Il genere oratorio fra V e IV secolo a.C.

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 184-195.

 

  1. I caratteri generali

Le origini dell’oratoria e la codificazione del genere | Benché i Greci credessero che l’oratoria avesse avuto origine in Sicilia con Corace e Tisia, maestri di Gorgia da Lentini, in realtà, furono le particolari condizioni socio-culturali della loro patria a permettere lo sviluppo di un sistema politico e giudiziario che implicava un continuo confronto fra individuo e collettività. Quindi, la capacità di usare la parola come strumento di spiegazione e di persuasione nella vita politica e giudiziaria si rivelò indispensabile anche prima del V secolo a.C.; anzi, sebbene sia in questo periodo che l’oratoria assunse le sue caratteristiche definitive, si specializzò nei vari settori e assurse alla dignità di forma d’arte, i suoi esordi furono molto più antichi.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’ammirazione per la parola eloquente e persuasiva è già molto evidente nell’epos omerico: lo dimostra l’apprezzamento nei confronti dei personaggi come Nestore (Iliade I 249) e Fenice (Iliade IX 438). In entrambi i casi, si tratta di uomini ormai anziani, in cui il vigore del guerriero ha lasciato il posto alla saggezza che deriva dall’esperienza di una lunga vita, utile quanto e forse più della forza, e considerata sempre con profondo rispetto. C’è poi la ben nota eloquenza di Odisseo, al quale gli dèi hanno concesso questo particolare dono, così come hanno dato ad altri forza o bellezza (Odissea VIII 167-175). Odisseo ci offre anche il più antico esempio a noi noto dell’uso dell’eloquenza a scopo utilitaristico; potremmo, infatti, citare numerosi esempi in cui il suo abile parlare aiuta l’eroe in situazioni difficili; ma basterà ricordare il discorso rivolto a Nausicaa, «dolce come il miele e vantaggioso» (Odissea VI 148-185), con cui l’eroe conquista la fiducia e la benevolenza della giovane figlia di Alcinoo. Talora, ai fini prettamente pratici (a cui sono rivolte anche le numerose e convincenti menzogne), si aggiunge il piacere del racconto, come quando Odisseo, in veste di mendicante, narra le proprie avventure al porcaro Eumeo, con l’evidente compiacenza di chi sa creare con la fantasia personaggi e fatti del tutto credibili (Odissea XIV 135-360).

Il passaggio dagli antichi regni achei alla civiltà della pólis favorì lo sviluppo dell’oratoria giudiziaria e politica. Grandi oratori furono gli uomini di stato come Solone, Pisistrato, Temistocle e Pericle, i quali, in momenti assai difficili per loro e per la città, dovettero il successo alla capacità di convincere gli altri della validità delle loro proposte e di saper suscitare nel popolo reazioni adeguate alle circostanze. In particolare, quest’ultimo aspetto, se vogliamo dare credito a Tucidide (II 65, 9), fu peculiare dell’eloquenza periclea.

La vita della pólis, ricca di numerose e varie occasioni, creò ben presto altri spazi per l’arte della parola: le festività pubbliche di carattere religioso, civile e sportivo, rappresentarono un’utile palestra per l’oratoria d’apparato, così come i tribunali e le assemblee lo erano per l’oratoria giudiziaria e politica. In conseguenza di questa intensa attività, a cui il movimento della Sofistica aggiunse una solida base di preparazione tecnica, l’oratoria assunse caratteristiche distinte a seconda degli scopi per i quali fu utilizzata. Si ebbe così un γένος δικανικόν, un «genere giudiziario», tipico dei tribunali; un γένος συμβουλευτικόν, un «genere deliberativo», di cui si servivano gli oratori politici; e un γένος ἐπιδεικτικόν, un «genere dimostrativo», usato per lo più in occasioni di carattere ufficiale, ma anche in discorsi fittizi.

Temistocle. Busto, copia in marmo di età romana da originale greco del V sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’espansione e il perfezionamento dell’uso della parola, a cui i sofisti diedero un impulso decisivo, determinarono anche la nascita di nuove professioni, nelle quali le caratteristiche intellettuali si univano a un solido senso pratico, che le rendeva al tempo stesso prestigiose e ben remunerate. Nacque così la figura del sofista, acclamato e ben retribuito professionista della parola, propugnatore di un ideale secondo cui, vista l’inconoscibilità e l’incomunicabilità del vero, il solo fine dell’eloquenza era quello di raggiungere τὸ εἰκός, il «verosimile», qualunque fosse lo scopo per il quale la parola era adoperata. Da questa matrice comune ebbero origine le professioni del logografo e del retore.

Il primo termine, che nel secolo VI e all’inizio del V aveva indicato semplicemente lo «scrittore in prosa», passò a indicare un professionista che, ottimo conoscitore della legge, e capace di esprimersi con incisività ed eleganza, prestava la propria opera a chi si trovava coinvolto in un procedimento giudiziario e non aveva la cultura e la preparazione necessarie per redigere da solo un discorso di accusa o di difesa, perché il diritto attico non consentiva l’impiego di avvocati.

Con il termine «retore» si indicò un personaggio di varia levatura, che sfruttava la propria eloquenza nelle assemblee pubbliche per sostenere il proprio pensiero politico (e allora si trattava di personalità di spicco, che, però, avevano molta cura della propria immagine e dosavano sapientemente i loro interventi nel dibattito), o per appoggiare proposte altrui. In questo caso, erano per lo più figure di secondo piano, seguaci di personaggi più importanti di loro, che non intendevano esporsi in prima persona al rischio di una γραφή παρανόμων, un’«accusa di illegalità», che avrebbe potuto pregiudicare la loro futura carriera. Sia retori sia logografi avevano fama di moralità piuttosto disinvolta, per cui la loro professione si acquistò ben presto una discutibile reputazione, tanto che grandi oratori pubblici, come Isocrate o Demostene, cercarono in ogni modo di far dimenticare che avevano iniziato la loro carriera come logografi.

Quando le opere dei più rinomati maestri di eloquenza e le orazioni giudiziarie, politiche ed epidittiche, cominciarono a circolare in redazioni scritte, anche l’oratoria entrò a far parte dei generi letterari e fu sottoposta a canoni e a classificazioni stilistiche. Ai grammatici alessandrini o, secondo altri, a Cecilio di Calacte, un retore di età augustea, è dovuto il cosiddetto Canone attico, un elenco di dieci oratori, considerati i migliori, ciascuno nel proprio genere: Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo, Eschine, Iperide e Dinarco. Notizie sulle biografie di questi oratori provengono da un’opera di Dionigi di Alicarnasso (fine del I secolo a.C.), intitolata Gli oratori attici; da un anonimo, comunemente indicato come Pseudo-Plutarco, che scrisse le Vite dei dieci oratori attici; e da alcune Vite che sconosciuti copisti premisero alle varie raccolte di orazioni.

La codificazione dei precetti retorici e il sorgere di varie scuole, spesso in concorrenza fra loro, favorì anche il diffondersi di diversi indirizzi stilistici, che diedero luogo a un vivace dibattito culturale, attivo soprattutto nell’ambiente latino del I secolo a.C. Fu in questo periodo, infatti, che nacque la tendenza a classificare l’oratoria greca in base a tre stili: quello «elevato» (elatus o gravis), solenne, raffinato, ricco di figure, di cui fu considerato caposcuola Gorgia; quello «medio» (mediocris), vivace, espressivo, teso a suscitare intense reazioni nel pubblico, la cui invenzione fu attribuita a Trasimaco di Calcedone; infine, lo stile «tenue» (tenuis o humilis), limpido, lineare, elegante, ma alieno da artifici, che ebbe in Lisia il suo massimo esponente. Naturalmente, si trattava di distinzioni intellettualistiche, che non potevano e non possono essere accettate se non con molta cautela, vista l’estrema varietà di contenuti, di circostanze, di pubblico, che condizionarono gli oratori, costringendoli non certo all’uniformità di stile, ma, al contrario, come si è già detto, a adeguare continuamente i loro toni alla situazione contingente, secondo le regole del τὸ πρέπον, «ciò che conviene», «che si adatta».

 

 

  1. L’oratoria giudiziaria nel V-IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo già accennato prima, l’arte del discorso rappresentò un elemento caratteristico della vita e della cultura greca già nella letteratura epica; ma soltanto nella seconda metà del V secolo a.C. essa divenne un genere letterario indipendente, in conseguenza delle mutate caratteristiche della vita politica, alle quali dovette adeguarsi la «parola pubblica», cioè quella destinata a esprimersi di fronte a un uditorio con ben precise finalità di ordine giudiziario, politico o celebrativo.

Secondo la tradizione, il siciliano Tisia, seguace di Corace, il retore a cui fu attribuita l’«invenzione» della tecnica argomentativa nell’oratoria giudiziaria, avrebbe composto un breve «manuale» in cui si indicava il modo di esporre i fatti e le prove concernenti ogni singolo caso, in modo da conferire loro la massima efficacia, inserendoli in una struttura espositiva semplice, ma funzionale e ben adattabile a ogni circostanza. Da questo schema si sviluppò in seguito il complesso delle quattro sezioni canoniche che caratterizzano, con varianti non sostanziali, le orazioni giudiziarie giunte fino a noi: il προοίμιον, o «esordio», che aveva la funzione di impressionare favorevolmente l’attenzione della giuria, presentando colui che pronunciava l’accusa o la difesa come cittadino rispettoso delle leggi, corretto e attendibile; la διήγησις, o «esposizione dei fatti», che doveva contenere un racconto preciso, ma non prolisso degli avvenimenti che avevano dato origine al processo e, se necessario, un riferimento agli antefatti ritenuti più significativi; la πίστις, o «argomentazione», che rafforzava con testimonianze e prove particolarmente convincenti la tesi sostenuta in propria difesa; la διάλυσις, o «confutazione» delle prove a carico, di solito non molto estesa, ma puntuale e stringente; infine, l’ἐπίλογος, o «conclusione», in cui si ricapitolava il discorso e, in vari casi, si cercava di coinvolgere emotivamente la giuria a favore di chi parlava.

Le varie parti dell’orazione avevano il pregio, così disposte, di offrire un quadro organico e ben articolato della motivazione dei fatti, della loro successione temporale e dei nessi causali; ma soprattutto lasciavano totale libertà al logografo (e in ciò consisteva appunto la sua bravura!) di delineare abilmente il carattere delle parti in causa, di applicare al racconto dei fatti opportuni criteri di selezione, evidenziandone alcuni, sfumandone o tacendone altri, di fare appello, di volta in volta, ad aspetti del costume, della morale comune pubblica o privata, del comportamento sancito dalle leggi. Gli antichi furono concordi nel riconoscere nelle orazioni di Lisia di Atene tutte queste qualità, accompagnate da non comuni capacità di eleganza e chiarezza espositiva; in conseguenza di ciò, per mettere in luce attraverso esempi concreti quanto abbiamo fin qui teorizzato, faremo riferimento proprio ad una delle sue più note orazioni, Per l’uccisione di Eratostene.

Lisia. Statua, marmo, copia romana del III sec. d.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

  1. Un’orazione giudiziaria emblematica: Per l’uccisione di Eratostene

I caratteri generali dell’orazione | Il caso era, apparentemente, uno dei più semplici; un piccolo proprietario terriero, Eufileto (l’ironia della sorte ha voluto che questo archetipo dei mariti traditi si chiamasse il «Beneamato»!), venuto a conoscenza del fatto che un certo Eratostene (altro significativo “nome parlante”: «Forza dell’amore», appellativo quantomai appropriato per un giovanotto sempre a caccia di avventure galanti!) gli aveva sedotto la moglie, intrecciando con lei una relazione, aveva fatto in modo di coglierlo in flagrante adulterio, alla presenza di testimoni, e lo aveva ucciso. Tuttavia, se le cose fossero andate effettivamente così, non avrebbe dovuto esservi nessun processo, perché la legge ateniese riconosceva al marito tradito il diritto di farsi giustizia con le proprie mani, in caso di flagranza, classificando l’omicidio come φόνος δίκαιος («giusta uccisione»). In realtà, i parenti della vittima sostenevano una differente versione dei fatti: Eufileto, scoperta la tresca fra la moglie ed Eratostene, lo aveva attirato ingannevolmente in casa sua e lo aveva assalito, strappandolo addirittura da un luogo sacro, il focolare domestico presso il quale si era rifugiato. Se le cose si fossero effettivamente svolte così, la situazione legale di Eufileto sarebbe stata ben diversa, perché egli avrebbe commesso un «omicidio premeditato» (φόνος ἐκ προνοίας), punibile con la pena di morte, a meno che la sua tesi non fosse stata sostenuta da un eccellente legale. Così fu: la causa si svolse di fronte al tribunale del Delfinio, situato fuori le mura di Atene, nel santuario di Apollo Delphinios e, secondo alcune testimonianze antiche, Eufileto fu assolto – non sapremo mai se per la straordinaria abilità di Lisia, che gli compose l’orazione di difesa, oppure perché aveva effettivamente applicato i diritti che la legge gli concedeva in una storia di infedeltà coniugale finita in tragedia.

L’impressione che si ricava dalla lettura del discorso, forse il capolavoro di Lisia, è che quest’ultimo abbia organizzato la difesa evidenziando in ogni occasione il carattere mite di Eufileto, tranquillo e fiducioso fino al punto di apparire ingenuo; un uomo così, sembra suggerire l’abilissimo logografo, può commettere un delitto, vedendo tradita la propria buona fede e avendone le prove sotto gli occhi, ma difficilmente avrebbe la crudele freddezza (e l’intelligenza) necessaria per organizzare minuziosamente un omicidio da commettere a distanza di tempo.

 

Gruppo dei pittori del Louvre G 99. Una coppia di amanti sotto il mantello. Pittura vascolare dal frammento di una coppa attica a figure rosse, 525-500 a.C. ca. da Atene. Paris, Musée du Louvre.

 

L’esordio (προοίμιον) | Presentiamo, per cominciare, l’esordio della celebre orazione:

[1] Io apprezzerei molto, o giudici, che voi mi giudicaste, riguardo a questo caso, come giudichereste voi stessi se vi fosse capitata una simile offesa: so bene, infatti, che, se il vostro atteggiamento nei confronti di altri fosse lo stesso che verso voi stessi, non ci sarebbe uno solo di voi che non si indignerebbe per l’accaduto, anzi tutti giudichereste troppo lievi le pene contro chi commette azioni del genere!

[2] E questi fatti sarebbero giudicati così non solo presso di voi, ma in tutta l’Ellade; infatti, per questo reato soltanto, sia sotto un governo democratico sia sotto un regime oligarchico, è stata concessa la medesima punizione ai più deboli nei confronti dei più potenti, così che il più umile goda degli stessi diritti del più forte.

