La raccolta dei “Panegirici Latini”

di D. Lassandro, G. Micunco (eds.), Panegirici Latini, Torino 2000, introduzione, 9-41.

1. I Panegirici Latini

Tra la fine del III e la fine del IV secolo d.C. (dal 289 al 389), nell’ambito della molteplice e vasta letteratura latina tardoantica, si collocano undici discorsi di elogio e di ringraziamento per alcuni imperatori romani[1], che furono grandi protagonisti di un’epoca densa di trasformazioni politiche, sociali, economiche e religiose: Massimiano, che, con il titolo di Augustus, fu al vertice dell’Impero dal 286 al 305 (insieme al fondatore e capo della «tetrarchia» Diocleziano) e poi ancora nel 307-308 (insieme a Costantino, suo genero); Costanzo Cloro, che, con il titolo di Caesar, operò soprattutto in Britannia, ove morì nel 306; il figlio di quest’ultimo, Costantino il Grande, proclamato Augustus dalle truppe alla morte del padre, che fu imperatore dal 312 al 337 ed è passato alla storia per la sua conversione al Cristianesimo; il nipote di Costantino, l’Augustus Giuliano (detto poi l’Apostata per aver egli abbandonato la religione cristiana della sua famiglia), che regnò brevemente dal 361 al 363; Teodosio il Grande, infine, l’ultimo sovrano dell’Impero romano unitario, che regnò dal 379 al 395.

Tali discorsi — tramandati con il titolo di Panegirici Latini[2]— furono tenuti in pubblico in circostanze ufficiali e solenni, e spesso alla presenza degli stessi imperatori, di cui venivano celebrate le gesta. Gli autori, tutti di origine gallica e provenienti dalle città di Treviri, Autun e Bordeaux, sedi di rinomate scuole, pronunciarono i loro discorsi — per la maggior parte (sette) proprio a Treviri, una delle abituali residenze imperiali dell’epoca, ma anche ad Autun (uno), a Roma (due) e a Costantinopoli (uno) — esprimendo in una prosa classica e solenne, di chiara impronta ciceroniana, non solo il loro pensiero riconoscente e devoto nei confronti del princeps, ma anche la mentalità dell’establishment politico-burocratico della Gallia tardoantica, cui essi, professori di retorica e funzionari dell’amministrazione, appartenevano.

Fu probabilmente l’ultimo dei panegiristi, Latino Pacato Drepanio, a mettere insieme in un’unica silloge i panegirici a noi pervenuti, che ovviamente non furono i soli discorsi di tal genere a essere scritti e pronunciati in quel secolo, ma che, a differenza di tutti gli altri, ebbero la ventura di essere tramandati, proprio grazie al loro essere raccolti in un’antologia, che forse era di natura scolastica. Non è poi difficile ipotizzare che Pacato abbia collocato al primo posto della silloge — raggiungendo così il canonico numero di dodici — un testo a suo giudizio paradigmatico, quale la gratiarum actio di Plinio il Giovane a Traiano del 100 (orazione che, anche se cronologicamente e tematicamente distante dalle altre, poteva ben essere assunta come modello latino del genere encomiastico), e poi, partendo da sé e risalendo nel tempo, abbia inserito al secondo posto il panegirico da lui stesso pronunciato per Teodosio (389) e, di seguito, quelli di Claudio Mamertino per Giuliano (362) e di Nazario per Costantino (321); a questi quattro discorsi abbastanza lunghi (rispettivamente di 94, 47, 32 e 38 capitoli) Pacato stesso — o un altro ordinatore? — avrebbe aggiunto altri otto discorsi, più brevi (mediamente di 20 capitoli), in onore di Massimiano (due: quelli del 289 e del 291), Costanzo Cloro (due: quelli del 297 e del 298) e Costantino il Grande (quattro: quelli del 307, 310, 312 e 313), continuando a disporli, ma non sempre rigorosamente, in ordine cronologico inverso (dal 313 al 289)[3].

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

2. Gli autori e i contenuti

Dei panegiristi conosciamo, perché essi stessi talvolta ne parlano, la provenienza geografica — le città di Augustodunum (Autun) nella Gallia Lugdunensis, Augusta Treverorum (Treviri) nella Belgica, Burdigala (Bordeaux) nell’Aquitania — la formazione culturale (avvenuta nelle scuole di quelle città), le carriere politiche e amministrative e — di alcuni — anche il nome: Mamertino, Eumenio, Nazario, Claudio Mamertino, Latino Pacato Drepanio.

I panegirici del 21 aprile 289 (II [10]) e il «Genetliaco» del 21 luglio (?) 291 (III [11]) furono tutti e due pronunciati a Treviri da un retore del luogo, Mamertino, in onore degli Augusti Massimiano «Erculio» e Diocleziano «Giovio»: nel primo si celebrano le vittorie di Massimiano sulle bande rivoltose dei contadini gallici (i Bagaudi), sui Germani e sui pirati; nel secondo l’anniversario della assunzione dei titoli «divini» da parte degli imperatori e la loro concordia e felicitas.

Il panegirico del 1° marzo 297 (IV [8])[4] fu detto, molto probabilmente a Treviri, da un anonimo retore proveniente da Autun, a nome della civitas Aeduorum (Autun appunto), in occasione dei Quinquennalia, le solenni feste anniversarie della elevazione di Costanzo Cloro al titolo di Cesare: nel discorso si celebrano la campagna di Britannia del principe e le sue vittorie sugli usurpatori Carausio e Alletto.

Il panegirico della primavera del 298 (V [9]) ha per autore, espressamente nominato nel testo stesso (cap. 14)[5], Eumenio, retore e professore, nato in Autun, ma appartenente ad una famiglia di maestri di origine greca, stabilitasi prima a Roma e poi in Gallia. Il discorso, che è l’unico tra gli undici non direttamente rivolto all’imperatore (Costanzo Cloro), fu pronunciato in Autun davanti al governatore della provincia lionese (cui l’oratore si rivolge nel corso del discorso col titolo ufficiale di Vir perfectissimus[6]), in occasione della rinascita — dopo la distruzione avvenuta molti anni prima ad opera dei Bagaudi — della città e delle sue antiche e celebri scuole «Meniane»[7]: l’autore, già magister memoriae di Costanzo, preposto alla direzione delle scuole stesse, alla cui ricostruzione generosamente egli destina parte del suo considerevole stipendio di direttore (cap. 11), traccia un quadro interessante della realtà scolastica della sua città e del suo tempo[8].

Nel panegirico del 31 marzo 307 (VI [7]), tenuto probabilmente a Treviri da un retore del luogo (forse un discepolo di Mamertino, come può dedursi dalle analogie dello stile, breve ed elegante), in occasione delle nozze di Costantino con Fausta, la figlia di Massimiano, sono accomunati nell’elogio il genero ed il suocero: la loro concordia è giudicata una garanzia di difesa per lo Stato.

Nel panegirico di fine luglio del 310 (VII [6]), invece, pronunciato sempre a Treviri da un retore di Autun, sono celebrati gli inizi della carriera imperiale di Costantino, mentre Massimiano, morto ormai in disgrazia, è dipinto a fosche tinte. Significativa in questo (e nel successivo) discorso la consapevolezza degli abitanti di Autun — la cui voce il panegirista rappresenta nella residenza imperiale di Treviri — di essere non soltanto Galli, ma anche e soprattutto Romani, e di meritare per questo una speciale protezione da parte dell’imperatore.

Nel panegirico del 312 (VIII [5]), detto a Treviri, l’autore, cittadino e senatore di Autun, professore anch’egli nelle scuole «Meniane», ringrazia Costantino — convenuto nella città imperiale per celebrarvi le feste Quinquennalia (quinto anniversario della nomina ad Augusto e del matrimonio con la figlia di Massimiano) — per la visita compiuta l’anno precedente nella civitas Aeduorum (Autun), quando l’imperatore, resosi conto dei gravi danni subiti dalla città a causa delle rivolte bagaudiche, aveva mostrato la sua benevolenza e generosità condonando agli abitanti parte delle imposte arretrate.

I panegirici del 313 (IX [12]) e del 1° marzo 321 (X [4]) — pronunciati, rispettivamente, da un anonimo di Autun a Treviri alla presenza di Costantino, e da Nazario di Bordeaux (retore famoso di cui tramandano notizia anche Ausonio nella Commemoratio professorum Burdigalensium[9] e Girolamo nel Chronicon[10]) a Roma davanti ai due Cesari figli di Costantino, Crispo e Costantino il Giovane — hanno entrambi come tema centrale il racconto della discesa di Costantino in Italia (Susa, Torino, Milano, Brescia, Verona, Modena) e della gloriosa vittoria di Ponte Milvio, terminata con la sconfitta e la morte dell’usurpatore Massenzio.

Il panegirico XI [3] fu tenuto il 1° gennaio 362 a Costantinopoli dal trevirese Claudio Mamertino (forse discendente del primo Mamertino), convinto sostenitore di Giuliano e da questo nominato, nell’anno precedente, amministratore del tesoro, prefetto dell’Illiria e infine console[11]. Come l’orazione pliniana il discorso è una gratiarum actio per il consolato ottenuto: il panegirista, che aveva seguito Giuliano nella lunga marcia dalla Gallia verso l’Oriente, descrive l’attività di buon governo del principe e ne esalta le virtutes militari e morali, quelle virtù che avevano consentito a lui di avanzare alla testa delle truppe seguendo il corso del Danubio, per giungere finalmente a Costantinopoli (nel frattempo, era morto a Naissus il cugino e rivale, l’Augusto Costanzo) a prender pieno possesso della dignità imperiale.

Il panegirico XII [2] — detto a Roma nell’estate del 389, davanti al Senato dell’Urbe ed all’imperatore Teodosio il Grande, da Latino Pacato Drepanio di Bordeaux (come si rileva dalle frequenti menzioni del suo nome nell’opera del conterraneo Ausonio)[12] — celebra le virtù civili e il valore militare dell’imperatore, dedicando ampio spazio alla rivolta dell’usurpatore Massimo in Gallia, alla sua sconfitta in Pannonia e alla sua morte in Aquileia.

Teodosio I e la sua corte. Missorium (replica), argento, 388-392, da Almendralejo (Badajoz). Mérida, Museo Nacional de Arte Romano.

3. Retorica e storia nei Panegirici

Il nome «panegirico» risale all’omonimo discorso che nel 380 a. C. il celebre oratore greco Isocrate scrisse per un’immaginaria assemblea del popolo ellenico, con lo scopo di rivendicare la preminenza politica di Atene e sollecitare la collaborazione con Sparta[13]. Il vocabolo nelle sue componenti etimologiche racchiude i valori semantici della «universalità» (πᾱν) e della «assemblearità» (ἀγoρά) e sta ad indicare un genere oratorio — il genere epidittico o dimostrativo (γένος έπιδειχτιχόν)[14] — caratterizzato dall’essere destinato ad una ricezione pubblica e solenne.

