der Valk (1982), 301 ss. e Latmour (1988), 374 ss. e (1992), 4157 ss.

[19] Cfr. Weiss (1953), 339 ss.; Giustiniani (1961), 3 ss. e (1979), 45 ss.; Criniti (1979), 190 ss.; Aulotte (1968), 549 ss. Un breve sommario di traduzioni latine in Garzetti (1954), LXI ss. Cfr. anche Gabba (1961).

[20] Cfr. Resta (1926).

[21] Per es., Donato Acciaiuoli scrisse una Vita di Annibale e una di Scipione Africano, precedute da una prefazione in cui ringrazia Pietro dei Medici dei benefici ricevuti da lui e suo padre Cosimo e spiega di aver inserito fra le biografie plutarchee quelle di Annibale e Scipione, quae ex varis auctoribus tum graecis, tum latinis collegeram… La coppia è conservata in tutte le ristampe e nelle prime traduzioni, dove però, soppressa la prefazione, spesso viene attribuita allo stesso Plutarco.

[22] Per es., Guerrini (1985a), 87 ss. (1985b), 83 ss. e (1985c), 179 ss.

[23] Barrow (1967), 176.

[24] Cfr. Aulotte (1971). Cfr. anche Gerhard (1977).

[25] Cfr., per es., Lamotte (1980).

[26] Per es., Altkamp (1933); Hale Shackford (1974); Green (1979).

[27] Hirzel (1912), 179; Momigliano (1949), 560.

[28] Hirzel (1912), 170 ss.

[29] Si vd. anche Howard (1970) e Meyer (1975).

[30] Cfr. Frost (1980), 41: «Le sue censure contro la disumanità e l’abuso del privilegio hanno infiammato spiriti liberali a un grado sensibilmente inferiore al punto di combustione, mentre la sua evidente predilezione per un potere illuminato gli ha procurato una favorevole collocazione nelle biblioteche dei più illuminati despoti».

[31] Russell (1966), 139: «La fama e l’influenza di cui Plutarco godette nei giorni della riscoperta dell’antichità non poteva sopravvivere alla rivoluzione negli orientamenti storici e accademici che segnarono il XIX secolo. Invece di essere considerato come uno specchio dell’antichità e della natura umana egli divenne “un’autorità secondaria”, da usarsi là dove le “fonti primarie” venivano a mancare, ed egli stesso finì per essere lapidato dagli studiosi della Quellenforschung (ricerca delle fonti) e abbandonato come un rudere. Conseguenza di ciò è l’abbandono delle Vite nei programmi dell’educazione. Dovrebbe inoltre essere evidente che, proprio in considerazione degli obiettivi storici per i quali l’opera viene prevalentemente studiata, è del tutto ingannevole e pericoloso considerare quello che è proprio uno dei più sofisticati prodotti dell’antica storiografia senza una costante attenzione ai piani e agli scopi del suo autore. Fortunatamente molto è stato scritto, soprattutto negli ultimi vent’anni, per ristabilire l’equilibrio».

Plutarco di Cheronea

di BIONDI I., Plutarco, in Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 665-667.