 

L’appello ai giudici, affinché valutino la situazione dell’imputato con la stessa disposizione d’animo che proverebbero se si trovassero al posto suo e avessero subito lo stesso torto, è un evidente tentativo di captatio benevolentiae e, in quanto tale, si configura come un τόπος, un «luogo comune» da manuale, presente anche in altre orazioni giudiziarie, non solo di Lisia. Tuttavia, in questo caso, l’appello ai giudici appare caratterizzato da una particolare intensità, visto che il caso riguarda la sfera della famiglia, a cui tutti gli uomini dovrebbero essere particolarmente sensibili, sia da un punto di vista affettivo sia giuridico. L’accenno al fatto che il giudizio pronunciato sulla vertenza di Eufileto potrebbe avere ripercussioni in tutta l’Ellade accresce iperbolicamente l’importanza dei giudici che dovranno pronunciare la sentenza. In questo caso, alla captatio benevolentiae nei loro confronti, si unisce il chiaro intento di evidenziare che ciò che accade ad Atene costituisce poi un punto di riferimento per il resto della Grecia; d’altra parte, tutta la legislazione greca è concorde nel condannare l’adulterio con estrema severità. Eufileto, infatti, ribadisce che, in questa occasione, il suo solo compito sarà quello di dimostrare che i fatti si sono svolti come egli ha già dichiarato, perché la ragione sia dalla sua parte:

 

[4] Io credo, signori giudici, che sia necessario che io dimostri questo, che Eratostene commise adulterio con mia moglie e la rovinò, svergognò i miei figli e mi arrecò offesa, entrando in casa mia, che io non avevo altro motivo di inimicizia verso di lui tranne questo, che non feci ciò per denaro, per divenire da povero, ricco, né per alcun altro interesse, se non la pena consentita dalle leggi.

 

Con queste parole, che ribadiscono come Eufileto non abbia fatto altro che applicare la legge sull’adulterio e che, quindi, il suo comportamento è stato, al di là di ogni possibile dubbio un φόνος δίκαιος, si conclude l’esordio.

Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.

 

L’esposizione dei fatti (διήγησις) | È, ovviamente, la parte più ampia e più ricca di particolari di tutte le orazioni giudiziarie, in quanto dalla precisione con cui venivano esposti i fatti e dal modo con cui si descriveva il comportamento delle parti in causa, i giudici dovevano ricavare tutti gli elementi a sostegno delle responsabilità dei convenuti e pronunciare, sulla base di quelli, una giusta sentenza. Per questo motivo, il discorso di Eufileto, con il quale egli si propone di dimostrare sia la legittimità della propria condotta sia l’assoluta illegalità di quella di Eratostene, è molto esteso e dettagliato, iniziando addirittura da quando egli decise di sposarsi. Tuttavia, al di là della narrazione, ciò che dovrebbe maggiormente attirare l’attenzione dei giudici, è l’assoluta buonafede di Eufileto, marito e padre di famiglia irreprensibile, in confronto a Eratostene, delineato come un seduttore di professione.

La διήγησις segue con esattezza l’ordine cronologico della vicenda e ogni segmento narrativo si conclude con parole tese a dimostrare l’irreprensibilità della condotta di Eufileto. Costui si sposa; il comportamento della giovane moglie, che egli tratta «in modo da non opprimerla, ma neppure lasciandola del tutto libera di fare ciò che volesse», è assolutamente impeccabile. La nascita di un bambino rafforza il legame affettivo fra gli sposi.

Muore la madre di Eufileto «e, morendo, divenne la causa di tutti i guai»: infatti, la nuora esce di casa per seguire il funerale e viene adocchiata da Eratostene. Costui comincia a far pervenire alla giovane donna dei messaggi per mezzo dell’ancella, che va al mercato a fare la spesa; e in questo modo «la rovinò».

Eufileto descrive ai giudici la propria casa: «Io possiedo una casetta a due piani, con il piano superiore uguale al piano terra, in corrispondenza dell’appartamento delle donne e quello degli uomini». La nascita del figlio comporta un capovolgimento delle abitudini abitative: temendo che la moglie, infatti, scendendo per la scala a pioli con il piccolo, possa farsi del male, Eufileto sposta il gineceo al piano terra, favorendo così, senza volerlo, gli incontri della donna con l’amante: «Ma io non sospettai mai niente, anzi ero così ingenuo da credere che mia moglie fosse la migliore di tutte le donne in città».

Un bel giorno, Eufileto torna improvvisamente dalla campagna e cena tranquillamente in compagnia della moglie. Dopo cena il bambino piange disperatamente (poi, si saprà che l’ancella lo pizzica per farlo strillare, di proposito, visto che è arrivato Eratostene!); Eufileto, allora, impone alla moglie di scendere per allattare il figlioletto. La donna, però, si finge restia, dichiarando che il marito vuole allontanarla per restare solo con una giovane ancella; poi, fra il serio e il faceto, chiude a chiave il marito nella stanza da letto e scende al piano terra. Eufileto, stanco e tranquillo, si addormenta beatamente. Durante la notte, però, sente cigolare la porta dell’ingresso e al mattino, quando la moglie lo fa uscire, gliene chiede il motivo. La donna risponde che si era spenta la lucerna che stava presso il bambino; perciò, si era recata dai vicini per riaccenderla. Eufileto, però, nota che la donna ha il viso imbellettato, benché fosse ancora in lutto per la scomparsa del fratello; «tuttavia, senza dire niente neppure di questo fatto, uscito di casa, me ne andai via in silenzio» – dichiara Eufileto.

Trascorre un certo tempo; Eufileto continua a vivere nell’ignoranza dei suoi mali, finché viene fermato da un’anziana donna, inviata da un’altra amante del bellimbusto, ormai trascurata da quello, che gli rivela senza mezzi termini tutta la tresca: «Quello che fa queste cose è Eratostene di Oe e ha rovinato non solo l’onore di tua moglie, ma anche di molte altre donne; infatti, questo è il suo mestiere!». A questo punto, Eufileto, apre finalmente gli occhi, ricordando tutti i particolari ai quali prima non aveva dato peso: «Tutte queste cose mi tornavano in mente ed ero pieno di sospetto».

Ecco che il ritmo dell’azione divine più rapido, perché il candido Eufileto, colpito nella sua dignità coniugale, si rivela capace di una volontà decisionale tanto pronta quanto astuta; avuto conferma dall’ancella complice dello svolgimento dei fatti, prepara la trappola per l’adultero. Quando costui torna a far visita all’amante, l’ancella avverte il padrone, che esce silenziosamente di casa e va a chiamare alcuni amici, che dovranno servirgli da testimoni. Una volta rientrato, «spalancata la porta della camera, noi, entrando per primi, lo vedemmo mentre ancora giaceva accanto a mia moglie; quelli venuti dopo lo videro nudo in piedi sul letto».

La situazione volge precipitosamente verso il tragico epilogo. Eratostene, dopo essere stato colpito e legato, chiede pietà, dichiarandosi disposto a risarcire i danni, pagando un indennizzo; ma Eufileto rifiuta sdegnosamente, affermando la legalità del proprio diritto: «Non io ti ucciderò, ma la legge della città; tu, violandola e tenendola in minor conto dei tuoi piaceri, hai preferito commettere una tale colpa verso mia moglie e i miei figli, piuttosto che obbedire alle leggi e comportarti da persona dabbene!».

 

Pittore anonimo. Donna intenta a filare la lana. Lekythos attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

L’argomentazione (πίστις) | Benché la legittimità dell’azione di Eufileto emerga con chiarezza dal racconto appena concluso, egli aggiunge anche un’«argomentazione», che si fonda su quanto appena detto, sulla citazione dei testimoni e sulla lettura dei paragrafi di legge riguardanti i reati di adulterio, di violenza e di seduzione (purtroppo queste parti non sono state inserite nell’orazione). Tutto ciò deve servire a dimostrare che non è vero ciò che dichiarano i parenti dell’ucciso:

 

[27] Costui ha avuto la pena che le leggi impongono per coloro che commettono tali delitti, non preso a forza nella strada, né dopo che si era rifugiato presso il sacro focolare domestico, come dichiarano costoro.

 

La confutazione (διάλυσις) | Poiché non possediamo l’orazione di accusa, siamo costretti a dedurre dagli accenni nella confutazione di Eufileto quello che doveva essere il punto di forza su cui i parenti di Eratostene fondavano la tesi dell’omicidio premeditato: egli lo avrebbe attirato in casa sua con l’inganno, per simulare una flagranza di reato che in realtà non esisteva:

 

[37] Ora fate attenzione, signori giudici: questi mi accusano di avere, in quel giorno, ordinato all’ancella di andare a chiamare il giovanotto.

 

La confutazione dell’accusa, che procede in modo molto preciso e analitico, si apre con un ragionamento per assurdo: Eufileto non nega esplicitamente il fatto che gli viene contestato, ma dichiara che sarebbe stato convinto di essere dalla parte della ragione anche se avesse dato quell’ordine alla sua serva. Infatti, poiché egli era già certo dell’adulterio, qualunque mezzo sarebbe stato legittimo, pur di cogliere il colpevole sul fatto, dato che il reato era stato commesso e non una volta sola:

 

[38] Ma io, o giudici, avrei creduto di fare cosa giusta sorprendendo in flagrante in qualunque modo colui che ha sedotto mia moglie; infatti, sarei stato colpevole se avessi ordinato di mandarlo a chiamare, quando fra i due fossero state dette solo delle parole, ma non fosse avvenuto nulla di fatto; ma se avessi cercato di sorprenderlo, dopo che tutto era stato fatto e che gli era già penetrato più volte in casa mia, avrei creduto di agire secondo il mio diritto.

 

Inoltre, se Eufileto avesse deciso di agire premeditatamente, in quello stesso giorno egli avrebbe avvertito gli amici che avrebbero dovuto fargli da testimoni e avrebbe dato loro le istruzioni necessarie, invece di uscire a cercarli, mentre Eratostene era già in casa. Il fatto che alcuni di loro non erano a casa e che egli si sia dovuto accontentare di quelli che aveva trovato dimostra che il suo modo di agire è stato del tutto improvvisato: e di questo può addurre i testimoni.

 

[42] Invece, non sapendo niente di quello che sarebbe avvenuto in quella notte, presi quelli che mi fu possibile; e voi, testimoni di questi fatti, venite qui alla sbarra.

 

L’ultima parte della διάλυσις riprende e ribadisce alcuni argomenti già accennati nella parte precedente del discorso. Eufileto non aveva alcun altro motivo di odio nei confronti di Eratostene, anzi, non lo aveva neppure mai visto; inoltre, se davvero lo avesse attirato in casa sua con l’intenzione di eliminarlo, perché mai avrebbe dovuto cercarsi dei testimoni per compiere sotto i loro occhi un omicidio premeditato, aggravato per di più dall’atto empio di strappare un supplice dal sacro rifugio del focolare?

 

[46] E poi, se io avessi meditato di ammazzarlo illegalmente, avrei commesso un’empietà dopo aver chiamato dei testimoni, quando mi era possibile non avere nessuno di costoro consapevole della mia azione?

Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.

 

La conclusione (ἐπίλογος) | Nella parte conclusiva del discorso, Eufileto sfrutta abilmente a proprio vantaggio uno degli elementi strutturali tipici dell’ ἐπίλογος, il collegamento con gli argomenti della parte iniziale, sottolineando così la Ring Composition dell’intera orazione. La sentenza non riguarderà soltanto il suo caso individuale, ma l’intera città, perché, se i giudici lo condannassero, tanto varrebbe che fossero abrogate le leggi vigenti sull’adulterio; anzi, a questo proposito, Eufileto rafforza per absurdum la propria affermazione, proponendo addirittura che si puniscano i mariti che custodiscono le proprie mogli, garantendo invece l’impunità ai loro seduttori:

 

[48] Altrimenti, sarebbe molto meglio cancellare le leggi vigenti e farne delle altre, che stabiliranno le pene per coloro che difendono le proprie spose e concederanno l’assoluta impunità a coloro che vogliono commettere adulterio con quelle. [49] Questo sarebbe molto più giusto piuttosto che lasciare che i cittadini siano ingannati dalle leggi che ordinano che, se uno sorprende un adultero, può fare di lui ciò che vuole, mentre poi i processi sono più pericolosi per chi ha subito il torto che per coloro che svergognano le mogli altrui. Io, infatti, in questo momento, rischio la vita, i beni e tutto il resto, perché ho obbedito (ἐπειθόμην) alle leggi della città.

 

Il termine ἐπειθόμην, che nel testo greco è l’ultima parola dell’orazione, rappresenta una delle più significative testimonianze della raffinata abilità dialettica di Lisia; infatti, il verbo πείθω nella diatesi media significa sia «fidarsi» sia «obbedire», così che il discorso si chiude con un sottile, ma evidente, quasi ricattatorio ammonimento ai giudici, implicito nello stesso valore semantico del termine-chiave: condannare Eufileto, in via definitiva, equivarrebbe a togliere ogni valore ai fondamenti dell’educazione civica del buon cittadino ateniese, espressi in tre termini: «Ho obbedito (perché me ne sono fidato) alle leggi della città»; gli stessi concetti su cui si fonda, con ben altra sublimità morale, l’accettazione della morte da parte di Socrate.

 

 

  1. L’oratoria politica fra il V e il IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali dell’oratoria politica | Nel corso del IV secolo a.C. l’oratoria ateniese conservò per certi aspetti le caratteristiche e le funzioni che l’avevano contraddistinta precedentemente, mentre per certi altri rispecchiò, in modo abbastanza evidente, le trasformazioni culturali, politiche e istituzionali in essere nella città. In questo quadro generale, l’oratoria giudiziaria, per il suo carattere funzionalmente specifico, non avvertì particolari necessità di cambiamento; quanto all’oratoria epidittica, il suo scopo celebrativo le conferì una tendenza sempre maggiore a cristallizzarsi su argomenti tradizionali, veri e propri τόποι di genere, espressi in uno stile spesso letterariamente perfetto, ma piuttosto intellettualistico e caratterizzato da una certa fissità di toni. Al contrario, l’oratoria politica fu costretta, per sua stessa natura, a tener conto del continuo mutare degli eventi e a adeguarvisi quasi quotidianamente.

Due fattori soprattutto influirono sul cambiamento dell’oratoria politica, uno di carattere culturale e uno di tipo istituzionale. La nuova figura del retore, istruito alla scuola dei sofisti e pronto a considerare l’attività politica come una vera e propria professione, si inserì di prepotenza nello spazio che un tempo era appartenuto soltanto ai magistrati civili e militari all’interno dell’assemblea: uomini come Solone, Pisistrato o Temistocle – un arconte, un tiranno e uno stratego – non ebbero mai bisogno di intermediari (o “portavoce”) per esprimere le proprie idee di fronte all’assemblea, né questa fu condizionata nelle proprie scelte dalle parole di oratori di mestiere. Ma nel IV secolo questo stato di cose mutò notevolmente; il retore divenne la figura di maggior rilievo nella vita pubblica, in quanto capace di diffondere le proprie convinzioni, di attirarsi dei sostenitori e di influenzare così l’opinione pubblica, grazie al carisma personale rafforzato da doti dialettiche sapientemente coltivate. A ciò contribuì anche, forse in misura minore, ma non marginale, un altro fenomeno culturale: la diminuita importanza del teatro (in particolare quello tragico) come mezzo di diffusione delle idee e di educazione di massa. Infatti, la mancanza di nuovi autori, degni di potersi confrontare con i grandi classici del passato, favorì ben presto la tendenza a riproporre agli spettatori opere ormai “classiche”, che non avevano perduto niente del loro valore poetico, ma che, sul piano educativo, proponevano ideali appartenenti ormai a un glorioso passato, che si poteva ammirare, ma non far risorgere.