La πανηγυριχή λέξις, ritenuta in seguito da Cicerone più adatta alle esercitazioni scolastiche che non alle dispute forensi[15] e da Quintiliano inidonea alle battaglie politiche e giudiziarie[16], divenne poi nella tarda antichità sinonimo di laudatio e di gratiarum actio e come tale si cristallizzò, fino a essere canonizzata nello schema del βασιλιχòς λóγος, che un retore greco del III secolo d. C., Menandro di Laodicea, teorizzò in un suo trattato (Περί γενεθλίων ἐπιδεικτικῶν)[17], prescrivendo agli scrittori del genere la trattazione dei seguenti punti: 1. proemio: inadeguatezza dell’autore/grandezza dell’elogiato; 2. patria, città e popolo di origine del personaggio (πατρίς πόλις ἔθνς); 3. famiglia (γένος); 4. nascita (τὰ πεϱὶ τῆς γενέσεως); 5. qualità naturali (τά περί φύσεως); 6. educazione e infanzia (ἀνατροφή καί παιδεία); 7. genere di vita e occupazioni (ἐπιτηδεύματα); 8. gesta per illustrare le virtutes (πράξεις); 9. fortuna (τά τῆς τύχης); 10. epilogo, comprendente confronti con altri personaggi celebri.

E tale schema elogiativo fu sostanzialmente seguito dai panegiristi gallici, i quali con abile arte retorica, da un lato nutrita di solida cultura (formatasi soprattutto sui grandi classici della letteratura latina: Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.) e dall’altro esercitata nella vivace palestra dell’oratoria scolastica, elaborarono dei discorsi politici e di propaganda filoimperiale, nei quali, in genere con intelligenza e misura, presentarono le linee portanti dell’ideologia del buon reggitore dello Stato, realizzatasi finalmente con l’avvento dell’imperator invictus. Tale idealizzazione invero, fondata sul modello repubblicano del buon reggitore della cosa pubblica (si pensi al Somnium Scipionis ciceroniano), con Augusto aveva avuto inizio ed era poi, nei secoli successivi, divenuta sempre più patrimonio della mentalità comune delle popolazioni dell’Impero, per giungere, nell’età tardoantica, a essere formulata con grande chiarezza e con marcata connotazione politica nei Panegirici Latini.

La caratterizzazione ideologico-politica — di creazione e ricerca del consenso intorno alla figura del principe — è evidente nei panegirici, e di tale caratterizzazione la accorta e studiata retorica degli autori è utile strumento di diffusione: questa era d’altronde nel mondo romano l’essenza della retorica che, come aveva notato Quintiliano nel I secolo, non era solo capacità di persuadere — una simile e più ampia forza avevano, a suo giudizio, anche il denaro, il favore popolare, la bellezza (come quella della cortigiana Frine, accusata di empietà e difesa più che dalla orazione di Iperide[18], dall’avvenenza del suo corpo) — ma si identificava con la politica e la filosofia[19]. I panegiristi infatti nei loro retorici discorsi appaiono testimoni attendibili della realtà politica e sociale della Gallia renana del III-IV secolo, nell’epoca in cui, soprattutto in quelle regioni di frontiera, si venivano contrapponendo, ed anche fondendo, il mondo romano e quello barbarico.

I panegiristi, che appartenevano ai quadri della burocrazia statale e della dirigenza politica dello Stato romano (furono in genere professori e/o funzionari), divennero non solo convinti sostenitori della politica dell’imperatore, ma anche attivi promotori del consenso attorno a lui: ne rappresentarono perciò la figura come quella di un principe forte, giusto, vittorioso, clemente, liberale, e così via, delineando in tal modo le linee costitutive di un ideale di sovrano (Herrscherideal), che essi ritenevano pienamente realizzato in colui del quale di volta in volta celebravano le lodi[20]. Per questo nei loro discorsi mirano a dare un’immagine di generale felicitas, diffusa nell’intero Impero romano, in ogni parte del quale — essi dicono — sono finalmente tornate la sicurezza e la pace (IV 18, 4: omnibus nationibus securitas restituta). E diffusa in primo luogo in Gallia, una grande provincia, i cui popoli, soprattutto gli Edui di Autun, che si sentono distinti e separati dalle vicine gentes transrenane (le barbarae nationes), sono orgogliosamente consapevoli di essere da secoli fratres populi Romani (V 4, 1; VIII 2, 4 e 3, 1)[21].

Ma al di là dell’evidente valenza «ideologica», altrettanto significativo è il valore storico dei panegirici, che già il grande Gibbon riteneva fonti di «verità»[22] e che cominciano ad essere apprezzati anche dagli studiosi moderni[23]. Questi discorsi infatti sono talvolta fonti uniche, o comunque decisive, nel tramandare notizie su accadimenti importanti svoltisi tra il III e il IV secolo d. C., come, ad esempio, le rivolte bagaudiche — quei movimenti «rivoluzionari» di contadini e soldati ribelli, che per lunghi anni scossero l’assetto sociale della Gallia romana, soprattutto nei territori lungo il Reno — o la vittoria di Costantino su Massenzio a Ponte Milvio, ecc.

Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum.

Diverse e molteplici sono le tematiche svolte dai panegiristi per elogiare le res gestae dell’imperatore romano e celebrarlo come il sovrano ideale. Tra queste le più ricorrenti appaiono: la celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione dell’avversario; la repressione delle rivolte contadine dei Bagaudi e la ricostituzione dell’ordine sociale; il rinnovamento politico, il risanamento morale e la rinascita economica; la vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes renano-danubiano; l’integrazioneromanobarbarica e l’inserimento dei cultores barbari.

1. La celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione del nemico

Soprattutto sul concetto di invincibilità del principe — attraverso i resoconti delle spedizioni militari, delle battaglie, degli assedi, delle imprese valorose dei soldati romani, degli atti di clemenza nei confronti degli sconfitti, ecc. — i panegiristi incentrano i loro discorsi, nei quali l’elogio delle virtutes sia civili sia militari dell’imperatore ricorre con frequenza costante.

In questa prospettiva poi, e in modo specularmente antitetico rispetto alla celebrazione dell’imperatore, è demonizzato ogni suo nemico o avversario, interno o esterno, politico o militare che sia, il quale viene descritto secondo un cliché negativo[24]: in tal modo da una parte è collocato l’imperatore, personificazione e simbolo del bene, dall’altra invece l’avversario, incarnazione stessa del male; da una parte colui che riunisce nella sua persona tutte le qualità positive (religiose, civili, militari, ecc.), elevate al massimo grado, dall’altra invece chi racchiude in sé, sempre al massimo grado, ogni elemento negativo[25].

Molti invero sono gli elementi, sia di contenuto sia di forma, che denotano la forte presenza nei panegirici di un’idea politica e propagandistica, secondo la quale è da ritenersi mostruoso e turpe chi, agendo sacrilegamente, osa contrapporsi al legittimo e divino potere dell’imperator sacratissimus: Carausio, Alletto, Massimiano (pur elogiato in un altro panegirico), Massenzio, Massimo — di volta in volta i nemici di Costanzo, Costantino, Teodosio — sono infatti presentati come estrema antitesi del principe ideale; sono tyranni e hostes, nemici non solo dello Stato, ma di tutto il genere umano, meritevoli quindi del più totale disprezzo.

Carausio, per esempio, l’usurpatore che nel 287 si fece riconoscere imperatore, ponendosi a capo di una ribellione ai tetrarchi scoppiata nelle regioni costiere della Gallia settentrionale ed estesasi a quelle della Britannia meridionale, è da Mamertino bollato col termine spregiativo di pirata, giudicato meritevole della più totale rovina e paragonato a Gerione, il mitico e orribile pastore dalla triplice testa, del quale è ancor più spaventoso (II 12, 1-2). Ancora alcuni anni dopo, nel 297, il panegirista di Costanzo conserva le linee propagandistiche della negativa raffigurazione di Carausio, definendolo condottiero di una banda di disperati e autore di un’esecrabile ed empia azione delittuosa (IV 12, 1) e disegnando a tinte forti anche il successore, il satelles Alletto, che, amens (IV 16, 2)[26], è predestinato a sconfitta e morte senza onore.

Soprattutto nei panegirici costantiniani è descritta con molta efficacia espressiva e a fosche tinte la figura del nemico: costui, opponendosi all’imperatore, che ovviamente è invincibile perché protetto dalla divinità, è fatalmente spinto dalla sua stessa follia e rabbia all’annientamento di se stesso. Esemplare, sotto questo aspetto, la rappresentazione di Massimiano. Accomunato in un primo discorso al potente genero nella lode (nel panegirico del 307 è elogiato il divinum iudicium di Massimiano), dopo la rottura con Costantino e la morte per suicidio, subisce un processo di demonizzazione postuma e viene presentato come il prototipo dell’uomo maledetto dalla divinità: nel panegirico del 310 infatti egli non è più l’imperator aeternus celebrato nel discorso precedente, ma un uomo che fin dalla nascita ha avuto in sorte un esecrabile destino (VII 14, 5) e che, folle perché privo della protezione divina, ha osato ribellarsi a Costantino, usurpando l’Impero e turbando la fides dei soldati: perciò il suo empio atto è stato punito con la morte dagli dèi. Come è evidente, il ribaltamento della prospettiva da un panegirico all’altro è totale e rispecchia il reale svolgersi della vicenda storica e «ideologica» di Massimiano, il quale nell’immaginario collettivo — che i panegirici fedelmente rispecchiano — passa da principe ideale a tiranno detestabile, da simbolo del bene a simbolo del male.

È poi la raffigurazione di Massenzio, nei panegirici del 313 e del 321, a rivelare chiaramente la forza di un tema di natura religiosa — l’abiezione cui inevitabilmente perviene chi profana la sacra maestà dell’imperatore — utilizzato nella propaganda politica costantiniana quale supporto ideologico per l’opera di damnatio memoriae. Massenzio, sprezzantemente definito suppositus, cioè figlio illegittimo di Massimiano, è presentato come l’antitesi esatta di Costantino (IX 4, 3-4): la nascita (da una parte il figlio del pius Costanzo, dall’altra un figlio illegittimo), l’aspetto fisico (da una parte il decor tutto romano di Costantino, dall’altra la deformità «barbarica» di Massenzio), le qualità morali (da un lato la pietas, la clementia, la pudicitia, dall’altro l’impietas, la crudelitas, la libido), il rapporto con la divinità (l’uno segue i divina praecepta, l’altro si lascia trascinare dai superstitiosa maleficia), il modo di esercitare il potere (l’uno rigetta calunnie e delazioni, l’altro saccheggia i templi ed è rovina per il popolo romano), tutto divide e allontana Massenzio, simbolo del male, da Costantino, simbolo del bene.