La maggior parte delle notizie riguardanti la vita di Plutarco, a eccezione di qualche scarna indicazione proveniente dal lessico Suda, deriva da riferimenti autobiografici presenti nelle sue stesse opere. Egli nacque verso il 45-50 a Cheronea, piccolo centro della Beozia, che, nel 338 a.C., era stato reso celebre dalla vittoria di Filippo il Macedone sui Greci; da una notizia contenuta in Moralia 391b, è noto infatti che Plutarco aveva circa vent’anni quando l’imperatore Nerone si recò in visita in Grecia nel 66/7. Discendente di una famiglia agiata e colta, il futuro storico trascorse la giovinezza viaggiando e frequentando le migliori scuole del tempo; durante un soggiorno ad Atene, dove rimase per alcuni anni, ascoltò presso l’Accademia le lezioni del platonico Ammonio (Moralia 385b). Riprendendo a viaggiare, si recò ad Alessandria, a Corinto e a Sardi; venne poi in Italia e a Roma, presso la corte imperiale, con incarichi politici che gli erano stati conferiti dai suoi concittadini. Durante questo soggiorno, Plutarco ottenne la civitas Romana, assumendo il nomen Mestrio, in onore dell’amico Mestrio Floro. Successivamente, ricevette da Traiano la dignità consolare; in seguito, Adriano gli conferì la carica di legatus Augusti in Grecia. A Roma, Plutarco conobbe il filosofo e retore Favorino di Arelate; il suo rammarico più grande (Vita di Demostene 2, 2) rimase quello di non aver potuto imparare bene il latino, a causa dei suoi numerosi impegni. Passata la quarantina, egli ritornò definitivamente a Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente dell’edilizia pubblica e telearco: una carica, quest’ultima, che gli imponeva mansioni di funzionario di polizia. In riconoscimento della sua integerrima onestà e del suo profondo spirito religioso, verso il 90 Plutarco fu ordinato sacerdote di Apollo Delfico, ministero che esercitò per circa un ventennio, insieme a un altro collega. La data di morte è incerta, ma è possibile collocarla fra il 119 e il 127.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

Plutarco ha lasciato un vasto corpus di opere, i cui titoli sono pervenuti in massima parte attraverso il cosiddetto Catalogo di Lamprias, erroneamente attribuito a un figlio dello scrittore e che contiene duecentoventisette titoli, ai quali bisogna aggiungerne altri trentatré, di opere note, ma omesse dal compilatore del catalogo. I testi vengono di soliti suddivisi in due grandi categorie: quella storica, la più nota, che comprende le celeberrime Vite parallele, e quella di carattere filosofico, antiquario e scientifico: un’ottantina di opuscoli in forma di dialogo o di dissertazione, raccolti in piccoli gruppi durante il Medioevo sotto il titolo di Moralia. Tale titolo, che appare piuttosto riduttivo, rispetto alla grande varietà di argomenti compresi nella raccolta, deriva forse dal fatto che gli opuscoli di carattere morale furono quelli più letti e apprezzati; secondo un’altra ipotesi, invece, la raccolta attuale sarebbe l’ampliamento di un primitivo nucleo di scritti di argomento etico, al quale se ne aggiunsero altri di vario genere, senza però modificare il titolo, ormai entrato nella tradizione.

Sotto il titolo di Vite parallele (Βίοι παράλληλοι) sono state raccolte cinquanta biografie di illustri personaggi del mondo greco e latino; l’unica eccezione è rappresentata dalla vita di un persiano, Artaserse, figlio di Dario e Parisatide e fratello di Ciro il Giovane, ricordato nell’Anabasi di Senofonte. Le biografie sono state tramandate dai manoscritti unite in ventitré coppie, secondo il seguente ordine: Teseo e Romolo; Solone e Publicola; Temistocle e Camillo; Aristide e Catone il Vecchio; Cimone e Lucullo; Pericle e Fabio Massimo; Nicia e Crasso; Alcibiade e Coriolano; Demostene e Cicerone; Focione e Catone il Giovane; Dione e Bruto; Emilio Paolo e Temistocle; Sertorio ed Eumene; Filopemene e T. Quinzio Flaminino; Pelopida e Marcello; Alessandro e Cesare; Demetrio Poliorcete e Marco Antonio; Pirro e Gaio Mario; Agide e Cleomene; Tiberio e Gaio Gracco; Licurgo e Numa Pompilio; Lisandro e Silla; Agesilao e Pompeo. A queste vanno aggiunte le biografie isolate di Arato, Artaserse, Galba e Otone. Il Catalogo di Lamprias riporta anche i titolo di altre vite andate perdute, come quelle di Epaminonda e Scipione, trattate parallelamente, e quelle isolate degli imperatori romani e dei poeti greci.