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La tradizione indiretta | La grande oratoria ateniese ci è nota attraverso due tradizioni, quella indiretta della storiografia e quella diretta delle raccolte di demegorie, i «discorsi pronunciati di fronte al popolo». Per quanto riguarda l’attendibilità della tradizione indiretta, sappiamo che i discorsi degli uomini politici venivano riferiti approssimativamente, tenendo conto del loro «senso generale», come dichiara Tucidide, perché mancava una stesura scritta dell’orazione, a cui fare riferimento. Gli uomini politici, infatti, non erano soliti scrivere i loro discorsi per intero, ma, come ci conferma anche Demostene, si dava redazione scritta solo alle parti più importanti come contenuto e più impegnative dal punto di vista oratorio – contrariamente a quanto avveniva per i discorsi epidittici, che, destinati a pubblica lettura, erano trascritti integralmente. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che la possibilità di parlare in assemblea non fosse concessa a tutti, ma richiedeva precisi requisiti di carattere civico e politico ed era connessa alla fazione a cui l’oratore apparteneva, sia al tipo di influenza che egli intendeva esercitare sull’uditorio. Pertanto, oratori come Lisia o Dinarco, che erano meteci, non avrebbero avuto il diritto di parlare in pubblico, mentre aperti simpatizzanti del regime oligarchico, come Andocide o Antifonte, si astenevano dall’esporre la propria opinione di fronte all’assemblea popolare, perché oltre ad avere possibilità quasi nulle di incidere sull’opinione della maggioranza, il loro orientamento politico li avrebbe esposti anche a rischi personali, dato che il contrasto politico poteva assumere pure toni molto accesi, di vero e proprio duello oratorio.

Un quadro estremamente efficace di questo aspetto ci è offerto dallo scontro fra Nicia e Alcibiade a proposito della spedizione in Sicilia, descritto da Tucidide (VI 9-26). Si tratta di un magnifico esempio di quel carattere «agonale» che rappresentava la cifra principale di questo genere oratorio, dal momento che ciascuno dei relatori si sforzava di far valere le proprie proposte nel «consigliare» i concittadini: di qui il nome di συμβουλευτικοί λόγοι, attribuito normalmente ai discorsi politici. Dopo la prima fase di dibattimento, in cui la parola tocca ad alcuni personaggi minori, Nicia viene chiamato direttamente in causa dal gruppo di Alcibiade, che gli offre il comando dell’impresa. Egli replica con un invito alla prudenza, senza risparmiare allusioni alla sfrenata ambizione di Alcibiade e mettendo in luce, al tempo stesso, le notevoli difficoltà dell’impresa e del momento (VI 12-13, 1).

Concluso l’intervento di Nicia, è la volta di Alcibiade, il quale contrattacca dando prima la parola a una serie di gregari, il cui compito è quello di “cancellare”, o almeno di attenuare nell’animo degli ascoltatori, l’effetto moderatore delle parole del rivale. Il discorso di Alcibiade, caratterizzato dall’estrema sicurezza di sé, tipica del personaggio, ostenta i toni di un nazionalismo a oltranza, dietro cui si mimetizza abilmente la sua ambizione personale. Egli asserisce di agire in nome degli ideali democratici che Atene ha sempre difeso; rinunciare alla spedizione significherebbe rinnegare la più nobile tradizione della patria e venire meno agli impegni che essa ha assunto nei confronti dei suoi alleati:

 

Perciò, con quale argomento ragionevole potremmo noi stessi rifiutare, o di che cosa potremmo tener conto, per non portare aiuto agli alleati di laggiù? Poiché ci siamo obbligati con un giuramento, è necessario soccorrerli e non obiettare che essi non ci hanno, a loro volta, aiutato. Infatti, non li abbiamo accolti, perché ci soccorressero, ma perché, creando fastidi ai nostri nemici laggiù, impedissero loro di venire fin qui. In questo modo abbiamo conquistato il dominio, sia noi che quanti altri lo esercitarono, assistendo prontamente coloro che di volta in volta ci chiedevano aiuto, o Greci o barbari, poiché se tutti rimanessero tranquilli o stessero a sottolineare a chi si debba portare soccorso, aggiungendo ben poco al nostro impero, rischieremmo piuttosto di perdere anche quello che abbiamo. Infatti, ci si difende contro uno che è superiore non solo quando attacca, ma anche si previene affinché non attacchi. E non è possibile per noi calcolare fino dove vogliamo estendere il nostro dominio, ma è inevitabile, perché ci troviamo in questa situazione, attaccare gli uni e non lasciare sfuggire gli altri, perché c’è il rischio che siamo dominati da altri, se non siamo noi stessi a dominarli! E voi non dovete considerare la tranquillità nello stesso modo con cui la considerano gli altri, a meno che non cambiate il modo di vivere rendendolo simile al loro. Pertanto, avendo valutato che accresceremo il nostro impero di qui, qualora attacchiamo laggiù, facciamo la spedizione, per abbattere la superbia dei Peloponnesiaci, se sembrerà chiaro che noi disprezziamo la tranquillità del momento attuale per navigare addirittura contro la Sicilia; e, al tempo stesso, com’è naturale che sia, o domineremo tutta l’Ellade, aggiungendo a noi quelli di là, o recheremo danno ai Siracusani, e da ciò trarremo vantaggio noi e i nostri alleati.

(VI 18, 1-4)

 

Nicia, ormai in netta posizione di inferiorità, non può far altro che raccomandare agli Ateniesi di prepararsi il meglio possibile per la rischiosa impresa; ma con queste parole sancisce praticamente la vittoria dei suoi avversari politici, i quali colgono immediatamente l’occasione per coinvolgerlo e gli chiedono di stabilire lui stesso il numero delle navi e l’entità delle truppe del contingente. A questo punto, Alcibiade non interviene più direttamente, ma lascia a un suo gregario, un certo Demostrato (che il comico Aristofane indica con il significativo soprannome di «Sputaveleno»), il compito di stroncare definitivamente l’avversario.

 

Ritratto di atleta (il cosiddetto Alcibiade). Busto, marmo greco, copia romana di I sec. d.C.. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La tradizione diretta: lo scontro fra Demostene ed Eschine | La conclusione delle lunghe e drammatiche vicende della Guerra del Peloponneso non segnò soltanto la sconfitta di Atene, ma anche l’inizio di una profonda crisi di valori politici e istituzionali destinata a imprimere una svolta decisiva alla storia greca e della civiltà occidentale. Né Sparta né Tebe, infatti, furono in grado di raccogliere costruttivamente l’eredità politica, economica e culturale di Atene; e così la prima metà del IV secolo a.C. fu caratterizzata dalla progressiva disgregazione della città-stato, che preparò il terreno all’avvento della monarchia macedone. In questo clima di instabilità e di confusione, stavano maturando cambiamenti politici complessi e irreversibili; e ben presto l’intero mondo mediterraneo ne avrebbe avvertito le conseguenze. Nel nord della Grecia, infatti, si stava consolidando il regno di Macedonia, abitato da una popolazione considerata «barbara», ed effettivamente rimasta a uno stadio di civiltà meno sviluppato di quello del restante mondo ellenico. Verso la metà del secolo, nel 358 a.C., salì al trono Filippo II, figlio di Aminta, il quale, nella prima giovinezza, era stato ostaggio a Tebe, quando la città aveva vissuto il suo effimero momento di egemonia. Durante quel periodo, il Macedone aveva avuto modo di conoscere a fondo l’organizzazione militare tebana, potenziata dalle riforme di Pelopida e di Epaminonda; e non gli erano sfuggiti gli insanabili conflitti tra le póleis, che ne logoravano le forze e che, in breve tempo, ne avrebbero messo a repentaglio la sopravvivenza stessa come organismi autonomi.

Demostene. Statua, copia romana da originale greco di Policleto (c. 280 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

Forte di queste esperienze, Filippo, appena giunto al potere, attuò con le armi e la diplomazia un vasto piano di espansione, che, fiaccate rapidamente le resistenze di Atene e di Tebe, lo portò, a dispetto dei suoi oppositori (tra i quali svolse un ruolo determinante l’ateniese Demostene, il più grande oratore politico del tempo), a estendere il suo potere, diretto o indiretto, su tutta l’Ellade. Nell’ottica del sovrano macedone, il fine ultimo dell’impresa avrebbe dovuto essere una grandiosa spedizione comune di Macedoni e Greci contro l’Impero persiano; purtroppo, prima di poterla realizzare, Filippo cadde assassinato nel 336 a.C. e il comando dell’impresa fu assunto da suo figlio Alessandro, che lo condusse a termine con conseguenze di portata storica talmente vasta da superare ogni possibile previsione.

Tuttavia, prima che il giovane sovrano salisse al trono e riuscisse a condurre in porto felicemente la titanica impresa, la scena politica ateniese fu dominata dal violento scontro tra la fazione filomacedone (il cui massimo esponente fu Eschine) e quella antimacedone, capeggiata da Demostene. Le loro orazioni, che possediamo per tradizione diretta, ci offrono un quadro assai vivo dello spazio e dell’importanza che l’oratoria politica occupava ancora nella vita dello Stato e del cittadino. Quest’ultimo, intanto, pur presenziando alle assemblee con diritto di voto, più che parlare ascoltava, come fa Diceopoli, protagonista degli Acarnesi di Aristofane, mentre erano gli oratori professionisti che salivano sulla tribuna per pronunciare i loro discorsi; eppure, anche gli interventi di costoro obbedivano a ben calcolati piani. Infatti, i grandi uomini politici, capi di gruppi anche numericamente cospicui (che non potevano essere considerati dei partiti veri e propri, ma piuttosto aggregazioni di simpatizzanti intorno a personaggi o a famiglie, che si contendevano l’egemonia all’interno delle istituzioni democratiche), dosavano sapientemente i loro interventi e spesso si facevano sostituire da gregari, sia per non logorare la propria immagine, sia per evitare le conseguenze derivanti da ripetute accuse di illegalità – arma assai frequentemente usata nello scontro fra le fazioni. Abbiamo così una precisa distinzione di ruoli: intorno alla figura di primo piano, orbitavano retori minori, che appoggiavano e sostenevano il loro leader e magari si esponevano in sua vece a qualche indesiderato provvedimento legale; e, infine, c’erano quelli a cui era affidato il compito di frenare o di scatenare la massa, i «signori del tumulto e dell’urlo», come li definì Iperide (Contro Demostene VII 14, 6), alludendo alla funzione loro attribuita di pilotare opportunamente le reazioni popolari. Un episodio della carriera di Demostene dimostra quanto fossero utili ai loro leader questi personaggi minori: nel 438 a.C., nel corso della sua campagna antimacedone, l’oratore propose che gli Ateniesi intervenissero in difesa di Olinto, una città della penisola Calcidica minacciata da Filippo, ma, poiché Atene scarseggiava di mezzi, egli suggerì che si usassero a scopi militari i fondi del θεωρικόν, che, fino dai tempi di Pericle, per legge, potevano essere investiti solo per l’allestimento degli spettacoli teatrali. Demostene si rendeva perfettamente conto del rischio che correva, presentando una proposta simile: perciò, mandò avanti un proprio gregario, un certo Apollodoro, il quale subì l’accusa di illegalità al posto del suo capo, che poté continuare la sua carriera politica, destinata a vette altissime di successo e di popolarità, in un clima civile davvero rovente, ma eccezionalmente vivace.

Eschine. Busto, copia romana in marmo da originale del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Allo stesso tempo, le orazioni di Demostene e di Eschine sono il primo documento a noi noto di una lotta senza quartiere, che assunse spesso i toni di un violento alterco personale, in cui si mirava a distruggere l’avversario piuttosto che a spiegare con chiarezza i motivi per cui si sosteneva o si combatteva un determinato progetto politico, la cui grandezza, forse, sfuggì, nella sua vera dimensione, sia all’uno sia all’altro dei contendenti. Tale carattere influisce, ovviamente, anche sullo stile, sulla struttura retorica, sul tipo di argomentazioni, che presentano sostanziali differenze rispetto ai discorsi epidittici, destinati alla lettura: i periodo sono più brevi, per permettere all’oratore di mantenere l’opportuna intonazione della voce e anche l’intensità del volume indispensabile per farsi capire in mezzo a un pubblico spesso tumultuoso. Le forme elaborate, i τόποι di impronta nazionalistica o moraleggiante, le frasi a effetto si concentrano maggiormente nei proemi e nelle parti conclusive; queste ultime contengono di solito anche un breve riepilogo dei punti salienti della proposta appena presentata. Quanto alle argomentazioni, esse presentano talora delle affinità con quelle presenti nell’oratoria epidittica, come le riflessioni sul glorioso passato di Atene, sulla saggezza degli antichi legislatori, sul ruolo di «benefattrice dell’Ellade», che la città ha sempre esercitato fin dalle età più remote – divenuto particolarmente evidente durante le Guerre persiane; però, l’oratoria politica ne possiede anche di proprie, le più interessanti delle quali riguardano le riflessioni sulla figura dell’oratore, sul confronto fra le sue doti tecniche e le sue qualità morali, sul potere demagogico della parola, che lo rende un personaggio da seguire senza riserve o da evitare altrettanto incondizionatamente.

Tale è il contenuto, per esempio, dell’esordio dell’intervento di Demostene Sui fatti del Chersoneso, in cui si esortano gli ascoltatori a non seguire uomini politici dominati dallo spirito di parte:

 

Sarebbe necessario, o concittadini, che tutti gli oratori non parlassero mai né per odio né per compiacenza, ma che ciascuno manifestasse apertamente ciò che gli sembra meglio, soprattutto quando voi state dibattendo di argomenti importanti e di interesse comune; ma, poiché alcuni sono spinti a parlare o per spirito di polemica o per qualche altra ragione, voi, Ateniesi, che siete il popolo, la maggioranza, dovete approvare e mettere in pratica ciò che ritenete sia vantaggioso per la città, trascurando tutto il resto.