E nel resoconto della decisiva battaglia di Ponte Milvio (312) il quadro è costruito, soprattutto dal panegirista del 313, con lo scopo di colpire l’immaginazione degli uditori (IX 17). Al solo apparire di Costantino in tutto il suo splendore di sovrano, Massenzio e i suoi restano atterriti e volgono in fuga precipitando in gran numero nel Tevere. Massenzio stesso viene inghiottito dal fiume, perché a lui, empio, non sia concesso l’onore di essere ucciso di spada o di freccia; e il Tevere non ne trascina via il corpo, ma lo lascia in quel luogo a perenne memoria della estinzione definitiva di un così deforme prodigium. La descrizione della battaglia si conclude con la preghiera al Tevere, nella quale l’antichissimo concetto dell’esecrazione del tiranno viene applicato a Massenzio: il fiume — proclama l’anonimo autore — non ha sopportato che sopravvivesse un falso Romolo, un parricida urbis: nel passo il tono dell’invocazione, nella quale retorica e sincerità di ispirazione sono ugualmente presenti, evidenzia il significato religioso attribuito alla vittoria di Costantino e alla damnatio memoriae di Massenzio.

Nel panegirico scritto da Nazario invece, più lontano dalla data della battaglia (si è nel 321), vi è forse meno asprezza verbale nei confronti dello sconfitto Massenzio, ma la tematica è identica: a Costantino, che nella sua generosità e magnanimità vorrebbe evitare lo scontro e preferirebbe vincere piuttosto i vitia che non le armi dell’avversario, si oppone la cieca follia di Massenzio, il quale, nella terribile disfatta, non ottiene nemmeno una morte virile, ma, tradito dalla sua stessa turpe fuga, precipita nel Tevere: così finalmente — esclama Nazario — scelleratezza, perfidia, furore, superbia, lussuria sono eliminate dal mondo (X 31, 3).

Nel panegirico di Claudio Mamertino a Giuliano, così come nel discorso di Eumenio, lo sviluppo della topica antitesi imperator victor et optimus / hostis victus et pessimus è assente, data la particolare struttura dell’orazione che è una gratiarum actio; ma basta un solo accenno agli usurpatori, per rincontrare le usuali requisitorie: furore, follia, corsa cieca verso l’inevitabile morte accomunano infatti agli usurpatori del passato anche il romano Flavio Popilio Nepoziano, che nel 350 si era impadronito della città di Roma, facendosi proclamare imperatore, e il franco Silvano, un magister peditum, che nell’agosto 355 aveva assunto la porpora, ma era stato assassinato qualche settimana dopo (XI 13, 1-2).

Nell’ultimo panegirico infine vengono ricordate l’usurpazione, la sconfitta e la morte nel 388 in Aquileia di un importante avversario politico di Teodosio, Magno Massimo. Latino Pacato Drepanio, che scrive nell’anno successivo alla vittoria di Teodosio, presenta l’usurpatore con lo stesso schema concettuale, e perfino con la stessa terminologia, usati dai panegiristi precedenti per gli altri tiranni. Anche da Pacato la detestata figura di Massimo è contrapposta alla celebrata immagine dell’imperatore: mentre Teodosio infatti compiva le sue imprese vittoriose in terre lontane, Massimo — sprezzantemente definito patris incertus, tyrannus, carnifex purpuratus, belua furens, pirata, praedo, latro (XII 24, 1 sgg.) e inoltre connotato come uomo dalla crudeltà senza limiti, tanto da esser capace di infierire persino sulle donne[27] — osava tramare una segreta congiura per assumere il potere,invadendo l’Italia e scacciandone il legittimo sovrano Valentiniano II; ma dopo la sconfitta veniva indotto dalla sua stessa follia, ormai disperato, a fuggire verso Aquileia incontro alla morte, che pur desiderando pavidamente rifuggiva[28].

La battaglia di Ponte Milvio (312). Illustrazione di Seán Ó’ Brógáin.

2. La repressione delle rivolte dei Bagaudi

Nei panegirici vi sono le più antiche e importanti testimonianze sulle rivolte dei Bagaudi[29], quei contadini ribelli, di natura probabilmente celtica (come parrebbe dall’etimologia del nome)[30], i quali, spinti dalla miseria e dalla disperazione, nei secoli III e IV d. C. percorsero la Gallia, devastando città, tra cui in primo luogo Autun (e forse per questo sono augustodunensi i due panegiristi che ne parlano), e campagne, per essere poi sconfitti dall’imperatore Massimiano (ma non definitivamente, perché il movimento bagaudico continuò a sussistere per almeno altri due secoli, estendendosi anche in Spagna)[31].

Nelle prime due testimonianze — contenute, l’una nel discorso di Eumenio (V 4, 1-2), l’altra in quello anonimo del 312 (VIII 4, 2) — è ricordata la distruzione della ricca e fiorente città di Autun, avvenuta nel 269, durante l’impero di Claudio Gotico, a opera di rebelles Gallicani. Eumenio dà la notizia quasi di sfuggita, in un passo dedicato all’orgogliosa rivendicazione dei meriti della città (la fraterna amicizia con Roma) e all’elogio della liberalità degli imperatori, grazie ai quali era stata risollevata dalle rovine causate dal latrocinium e dalla rebellio Bagaudica[32]. Il panegirista del 312 invece, ricordando l’ormai lontano assedio, ne descrive le condizioni con espressioni che fanno trasparire, a distanza di oltre quarant’anni, l’ancora amaro ricordo di un evento tanto funesto.

Altre importanti testimonianze sui Bagaudi sono nei due panegirici di Mamertino per Massimiano (anni 289 e 291), nei quali si celebra la vittoria dell’imperatore sui ribelli, sconfitti militarmente negli anni 285-86 (II 4, 3-4; III 5, 3). Massimiano viene celebrato perché egli, appena ottenuta la nomina a Caesar, ha abbracciato il difficile compito di portare soccorso alla navicella dello Stato, e non in un momento di tranquillità, ma quando tale navicella era in grave pericolo a causa delle sommosse dei Bagaudi, pastori e contadini ribelli, che avevano indossato l’armatura militare ed erano insorti arrecando ovunque danno e rovina. Ma, come un tempo aveva fatto il dio Ercole (Herculius era stato il titolo assunto da Massimiano al momento dell’ascesa al potere, Iovius invece dal collega maggiore Diocleziano), che aveva prestato soccorso a Giove impegnato nell’epica lotta contro i «biformi» Giganti (metà uomini e metà serpenti), così Massimiano era giunto in aiuto di Diocleziano, combattendo e sconfiggendo altri «mostri biformi», i Bagaudi, simili, per l’insolito loro duplice aspetto — di contadini e di soldati insieme — ai mitologici nemici di Giove[33].

In entrambi i passi ricordati, Mamertino esprime idee e valutazioni non soltanto sue, ma comuni all’ambiente e alla classe sociale cui egli, come tutti gli altri panegiristi, appartiene — la classe dell’establishment, vicina all’imperatore e a lui grata per la restaurazione dello status quo, cioè del benessere e dei consueti privilegi, che erano stati minacciati e messi in pericolo dalle sommosse bagaudiche — e ben ne rappresenta la mentalità e l’opinione pubblica, di «odio» verso quei ribelli. La ricorrente presenza di figure retoriche poi (anafora, chiasmo, ecc.) rivela lo stupore di Mamertino davanti all’ardire di pastores e cratores (termini usati in senso spregiativo, in quanto contrapposti ai più nobili pedites, equites), che hanno osato rivestire l’armatura militare, tentando così di turbare l’assetto sociale e politico della Gallia e la prosperità economica delle città e della gente onesta che in esse viveva. Il panegirista nel rievocare, ovviamente con enfasi, l’opera devastatrice dei contadini nelle campagne da essi stessi coltivate, esalta la figura di Massimiano, rivolgendoglisi direttamente e ricordandone la fortitudo, la clementia e la pietas: la virtus degli imperatori ha liberato lo Stato da un dominatus saevissimus, causa di iniuriae gravissimae per le province galliche, le quali, ormai stremate dalle rivolte, hanno così potuto ristabilire rapporti di devota e spontanea sudditanza verso Roma.

Dai vivaci resoconti di Mamertino emerge in particolare la caratterizzazione e rappresentazione della natura dei ribelli, contadini e soldati, e quindi, come i mitici Giganti, «biformi» e «mostri». Significativa riprova della diffusione di un simile paragone «ideologico» può essere ritenuto un grande gruppo scultoreo, certamente databile all’epoca delle prime e più violente rivolte bagaudiche (ultimi decenni del III secolo), rinvenuto in frammenti (circa duecento) nel 1878, proprio nella stessa zona (casuale coincidenza?) che era stata teatro delle jacqueries bagaudiche, e precisamente nel villaggio di Merten in Lorena[34]. Si tratta di un reperto in pietra arenaria, formato da una base a tre piani, da una colonna con capitello e da un gruppo statuario, di pregevole fattura ed espressività, rappresentante un cavaliere che atterra sotto le zampe del suo cavallo una figura per metà uomo (fino alla cintola) e per il resto serpente. Il cavaliere, dal volto barbuto, indossa la corazza e, al di sopra di questa, il paludamentum, il tipico mantello dei generali romani, e porta, ai piedi, i coturni; il braccio destro, oggi mancante, doveva essere posto in posizione elevata, nell’atto di colpire con la lancia il nemico caduto. Costui poi appare nell’atto di fare resistenza al cavallo che lo sta schiacciando, mentre il suo volto che, rispetto a quello nobile del condottiero, presenta tratti di rozzezza e primitività, ha un’espressione di stupore attonito e terrorizzato. Ma la caratteristica più interessante del personaggio sconfitto è la sua duplice natura: egli ha infatti, al posto delle gambe, il corpo di un drago (o, se si vuole, di un serpente)[35].

La scultura di Metz rappresenta certamente una scena di vittoria e fu probabilmente elevata sulla colonna per celebrare, come era usuale per monumenti del genere nell’antichità (e come d’altronde si è continuato a fare anche in età moderna), la vittoria su un nemico particolarmente spaventoso ed efferato: non si tratta infatti di una generica celebrazione della civiltà romana vincitrice sulla barbarie, ma di un preciso evento di natura militare, una battaglia cioè, in cui il Romano (il cavaliere) vince sulle forze avverse (il gigante anguiforme). Per questo un ideale accostamento del testo letterario di Mamertino al gruppo statuario di Metz sembra quanto mai credibile: molte infatti appaiono le analogie e le somiglianze, tanto che il passo del panegirista potrebbe in un certo qual senso essere posto come didascalia esplicativa del monumento stesso: il cavaliere barbuto rappresenterebbe assai bene Massimiano, l’imperatore vittorioso e, soprattutto, il gigante sconfitto — raffigurato come anguipede, secondo uno schema tipico della letteratura e dell’arte antiche — raffigurerebbe il monstrum biforme di cui parla il panegirico riferendosi al ribelle Bagauda in armi, il contadino divenuto soldato[36].