Leeds, University Library. Udalricus Gallus (ed.), Plutarci Vitae illustrium virorum, Roma 1470. La Praefatio della Vita Thesei in traduzione latina.

L’eterogeneo insieme dei Moralia, che comprende circa ottanta opere (delle quali alcune sono spurie), non può certo essere trattato completamente in questa sede; ci si limiterà, perciò, a raggrupparle in base ai loro contenuti, citandone di volta in volta qualcuno dei più significativi.

Fra gli scritti di argomento retorico ed epidittico, appartenenti alla giovinezza di Plutarco, il più interessante è il De fortuna, che analizza in forma teorica, ma suffragata da qualche esempio pratico, l’influenza della sorte sugli eventi umani.

Dei numerosi testi che parlano di questioni filosofiche, seguendo le dottrine platoniche della nuova Accademia, si può menzionare il De Stoicorum repugnantiis, in cui l’autore fornisce numerose e interessanti notizie sulla dottrina stoica, allo scopo di metterne in evidenza le contraddizioni.

Fra le trattazioni di problemi etici, merita qualche parola il De cohibenda ira, un dialogo fra due amici romani sul modo di tenere a freno i violenti impulsi dell’ira; esso, in effetti, può essere confrontato con il De ira di Seneca. Inoltre, rivestono particolare interesse per l’importanza attribuita alla figura femminile, ormai assurta a un grado di dignità pari a quello dell’uomo, i Coniugalia praecepta. Fra gli scritti di argomento filosofico-pedagogico si distingue per la novità delle idee e per le numerose citazioni dalla lirica classica, il De audiendis poetis, che analizza l’effetto della poesia sull’animo dei giovani.

Una scuola. Bassorilievo da un sarcofago romano. 150 d.C., marmo. Treviri

Gli opuscoli che riflettono le idee politiche dell’autore, ormai giunto alla tarda maturità, contengono insegnamenti tesi soprattutto a inculcare nei giovani greci l’opportunità di dedicarsi all’attività pubblica, anche se in incarichi-chiave ormai occupati prevalentemente dai Romani. Si possono ricordare, a questo proposito, i Praecepta gerenda reipublicae, un vero e proprio manuale dello statista, e l’Ad principem ineruditum, che mira a dimostrare l’importanza della cultura classica per chi sta al potere.

Fra le opere di contenuto teologico, che risalgono probabilmente al periodo del sacerdozio a Delfi, sono degni di menzione il De Iside et Osiride, ricco di preziose informazioni sulla religione egizia, e il De sera numinis vindicta, nel quale, per rafforzare la fede nella giustizia divina, si narra il mito di Tespesio di Soli, che, morto e resuscitato dopo tre giorni, raccontò le terribili punizioni che aveva visto infliggere nell’oltretomba ai malvagi e ai tiranni.

Nel gruppo degli opuscoli di carattere scientifico, si ricordano quelli che riguardano il comportamento degli animali e la loro intelligenza, come il De sollertia animalium e il Bruta animalia ratione uti, un dialogo in cui la maga Circe, dopo aver trasformato in porci i compagni di Odisseo, concede a Grillo, uno di loro, di sostenere la tesi secondo cui la condizione degli animali sarebbe migliore di quella degli uomini. Nel De esu carnium sono contenute invece due dissertazioni sulle cause che indussero Pitagora a evitare di mangiar carne, mentre il De facie in orbe lunae è un’interessante raccolta di miti lunari.

Fra gli scritti di argomento antiquario-letterario, molti dei quali sono andati dispersi, gli Apophthegmata Laconica illustrano gli usi di Sparta attraverso un’ampia raccolta di detti sentenziosi; nel De Herodoti malignitate, Plutarco difende il comportamento delle truppe beotiche durante le Guerre persiane, contro le critiche mosse loro da Erodoto; la Comparatio Aristophanis et Menandri contiene un interessante raffronto fra i due maggiori esponenti del teatro comico antico.