(Demostene, Sui fatti di Chersoneso 1)

 

Ecco invece un esempio della violenta polemica contro Eschine, reo, agli occhi di Demostene, di appoggiare la pace con Filippo il Macedone proposta da Filocrate (346 a.C.), in modo del tutto indegno delle gloriose tradizioni patrie:

 

Mentre voi stavate deliberando sull’argomento e non volevate neppure sentire la voce dell’abominevole Filocrate, quello ( = Eschine), alzatosi in piedi per parlare, in nome di Zeus e di tutti gli dèi, lo sosteneva con parole degne di molte morti, dicendo che non avreste dovuto ricordare i vostri avi, né sopportare quelli che parlavano delle loro vittorie e delle battaglie navali, e che egli avrebbe fatto formale proposta di stabilire una legge secondo cui voi non avreste portato aiuto a nessuno dei Greci che non avesse prima aiutato voi. E questo individuo perfido e sfrontato osava parlare, mentre erano ancora presenti e ascoltavano gli ambasciatori che avevate mandato a chiamare dai Greci, persuasi proprio da lui, quando non si era ancora venduto.

(Demostene, Sulla corrotta ambasceria 15-16)

 

La risposta di Eschine non si fece attendere e non fu da meno:

 

Nell’attività politica io mi sono trovato impelagato con un individuo imbroglione e malvagio, che non sarebbe capace di dire la verità neppure involontariamente. Quando dice una menzogna, costui, comincia il discorso giurando in nome dei suoi occhi impudenti! E non solo afferma che sono reali fatti mai avvenuti, ma indica perfino il giorno nel quale, a sua detta, essi hanno avuto luogo! E dopo esserselo inventato, aggiunge il nome di un tale che sarebbe stato presente, imitando chi dice la verità. Ma in una cosa siamo fortunati noi, che non abbiamo commesso alcun male, che nella millanteria del carattere e nell’arte di mettere insieme le parole, egli è senza cervello!

(Eschine, Sulla corrotta ambasceria 153)

 

Iperide. Busto, copia romana in marmo del II sec. d.C. da originale greco del IV sec. a.C.

 

 

  1. L’oratoria epidittica fra il V e il IV secolo a.C.

 

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo precedentemente accennato, l’oratoria epidittica o celebrativa si distinse sostanzialmente dagli altri generi di eloquenza, soprattutto perché, essendo scritta e destinata alla lettura nell’ambito delle scuole, per finalità di esercizio, o in occasione di solennità pubbliche, si caratterizzava per un’estrema elaborazione formale. In essa si distinse soprattutto Isocrate, che scelse volontariamente, sia a fini politici sia pedagogici, questa forma di comunicazione, particolarmente adatta alle sue doti di grande chiarezza concettuale, unite a un’attenta e quasi esasperata ricerca formale, che richiedeva tempi assai lunghi di progettazione e di elaborazione. Esemplare, a questo proposito, il Panegirico, o «discorso per la festa» (πανηγύρις), che fu pubblicato nel 380 a.C. dopo una preparazione durata dieci anni. In esso, Isocrate vagheggiava una costruttiva collaborazione fra Sparta e Atene; le due antiche rivali avrebbero dovuto porsi come forze egemoni dell’intero mondo greco, allo scopo di combattere il nemico comune, la Persia, secondo un’ottica politica ormai anacronistica e fondata sulla nostalgica rievocazione delle innumerevoli benemerenze acquisite dalle due antiche città nei confronti dell’intero mondo ellenico.

Tuttavia, l’oratoria epidittica trovava la sua massima affermazione nei λόγοι ἐπιτάφιοι, discorsi commemorativi ed encomiastici per i caduti in battaglia, secondo un uso che si riteneva istituito da Solone. In realtà, non è possibile stabilire con certezza la data di inizio di tale costume; ma è probabile che essa risalga alla fine del VI secolo a.C., mentre il λόγος ἐπιτάφιος come genere letterario a sé stante ebbe origine dopo le Guerre persiane, forse nell’occasione in cui Cimone, tornando da Sciro con le ossa di Teseo, istituì feste solenni in onore dell’eroe attico; contemporaneamente, si istituirono anche le celebrazioni in memoria dei caduti. Il λόγος ἐπιτάφιος si pronunciava nell’ultimo giorno delle solennità, dopo una grande processione che accompagnava i feretri al cimitero del Ceramico. L’antichità ci ha tramandato sei di queste orazioni: la più antica è quella contenuta nel II libro delle Storie di Tucidide, tenuta da Pericle per i caduti nel primo anno della Guerra archidamica; la seconda, di Gorgia, di cui rimane solo la parte finale, fu pronunciata in occasione della pace di Nicia (421 a.C.); la terza, attribuita a Lisia, il quale, tuttavia, non avrebbe mai potuto svolgerla, data la sua condizione di meteco, commemorava i morti nella Guerra di Corinto e risale al 392 a.C.; la quarta è riportata in un dialogo platonico, il Menesseno, ed è attribuita a Socrate, il quale pronunciava unicamente per mettere in risalto le caratteristiche di questo genere oratorio; la quinta, l’unica che sia stata tenuta dopo una sconfitta, è quella attribuita a Demostene per i caduti di Cheronea (338 a.C.); la sesta è di Iperide, per i morti nella Guerra lamiaca (323-322 a.C.), nella quale l’oratore, violando la legge che imponeva un rigoroso anonimato, fece il nome e l’elogio dello stratego Leostene, suo amico personale.

Il fatto che il discorso concludesse solennemente una celebrazione ufficiale esigeva che esso seguisse uno schema ben preciso che, a parte varianti soggettive, compare in tutti gli ἐπιτάφιοι giunti fino a noi:

 

  • esordio ed excusatio: l’oratore si presenta al pubblico, mostrandosi sorpreso per essere stato prescelto, e invoca l’indulgenza dell’uditorio, perché certamente le sue parole non saranno adeguate a esaltare degnamente il valore di chi ha dato la vita per la città;

 

  • elogio degli antenati: la convinzione che il valore e il civismo siano frutto della tradizione e dell’educazione ricevuta, oltre che della natura, implica il ricordo degli avi e delle loro grandi imprese, che costituiscono per i discendenti un onore, ma anche una profonda responsabilità. Questa parte – di solito abbastanza estesa – si fonda in genere su una serie di τόποι, come la predilezione degli dèi per l’Attica, l’autoctonia degli Ateniesi, le loro eccezionali doti naturali, sviluppate da un’educazione unica per profondità e completezza, le grandi imprese da loro compiute nel mito e nella storia;

 

  • elogio della πολιτεία, la «costituzione politica», considerata un elemento fondamentale nell’educazione e nella formazione del cittadino; in questo senso, la democrazia di Atene ha dato prova di essere superiore a quella di qualunque altra città nell’inculcare valori morali e civici e nell’armonizzare le esigenze del singolo con quelle della collettività;

 

  • rievocazione dell’avvenimento bellico particolare, nel quale i caduti hanno sacrificato la vita;

 

  • commiato ai sopravvissuti, nei quali il rimpianto per la perdita di un congiunto sarà certamente compensato dalla gloria immortale che i caduti hanno conquistato per sé, per la patria e per i discendenti.

 

Origini, natura e finalità del movimento sofistico

di G. REALE, I sofisti, in Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 63-66.

Il significato del termine “sofista” – Prima di iniziare un discorso sulla sofistica, è indispensabile chiarire quale sia stato il significato originario e autentico del nome “sofista”. È noto, infatti, che sofista, nel linguaggio corrente, ha da tempo assunto un senso decisamente negativo: sofista vien detto colui che, facendo uso di ragionamenti capziosi, per un verso cerca di indebolire e di offuscare il vero e, per l’altro, tenta di rafforzare il falso rivestendolo delle apparenze del vero. Ma non è affatto questo il senso originario del termine, che significava semplicemente “sapiente”, “esperto del sapere”, “possessore del sapere” e, quindi, voleva dire non solo qualcosa di valido, ma qualcosa di altamente positivo. L’accezione negativa del termine sofista è diventata corrente a partire forse già da Socrate e certamente dai discepoli di questi – Platone e Senofonte – che radicalizzarono la battaglia contro i sofisti e poi con Aristotele, che codificò quanto Platone aveva detto nel modo seguente: «La sofistica è una sapienza apparente, non reale: il sofista è uno smerciatore di sapienza apparente, non reale» (79a 3 DK).

I capi d’accusa sono due e di diversa natura: a) la sofistica è un sapere apparente e non reale e, per giunta, essa b) è professata a scopo di lucro e nient’affatto per disinteressato amore di verità. A questi capi d’accusa addotti da filosofi dovettero poi aggiungersi anche quelli fatti valere dalla pubblica opinione. Questa vide nei sofisti un pericolo sia per la religione sia per il costume morale, dato che proprio su questo terreno i sofisti avevano spostato la propria attenzione. Gli aristocratici, in particolare, non perdonarono ai sofisti di aver contribuito alla loro perdita di potere e di aver dato un forte incentivo alla formazione di una nuova classe che non contava più sulla nobiltà di natali, bensì sulle doti e sulle abilità personali, che erano appunto quelle che i sofisti intendevano creare, o comunque sistematicamente educare. Resta, in ogni caso, il fatto che la responsabilità massima nello screditare i sofisti fu di Platone e lo fu, oltre che per quello che disse, per il modo particolarmente efficace in cui lo disse, con lo strumento della sua arte.

Ma vedremo subito che, se le ragioni che portarono al discredito dei sofisti agli occhi dei contemporanei e di Platone potevano apparire fondate e indiscutibili, non lo sono, invece (o lo sono solo in parte), per l’interprete che, storicamente educato, sappia porti al di sopra delle parti e giudicare in modo obiettivo. Gli studiosi sono oggi concordi nell’affermare che i sofisti furono un fenomeno storico necessario al pari di Socrate e di Platone; questi, anzi, senza i sofisti sarebbero impensabili.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

Le ragioni del sorgere della sofistica – I sofisti hanno apportato qualcosa di totalmente nuovo e, in qualche modo, hanno operato una rivoluzione rispetto ai filosofi della φύσις: è questa rivoluzione, insieme alle ragioni che la produssero, che noi ora dobbiamo mettere in chiaro.

Il nuovo obiettivo fu appunto quello che i naturalisti avevano o del tutto trascurato, oppure solo marginalmente appena toccato, vale a dire l’uomo e tutto ciò che è tipicamente umano. E perciò ben si comprende come i temi dominanti della speculazione sofistica divenissero etica, politica, retorica, arte, lingua, religione, educazione – cioè tutto ciò che noi oggi chiamiamo cultura umanistica. Con i sofisti, insomma, iniziò quello che, con efficace espressione, è stato detto «periodo umanistico della filosofia antica».

Noi, però, non ci potremmo spiegare questo radicale spostamento dell’asse della filosofia, se ci limitassimo a rilevare questo fattore negativo, vale a dire l’esaurimento delle risorse della filosofia della natura. Oltre e accanto a esso, agirono, in modo decisivo, le nuove condizioni storiche che vennero via via maturando nel corso del V secolo a.C. e i nuovi fermenti sociali, culturali e anche economici, che, in parte, crearono e, in parte, furono creati dalle nuove condizioni storiche.

Ricordiamo, innanzitutto, la lenta, ma inesorabile, crisi dell’aristocrazia, che andò di pari passo con il potere sempre crescente del δῆμος (del «popolo»); l’afflusso nelle città, specie in Atene, sempre più massiccio di meteci; l’ampliarsi del commercio che, superando i ristretti limiti delle singole città, portava ciascuna di esse a contatto con un mondo più ampio; il diffondersi delle esperienze e conoscenze di viaggiatori che portarono all’inevitabile raffronto fra usi, costumi e leggi ellenici ed elementi totalmente differenti. Tutti questi fattori contribuirono fortemente al sorgere della problematica sofistica. La crisi dell’aristocrazia comportò anche quella dell’antica ἀρετή, dei valori tradizionali, che appunto erano quelli tenuti in pregio dall’aristocrazia. Il crescente affermarsi del potere democratico e l’allargamento a cerchie più vaste della possibilità di accedere alle cariche pubbliche fecero crollare la convinzione che l’ἀρετή fosse legata alla nascita, cioè che virtuosi si nascesse e non si diventasse, e pose in primo piano il problema del come si acquistasse la «virtù politica». La rottura del ristretto cerchio della polis e la conoscenza di opposti costumi, leggi ed usi dovettero costituire la premessa del relativismo, ingenerando la convinzione che ciò che era ritenuto eternamente valido fosse, invece, privo di valore in altri ambienti e in altre circostanze. I sofisti seppero cogliere in modo perfetto queste istanze dell’età travagliata in cui vissero, le seppero esplicitare, dando loro forma e voce.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Finalità pratiche della sofistica – Quanto abbiamo finora precisato ci permette di comprendere quegli aspetti della sofistica che in passato sono stati meno apprezzati, o che, addirittura, sono stati considerati del tutto negativi. Si è, per esempio, molto insistito sul fine pratico e non più puramente teoretico della sofistica e si è considerato questo come uno scadimento speculativo e morale. I filosofi della natura ricercavano la verità per se medesima, e il fatto di avere o meno allievi era, in certo senso, accidentale; viceversa, i sofisti non ricercavano la verità per se medesima, ma avevano per scopo l’insegnamento e il disporre di discepoli era, invece, per loro essenziale. Insomma, del loro sapere i sofisti facevano una vera e propria professione.

Ora, per quanto questi giudizi contengano del vero, portano peraltro fuori strada, se non si tiene ben presente quanto segue. È vero che i sofisti compromisero in parte l’aspetto teoretico della filosofia, ma è altrettanto vero che, poiché la tematica che essi trattarono non concerneva la φύσις, ma la vita umana e i concreti problemi etico-politici, contrariamente ai naturalisti, essi dovettero essere spinti dalla necessità delle cose a finalizzare praticamente le loro riflessioni.

Ma la finalizzazione pratica delle loro dottrine ebbe anche un più alto significato: con essi, il problema educativo e l’impegno pedagogico emersero in primo piano ed assunsero un nuovissimi significato. Contro la pretesa dell’aristocrazia, la quale riteneva che la virtù fosse una prerogativa del sangue e della nascita, i sofisti intesero far valere il principio che tutti potessero, invece, acquistare l’ἀρετή, e che questa, anziché fondarsi sulla nobiltà del sangue, si basasse sul sapere.

E alla luce di questo si spiega ancor meglio il fatto che i sofisti vollero essere dispensatori del sapere, e cioè non dei semplici indagatori, ma degli educatori. E se è vero che i sofisti non estesero a tutti il proprio insegnamento, ma solo a quella élite che doveva, o voleva, accedere alla guida dello Stato, resta pur vero che, con il loro principio, spezzarono almeno il pregiudizio che vedeva l’ἀρετή necessariamente legata all’aristocrazia.

Allievo e maestro. Rilievo su sarcofago, III sec. d.C. dalla Via Praenestina. Roma, Museo del Tabularium.