Anche nel panegirico del 307 infine vi sono i temi (e, in parte, i termini) di Mamertino: l’autore, esponente illustre della sua città (Treviri) e portavoce degli stati d’animo, della cultura, dei ricordi e dei desideri dei suoi concittadini, elogia l’imperatore per aver posto riparo ai danni provocati dai Bagaudi e aver restaurato finalmente in Gallia l’autorità dello Stato, da cui è giunta nuova salvezza per la nazione.

L’atteggiamento dell’opinione pubblica dei ceti cittadini che, attraverso le testimonianze panegiristiche, riusciamo a intravedere è dunque nettamente ostile ai Bagaudi e può forse essere interpretato come una significativa testimonianza di quel contrasto «di classe» — da una parte gli abitanti delle città, civilizzati ed istruiti, dall’altra le masse contadine, che aspiravano a un migliore livello di vita — che, secondo il Rostovzev, sarebbe stato alla base della progressiva decadenza dell’impero[37]: le rivolte dei Bagaudi contro l’establishment dimostrerebbero infatti che si andavano formando, in quell’epoca di tensioni sociali ed economiche, come «due mondi culturali distinti, quasi incomunicabili, ed in opposizione tra loro»[38] e si approfondiva ancor più la distinzione sociale ed economica tra gli honestiores, cioè i benestanti, depositari della «onorabilità» sociale, e gli humiliores, la gente più povera, addetta ai lavori della terra.

Naturalmente i panegirici — in quanto fonti contemporanee al momento di massima esplosione delle rivolte bagaudiche — determinano una vulgata storiografica sulle rivolte stesse, caratterizzata, da un lato, dall’elogio del vincitore, dall’altro, quasi rovescio della medaglia, dalla valutazione fortemente negativa degli insorti. E gli storici successivi conserveranno le linee fondamentali di questa tradizione, anche se elimineranno, specie i cristiani, il tono aspro e duro nei confronti dei ribelli[39].

Cavaliere romano abbatte un gigante anguipede. Gruppo scultoreo su colonna, marmo, fine III secolo, da Merten. Metz, Musée de la Cour d’Or.

3. Il rinnovamento politico e morale e la rinascita economica

Con grande frequenza i panegiristi esprimono il concetto secondo cui l’adventus dell’imperatore — e con lui di un governo giusto e liberale — ha dato finalmente avvio al risanamento sociale e morale dello Stato: sulla base di questo parametro elogiativo compaiono frequentemente nei panegirici, da un lato la ricorrente lamentazione sullo stato delle province devastate dalle guerre e dai soprusi degli amministratori disonesti, dall’altro l’elogio del principe, che ha posto fine alle incessanti rapinae di costoro e ha finalmente fatto trionfare la giustizia, dispensando altresì i doni della sua liberalità, ristabilendo il buon governo e promuovendo il rifiorire dell’agricoltura e dell’economia della Gallia.

Nel panegirico del 297, per esempio, l’autore ringrazia Costanzo, reduce da un’importante vittoria sui pirati Britanni, per aver riportato la felicitas nelle terre dell’impero, e in particolar modo in Britannia, che così è tornata a essere regione fertile, ricca di pascoli e miniere, fornitrice di ricchezza per l’impero grazie alle sue rendite fiscali (IV 11, 1). Il panegirista si mostra ben lieto perché, dopo le tante rovine dovute al malgoverno e alla corruzione dei funzionari, si è finalmente ottenuta una stagione di benessere e prosperità: lungo i portici di Treviri si può vedere infatti — segno di potenza e di ricchezza — una folla di barbari impauriti trapiantati nel territorio romano, destinati ad animare il mercato cittadino e a contribuire con il loro lavoro al benessere collettivo (IV 9).

Nel panegirico del 310 per Costantino si elogia il padre Costanzo per l’alto senso di giustizia da lui mostrato nel restituire i beni perduti a coloro che ne erano stati ingiustamente privati. Analogamente sono elogiati i soldati di Costantino, perché non si erano lasciati corrompere dalle promesse di denaro di Massimiano, il suocero divenuto rivale ed avversario del potente genero, ed erano rimasti fedeli al loro condottiero.

Ma è soprattutto nel panegirico del 312 che appaiono lunghe digressioni sullo stato di corruzione e decadenza morale delle province: l’autore si sofferma lungamente a descrivere le afflictiones di Autun, causate soprattutto dalla gravosissima pressione fiscale (novi census acerbitas VIII 5, 4), ed elogia Costantino per aver finalmente, con la sua visita, riportato la giustizia e risollevato le finanze degli abitanti, condonando tutta una serie di insostenibili gravami fiscali. Per il panegirista l’arrivo dell’imperatore rappresenta l’atteso segnale di renovatio, di un rinnovamento sociale, economico e morale. Egli accenna alle tristi condizioni in cui versa il popolo degli Edui, cui l’insicurezza politica e sociale ha tolto la volontà e i mezzi stessi per lavorare la terra. L’aspetto della regione rivela infatti squallore e abbandono: non si incontrano più, come in passato, coltivatori barbari (Remi, Nervi o Tricassini) intenti al lavoro nei campi e le terre, pur un tempo ben coltivate, sono ora infestate da paludi e roveti; anche le vigne dell’ampia pianura della Saone, un tempo floride, sono ormai distrutte e arse; la pianura stessa, già amena e fertile per i suoi corsi d’acqua e le sue sorgenti, è divenuta regione di stagni e acquitrini; le strade infine sono abbandonate e per questo inidonee al transito delle merci e allo sviluppo del commercio. Ma con l’adventus di Costantino, che ha voluto rendersi direttamente conto delle differenti realtà territoriali delle regioni attraversate (a occidente, campagne coltivate, aperte, fiorite, strade percorribili, fiumi navigabili scorrenti presso le porte delle città; a oriente invece, verso il territorio dei Belgi, campi devastati, incolti, desolati, strade che, utilizzate per il passaggio dei soldati e divenute perciò impraticabili, a mala pena consentono il passaggio dei carri), gli abitanti di Autun hanno ottenuto benefici e gioia grande. Per questo essi hanno offerto un’accoglienza lieta e festosa all’imperatore: uomini di ogni età, tutti insieme, sono giunti dalle campagne per vederlo e augurargli una vita lunga e prospera. E un sincero entusiasmo si è impadronito di tutti gli Augustodunensi, che hanno visto nella presenza di Costantino un presagio di futura prosperità: tutte le strade sono state perciò adornate, anche se in modo modesto, sono state esposte le insegne dei collegi cittadini e le immagini delle divinità locali e un piccolo numero di suonatori ha accompagnato il passaggio dell’imperatore benefattore. E questi con grande sollecitudine ha deciso generose provvidenze per la popolazione: ha alleggerito i debiti fiscali, riducendo i tributi dovuti (dei 32.000 capita ne ha abolito 7.000, ben più della quinta parte) e condonando cinque anni di arretrati di imposta: e questo sgravio è stato davvero apportatore di speranza per l’intera cittadinanza, che, pur non restando del tutto libera dai debiti, ha avvertito comunque esserne divenuto molto più leggero il peso. Certamente — conclude l’oratore con enfasi — i figli ora amano di più i genitori, i mariti hanno maggior cura delle mogli, i padri e le madri non si pentono più di aver messo al mondo e aver allevato dei figli: tutti riprendono le proprie attività, fiduciosi per l’avvenire e senza il timore che il peso di tassazioni eccessive renda vana ogni intrapresa.

Un altro tema di rilievo è trattato nel panegirico del 312: dopo le vittorie sui nemici e il ristabilimento della pace e del buon governo il sovrano promuove in primo luogo l’agricoltura. Così aveva fatto Augusto e così, secoli dopo, nella scia di quello, fanno gli imperatori del IV secolo. Esemplificativo sotto questo rispetto — elogio della fertilità dei campi, dell’abbondanza del raccolto e della salubrità dell’aria, collegate alla presenza e al buon governo dell’imperatore — appare un possibile raffronto tra alcuni versi del Carme secolare di Orazio (vv. 29-32: Fertilis frugum pecorisque Tellus / spicea donet Cererem corona / nutriant fetus et aquae salubres / et lovis aurae) e un passo, dal contenuto analogo, del panegirico (VIII 13, 5-6: …valet piena fuisse horrea, plenas cellas… Hoc nobis est ista largitio, quod Terra mater frugum, quod Iuppiter moderator aurarum…)[40].

Nei suoi ispirati versi, dedicati a un motivo centrale della ideologia e della politica augustee, Orazio aveva religiosamente augurato che la Terra, madre di messi e di bestiame, donasse abbondanza di raccolto e che le acque apportatrici di vita ed i climi inviati dal padre degli dèi fossero propizi alla crescita e al pieno sviluppo dei virgulti[41]. A sua volta il panegirista, che a Treviri — egli che è di Autun — sta celebrando i Quinquennalia dell’ascesa all’impero di Costantino, paragona l’avvento dell’imperatore nella sua città al giorno che sorge e illumina, ed esprime gioia per la rinnovata fertilità dei campi e l’abbondanza del raccolto. Appare chiara nelle sue parole una significativa e ideale consonanza con quello che è stato definito lo «spirito» del Carme secolare, consistente in primo luogo nel sentimento di aspettazione di un abbondante raccolto[42]. Questo tipico e tradizionale tratto dell’ideologia romana, sia repubblicana sia imperiale, è documentato fin da Catone il Censore, e non è forse senza significato che l’orazione del 183 a.C., De lustri sui felicitate — nella quale egli orgogliosamente rivendicava, durante la solenne cerimonia della lustratio con cui concludeva la censura, la felicitas del periodo in cui era stato in carica — sia stata tramandata, limitatamente al passo riguardante appunto l’abbondanza del raccolto, proprio dal panegirico VIII (13, 3: Praeclara fertur Catonis oratio de lustri sui felicitate. Iam tunc enim in illa vetere re publica ad censorum laudem pertinebat, si lustrum felix condidissent, si horrea messis implesset, si vindemia redundasset, si oliveta large fluxissent)[43].