A conclusione di questa brevissima rassegna, si possono ricordare un esempio del genere letterario della “consolazione”, la Consolatio ad Apollonium, e il trattatello De exilio, che appartiene alla vecchiaia dello storico e che sviluppa, con toni ricchi di umana saggezza, un argomento assai spesso affrontato dagli Stoici.

Milano, Biblioteca europea di informazione e cultura. Gulielmi Budaei interpretatio latina del Περὶ τῶν ἀρεσκόντων φιλοσόφοις φυσικῶν δογμάτων (De placitis philosophorum) dello Pseudo-Plutarco, Basileae, ex officina Ioan. Heruagij, 1531: frontespizio [link].
Il gran numero e la diversità degli argomenti trattati nei Moralia, se da un lato testimoniano l’ampiezza degli interessi di Plutarco e il suo vivo entusiasmo per ogni manifestazione dello spirito e della cultura umani, dall’altro costituiscono un innegabile limite alla possibilità di approfondimento e all’esattezza nello sviluppo dei singoli temi. D’altra parte, più che un ricercatore attento e minuzioso, Plutarco appare uno spirito aperto e pronto ad analizzare in termini di umanità e di moralità i valori più significativi del mondo greco, quelli che suscitarono vivissimo in lui il senso della “filantropia”. Questo termine, inteso come attenzione e rispetto per la persona in quanto tale, considerata non nell’astrazione di un sistema filosofico, ma nella realtà del suo intelletto e delle sue azioni, rispecchiava perfettamente il modo con cui Plutarco visse la propria esperienza di intellettuale e di scrittore. Ciò è sufficiente a fare di lui il personaggio più interessante, non solo del suo tempo, ma anche di tutta la tarda grecità, come dimostra il successo che fu tributato alla sua opera, e che non venne mai meno nel tempo.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonici Graec. 93 (XIV sec.), Vita Romuli di Plutarco nella versione trascritta da Manuel Tzycandyles, f.13r.

La quantità delle opere di Plutarco pervenute, d’altronde, permette anche una visione approfondita e completa dei suoi mezzi espressivi. Allo stile degli anni giovanili, influenzato dalle regole dell’atticismo e ancora un po’ immaturo, subentrò più tardi un linguaggio più personale, in cui comparivano, accanto alle forme attiche, anche parole della koinè. Il periodare, soprattutto nelle Vite, si fece più complesso, divenne più vario e articolato nella struttura, adatto a evidenziare stati d’animo inclini alla drammaticità e al pathos, ora espressi con asciutta brevità, ora con toni più alti e solenni, ai quali non erano estranee reminiscenze o citazioni tragiche, degne di un’umanità eroica, in cui si incarnavano, nel bene e nel male, le più potenti passioni umane.

La fortuna di Plutarco, a partire dai suoi contemporanei fino a oggi, è stata immensa, tanto da rappresentare, di per sé, un aspetto particolarissimo della cultura europea. Il Cristianesimo intravide in lui uno degli intellettuali naturaliter Christiani, anche se non ufficialmente convertiti, e ne apprezzò la filantropia e la purezza morale. Gli Umanisti esaltarono Plutarco per il valore etico della sua opera, tanto che Erasmo da Rotterdam ne raccomandava caldamente la lettura. Ma l’epoca d’oro dello storico fu soprattutto l’età dei Lumi, quando si tributarono onori a Dione, Timoleonte e Bruto, esaltandoli come nemici dichiarati del dispotismo, e quando gli ideali della Rivoluzione francese videro in Plutarco il profeta della libertà, in un’ottica che certo non teneva conto di indagini storico-filologiche. L’influsso dell’autore è stato grande anche nell’ambito della letteratura, soprattutto teatrale, come dimostrano le tragedie di Shakespeare, di Corneille, di Racine, drammaturghi che hanno attinto ispirazione dalle Vite; nella letteratura italiana, queste opere esercitarono un notevole fascino su alcuni dei più grandi poeti, come Alfieri, Foscolo e Leopardi.