Il compenso in denaro preteso dai sofisti – Siamo così in grado di affrontare e risolvere anche la spinosa questione del compenso, che i sofisti esigevano per il loro insegnamento e per la loro opera di educazione. Platone e altri antichi bollarono la venalità dei sofisti e considerarono questo costume di far pagare gli insegnamenti come un indiscutibile segno di bassezza morale. Ma Platone era, in questo giudizio, vittima del pregiudizio aristocratico (in genere, la cultura era retaggio dei “migliori” e dei ricchi, che, avendo risolto tutti i problemi della vita, si davano alla cultura come a un sublime otium e la consideravano avulsa in larga misura da tutto ciò che avesse rapporto con il guadagno e con il denaro, ritenendola puro frutto di disinteressata comunione spirituale).

Ma i sofisti non avevano fissa dimora e non avevano cespiti di guadagno e, quindi, vendo impostato il loro sapere e la loro opera nel modo che abbiamo spiegato, dovevano necessariamente farne mestiere ed esigere un compenso in denaro per sostentarsi. E si potranno certamente biasimare gli abusi di cui essi si resero responsabili; ma bisogna, in ogni caso, essere assai guardinghi nel giudicarli troppo severamente.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

Spirito panellenico della sofistica – I sofisti furono, poi, rimproverati di essere dei girovaghi, di passare di città in città e, quindi, di infrangere la fedeltà alla propria patria e, pertanto, di rompere quel legame che il Greco riteneva infrangibile. Ebbene, se per l’uomo di allora il rimprovero ben si comprende, esso diventa merito, non appena lo si collochi in una più vasta prospettiva storica: i Greci, per salvarsi politicamente e uscire dalle mortali lotte fra città, avrebbero avuto bisogno di ancorarsi a un solido ideale panellenico; e i sofisti furono espressione di questo ideale: sentirono, cioè, che gli angusti limiti della polis non si giustificavano più, non avevano più ragion d’essere e più che cittadini di una data città si sentirono cittadini dell’Ellade.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

Le diverse correnti della sofistica – E, per concludere, dobbiamo chiarire un ultimo punto. Non esiste un sistema filosofico sofistico o una dottrina sofistica, nel senso che è impossibile ridurre il pensiero dei vari sofisti a proposizioni comuni. Ma non è nemmeno vero che le singole dottrine costituiscano quasi delle unità fra loro incommensurabili. È vero, invece – come è stato ben rilevato – che la sofistica del V secolo a.C. rappresenti una serie di soluzioni diverse di una gamma di problemi identici.

Dobbiamo, quindi, vedere i vari sforzi differenti compiuti dai singoli sofisti ed esaminare i metodi da essi escogitati. Ma, prima di procedere a questo esame, occorre ancora precisare che, per poter intendere e valutare correttamente i sofisti, bisogna distinguerli l’uno dall’altro, senza fare di ogni erba un fascio. La sofistica, infatti, subì un’evoluzione, anzi un’involuzione piuttosto marcata, e fra i maestri della prima generazione e i discepoli della seconda corse una differenza notevole, come in parte lo stesso Platone aveva già notato. È necessario, pertanto, discernere almeno tre gruppi di sofisti: 1) i grandi e famosi maestri della prima generazione, niente affatto privi di ritegni morali e, anzi, come lo stesso Platone riconobbe, sostanzialmente degni di rispetto; 2) gli “eristi”, cioè coloro che, sfruttando il metodo sofistico ed esaltandone l’aspetto formale senza alcun interesse per i contenuti e senza ritegno morale, trasformarono la dialettica sofistica in una sterile arte di contendere con i discorsi, in una vera e propria arte della λογομαχία; 3) infine, i sofisti “politici”, che furono uomini di Stato – o aspiranti tali – che, senza più alcun ritegno morale, abusarono di certi principi sofistici per teorizzare un vero e proprio immoralismo, che sfociò nel disprezzo della «cosiddetta giustizia», di ogni legge costituita, di ogni principio morale: ma costoro, più che lo spirito autentico della sofistica, ne rappresentavano l’escrescenza patologica.

La medicina greca: da superstizione a tecnica

di G. Cambiano, Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 36-43.

 

Medicina e superstizione

 

La medicina greca si era già da tempo allontanata da quel miscuglio di empiria e magia che caratterizzava la medicina religiosa dell’Oriente: Erodoto era ben consapevole della differenza esistente fra la medicina greca e quella babilonese ed egiziana[1]. Ma la decisiva presa di coscienza metodologica della medicina greca dovette aver luogo in concomitanza della peste che invase l’Attica nel 430, con una ripresa nell’inverno 427[2]. Secondo Tucidide, i medici si trovavano disarmati di fronte a questa malattia sconosciuta, che per la prima volta si trovavano a curare; non solo, ma il contatto con i malati faceva sì che essi fossero i più numerosi a morire. Anche celebri medici forestieri, giunti in Attica per esibire la propria abilità, si erano dovuti ritirare impotenti di fronte a questa malattia[3]. Allo stesso modo erano falliti tutti i tentativi di spiegazione teorica del morbo[4]. In questa situazione di impasse totale della medicina era naturale e facilitato il ricorso a pratiche magico-superstiziose, che appellandosi a un intervento salvifico diretto della divinità, tendevano a contrapporsi polemicamente all’inefficienza della medicina[5]. Già l’invasione dell’Attica nel 431 ad opera di Archidamo aveva incrementato il successo della divinazione e il proliferare degli indovini nell’interpretazione dell’esito futuro della guerra[6]. Sono gli anni in cui più acuta è la reazione a Pericle e alla sua politica: gli intellettuali della sua cerchia sono sottoposti a processo e in tal modo tutto l’orientamento razionalistico della ricerca filosofica e scientifica è messo sotto accusa[7]. Nel 420 il dio Asclepio è solennemente introdotto in Atene da Epidauro, ove da tempo aveva un santuario, in cui fioriva una scuola di medicina religiosa[8]. In pochi anni il suo culto, connesso alla pratica di una medicina magica, ebbe un rapidissimo incremento[9]. Per la medicina razionalistica, che intendeva fondarsi su basi scientifiche, l’esigenza di difendersi dall’invadenza polemica di una medicina non scientifica presentava, dunque, in quegli anni una grande urgenza. Ad aggravare questo contesto polemico contribuiva la possibilità di utilizzare le tesi esiziali per la medicina espresse nello scritto di Melisso. Nel 427, cioè proprio quando la peste ebbe una ripresa, Gorgia si recò ad Atene come ambasciatore di Leontini e vi diffuse le sue dottrine, non ultima la sua polemica antieleatica – d’altronde impregnata di eleatismo –, avanzata nel suo scritto Sul non essere o sulla natura, che già nel titolo presentava una netta antitesi con quello dell’opera di Melisso Sull’essere o sulla natura[10]. È significativo, allora, che in questo stesso periodo, storicamente cruciale per la medicina, siano databili gli scritti più antichi del Corpus Hippocraticum a carattere prevalentemente metodologico[11]: l’urgenza della difesa conduceva a un radicale approfondimento dei metodi di ricerca e di cura della medicina.

Bassorilievo votivo dedicato ad Asclepio. Il dio, assistito da Igea, compie una guarigione taumaturgica. Marmo, inizi IV secolo a.C. dal Pireo.
Bassorilievo votivo dedicato ad Asclepio. Il dio, assistito da Igea, compie una guarigione taumaturgica. Marmo, inizi IV secolo a.C. dal Pireo.

 

Contro la superstizione e la magia si pone decisamente l’autore de La malattia sacra[12]. Attribuire a una malattia, per le caratteristiche che la differenziano dalle altre, una qualità divina equivale a sottrarre tale malattia alle competenze della medicina e, di riflesso, a giustificare un tipo di cura magica. Il criterio di differenziazione fra malattie divine e umane è costituito dall’aspetto meraviglioso (θαυμάσιον) delle prime, cioè dall’incapacità di cogliere le cause reali, approfondendo le ragioni dello stupore che producono. Di tale situazione, secondo il nostro autore, hanno approfittato maghi e ciarlatani per qualificare come sacra questa malattia straordinaria e giustificare, in tal modo, da una parte, la propria attività e, dall’altra, l’incapacità nel trovare rimedi effettivi. La prescrizione di purificazioni e incantamenti, l’ingiunzione di astenersi da bagni, cibi e attività particolari sono garantite dal presunto carattere divino della malattia: se il malato guarisce, il merito è dei maghi, ai quali va fama di abilità; se muore, la responsabilità è attribuita agli dèi[13]. La demistificazione di questo tipo di terapia mette in chiaro la portata per così dire “ideologica” dell’attribuzione dell’aggettivo sacro al morbo in questione. L’impiego di una terapia di tipo magico implica la credenza nel possesso di un potere illimitato nei confronti della malattia e della natura. Dietro il paravento dell’apparente religiosità della tesi del carattere sacro della malattia, si cela in realtà un atteggiamento empio e antireligioso[14]. La conclusione dell’autore è che tutte le malattie hanno la stessa natura (φύσις) e una causa (πρόφασις) specifica e tutte sono ugualmente curabili, se prese in tempo[15]. È chiaro che una tale conclusione è la condizione indispensabile per ogni medicina che intenda costituirsi come tecnica autonoma. Partendo da essa l’autore può procedere a sviluppare un’eziologia della malattia, individuandone la causa fondamentale nel cervello, considerato il centro di ogni attività psichica e mentale, e indicarne le terapie appropriate da applicare nel momento opportuno[16].

 

La medicina e l’eleatismo

 

parmenide. testa, marmo, i sec. a.c. da velia
Parmenide. Testa, marmo, I sec. a.C. da Velia.

Se sul piano pratico la superstizione e le terapie magiche erano l’ostacolo più forte per l’affermazione della medicina come tecnica di cura, l’avversario più pericoloso per la costruzione di una teoria della medicina come campo di sapere autonomo era rappresentato dall’eleatismo. Contro Melisso e i medici che di fatto implicitamente si mantenevano nell’area dell’eleatismo si colloca esplicitamente l’autore de La natura dell’uomo[17]. Ciò che egli rifiuta e combatte a fondo è la tesi che l’uomo sia un’entità unica. Non importa che tale entità, a livello cosmologico, sia denominata aria o fuoco o acqua o terra o, a livello più specificatamente medico, sangue o bile o flegma[18]; quel che importa è, invece, l’orizzonte categoriale comune a tutte queste posizioni apparentemente distanti. Tale orizzonte è la fondamentale concezione (γνώμη) di Melisso dell’unità rigorosa dell’essere[19]. Per mostrare la contraddittorietà dei medici che, pur volendo mantenersi sul terreno del naturalismo ionico, interpretando l’unità dell’essere come unità di una precisa entità biologica, finiscono per cadere in un’impostazione eleatica, l’autore de La natura dell’uomo ricorre a un’argomentazione, che abbiamo trovata chiaramente espressa da Melisso: l’uomo, se fosse un’entità singola, non proverebbe dolore[20], perché non vi sarebbe nulla a produrgli dolore. La nozione di dolore presuppone quella più ampia di relazione. L’unità, invece, esclude assolutamente la possibilità di qualsiasi relazione. Ammettere una relazione tra fare e subire, cioè il dolore, equivale a negare l’unità-totalità dell’essere. Se la malattia esiste, essa presuppone l’esistenza di una molteplicità articolata. L’alternativa fondamentale, allora, consiste o nel negare l’esistenza delle malattie e, conseguentemente, della medicina, come aveva fatto Melisso, o nell’ammettere che l’uomo sia una molteplicità. I medici, avversari del nostro autore, non hanno colto la portata esiziale delle tesi di Melisso e hanno preteso di conservare una posizione ambigua tra i due corni dell’alternativa, sostenendo contraddittoriamente una teoria monistica della malattia[21]. Ad essi l’autore contrappone una teoria che spiega la formazione delle malattie con una molteplicità di umori interagenti fra loro. In tal modo si può render conto della pluralità dei tipi di malattia e della conseguenza pluralità di cure[22]. Ma l’autore fissa pregiudizialmente il numero dei fattori della malattia, affermando che se venisse a mancare uno solo dei quattro umori costitutivi dell’uomo, l’uomo non potrebbe più vivere[23]. Su questo punto La natura dell’uomo perviene stranamente a incontrarsi con le tesi di Melisso, che già aveva usato la connessione tra un mutamento minimo e l’annullamento di tutto il cosmo nella totalità del tempo per negare la molteplicità. Qui, invece, si tratta di giustificare l’esistenza di una pluralità numericamente ben definita e inalterabile. Ma l’impostazione di fondo rimane comune: la condizione dell’immutabilità riposa sulla necessità che domina l’essere[24], sulla legge che già Parmenide aveva enunciato e alla quale anche Empedocle, con la sua teoria delle quattro “radici”, si era mantenuto fedele. La limitazione numericamente definita dei fattori della malattia e dei costituenti della natura umana aveva certo il vantaggio (apparente) di facilitare la diagnosi e la cura, perché era già esclusa anticipatamente l’esistenza di elementi perturbatori non riconducibili ai quattro umori, ma in realtà non comportava un guadagno in cautela, precisione ed efficacia, perché il mondo dell’esperienza nei suoi molteplici aspetti rimaneva pur sempre inattingibile. La fondazione della medicina doveva prescindere completamente dalle ipoteche eleatiche – anche nelle estreme propaggini del naturalismo di Empedocle – e per far questo doveva chiarire la propria portata di tecnica. Il nucleo centrale del problema consisteva nel reperimento di criteri capaci di fondare l’esistenza della medicina come tecnica e in un preliminare approfondimento metodologico del termine “tecnica”. Solo a questa condizione poteva diventare effettivo lo sganciamento dall’eleatismo.

 

La medicina come «τέχνη»

 

Questo compito è centrale per uno scritto metodologico che compare nella raccolta ippocratica col titolo περὶ τέχνης, il quale, anche se non è attribuibile con sicurezza a Ippocrate stesso o a medici della sua scuola, riflette tuttavia la problematica e l’impostazione metodologica di fondo, che contrassegna, come si vedrà meglio in seguito, la medicina ippocratica[25]. Il suo obiettivo polemico è costituito da coloro che considerano una tecnica la critica demolitrice delle altre tecniche e contestano le scoperte altrui, senza l’apporto di alcuna correzione[26]. La tecnica, invece, secondo il nostro autore, è costituita da scoperte utili. Ma per determinare la condizione d’esistenza della tecnica, egli stabilisce la tesi che gli enti sono sempre visti e conosciuti, mentre i non-enti non sono né visti né conosciuti[27]. Partendo da questo presupposto e passando attraverso un’altra affermazione, cioè che ogni tecnica possiede un εἶδος che la rende visibile e, dunque, conoscibile, può giungere alla conclusione che ogni tecnica è un ente, ossia esiste[28]. Mentre per Gorgia nulla è e, se anche fosse, non sarebbe conoscibile[29], qui l’essere è, ma non è più l’essere eleatico come totalità autosufficiente che non ha bisogno di criteri che ne garantiscano l’esistenza. Qui l’essere è l’essere di un ente fra molti, il quale deve essere qualificato in base alla visibilità dell’εἶδος che lo caratterizza.