Proseguendo nella indicazione delle tematiche celebrative della renovatio promossa dagli imperatori, può notarsi come nel panegirico del 313 si sottolinei l’evento felice della vittoria di Costantino sull’usurpatore Massenzio, rapace predone, che non solo aveva posto le mani su tutte le ricchezze giunte a Roma nel corso della sua lunghissima storia da ogni parte del mondo, ma aveva perfino depredato i templi degli dèi (IX 3-4); e nel discorso di Nazario del 321 si elogi l’imperatore perché, dopo la vittoria sul «tiranno» Massenzio, è stato finalmente posto un freno alle confische e alle rapine da quello brutalmente compiute: ora, dice il panegirista, la nobiltà è finalmente libera dall’oppressione imposta dal corrotto tiranno e il giorno dell’ingresso in Roma di Costantino, che riporta pace e benessere, è simile per splendore solo a quello che aveva visto la fondazione della città di Romolo (X 30).

Nel panegirico del 362, infine, l’oratore Claudio Mamertino professa con orgoglio la propria onestà, contrapponendola alla diffusa corruzione di tanti rapaci funzionari preposti al governo delle province (XI 1, 4: exhaustae provinciae… praesidentium rapinis), ed elogia Giuliano con accenti di viva sincerità: l’imperatore nella sua discesa da Occidente a Oriente ha voluto ascoltare le doléances dei popoli incontrati lungo il corso del Danubio e ha ristabilito la giustizia, ponendo fine ai soprusi e alla corruzione, soprattutto  fiscale, degli amministratori; tutto perciò è tornato a risplendere, tanto che, per esempio — dice con enfasi retorica il panegirista — a chi, per avventura posto nell’alto del cielo, fosse stato possibile scorgere da lì ogni cosa, sarebbe apparso un panorama talmente mirabile, da indurlo a ridiscendere sulla terra per fruire del novus ordo ristabilito dal sovrano.

Per i panegiristi l’adventus dell’imperatore rappresenta dunque — in ideale continuità con la tradizionale aspirazione romana a un nuovo magnus saeclorum ordo[44] — un punto di rottura con il passato di malgoverno e corruzione: grazie al sacratissimus imperator si instaura un rinnovato clima di rigenerazione politica e morale, sociale ed economica, e l’intero territorio della Gallia rifiorisce: le città risorgono e nelle campagne ritornano la fertilità e l’abbondanza.

Scena di vita campestre (dettaglio). Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C. dal sarcofago di L. Annio Ottavio Valeriano. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

4. La vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes

Tema tra i più ricorrenti nei panegirici è l’esaltazione dell’imperatore vittorioso sui barbari: la figura del princeps romano si innalza sulla folla degli sconfitti e risalta per valore militare e livello di civiltà. I panegiristi insistono nelle definizioni e valutazioni del mondo barbarico, utilizzando un’ampia gamma di concetti e di espressioni. Essi osservano la vasta e crescente realtà delle invasioni con l’attenzione e la partecipazione di chi, pur vivendo nel pieno della civiltà romana, si sente troppo vicino al limes renano, al di là del quale le barbarae nationes appaiono come qualcosa di grandioso e di terribile.

Denominatore comune nella valutazione del mondo barbarico da parte dei panegiristi appare un atteggiamento di condanna e di disprezzo: i barbari, definiti devastatori di ogni segno di civiltà, sono posti in contrapposizione con i Romani, quasi antitesi tra bene e male[45]. Leggendo nei panegirici le tante menzioni del mondo barbarico — di invasioni e di scontri militari, ma anche di progressiva integrazione — siamo in grado di valutare la risonanza di una così imponente realtà nella vita e nella cultura di una regione romanizzata come la Gallia; e possiamo anche trarre utili notizie sui rapporti (di scontro, ma anche di incontro) tra mondo romano e mondo germanico nei secoli III-IV d.C.[46]

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

a. Le barbarae nationes

Particolarmente significativo appare nei panegirici l’uso ricorrente dell’espressione barbarae nationes: nel discorso per Massimiano e Diocleziano del 289, per esempio, esse sono viste nell’atto devastatore della loro irruzione nelle province galliche (II 5, 1), mentre in quello del 291 appaiono sine animo dinanzi agli imperatori (III 14, 1); nel panegirico per Costanzo del 297 poi alla loro sconfitta corrisponde la rinascita delle province (IV 1, 4), mentre in quello per Costantino del 313 il valore dell’imperatore è per esse motivo di terrore (IX 3, 2) e in quello per Teodosio del 389 l’immagine delle genti barbare appare di tragica grandiosità nel richiamo a una inondazione devastatrice di civiltà: Iacebat innumerabilibus malis aegra vel potius dixerim exanimata res publica, barbaris nationibus Romano nomini velut quodam diluvio superfusis (XII 3, 3)[47].

La contrapposizione tra i due mondi, il romano ed il germanico, si rivela anche nell’uso di un concetto, secondo cui la realtà geografica e umana dei barbari è caratterizzata da immanitas, cioè da immensità di estensione e incommensurabile numero di uomini, presupposti entrambi di quegli attributi di orrore e di terrore, che i barbari portano con sé (II 7, 3; III 17, 4; VII 2, 2 e 6, 4). Nei panegirici la definizione più efficace del concetto di immanitas è data da Nazario, il quale, evocando una coalizione dei popoli germanici (Brutteri, Camavi, Cherusci, Lancioni, Alamanni, Tubanti) sconfitta da Costantino all’inizio della sua carriera, dice di sentire nel suono stesso di tali nomi tutto l’orrore del mondo barbarico (X 18, 1).

Oltre che sul concetto di immanitas i panegiristi si soffermano su quelli relativi alla feritas, alla ferocia, al furor, alla vesania, alla rabies, alla perfidia, tutte «qualità» dei barbari e tutte riconducibili a un unico status, quello appunto del barbaro incivile. La feritas sta a indicare la natura selvaggia, sia dei barbari — quella natura che ostinatamente li spinge verso la meritata autodistruzione (III 16, 5: ruunt omnes in sanguinem suum populi… obstinataeque feritatis poenas nunc sponte persolvunt) — sia dei loro territori, situati nelle interne regioni dell’Illirico e della Pannonia, ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2). La ferocia ha invece una connotazione più specifica di carattere militare, come nel panegirico del 297, ove Costanzo viene elogiato per aver fatto prigioniero il re di una nazione «ferocissima» (IV 2, 1), o in quello del 312, ove l’oratore, rivolgendosi retoricamente ai popoli barbari, che non osano più attraversare il Reno, perché andrebbero incontro a sconfitta sicura a opera di Costantino, chiede loro dove sia finita la loro famosa «ferocia» (VII 11, 4). Il furor dei barbari è poi messo in risalto sia, per esempio, nel secondo panegirico per Massimiano, ove le barbarae nationes appaiono pervase da tal furore, da giungere a distruggersi a vicenda (III 16, 1; 17, 1), sia in quello per Giuliano, ove si afferma con enfasi che i barbari che si sollevano contro l’imperatore vindice della libertà romana, altro non fanno che ritornare al loro primitivo furore (XI 6, 1). Anche la vesania e la rabies sono tipiche del mondo barbarico: nel panegirico per Massimiano, per esempio, Mamertino ringrazia gli dèi protettori dei tetrarchi perché essi hanno finalmente trasferito le guerre civili, le lotte e le discordie intestine fuori dai confini dell’impero, all’interno di popolazioni folli e rabbiose (III 16, 2). Ulteriore caratteristica negativa dei barbari è la loro perfidia, che i panegiristi contrappongono alla fides romana: nel panegirico del 310 a Costantino, l’oratore, ricordando la spedizione nel Paese dei Brutteri e parlando dei prigionieri di quel popolo, afferma che era la perfidia a renderli inadatti per la milizia ed era la ferocia a impedirne una possibile utilizzazione come schiavi, per cui era giusto metterli a morte, e in modo crudele (VII 12, 3).

Con queste premesse ideologiche è ovvio che la raffigurazione dei barbari maggiormente ricorrente nei panegirici sia quella che li rappresenta sconfitti e annientati dall’imperatore. Anche per il nemico esterno dunque, come per quello interno, i panegiristi offrono, in contrasto con l’immagine ideale del principe, quella brutta e deforme dello / degli sconfitto/i.

Mamertino, per esempio, ricordando l’invasione della Gallia nel 286 da parte di Burgundi, Alamanni, Caiboni, Eruli, popoli disordinati in battaglia e danneggiati nei movimenti militari dal loro stesso numero, esalta Massimiano per aver sottomesso con ogni mezzo (vastatione, proeliis, caedibus, ferro ignique) popolazioni fiere e indomite, vincendole nel loro stesso territorio (in media barbaria) e riportando al collega Diocleziano, in segno di fraterna concordia, le spoglie di guerra germaniche (II 5-9: III 5)[48]. Il panegirista di Costanzo a sua volta ricorda le imprese vittoriose dei tetrarchi nelle regioni dei barbari (IV 1, 4: tot excisae undique barbarae nationes), in particolare la cattura di un non identificato re. La devastazionedell’intera Alamannia dal ponte del Reno fino a Gunzburg (IV 2, 1: deusta atque exhausta penitus Alamannia), le vittorie sui Sarmati e sui popoli dellaRezia, del Norico, della Pannonia e infine sui Franchi.

Nei panegirici costantiniani le vittorie dell’imperatore sui barbari sono ricorrentemente celebrate: per esempio, in quello del 310, secondo l’usuale schema laudativo del discorso epidittico, che prevedeva la celebrazione del padre e degli antenati dell’elogiato, sono ricordate le vittorie di Costanzo Cloro sugli Alamanni a Langres (battaglia particolarmente gloriosa) e a Vindonissa, ove — dice con enfasi il panegirista — dopo oltre dieci anni si potevano ancora vedere nei campi i segni della strage dei nemici (VII 6, 3); nello stesso panegirico è menzionata anche l’aeterna victoria di Costantino sui barbari Ascarico e Merogaiso, fatti prigionieri e gettati insieme agli altri davanti alle bestie nei giochi del circo (VII 11, 5). Anche nel panegirico del 313, che pur è quasi interamente dedicato alla celebrazione del trionfo su Massenzio, vi sono accenni alle battaglie contro i barbari (i Franchi): la vittoria dell’imperatore è completa, le sue navi riempiono l’alveo del Reno e il suo esercito reca devastazione nelle case e nei territori di una gens periura, della quale viene cancellato per il futuro perfino il nome (IX 21-22)[49]. Nel discorso di Nazario del 321 sono ricordate le vittorie di Costantino e del figlio Crispo sui re barbari Ascarico e Merogaiso, sui Franchi e su altri popoli, la cui barbarie è talmente cieca (O vere caeca barbaria…!), da impedir loro di riconoscere l’imperatore in persona (X 17-18).