 

Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Musée du Louvre.
Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Musée du Louvre.

 

La medicina può essere chiarita nel suo significato di tecnica, se si assume per vera la tesi che la guarigione dipenda dal caso. Intanto il fatto che un paziente si affidi a un medico è indice che egli non si accontenta del caso, ma si rivolge alla tecnica ritenendola capace di operare positivamente[30]. Ma a ciò si può anche obiettare che molti sono guariti senza valersi del medico. A questo punto l’autore introduce la caratterizzazione fondamentale di una tecnica, cioè la distinzione (ὅρος) tra corretto (ὀρθόν) e scorretto[31]. Se un malato riesce a guarire da solo, lo deve soltanto al fatto di essersi valso degli stessi rimedi che avrebbe usato un medico: impiegando ciò che è corretto, pur senza sapere che cosa sia corretto, egli si comporta inconsapevolmente come un medico, usando correttamente la tecnica. In ultima analisi, dunque, la guarigione è dovuta soltanto alla medicina. Naturalmente il medico autentico possiede la consapevolezza delle proprie procedure perché, oltre ad avere doti naturali appropriate all’esercizio della medicina, riceve un’educazione approfondita e specifica[32]. Questa gli procura il possesso del διὰ τὶ, cioè di un complesso di ragioni e di eventi osservati che rendono conto del verificarsi di determinati fenomeni[33]; è la base sulla quale il medico può effettuare le distinzioni fra corretto e scorretto. Ogni procedimento adottato dalla medicina è così motivato dal riferimento a fatti e fenomeni osservabili che ne giustificano l’impiego: chiarito il quadro dei sintomi, diventa possibile effettuare previsioni e adeguare la cura[34].

La tecnica medica, dunque, esiste, ma non esiste allo stesso titolo dell’essere eleatico. L’esistenza della tecnica è provata da criteri che ne determinano l’ambito di esistenza in base alle sue possibilità costitutive di intervento efficace, cioè all’interno di un campo in cui i suoi strumenti di diagnosi, di previsione e di cura si mostrino operanti. Si comprende, allora, come sia proprio della medicina non solo l’eliminazione delle malattie, ma anche il non intraprendere tentativi su pazienti ormai vinti dal morbo, quando si sa di non avere la possibilità di guarirli[35]. La medicina non deve curare tutto, non deve pretendere di disporre di possibilità positive nei confronti di ciò che sfugge alla sua portata[36]. L’uomo ha la possibilità di dominare alcune cose con gli strumenti della natura e delle tecniche. Ma se un individuo è in preda a un male che eccede gli strumenti della medicina, non ha alcun significato aspettarsi che esso sia vinto dalla medicina stessa. La medicina ha un campo autonomo all’interno del quale può esplicare la sua δύναμις[37]: osservazioni, esperimenti e analogie sono gli strumenti che le permettono una diagnosi[38]. Ma, estrapolata da tale campo, la medicina perde ogni possibilità ed efficacia. Un mutamento di campo implica un mutamento di strumenti e, quindi, un mutamento di tecnica. Gli esiti negativi, dunque, non devono essere imputati alla medicina, ma devono essere utilizzati per chiarire i difetti e correggerli[39]. In ultima analisi, la correggibilità della tecnica viene a connettersi alla sua capacità costitutiva di operare distinzioni tra corretto e scorretto.

 

***

 

Note:

 

[1] Hdt. I 197; II 77, 84 e la storia di Democede di Crotone (III 129-137). Sullo scarso rigore della medicina egiziana cfr. anche Aristot. Polit. III 15, 1286a.

[2] Thuc. II 47 ss. e III 87. La mortalità fu enorme (cfr. Diod. XII 58, 2). Una rassegna sulle interpretazioni mediche di tale pestilenza in A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, vol. II, Oxford 1956, pp. 150-153.

[3] Ad esempio, Plin. Nat. Hist. VII 37, 123 afferma che Ippocrate si recò ad Atene per curare la peste. Così avrebbe fatto anche Acrone di Agrigento, che avrebbe tentato la cura con cauterizzazioni (Plut. de Is. et Os. 79, p. 383 = DK 31 A 3; cfr. anche Suid. s.v. Ἄκρων, secondo cui avrebbe scritto un περὶ ἰατρικῆς in dorico). Un fondo di verità in queste notizie non è da escludere. Sulla fama di Ippocrate ad Atene cfr. Plato, Prot. 311bc.

[4] Che tali tentativi fossero avanzati è argomento di A.W. Gomme, op. cit., p. 148, in base a Thuc. II 48, 3, che mostra una certa impazienza contro le spiegazioni proposte.

[5] Thuc. II 47, pur riconoscendo che suppliche nei templi, oracoli e mezzi simili erano anch’essi inefficienti, testimonia che effettivamente si ricorse ad essi. Cfr. anche II 54 a proposito di discussioni sull’interpretazione di un oracolo.

[6] Thuc. II 21. Sulle pratiche superstiziose in questo periodo cfr. R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro, Torino 19542, pp. 198 ss., e P.-M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la philosophie platonicienne, Paris 19492, pp. 367-68.

[7] Plut. Per. 3132. Sui processi di ἀσέβεια si vd. W. Nestle, Vom Mythos zum Logos: Die Selbstentfaltung Des Griechischen Denkens Von Homer Bis Auf Die Sophistik Und Sokrates, Stuttgart 19422, pp. 479-485. È interessante la notizia (Plut. Per. 34) che Pericle sarebbe stato accusato di aver causato la pestilenza, rinchiudendo i cittadini a sostenere l’assedio. Sulla reazione antirazionalistica degli ultimi decenni del secolo V, si vd. E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, (tr. it) Firenze 1959, pp. 227-242.

[8] E. e L. Edelstein, Asclepius. A Collection and Interpretation of the Testimonies, Baltimore 1945, test. 720. Questi autori escludono che l’ingresso in Atene sia dovuto alla protezione del dio durante la pestilenza (II, p. 120, nota 4). Ma favorevoli ad una connessione sono, invece, P.-M. Schuhl, op. cit., p. 365 e E.R. Dodds, op. cit., p. 238.

[9] Aristoph. Plut. 659 ss.

[10] Sull’ambasceria si vd. Thuc. III 86; Diod. XII 53 = DK 82 A 4. Cfr. F. Jacoby, Apollodors Chronik, Berlin 1902, pp. 261-266. Lo scritto di Gorgia è datato nel 444-441 da Olympiod. in Plat. Gorg., p. 112 (= DK 82 A 10), ma è data sospetta. È comunque abbastanza probabile che esso sia anteriore al 427 (cfr. W. Nestle, Die Schrift des Gorgias «Über die Natur oder über das Nichtseiende», Hermes 57 [1922], pp. 551-562 e M. Untersteiner, I Sofisti, Torino 1949, p. 124, nota 26, e pp. 177-178 per la corrispondenza antitetica col titolo dell’opera di Melisso).

[11] Gli scritti del Corpus sono prearistotelici, ma formano quasi sicuramente una raccolta di quanto i filologi alessandrini trovarono nella biblioteca e nell’archivio della scuola di Cos (cfr. C. Fredrich, Hippokratische Untersuchungen, Berlin 1899, p. 80; M. Wellmann, Hippokrates, des Herakleides Sohn, Hermes 64 [1929], pp. 16-21). Ciò spiegherebbe l’appartenenza al Corpus di scritti contenenti dottrine, per esempio, della scuola di Cnido.

[12] Cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Die hippokratische Schrift περὶ ἱρῆς νούσου, SBKPrAW 1901, pp. 2-23. Secondo H. Diller, Wanderarzt und Aitiologie. Sudien zur hippokratischen Schrift περὶ ἀέρων ὑδάτων τόπων, Leipzig 1934, pp. 89-114, l’autore di quest’opera, pur scrivendo in epoca anteriore, sarebbe identico a quello dei cc. 1-11 di Le arie, le acque e i luoghi. Al contrario F. Heinimann, Nomos und Physis. Herkunft und Bedeutung einer Antithese im griechischen Denken des 5. Jahrhunderts, Basel 1945, sostiene che è posteriore e di autore diverso. Sulla datazione dell’opera (430-415) cfr. M. Pohlenz, Hippokrates und die Begründung der wissenschaftlichen Medizin, Berlin 1938, p. 45. H. Grensemann, Die hippokratische Schrift «Über die heilige Krankheit», Berlin 1968, ha messo in dubbio che tale scritto appartenga non solo a Ippocrate, ma addirittura alla scuola di Cos, per le sue affinità con la scuola di Cnido. Ma a livello metodologico tali affinità scompaiono, perché la scuola di Cnido non sa oltrepassare lo stadio descrittivo delle malattie per formulare teorie e quadri patologici più generali e, tanto meno, dunque, sa sollevarsi alla discussione dei problemi metodologici della medicina (sulla scuola di Cnido cfr. L. Bourgey, Observation et expérience ches les médicins de la Collection Hippocratique, Paris 1953, pp. 50-56; 145-188).

[13] cc. 1-2 = VI, 352-356 Littré = 1, 1-20 Grensemann.

[14] cc. 3-4 = VI, 358-360 Littré = 1, 24-31 Grensemann.

[15] c. 5 = VI, 364 Littré = 2, 1-3 Grensemann. Cfr. c. 16 = VI, 386 Littré = 13, 13 Grensemann; c. 21 = VI, 394 Littré = 18, 1-2 Grensemann. Cfr. anche Περὶ ἀέρων ὑδάτων τόπων c. 22 = II, 78 Littré.

[16] Sul cervello, c. 6 = VI, 364 Littré = 3, 1 ss. Grensemann; c. 17 = VI, 386-388 Littré = 14, 1-7 Grensemann; c. 19 = VI, 390-392 Littré = 16, 1-6 Grensemann.

[17] Sulle questioni di attribuzione (Ippocrate o suo genero Polibo o altri) cfr. C. Friedrich, op. cit., pp. 13-32; 51-56. È datato generalmente verso il 400 (cfr. K. Deichgräber, Die Epidemien und das Corpus Hippocraticum. Voruntersuchungen zu einer Geschichte der Koischern ärzteschule, Berlin 1933, pp. 105-111; F. Heinimann, op. cit., p. 158), ma non escluderei la possibilità di anticipare la data per la vivacità della polemica contro Melisso e determinati ambienti sofistici. In particolare espressioni come ἀμφί τῶν πρηγμάτων, ἀντιλέγειν o καταβάλλειν (c. 1 = VI 34 Littré) non possono non richiamare Protagora (cfr. DK 80 B 6a, B 9, B 5, B 1, A 19).

[18] cc. 1-2 = VI 32-34 Littré.

[19] c. 1 = VI 34 Littré cita esplicitamente Melisso.

[20] c. 2 = VI 34 Littré (e mettere a confronto con p. 20). Cfr. anche c. 3 = VI 36-36 Littré: l’unità rende impossibile la γένεσις.

[21] Alla base di tale monismo sta la generalizzazione eccessiva di alcuni dati (cfr. c. 6 = VI 44 Littré).

[22] c. 2 = VI 36 Littré.

[23] c. 7 = VI 48-50 Littré. I quattro umori, cioè sangue, flegma, bile gialla e bile nera, non sono una cosa sola per il nostro autore, perché non presentano caratteristiche simili alla vista e al tatto, ma differiscono τὴν ἰδέην τε καὶ τὴν δύναμιν (c. 5 = VI 42 Littré). Sui limiti scientifici di tale teoria cfr. R. Joly, La niveau de la science hippocratique. Contribution à la psychologie de l’histoire des sciences, Paris 1966, pp. 170-179. Un’analoga teoria dei quattro umori si può trovare sostenuta anche dal pitagorico Filolao (DK 44 A 27).

[24] c. 7 = VI 50 Littré: ἀπὸ γὰρ τῆς αὐτέης ἀνάγκης πάντα ξυνέστηκέ τε καὶ τρέφεται ὑπ’ ἀλλήλων. Giustamente M. Vegetti, Ippocrate. Opere, Torino 1965, p. 416, nota 7, parla a proposito di questo scritto di «eleatizzazione del molteplice».

[25] T. Gomperz, Pensatori greci, II, trad. it. Firenze 1933, pp. 230-231 (ma già in Die Apologie der Heilkunst, Leipzig 19102) sostenne che tale scritto non è opera di un medico e credette di poterne ravvisare l’autore in Protagora. Che sia opera di Protagora è tesi ormai generalmente respinta (cfr. M. Untersteiner, op. cit., p. 25, nota 37), né vi sono motivi sufficientemente validi per accettare l’opinione di E. Dupréel, Les Sophistes. Protagoras, Gorgias, Prodicus, Hippias, Neuchâtel 1948 (ma 1949), pp. 242-251, che sia opera di Ippia. Per una collocazione di tale scritto nel contesto storico-culturale, cfr. ora M. Vegetti, Technai e filosofia nel «Perì technes» pseudo-ippocratico, Acc. Scienze Torino. Atti 98 (1964).

[26] c. 1 = VI 2 Littré.

[27] c. 2 = VI 4 Littré.

[28] Ibid.

[29] Cfr. Sext. Emp. adv. math. VII 65 ss. (= DK 82 B 3) e De Melisso Xenophane Gorgia 5.6.979a 11-980b 21. R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze 1958, coglie esattamente come il nostro scritto si allontani dall’eleatismo ancor più dell’antieleata Gorgia (p. 136), ma sottolinea eccessivamente la preoccupazione gnoseologica.

[30] c. 4 = VI 6 Littré.

[31] c. 5 = VI 8 Littré.

[32] c. 9.

[33] c. 6 = VI 10 Littré. La sostantivazione (τῷ διὰ τὶ) esprime la portata concettuale del διὰ τὶ come strumento della spiegazione causale.

[34] c. 6 = VI 10 Littré.

[35] c. 3 = VI 4-6 Littré.

[36] c. 8 = VI 12-14 Littré.

[37] Cfr. τῆς γε τέχνης τὴν δύναμιν (c. 11 = VI 22 Littré).

[38] Questi tre strumenti sono distinti nel c. 13. Sull’analogia nel Corpus cfr. G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy. Two Types of Argumentation in Early Greek Thought, Cambridge 1966, pp. 345-356.

[39] c. 8 = VI 14 Littré. Qui c’è un chiaro riferimento ad accuse di insuccesso mosse alla medicina: la peste poteva esserne stata l’occasione?

Il pensiero di Isocrate e la sua “scuola”

 

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 273-274.

 

Nella pedagogia antica, l’educazione all’eloquenza rappresentò il momento più importante della formazione dei futuri politici, e fu intesa come mezzo per giungere a dominare nel modo più completo lo strumento della parola, anche nella forma della comunicazione scritta, che nel corso del IV secolo a.C. andava facendosi sempre più frequente. Non si trattava di limitarsi ad assimilare nozioni empiriche sulla corretta maniera di esprimersi, ma di raggiungere una preparazione culturale ed una maturazione tali che permettessero di sostenere con successo un dibattito con interlocutori di pari livello e di sconfiggerli con la forza dei fatti e delle argomentazioni, non con l’uso di puri artifici retorici. Questa preparazione poteva essere conseguita solo attraverso un lungo processo educativo ed auto-educativo, che, in pratica, durava tutta la vita.

Tuttavia, sarebbe errato attribuire al magistero di Isocrate un carattere pedagogico in senso stretto, poiché per lui la παίδευσις, l’«educazione», fu solo il mezzo per giungere alla formazione di una classe di politici. Con questo termine, egli intese definire gli individui in grado di adempiere alla funzione di guide dello Stato, non solo perché in possesso di una solida formazione intellettuale e culturale, ma perché preparati ad elaborarle e a penetrarne i significati, così da poterli poi tradurre in azioni utili per la comunità.

Il fine ultimo del processo educativo è la «filosofia», che consiste, oltre che nella piena padronanza dei mezzi di espressione, nell’aver conseguito una maturità intellettuale, che permetta una sicura capacità di giudizio e di critica, su cui fondare l’azione.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen
Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

Scolaro di Gorgia, Isocrate derivò da lui sia la convinzione che il pensiero non si limiti ad interpretare la realtà, ma la crei, sia il concetto di ψυχαγωγία, che potremmo tradurre molto banalmente con «forza di persuasione», ma che in realtà indica qualcosa di assai più profondo, e cioè la capacità di influire a proprio piacimento sull’anima altrui. Questa potenza, in origine attribuita soltanto alla poesia, ora diviene concetto essenzialmente politico, nella convinzione che solo la superiorità intellettuale dia la capacità di affrontare in modo adeguato le responsabilità di governo. Studi come l’astronomia, la matematica, la geometria, le scienze naturali non hanno alcuna importanza nella formazione dell’uomo politico, perché non forniscono i mezzi per avere ascendenza sugli altri e guidarli. La filosofia, invece, insegna a pensare, a capire, a giudicare; il suo strumento è il λόγος, la «parola», l’unico vero elemento di superiorità dell’uomo sugli altri esseri viventi, perché gli permette di vivere con intelligenza e di stabilire le norme che regolano la vita associata, senza doverle attendere come dono di una divinità provvidenziale.

In sintesi, per Isocrate, è la filosofia che rende l’uomo «politico»: senza di essa, infatti, non si avrebbe che l’ἰδιότης, il «cittadino privato», che non ha la capacità per imporsi e che è la cellula prima dell’ὄχλος, la «massa», politicamente amorfa e facile ad essere manipolata. Fondandosi su queste convinzioni, al momento dell’apertura della sua scuola, Isocrate sentì il bisogno di chiarire, nel discorso Contro i sofisti, la differenza che, secondo lui, passava fra eristica e filosofia e, di conseguenza, fra il suo insegnamento e quello dei sofisti.

Riuscire ad avere la meglio in un dibattito, utilizzando gli accorgimenti dialettici appresi da un maestro, per quanto illustre, non significa, per Isocrate, aver raggiunto un livello intellettuale superiore a quello del proprio avversario; è necessario aver prima acquisito la capacità di comprendere, con personale senso critico, ciò che è buono e giusto e, conseguentemente, ricavare dalle proprie convinzioni i mezzi dialettici per comunicare agli altri le proprie conquiste morali. Alla luce di tutti questi concetti, la Sofistica, che è indifferente alla verità, alla virtù e alla giustizia, appare una deviazione, da considerarsi non solo inutile, ma anche nociva, alla formazione dell’uomo politico e alla sua παίδευσις; pertanto, un’educazione di questo genere è da rifiutare, così come non si deve credere a chi, come Socrate e Platone, sostiene di poter insegnare la virtù. Infatti, Isocrate, pur avendo preso le distanze dall’insegnamento dei sofisti, erede del relativismo professato da costoro, non crede che sia possibile conoscere la vera essenza della virtù; di conseguenza, non si può nemmeno insegnarla.

Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

A suo avviso, ogni individuo può migliorare con lo studio, a meno che la sua indole (φύσις) non risulti assolutamente negata per questo genere di attività intellettuale. In tal caso, troverà senz’altro qualcosa di più adatto a lui, nella vasta gamma di differenti possibilità, offerte dalla società in cui vive. Stabilire invece le qualità naturali proprie del politico non era altrettanto facile, ma si poteva sempre cercare un punto di riferimento nella serie dei modelli etici offerti dal mito. Infatti, qualità come la εὐεργεσίᾳ, la «capacità di fare del bene», la εὐτυχία, la «capacità di ottenere successo», la νικηφορία, la «capacità di riportare vittorie», la εἰρηνοποίησις, la «capacità di pacificare», erano di solito considerate doni gratuiti degli dèi e appannaggio esclusivo delle figure eroiche – e in particolar modo di quella di Eracle.

In questi concetti era insita anche una spiccata valenza politica; ciò sarà ulteriormente dimostrato dal fatto che, in età ellenistica, molti sovrani assumeranno titoli ispirati ad essi, a testimonianza del carattere benefico della loro ideologia politica; si possono citare, ad esempio, l’attributo di εὐεργέτης, «benefattore», comune a vari sovrani della dinastia dei Tolemei, o quello di σωτήρ, «salvatore», anch’esso assai frequente – e poi divenuto, in età cristiana, sinonimo di Cristo.

Per queste ragioni Isocrate assunse volentieri a modello la figura eroica di Eracle e, più ancora, quella di Teseo: nel primo, egli vedeva infatti l’eroe benefattore, che aveva messo a frutto, non solo per se stesso, ma per il bene dell’umanità tutta, il dono divino della sua forza sovrumana; il secondo, l’eroe attico per antonomasia, era esaltato per il suo coraggio, per le sue capacità strategiche, per la sua saggezza, ma soprattutto per le sue doti intellettuali, morali e politiche. Queste qualità facevano di lui la migliore guida per il suo popolo e il modello ideale di una ἀρετή, «virtù», non più soltanto guerriera, ma anche intesa come sintesi perfetta di qualità naturali positive e di uno sforzo continuo e paziente di auto-educazione, che, pur nei limiti dell’umano, avvicinava il vero uomo politico alle capacità evergetiche degli eroi e degli dèi.

I Sofisti

 

di B. Cassin, Sofistica, in AA.VV., Il sapere greco. Volume II. 2007. Piccola Biblioteca Einaudi Ns.

 

Platone nella sua Accademia. Xilografia da un dipinto di Carl Johan Wahlbom (1810-1858), in Svenska Familj-Journalen, vol. 18, fasc. 3, 1879, p. 73.

La sofistica fu un movimento di pensiero che, all’alba presocratica della filosofia, sedusse e scandalizzò la Grecia intera. I sofisti furono effettivamente, secondo la bella espressione di Hegel, “i maestri della Grecia”: anziché meditare sull’essere, come gli Eleati, o sulla natura, come i fisici della Ionia, essi scelsero di essere degli educatori di professione, uomini grazie ai quali “nacque la cultura propriamente detta”, stranieri itineranti che fecero commercio della loro saggezza e delle loro competenze come le etere facevano commercio del loro fascino. Ma i sofisti furono anche uomini di potere, che sapevano come persuadere i giudici, cambiare gli umori di un’assemblea, condurre a buon fine un’ambasceria, dare leggi a una nuova città, educare alla democrazia: in breve, fare opera politica. Questa duplice capacità ha un’unica fonte: la padronanza del linguaggio, dalla linguistica (morfologia, grammatica e sinonimica, che rese celebre Prodico) alla retorica (studio dei tropi, delle sonorità, delle proprietà del discorso e delle sue parti, in cui primeggiò Gorgia). I sofisti furono anzitutto, secondo la diagnosi di Hegel, “maestri dell’eloquenza”.
Questo tipo di legame costituisce il linguaggio, nel bene e nel male, la linea divisoria tra il “sofista” (σοφιστής), l’esperto in saggezza, e il “filosofo” (φιλόσοφος), l’amante della saggezza che non osa pretendere di possedere tutto il suo oggetto. […] I sofisti greci del V secolo a.C. rappresentano un fatto della storia intellettuale: furono forti personalità che creano una sorta di “movimento” caratterizzato da un atteggiamento di pensiero che oggi apprezziamo sempre più e che chiameremmo relativista, progressista, rivolto ai fenomeni e al mondo degli uomini, in altre parole umanistico. Nella seconda definizione, invece, il nome comune serve, quasi atemporalmente e non senza mistero, a designare, in filosofia, una delle modalità possibili di non-filosofare, quella del “ragionamento verbale”. È dunque necessario rendersi conto che la sofistica si costituì, e fu costituita, come un alter ego della filosofia: essa è, insomma, non solo un fatto storico, ma un effetto strutturale.
Lo si verifica già con i testi. Le disavventure della loro trasmissione hanno fatto sì che ci siano pervenuti solo pochissimi frammenti autentici, quasi tutti inseriti all’interno di testimonianze o interpretazioni tendenti a squalificarli.
I frammenti dei sofisti sono stati raccolti da Hermann Diels e Walter Kranz e, dopo di loro, da Untersteiner. Da queste grandi compagini emerge l’esiguità del corpus autentico, cioè attribuibile expressis verbis a qualcuno di loro. Esso mostra, tuttavia, due linee di forza ben chiare: da un lato, l’opera di Gorgia, con l’ontologia, o “meontologia”, del Trattato del non-essere e la retorica dell’Encomio di Elena e dell’Apologia di Palamede; dall’altro, quella di Antifonte, oggetto di scoperte e lavori più recenti, con le preoccupazioni etiche e politiche del papiro Sulla verità e le arringhe-modello costituite in particolare dalle Tetralogie. Ma i frammenti conservati non sono nulla rispetto all’ampiezza delle spiegazioni e rappresentazioni che hanno suscitato. La ricostruzione delle tesi e delle dottrine dei sofisti fa parte allora di una paleontologia perversa, poiché i medesimi testi sono fonte della nostra conoscenza e della nostra non conoscenza della sofistica.
[…] La sofistica, realtà storica, è al tempo stesso un artefatto, un prodotto della filosofia, che la presenta sempre come la peggiore delle sue alternative. […] Protagora […] fu, si dice, il primo sofista. Di lui possediamo in fin dei conti solo due frasi, una sugli dèi («non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono» fr.4 DK) e l’altra, la più celebre, sui χρήματα (le “cose”, come viene abitualmente tradotta quella parola: «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono» fr.1 DK).
Ora, questa seconda frase ha molto significativamente come contesto di trasmissione e di interpretazione niente meno che il Teeteto di Platone e il libro IV della Metafisica di Aristotele, senza contare il libro VII dell’opera Contro i matematici di Sesto Empirico. Ma è sufficiente il solo dialogo fra Socrate e Teeteto ad accreditare per sempre il senso relativistico e soggettivistico della “proposizione di Protagora” e a privarla di tutte le sue pretese: se la verità si riduce per ciascuno all’opinione che traduce le sue sensazioni, Protagora avrebbe potuto dire altrettanto bene che «la misura di tutte le cose è il porco, o il cinocefalo» (Teeteto, 161c). È così dall’insieme dei dialoghi di Platone che si delinea originariamente la figura ormai tradizionale della sofistica. Essa viene svalutata su tutti i piani: sul piano ontologico, perché il sofista non si occuperebbe dell’essere, ma si rifugia nel non essere e nell’accidentale (Sofista); sul piano logico, perché non ricercherebbe la verità e il rigore dialettico, ma soltanto l’opinione, la coerenza apparente, la persuasione e la vittoria nel duello oratorio (Eutidemo); sul piano etico, pedagogico e politico, perché il sofista non avrebbe come scopo la saggezza e la virtù, né per l’individuo né per la città, ma il proprio potere personale e il denaro (Gorgia); sul piano letterario, perché le figure del suo stile sarebbero soltanto le ampollosità di un vuoto enciclopedico (Protagora). Se misurata in base al criterio dell’essere e della verità, la sofistica dovrebbe essere condannata come pseudo-filosofia: una filosofia delle apparenze e un’apparenza di filosofia. L’operazione platonica consiste essenzialmente nel fare del sofista l’alter ego del filosofo, che non cessa di imitarlo e di farsi passare per lui. Essi si assomigliano, secondo quanto osserva lo Straniero nel Sofista, come «il lupo assomiglia al cane» (231a 6). Ma, anche soltanto in base al gioco dei casi della declinazione, ci rendiamo conto che la rassomiglianza è «il più scivoloso dei generi», perché nello scambio di repliche fra Teeteto e Socrate il dativo mette il sofista nella posizione del cane, e il filosofo in quella del lupo, benché solitamente il lettore non se ne avveda. […] Il sofista, imitatore del “saggio”, ne è un paronimo, una parola della stessa famiglia, né più né meno del filosofo stesso. Per cui, ed è proprio questo che affiora nel Sofista per sconvolgerne la rigorosa organizzazione, l’artefatto è produttore di filosofia, costringere al parricidio e provoca una riflessione sull’essere, il non essere, i grandi generi e la sintassi.
A sua volta, nel libro IV della Metafisica Aristotele confuta coloro che con “l’uomo-misura” di Protagora pretendono che «tutti i fenomeni siano veri» e credono di poter così sfuggire al principio di non-contraddizione: come Eraclito e tutti i Presocratici, essi semplicemente confondono il pensiero con la sensazione, e la sensazione con l’alterazione. Ora, fidarsi esclusivamente della sensibilità e della sensazione e cercare di tradurre in parole appropriate quel divenire incessante, significa voler afferrare degli uccelli in pieno volo e condannarsi al silenzio, come Cratilo, che si accontenta semplicemente di muovere il dito per indicare quel fiume sempre diverso da se stesso nel quale nessuno potrà mai bagnarsi. Il sofista, se persevera in modo conseguente nella sua pretesa fenomenologia del fugace e del relativo, si condanna al mutismo e si squalifica da solo. Ma che fare se preferisce continuare a parlare, sapendo di contraddirsi? In tal caso Aristotele, diversamente da Platone, non può accontentarsi di ridurre la sofistica all’ombra della filosofia (un’ombra dannosa, perché ingannata e ingannatrice): deve elaborare una vera e propria strategia di esclusione. Stavolta è nella dimostrazione dello stesso principio di non-contraddizione che risiede l’impossibilità di contravvenirvi. Questa dimostrazione è, infatti, una confutazione: essa parte da ciò che afferma l’avversario di quel principio, non foss’altro che per esprimere il suo rifiuto, e rende manifesta questa strabiliante conseguenza: che egli obbedisce al principio di non-contraddizione nel momento stesso in cui lo contesta. La sofistica è aristotelica nei suoi stessi termini: se parla, come fanno solitamente i sofisti, Protagora non può parlare che come Aristotele. La molla vera e propria della confutazione consiste in una serie di equivalenze che, fin dall’istante in cui sono enunciate, sono evidenti di per sé, come la stessa ontologia: parlare significa dire qualcosa, qualcosa che ha un senso e uno solo, lo stesso per me e per gli altri. È sufficiente che io parli, perché il principio di non-contraddizione dimostri immediatamente la sua validità: è impossibile che la stessa parola abbia e non abbia contemporaneamente lo stesso senso. È dunque sufficiente che io parli o «che l’avversario dica qualcosa», e Aristotele conclude l’argomento assicurando questa condizione necessaria e sufficiente nella definizione di uomo come «animale dotato di λόγος», che esclude a priori dell’umanità tutti coloro che non si prestano alla dimostrazione, perché un uomo siffatto è, in quanto tale, «simile a una pianta» (Metafisica, 1006a 14). Coloro che rifiutano di sottoporsi alla dimostrazione ritornano a un livello precedente al linguaggio, e si riducono a uno stato di silenzio o di rumore, liberi di interessarsi a «quel che c’è nei suoni della voce e delle parole», come il parlare senza significato di un barbaro: al significante, nella misura in cui non significa nulla. L’esistenza di senso, confusa in tal modo con l’aspirazione all’univocità, può allora diventare, soprattutto nelle Confutazioni sofistiche, una formidabile macchina da guerra contro l’omonimia (una sola parola usata per molteplici definizioni) e l’anfibolia (o omonimia nella sintassi, allorché una sola frase sia suscettibile di una pluralità di costruzioni). Ma il fatto è che Aristotele, molto più radicalmente, ponendo come equivalenti l’esistenza di non-contraddizione, l’esigenza di significato e l’aspirazione all’univocità, ha emarginato i refrattari e li ha relegati – come piante che parlano – agli estremi limiti non solo della filosofia, ma dell’umanità.
Se il sofista è l’altro del filosofo, se la filosofia lo estromette continuamente dal proprio campo di attività, è evidente allora che a sua volta il filosofo può definirsi come l’altro del sofista, un altro che la sofistica sospinge di continuo nei suoi trinceramenti. La filosofia è figlia dello stupore, e, come dice la prima frase della Metafisica, «tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza». Tuttavia,