Possiamo infine osservare come nella Gratiarum actio del 362 Claudio Mamertino elogi Giuliano per aver sconfitto i barbari nella battaglia di Strasburgo dell’agosto 357 (XI 4, 3: una acie Germania universa deleta est, uno proelio debellatum), sottomettendoli dall’Alamannia fino all’Illirico e fino agli ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2), e nel panegirico del 389 Pacato Drepanio ricordi, in un tipico crescendo retorico, le vittorie di Teodosio, sia sui popoli abitanti al di là del Reno e del Danubio, sia su Sarmati, Britanni, Mauri, Scoti e tante altre lontane gentes (XII 5, 2).

Scena di battaglia equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, fine II secolo. Pisa, Camposanto.

b. Il limes renano-danubiano

Tra mondo dei barbari e provinciae dell’impero era il Reno, con il Danubio, la linea di frontiera, non soltanto reale ma anche ideale. Il grande fiume era per gli abitanti della Gallia — come rivelano appunto i panegiristi gallici — una realtà geograficamente vicina ed emotivamente incombente. Nel discorso di Mamertino del 289, per esempio, sono elencati i confini naturali dell’impero (Reno e Danubio, Oceano ed Eufrate), per affermare, ovviamente con enfasi, che il Reno ormai non è più l’unica difesa dell’impero, perché, anche se esso divenisse guadabile a causa della scarsità delle piogge, ciò non sarebbe però motivo di paura, perché la presenza dell’imperatore rappresenta una difesa ben più sicura dello stesso fiume (II 7, 3-4). Il panegirista, che fa riferimenti precisi alle campagne che negli anni 286-288 Massimiano compì contro gli Alamanni provenienti dal medio corso del Reno e contro i Burgundi che invece giungevano dalle regioni danubiane, ovviamente esagera nella valutazione del ruolo di difesa della figura del princeps, ma è proprio attraverso l’amplificazione retorica che egli vuol evidenziare la preminenza della difesa politico-militare, rappresentata dall’esercito dell’imperatore, rispetto a quella naturale data dal fiume. E nel secondo panegirico di Mamertino (del 291) la pacificazione dell’impero operata da Massimiano è interpretata come la realizzazione di un accordo universale tra tutte le terre poste all’interno dei confini, mentre al di là del limes, sia a oriente, presso la palude Meotide e nelle lontane regioni settentrionali, dove — dice l’oratore — l’Elba, orrido come i suoi popoli, attraversa la Germania, sia a occidente, nelle regioni ove tramonta il sole, i popoli barbari continuano ad aggredirsi sanguinosamente a vicenda (III 16, 4-5).

Anche nel panegirico a Costanzo del 297 vi sono riferimenti sia al limes germanico-retico, ristabilito sotto la tetrarchia, sia alla presenza dell’imperatore in ripa, presenza che, per quella zona di frontiera, al panegirista appare difesa ben più valida degli stessi contingenti militari (IV 13, 3). Nel panegirico di Eumenio del 298 sono a loro volta menzionate le tradizionali frontiere di Reno e Danubio, finalmente ristabilite dai tetrarchi e tutelate per il futuro dallo stanziamento in quei luoghi di accampamenti militari (V 18, 4).

Dai panegirici costantiniani poi apprendiamo notizie, tanto sulle operazioni di guerra compiute da Massimiano, che per primo — dice il panegirista del 307 — portò le insegne romane al di là del Reno (VI 8, 4), quanto sulla realtà fisica del limes. Ricordando la vittoria di Costanzo sugli Alamanni presso Langres e Vindonissa (inverno 298-299 d. C.), il panegirista del 310 narra di alcune tribù germaniche, le quali approfittando del fiume ghiacciato, passarono su di un’isola del fiume stesso, e lì, in seguito al successivo scioglimento del manto ghiacciato, restarono imprigionate e furono quindi facilmente sconfitte (VII 6, 4); celebrando inoltre gli inizi dell’attività militare e politica di Costantino e in particolare le sue vittorie sui barbari, il panegirista afferma, secondo l’usuale topos, che il Reno non è più l’unico baluardo posto a fronte del mondo germanico, perché, a difesa della Gallia, basta la presenza dell’imperatore, il cui solo nome incute terrore e paura nelle popolazioni germaniche, timorose perfino di avvicinarsi al grande fiume (VII 11, 1-5). Il Reno ormai, grazie alle flottiglie militari che continuamente lo solcano e alle legioni dislocate lungo tutto il suo corso, non è più soltanto barriera naturale, ma anche invalicabile linea fortificata (VII 13, 1-3): e proprio lungo questa, a Colonia, Costantino ha fatto costruire un grandioso ponte. Nel panegirico del 312 infine vi sono delle interessanti sottolineature circa la realtà del fiume, inteso come confine della Gallia e, in particolare, della regione degli Edui (VIII 2, 4 e 3, 3), mentre in quello del 313 si afferma che, dopo la vittoriosa conclusione della battaglia contro Massenzio a Ponte Milvio, Costantino volle nello stesso anno ritornare sulla frontiera del Reno inferiore, sospinto sia dall’ansia dei soldati di tornare nelle zone a loro più gradite (segno evidente della provenienza di quei soldati), sia dalla necessità di arginare nuove invasioni (IX 21-22, 3).

La suggestione del Danubio poi, l’altro immenso tratto del limes d’acqua posto tra romanità e barbarie, è soprattutto rinvenibile nel panegirico per Giuliano di Claudio Mamertino. Questi, compagno di viaggio dell’imperatore, descrive le due rive del fiume, delle quali la destra gli appare piena di città in festa all’arrivo del princeps, la sinistra invece popolata da barbari, costretti ad inginocchiarsi in atteggiamento supplice e miserevole: da una parte dunque, al di qua del limes, le città romane, ove la gente stupita ammira Giuliano, che nonostante la fatica del lungo percorso appare per nulla stanco, ma con l’aspetto vivace di uomo forte e avvezzo alle fatiche militari; dall’altra invece, al di là del fiume, il mondo delle gentes externae, che hanno osato muovere guerra all’imperatore, costringendolo a intervenire in difesa del nome di Roma.

Nel panegirico è evidenziata una netta divisione tra le due partes separate dal Danubio, l’occidentale e l’orientale: il panegirista ricorda la discesa di Giuliano verso Costantinopoli e afferma che, mentre la nave solcava il fiume, l’imperatore distribuiva «doni» diversi: a destra, in territorio romano, speranza, libertà, ricchezze, a sinistra, sul suolo barbarico, terrore, paura e fuga. Nelle regioni poste a destra del fiume si riversavano dunque i benefici del sovrano, per i popoli della Dalmazia, per gli abitanti dell’Epiro e anche per i cittadini di città lontane, quali Nicopoli, Atene ed Eleusi: tali città, che si trovavano in uno stato di estrema rovina morale e materiale, così risorgevano e tornavano ad animarsi: le fontane riprendevano a scorrere, i portici e i ginnasi si riempivano nuovamente di gente, le antiche festività venivano rimesse in auge e nuove se ne istituivano in onore del principe benefattore; nei territori della riva sinistra invece il mondo dei barbari appariva in preda a sentimenti di paura e di terrore e volgeva in fuga davanti all’imperatore che avanzava (XI 8-9).

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

c. Oriente e Occidente

L’ideale limes dei panegiristi non si identifica però solo con il Reno e il Danubio, ma attraversa anche una divisione più ampia, quella tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo della tradizionale virtus romana e quello delle deliciae Orientis (IX 24, 1). La menzione dell’Oriente è infatti nei panegirici abbastanza frequente e, ogni volta che tale parte del mondo viene contrapposta o paragonata a quella occidentale, essa è definita come distante, separata ed inferiore, soprattutto sul piano delle virtutes tipiche dell’uomo romano, il valore militare, la morigeratezza, la parsimonia, ecc. La sottolineatura dell’antitesi, a vantaggio naturalmente di tutto quello che è «occidentale», è chiaro segno della mentalità diffusa nelle regioni a ovest del Reno e del Danubio, regioni che si sentono in tutto e per tutto romane, ove i lontani territori dell’Oriente sono ritenuti distanti e divisi, non solo e non tanto geograficamente, ma anche e soprattutto idealmente.

La prima divisione tra Oriente e Occidente evidenziata dai panegiristi è ovviamente di carattere geografico: a indicare, per esempio, che l’imperatore ha esteso il suo dominio sul mondo intero, Claudio Mamertino proclama solennemente che Giuliano è divenuto in pochi mesi, e per dono divino, Libyae Europae Asiaeque regnator (XI 27, 2)[50]; e a sua volta Pacato Drepanio identifica l’Oriente con le regioni lontanissime in cui sorge il sole e dove, segno di grande valore, riesce a giungere Teodosio vittorioso (XII 23, 1). Altri riferimenti all’Oriente geografico sono in quei luoghi dei panegirici, ove vengono ricordati i più importanti fiumi del mondo, il Tanai, il Reno, il Danubio, l’Eufrate, il Tigri, il Nilo: ancora nel panegirico di Pacato Drepanio, per esempio, si parla del Tanai, il fiume che per gli antichi segnava il confine tra Asia ed Europa[51], per esaltare le vittoriose attività militari di Teodosio, in seguito alle quali l’attraversamento di quel fiume era stato interdetto agli Sciti e agli imbelli Albani (XII 22, 3)[52].

Ma la divisione tra Oriente e Occidente è per i panegiristi soprattutto una divisione ideale, sentita fortemente ed espressa frequentemente. Tale divisione, teorizzata già da Aristotele[53], è per la mentalità dei panegiristi — mentalità perfettamente nel solco della tradizione greca e latina — separazione tra un mondo, l’orientale, caratterizzato da assenza di valore militare e scelta di una vita molle e raffinata, e una realtà invece, quella occidentale, connotata da grande capacità bellica, spirito di sacrificio, senso austero della famiglia e così via. Per esempio, nel panegirico per Costantino del 313, per celebrare le diverse campagne realizzate dall’imperatore contro i Franchi che avevano attraversato il fiume Reno, penetrando al di qua del limes, viene formulata una distinzione tra occidentali e orientali, fondamentalmente basata sulle opposte caratteristiche degli uni e degli altri: gli orientali, tra cui anche i Greci[54] — dice il panegirista — sono inadatti alla guerra e pieni di paura, immemori della libertà e pronti ad asservirsi pur di ottenere pietà; gli occidentali invece, o sono legati alla disciplina militare da un giuramento sacro, come i Romani, o sono totalmente sprezzanti del pericolo della vita, come i Franchi (IX 24, 1-2). Al panegirista anche il confronto tra il famoso Alessandro Magno e Costantino serve per evidenziare la superiore capacità militare degli occidentali rispetto agli orientali: nella scia del noto confronto liviano tra il grande Alessandro e i Romani[55], viene infatti esaltato Costantino come soldato e condottiero più valoroso perché, mentre il Macedone aveva facilmente combattuto contro degli orientali — i Medi effeminati, i Siri imbelli, i Parti abili unicamente nel lancio delle frecce — destinati solo a mutar padrone nella loro condizione di perenne e vile schiavitù, l’imperatore romano ha dovuto invece affrontare duramente i soldati di Massenzio, traditori sì, ma pur sempre valorosi e forti, in quanto romani (IX 5, 3). Il valore militare degli occidentali è posto in risalto anche nel panegirico per Teodosio, ove Pacato Drepanio elogia la Spagna, terra di nascita dell’imperatore, fortunata, oltre che per la felice posizione geografica, anche, e soprattutto, per essere patria di soldati fortissimi (durissimi milites) e condottieri espertissimi, come appunto Teodosio (XII 4, 5). Per concludere, anche Pacato istituisce un confronto militare tra i soldati «orientali» di Antonio e Cleopatra, vinti da Ottaviano ad Azio, e quelli «occidentali» di Teodosio, assai più validi e forti in guerra (XII 33, 4-5).

Caccia alle fiere (particolare). Mosaico pavimentale della Megalopsychia, c. V-VI secolo, dal villaggio di Yakto (Daphne, Antiochia). Antakya, Hatay Archaeology Museum.

5. Un’integrazione romano-barbarica

Se nei panegirici la rappresentazione delle gentes externae è fatta in chiave negativa, ciò non impedisce che negli stessi discorsi appaiano talvolta le tracce di una valutazione diversa, forse più vicina alla complessa realtà storica e geografica di un’epoca di grandi mutamenti sociali e di una regione — quella del limes renano-danubiano — che era di grande importanza strategica, politica e militare. Lì infatti, in una terra di frontiera, proprio nel secolo dei panegiristi, era in atto uno scontro, reale e ideale, tra due civiltà — la romana e la germanica — incommensurabili e distanti tra loro, ben diversamente evolute, eppure destinate necessariamente a integrarsi.

Nei panegirici possiamo leggere importanti testimonianze relative a tale incipiente integrazione: sono le notizie — le prime che possediamo sul fenomeno — di quegli stanziamenti di agricoltori barbari nei territori dell’impero romano, che gli imperatori del III-IV secolo, seguendo la tradizione dei loro predecessori[56], decisero di attuare. Leggiamo pertanto nel panegirico del 297 l’elogio di Massimiano, perché ha fatto coltivare dai Laeti (cioè da cultores barbari) i campi abbandonati nel territorio di Treviri, e di Costanzo, perché si è servito degli stessi cultores per far rifiorire il territorio della Gallia Lugdunensis (IV 21, 1). E leggiamo anche, nello stesso discorso, quello che può essere ritenuto il passo più significativo di tutto il corpus dei panegirici in ordine alla tematica dell’integrazione (IV 9, 1-4): i barbari, sconfitti e fatti prigionieri, sono raccolti in una (non determinata) ricca e fiorente città della Gallia e disciplinatamente ordinati per gruppi (ad obsequium distribuii)[57], per essere quindi destinati a coltivare i terreni abbandonati (ad destinatos sibi cultus solitudinum), vendere nei mercati i prodotti della pastorizia e dell’agricoltura (operatur et frequentat nundinas meas pecore venali), contribuire a sollevare le tristi condizioni economichedella città (cultor barbarus laxat annonam), o — destinazione quest’ultimasommamente gratificante — essere inseriti nell’esercito tra gli auxilia militari (si ad dilectum vocetur… servire se militiae nomine gratulatur)[58].

I panegirici testimoniano dunque che gli scontri, militari e sociali, tra romani e barbari si andavano pian piano mutando in incontri e che lentamente prendeva avvio un progressivo e inarrestabile processo di romanizzazione dei territori posti al di là dei fiumi Reno e Danubio. Nel discorso del 289, per esempio, Mamertino elenca le vittorie di Massimiano, grazie alle quali l’imperatore, «primo tra tutti», ha dimostrato che unico confine dell’impero è quello delle armi del principe: per cui il Reno, posto dalla natura a difesa delle province romane dinnanzi all’immensità delle regioni barbariche, ha ormai perso la sua antica importanza difensiva: per gli abitanti della Gallia renana infatti non è più causa di paura l’eventuale abbassamento delle acque dovuto a scarsità di piogge, perché anche l’intravedersi dei sassolini sul fondo, non sarebbe segnale di pericolo, in quanto tutto ciò che si scorge al di là del Reno è ormai parte del mondo romano: quidquid ultra Rhenum prospicio Romanum est, esclama convinto il panegirista (II 7, 7). Significativa, nel passo di Mamertino, non tanto la memoria delle vittorie degli imperatori, al di qua e al di là del Reno, quanto la coscienza, che vi traspare, dei provinciali della Gallia, i quali sentono ormai come romane le terre transrenane; sentono insomma che tra le due sponde del Reno vi è meno distanza di prima.

Altri panegiristi vanno ancora più in là, affermando la necessità di un’«amicizia» tra Romani e barbari. Nel panegirico del 307 l’oratore ricapitola le imprese di Massimiano — le vittorie sui Bagaudi in Gallia e le spedizioni tra i Germani — affermando con enfasi che l’imperatore è stato «il primo» a trasferire le insegne romane tra i barbari della Germania, costringendo questi a deporre le armi e a divenire, nell’obbedienza a Roma, «amici» del popolo romano (VI 8, 5: domita Germania aut boni consulit ut quiescat aut laetatur quasi amica si pareat). Tale concetto, della «necessità» dell’amicizia tra barbari e romani, è poi significativamente ripetuto in panegirici successivi, come in quello di Nazario per Costantino (X 38, 3) o di Pacato Drepanio per Teodosio (XII 22, 4).

Da qui, da questo lento ma inevitabile processo di integrazione etnica e sociale tra popoli diversi, i cittadini dell’impero romano e i «barbari», iniziato nei secoli della tarda antichità — e per cui i Panegyrici Latini rappresentano un corpus di coeve e significative testimonianze storiche e culturali — sorgerà, grazie anche all’immensa forza ideale e morale del Cristianesimo (della cui presenza una qualche traccia può forse scorgersi anche nei pagani panegirici)[59], la civiltà medievale, dai regni romano-barbarici al Sacro Romano Impero, e la stessa civiltà moderna.

Guerriero germanico si arrende a un Romano (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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[1] In realtà, il corpus manoscritto comprende dodici discorsi, essendo i panegirici tardo-antichi preceduti da quello di Plinio il Giovane a Traiano (cfr. F. Trisoglio [ed.], Plinio Cecilio Secondo, Opere, vol. II, Torino 1973, 1125-1385).

[2] Per un’informazione sintetica sui Panegirici, cfr. D. Lassandro, I «Panegirici Latini» del III-IV secolo, in I. Lana, E.V. Maltese (dir.), Storia della civiltà letteraria greca e latina, III. Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Torino 1998, 476-483.

[3] Poiché la successione secondo la quale i XII Panegyrici Latini sono disposti nelle edizioni critiche non è cronologica, ma rispetta la «disordinata» sequenza manoscritta, è invalso l’uso di numerare queste orazioni in modo duplice, a indicare sia l’ordine tràdito, sia quello cronologico. Nella presente edizione, ai fini di un più immediato e chiaro inquadramento storico, si è adottato il solo criterio dell’indicazione «cronologica», segnalata con un numero romano, a partire dal II (con il numero I si indica ovviamente il panegirico di Plinio). Quando necessario, comunque, è stato anche notato l’ordine «manoscritto» (con numero arabo posto tra parentesi quadre).

[4] L’anno potrebbe anche essere il 298: per questo nelle edizioni la numerazione «cronologica» del panegirico è generalmente indicata con V (e con IV invece quella dell’oratio di Eumenio).

[5] Importante ai fini documentari questo capitolo (evidenziato nei codici con la miniatura della lettera iniziale dell’incipit), perché è l’esatta trascrizione della lettera di nomina imperiale con la quale Eumenio veniva preposto alla direzione delle scuole.

[6] I Viri perfectissimi erano ufficiali superiori di rango equestre: Cod. Theod. VI 38, 1.

[7] Ne parla anche Tac. Ann. III 43, 1, testimoniandone l’esistenza come sede di alti studi per la gioventù nobile della Gallia.

[8] Particolarmente significativo è il capitolo 20 del panegirico, non solo perché vi si indicano alcune materie oggetto di studio (la storia e la geografia), ma anche la metodologia di quello stesso studio: sono infatti descritte le «carte» geografiche affrescate nei portici della città, osservando le quali i giovani augustodunensi avrebbero potuto facilmente apprendere la storia degli imperatori e la geografia delle conquiste romane.

[9] XIV 9.

[10] Ad annum post natum Abraham 2340.

[11] Nomine formali, essendo in quest’epoca il consolato, come le altre magistrature, soltanto un titolo onorifico attribuito dall’imperatore ai suoi amici.

[12] Ausonio nomina più volte Pacato, dedicandogli anche alcuni carmi.

[13] Il discorso – «la prima grande orazione epidittica con fini politici» (A. Lesky, Storia della letteratura greca, trad. it., I, Milano 1962, 727) – destinato alla lettura, imitava la forma dei discorsi ufficiali pronunciati in occasione delle grandi feste panelleniche.

[14] Assieme al γένος σνμβονλεντιϰóν, di natura prettamente politica e deliberativa, e al γένος διϰανιϰóν, di indole giudiziaria, rappresentava il triplice mondo dell’eloquenza pubblica degli antichi.

[15] Cic. De or. 1, 81; orat. 37.

[16] Quint. X 1, 7.

[17] L. Spengel (ed.), Rhetores Graeci, III, Lipsiae 1856, 368-446.

[18] Hyp. F 171-180 Kenyon.

[19] Quint. XI 15.

[20] I tratti di questo «ideale di sovrano» possono ritrovarsi in seguito, fino ai nostri giorni, in tante propagande filo-imperiali o filo-regie (e non solo…). Sull’Herrscherideal tardoantico, cfr. J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1937.

[21] Tale fratellanza è ricordata da Caes. BG I 33, 2, ove si dice che gli Edui erano stati con deliberazioni del Senato dichiarati fratelli del popolo romano (Aeduos fratres consanguineosque saepe numero ab Senatu appellatos), e da Tac. Ann. XI 25, 1, ove è scritto che i primi tra i Galli a ottenere dall’imperatore Claudio il diritto di sedere in Senato furono i rappresentanti degli Edui, e ciò in grazia di un’antica fratellanza (Datum id foederi antiquo, et quia soli Gallorum fraternitatis nomen cum populo Romano usurpant).