“coloro che si pongono la questione di sapere se bisogna o meno onorare gli dèi e amare i propri genitori hanno bisogno solo di una buona correzione, e quelli che si domandano se la neve è bianca, non devono far altro che guardare”.
(Topici, 105a 5-8).

Il sofista (Protagora a proposito degli dèi, Antifonte a proposito della famiglia, Gorgia a proposito di ciò che è) esagera: pone sempre una domanda di troppo, trae sempre una conseguenza di troppo. Questa insolenza (ὕβρις, l’eccesso senza vergogna, e ἀπαιδευσία, l’incultura dei maleducati, sono i due termini greci che caratterizzano la percezione filosofica del sofista) riesce a far andare la filosofia letteralmente fuori di sé, costringe l’amore per la saggezza a trasgredire i limiti che si è assegnato e a compiere dei gesti – come agitare il bastone – che non riflettono certamente la stessa indole degli altri suoi modi di procedere: la sofistica segna i limiti della filosofia.
In questa prospettiva, si comprende perché è interessante studiare le ripetute resurrezioni della sofistica, il modo in cui essa elude continuamente la censura filosofica, e in particolare il movimento che, in piena età imperiale, cinque secoli dopo Protagora e Gorgia, si autodefinisce come “Seconda Sofistica”. Diversa dalla filosofia, dalla metafisica di Platone e di Aristotele fino a quella di Hegel e di Heidegger, e tuttavia nulla di puramente e semplicemente irrazionale, la sofistica costituisce una sfida sempre attuale.

Se la filosofia vuol ridurre al silenzio la sofistica, è perché, inversamente, la sofistica fa della filosofia un prodotto del linguaggio. Lo attesta in particolare un importante trattatello di Gorgia, siciliano nato a Lentini verso il 485 a.C., di cui possediamo due versioni: una ci è stata trasmessa da Sesto Empirico, Contro i logici, I.65-87, l’altra costituisce la terza parte di uno scritto dossografico anonimo, Su Melisso, Senofane e Gorgia (M.X.G.), tradizionalmente pubblicato all’interno del corpus aristotelico.
Del non-essere o della natura: il titolo del trattatello di Gorgia conservato dal Sesto è provocatorio. È lo stesso titolo conferito agli scritti di quasi tutti i filosofi presocratici che composero un trattato Sulla natura. Ma ne è anche l’esatto rovesciamento, perché, come non si stancherà di sottolineare Heidegger, tutti quei fisici, o fisiologi (primo fra tutti Parmenide), chiamano φύσις, “natura”, ciò che cresce e viene così ad essere: l’ente. Il trattato di Gorgia, che sotto quest’aspetto è emblematico della sofistica, deve essere quindi inteso come un discorso secondo, che critica un discorso già tenuto da altri, e in particolare il poema di Parmenide, che contiene in potenza tutta l’ontologia.
«Nulla esiste. Se poi esiste, è inconoscibile» (o, nella versione di Sesto, «non è comprensibile all’uomo»). «Se poi anche esiste ed è conoscibile, non è però manifestabile agli altri», ovvero non può essere «formulato e spiegato al prossimo» (frr 3; 3a DK). Dopo il titolo, è l’atto linguistico di Gorgia che per la sua stessa forma oppone una smentita allo sviluppo del poema. Al posto dell’auto-dispiegamento dell’«essere» nella sferica pienezza della sua identità presente e rappresentata, al posto della “natura” come progresso e cumulo identitario, il trattato presenta una struttura di regresso, che spende immediatamente la tesi principale e poi si assottiglia secondo le caratteristiche dell’antilogia, della difesa, del discorso ancora e sempre secondo. Questa struttura viene magistralmente descritta da Freud nel Motto di spirito, che si richiama ai sofisti ed è spesso chiamato in causa dagli interpreti: A ha preso in prestito da B un paiolo di rame, e quando glielo restituisce, B lamenta il fatto che il paiolo ha un grosso buco che lo rende inutilizzabile; A si difende dicendo: 1) non ha mai preso in prestito un paiolo da B; 2) quando l’ha preso in prestito, aveva già un buco; 3) ha restituito il paiolo intatto.
Ognuna delle tre tesi di Gorgia si presenta a turno come un rovesciamento ironico o grossolano di quel Parmenide scolastico che ognuno di noi, da Platone fino a oggi, ha dovuto imparare a memoria: anzitutto, che esiste l’essere, perché l’essere è e il non essere non è; in secondo luogo, che questo essere è essenzialmente conoscibile, perché essere e pensare sono una sola e medesima cosa, ragion per cui la filosofia, e in particolare quella filosofia prima che si chiama “metafisica”, ha potuto imboccare in modo del tutto naturale la sua strada: conoscere l’essere in quanto essere, e convertirsi in dottrine, discepoli e scuole. Essere, conoscere, trasmettere: non essere, non esser conoscibile, non essere trasmissibile. Con la sua prima tesi, tutta la strategia di Gorgia consiste nel farci capire che l’Essere, l’eroe parmenideo come Ulisse è l’eroe omerico, non è altro che l’effetto del poema. Seguendo il modo in cui all’inizio (Parmenide, fr. 2) «la via di ricerca» – È – basta a secernere, attraverso una serie di infiniti e participi, il soggetto pieno, ormai identificato in virtù dell’articolo – l’ente – , il sofista anatomizza il modo in cui la sintassi crea la semantica. Questa lettura è sufficiente a rovesciare la dimostrazione del poema, perché il non essere viene a essere inserito nella frase altrettanto bene dell’essere. Lo Straniero di Platone riprenderà questo argomento, tipicamente wittgensteiniano: Parmenide avrebbe fatto meglio a non parlare del non-essere, a non pronunciare quella parola, a non pensarla neppure, perché, a meno di compiere la disumana impresa di emettere i suoni come una campana che risuona, il linguaggio ci impone i suoi diritti, e chi dice οὐκ ἐστί (“non è”) arriva a dire τὰ μή ὄντα (“i non-enti”) ancora prima di rendersene conto, trascinato dalla forza della sintassi della lingua che parla (Sofista, 237a-239b). Gorgia lo esplicita con chiarezza:

“Se il non-essere consiste nel non-esistere, il non-essere per nulla sarà meno dell’essere; perché il non-essere è non-essere, e l’essere è essere, sicché il fatto che le cose non siano non vale meno del fatto che esse siano”.
fr. 3a DK

Come osserverà Hegel nella Scienza della logica, coloro che insistono sulla differenza fra l’essere e il nulla farebbero bene a dirci in che cosa essa consiste. Ma Gorgia mostra anche qualcosa di più, in una maniera che stavolta conduce, più che ad Aristotele, a Kant e a Benveniste: il non-essere si colloca nella frase non solo come l’essere, ma meglio di questo, cioè in modo meno “sofistico”, perché lascia di fatto meno spazio all’equivoco fra copula ed esistenza. Infatti, quando si dice “l’essere è essere”, i due sensi del verbo si confermano a vicenda e rischiano di confondersi; al contrario, la proposizione di identità applicata al nome essere (“il non-essere è non-essere”) non invita a concludere, se non in caso di errore o malafede, che il non-essere esiste, ma a distinguere fra i diversi sensi di “è”: l’ontologo è, del tutto naturalmente più sofista del sofista.
Nel secondo postulato del poema – «essere, pensare: la stessa cosa», per riprendere la traduzione paratattica dell’assai controverso fr. 3 proposta da Heidegger – la verità come disvelamento e poi come adeguamento trova il suo punto di ancoraggio: la catastrofe è perfetta. Basta, infatti, che io pensi qualcosa, e a maggior ragione che io lo dica, perché quella cosa, per ciò stesso, sia: se io dico «dei carri lottano in mare aperto», allora dei carri lottano in mare aperto. Questa serie di capovolgimenti non appartiene al virtuosismo retorico, e quindi esteriore, ma alla catastrofe nel senso etimologico del termine: è una critica radicale interna all’ontologia. Se è impossibile dire ciò che non è, allora tutto quel che si dice è vero. Non c’è posto per il non-essere, come non c’è posto per l’errore o la menzogna: è l’ontologia di Parmenide ed essa soltanto, presa alla lettera e spinta fino al limite estremo, che garantisce l’infallibilità e l’efficacia del discorso, che per ciò stesso è sofistico. Dunque il procedimento di Gorgia (trattato contro poema) consiste semplicemente nell’attirare l’attenzione, non senza insolenza, su tutte le manovre, comprese quelle del linguaggio e della discorsività, che consentono di instaurare il rapporto di disvelamento fra l’essere e il dire. L’effetto di limite o di catastrofe così ottenuto consiste nel mostrare che, se il testo dell’ontologia è rigoroso, cioè se non rappresenta un’eccezione rispetto alle regole da esso stesso instaurate, allora costituisce un capolavoro sofistico.
Al posto dell’ontologia, che è soltanto una possibilità discorsiva fra molte altre e che si autolegittima in modo puro e semplice, il sofista propone con le sue “esibizioni” (la parola ἐπιδείξεις designa già nei dialoghi di Platone le conferenze e i discorsi tipici dello stile sofistico) qualcosa che potrebbe essere definito “logologia”, per riprendere un termine arrischiato da Novalis, nella quale l’essere, per ciò che esso è, viene anzitutto prodotto ed esibito dal discorso. Lo si verifica agevolmente nell’Encomio di Elena, che servirà per sempre da modello per quel genere retorico per eccellenza che è il genere epidittico (ritorna nuovamente la parola ἐπιδείξεις, ma questa volta, nella terminologia retorica di Isocrate e soprattutto di Aristotele, nel senso più codificato di “encomio”). Anziché presentarci adeguatamente Elena di Troia, quella «faccia di cagna» che, due volte traditrice (della sua prima e della sua seconda patria), mise la Grecia a ferro e fuoco nella realtà della guerra e dei poemi omerici, Gorgia fabbrica un’Elena del tutto innocente che lo renderà celebre e che durerà a lungo nel tempo (da Euripide, Isocrate e Dione Crisostomo, fino a Offenbach, Claudel e Giraudoux). Egli prende in considerazione, uno dopo l’altro, quattro casi: Elena è innocente, se «fece quel che fece» per «cieca volontà del caso», per volontà degli dèi e per i decreti della Necessità («la Fatalità», come dirà nella Belle Hélène di Offenbach); ed è innocente per una seconda ragione, se, debole donna di fronte alla forza virile, «per forza fu rapita» (fr. 11, 6-7). Ma Gorgia aggiunge che essa è innocente se, terza ipotesi, fu persuasa con le parole, o se, quarto caso, era semplicemente innamorata. Come può la sua colpa – essersi lasciata sedurre – renderla innocente? Semplicemente perché Elena non può impedire a se stessa di avere occhi e orecchie, e come i suoi occhi videro il bel corpo di Paride, le sue orecchie ne ascoltarono i discorsi; ora, «la parola è un gran dominatore (λόγος δυνάστης μέγας ἐστί), che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce, infatti, e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà» (fr. 11, 8). Gorgia analizza allora gli effetti della tirannia del discorso nelle sue diverse sfere così come le sue cause profonde, ancorate nella dimensione temporale dell’uomo. In questa prospettiva, l’innocenza di Elena deriva in fin dei conti dalla potenza stessa del λόγος: sedotta dalle parole di Paride, ella non è colpevole, perché le parole sono veramente irresistibili, e l’encomio di Elena diventa così un encomio del λόγος, un encomio dell’encomio. Gorgia lo presenta come un gioco («il mio gioco», come dicono crudamente le ultime parole dell’Encomio di Elena): si tratta insomma di un’esibizione, al tempo stesso codificata e creativa, con la quale l’oratore può rafforzare il consenso ma anche fabbricarlo. «Facendo appello all’opinione», partendo da alcune banalità, da alcuni luoghi comuni (tutti dicono «a una sola voce e con un solo cuore» che Elena è la più colpevole delle donne), egli gioca con il λόγος per farli esistere altrimenti, per renderli altri da quello che sono e produrne altri («in ogni caso è esente da colpa»: Elena è da lodare). Altrimenti detto, c’è un momento in ogni encomio nel quale il linguaggio prende il sopravvento sull’oggetto e diventa produttore di oggetti, un momento nel quale la descrizione, il luogo comune si aprono. È il momento della creazione e, fra l’altro, della creazione dei valori: il momento della convergenza retorica fra la critica dell’ontologia e l’istituzione della politicità.
Se l’essere è un effetto del dire, l’immediatezza della natura e l’evidenza di una parola che ha il compito di esprimerla adeguatamente svaniscono insieme: la fisicità che la parola rivela lascia il posto alla politicità creata dal discorso. Si raggiunge così grazie ai sofisti la dimensione della politicità, e la città appare come la creazione continua del linguaggio. La sofistica, se è un gioco, è un gioco che produce il mondo, come il gioco del fanciullo eracliteo.