[22] «Si può spesso sapere la verità anche dal linguaggio dell’adulazione» (E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it., Torino 1967, 320). La monumentale opera di E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire (la narrazione va dal 180 al 1453), fu pubblicata in Inghilterra dal 1766 al 1788; ed è rimasta da allora non solo strumento indispensabile per chiunque voglia accostarsi alla storia antica, ma anche splendido libro ove risalta con grande evidenza la capacità narrativa del vero storico.

[23] Per esempio da M. von Albrecht, Storia della letteratura latina da Livio Andronico a Boezio, trad. it. di A. Setaioli, III, Torino 1996, 1459-1462.

[24] In questo schema confluiscono tutti gli elementi concettuali e verbali di una consolidata tradizione letteraria. La forma di tale schema deriva dalla sua tradizione «ideologica» e letteraria, risalente, per limitarci a un esempio significativo, a Cic. Phil. IV 2, 4-5, ove viene contrapposto il nobile Ottaviano ad Antonio, definito ardens odio… cruemtus sanguine civium Romanorum… hostis, latro, parricida patriae, pestis.

[25] Già Quint. III 7 (De laude et vituperatione) aveva teorizzato lo schema elogiativo, basato sull’antitesi bene/male, schema che poi sarebbe divenuto tipico dei panegirici: elogio del personaggio (sua patria, sua gens, presagi della sua grandezza, sua fortuna, suoi attributi: forza, bellezza, ecc.) da un lato, disprezzo per i nemici dall’altro.

[26] L’uso di un tale attributo (e del sinonimo tremens) rivela la studiata utilizzazione di un lessico evocante i fenomeni dello sconvolgimento mentale, che necessariamente subentra in chi osa profanare la divinità, e pertanto l’imperatore.

[27] … in sexum cui bella parcunt pace saevitum (XII 29, 1). Su Magno Massimo abbiamo invece testimonianze positive da parte di Sulp. Sev. Dial. II 6: vir omni vita merito praedicandus; si ei vel diadema non legitime, tumultuante milite, impositum repudiare vel armis civilibus abstinere licuisset, e di Oros. VII 14, 9: Maximus, vir quidem strenuus et probus atque Augusto dignus, nisi contra sacramenti fidem per tyrannidem emersisset: testimonianze che, pur condannando l’usurpazione, valutano con serenità ed elogiano il carattere dell’uomo.

[28] Il quadro è simile a quelli degli altri panegirici, ma vi è un’aggiunta: Quisquis purpura quandoque regali vestire umeros cogitabit, Maximus ei exutus occurat. Quisquis aurum gemmasque privatis pedibus optabit, Maximus ei plantis nudus appareat. Quisquis imponere capiti diadema meditabitur, avulsum umeris Maximi caput et sine nomine corpus adspiciat (XII 45, 1-2): Massimo con la sua fine tragica deve servire di esempio a chi osa o solo pensa di usurpare il regno.

[29] Sulle rivolte bagaudiche vd. D. Lassandro, Le rivolte bagaudiche nelle fonti tardoromane e medievali: aspetti e problemi (con appendice di testi), InvLuc 3-4 (1981-1982), 57-110.

[30] Vd. A. Holder, Altceltischer Sprachschatz, I, Leipzig 1896, 329-331.

[31] In documenti e carte medievali è attestata la sopravvivenza di un toponimo Castrum Bagaudarum presso Parigi, nel luogo dell’antico monastero di Saint-Maurdes-Fossés, ove oggi è situata l’omonima cittadina.

[32] I manoscritti riportano Batavica rebellio, ma la correzione Bagaudica (avanzata di Giusto Lipsio, nell’edizione e commentario di Tacito, Anversa 1581) è palmare, paleograficamente e filologicamente dimostrabile (vd. D. Lassandro, Batavica o Bagaudica rebellio?, GIF 4 [1973], 300-308).

[33] Il panegirista celebra ane il nuovo culto per Giove ed Ercole, gli dèi protettori dei tetrarchi: alle divinità celesti, unite da un patto di mutuo aiuto, corrispondono infatti, in terra, gli imperatori Diocleziano e Massimiano, legati anch’essi da un vincolo «di fedeltà reciproca e aiuto militare».

[34] Ricostruito quasi nella sua interezza, il monumento è ora conservato nei «Musées» della città di Metz in Francia.

[35] Il gruppo statuario ritrovato a Merten non può non richiamare alla memoria, per la notevole somiglianza figurativa ed espressiva, la Gigantomachia, il grande fregio scolpito a Pergamo negli anni 190-180 a.C., che correva esternamente, al di sotto del colonnato, sullo zoccolo dell’ara, il solenne monumento fatto erigere da Eumene II sull’acropoli della città (ora è conservato nel Pergamonmuseum di Berlino). E poiché la grandiosa allegoria della Gigantomachia pergamena rappresentava la vittoria su quei barbari, di origine celtica, che al tempo del re Eumene II avevano devastato le coste del regno di Pergamo, non può essere ipotizzabile che lo scultore di Merten abbia scelto proprio quel lontano, ma famoso modello, per celebrare un’analoga vittoria su altri Galli — i Bagaudi — anch’essi barbari e devastatori? Notevoli sono infatti le somiglianze plastiche tra la figura di Alcioneo, abbattuto da Atena nel fregio orientale dell’ara pergamena, e quella del gigante, atterrato dal cavaliere nel gruppo statuario di Metz: simile è, per esempio, l’inclinazione delle figure verso destra, dovuta al fatto che, in entrambe le opere, il vincitore (Atena o il cavaliere) sospinge a terra il vinto con la destra (Atena direttamente, il cavaliere con la lancia nell’atto di colpire); simile ugualmente è l’appoggio dei corpi, ovviamente sul lato destro (il ginocchio destro per il gigante pergameno, la parte destra della coda serpentina per quello di Metz); simile inoltre è la possente muscolatura dei due giganti, protesi nello sforzo di resistere alla forza del vincitore (il gigante pergameno tenta di trattenere col braccio destro la mano della dea che lo atterra; il gigante di Metz, a sua volta, tenta con la sinistra di bloccare lo zoccolo innalzato del cavallo, ad evitare di essere abbattuto). Anche le due teste presentano delle analogie: volti senza barba ed espressioni terrorizzate, sottolineate dagli occhi stravolti verso l’alto.

[36] E ragionevole pertanto supporre — come già fece nell’Ottocento O.A. Hoffmann, Die Bagaudensàule von Merten im Museum zu Metz, JGGA 1888-1889, 14-39 — che la colonna e il gruppo statuario ritrovati nei luoghi che furono teatro delle jacqueries bagaudiche possano riferirsi proprio alla vittoria che nel 285-286 Massimiano riportò sui contadini ribelli: l’elevazione della colonna poté perciò avvenire dopo quella vittoria, nello stesso luogo ove l’imperatore aveva sconfitto i Bagaudi, liberando la città di Treviri e la zona circostante da un pericolo gravissimo.

[37] Vd. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, ed. it., Firenze 1933.

[38] Vd. M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari 1973, 90.

[39] Vd. Aur. Vict. Caes. XXXIX 17-20; Eutrop. IX 20, 3; Oros. VII 25, 1-2. Solo il cristiano Salviano, nato a Treviri e vissuto a Marsiglia, nel De gubernatione Dei (opera scritta intorno alla metà del V secolo), riuscì a comprendere le motivazioni delle rivolte bagaudiche, cioè la povertà, la miseria, le continue ingiustizie cui i più umili venivano quotidianamente sottoposti. Nel libro V (capp. 21-28) egli parla della condizione dell’impero invaso dai barbari e rileva gli aspetti più drammatici della nuova realtà: le vedove piangono, gli orfani sono maltrattati e, soprattutto, i poveri vengono «devastati» (vastantur pauperes); questa triste realtà spinge molti, anche di illustri natali, a cercare riparo tra gli stessi barbari e a preferire le difficoltà della vita presso di quelli alle vessazioni e ingiustizie diffuse nel mondo romano (cap. 21: malunt tamen in barbari; pati cultum dissimilem quam in Romanis inmstitiam saevientem). Sullo stesso piano dei barbari Salviano pone i Bagaudi, affermando che anche presso costoro fuggono gli oppressi: nella digressione sui rivoltosi (cap. 22) egli dà la sua interpretazione del fenomeno bagaudico, che certamente doveva essere ancora vivo ai suoi tempi, giudicando con profonda comprensione i ribelli e attribuendo la causa delle rivolte alle ingiustizie e ai soprusi di cui erano vittime. L’invettiva accusatrice di Salviano è rivolta soprattutto contro gli autori delle rapine fatte in nome dello Stato, i funzionari disonesti e gli esattori rapaci. Il linguaggio ha poi una vivezza e una passionalità fortissime, attraverso le quali si scorge con chiarezza la valutazione che del fenomeno bagaudico dà l’autore: è una valutazione che si scosta dalla vulgata storiografica sui Bagaudi (che li vedeva come ribelli e mostri) e nella quale invece vi è un’acuta (anche se retoricamente amplificata) visione delle cause delle rivolte contadine, la povertà e lo sfruttamento. Su Salviano, si vd. il fondamentale studio di M. Pellegrino, Salviano di Marsiglia, Roma 1940.

[40] Significative appaiono anche le analogie di ordine verbale (Terra mater frugum riprende fertilis frugum… Tellus; Iuppiter moderator aurarum può avvicinarsi a lovis aurae). Esse, però, non indicano tanto una ripresa diretta da Orazio, quanto piuttosto l’utilizzazione di un repertorio ideologico, che alla propaganda augustea faceva capo e che nei panegiristi dimostra ancora la sua vitalità.

[41] La solenne invocazione, cantata dai ventisette fanciulli e dalle ventisette fanciulle nei Ludi del 17 a.C., era nel segno dei tipici valori tradizionali dell’antico e agreste Lazio, da Augusto fortemente promossi e finalizzati alla prosperità dello Stato romano e alla continuazione dell’assetto politico-istituzionale e ideologico-morale da lui instaurato. Orbene, quei valori — grazie anche alla splendida letteratura che nel saeculum Augustum fiorì e che, tra i massimi, accanto al grande Virgilio, ebbe il poeta di Venosa — sopravvissero all’età augustea e conservarono grande rilevanza nell’ideologia imperiale delle epoche successive, fino alla tarda antichità.

[42] Vd. A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, 108.

[43] Si tratta dell’orazione De suis virtutibus contra L. Thermum post censuram (F 135 Malcovati; F 99 Sblendorio Cugusi): vd. R. Stark, Catos Rede de lustri sui felicitate, RhM 96 (1953), 184-187.

[44] Verg. Ecl. IV 5.

[45] Naturalmente la netta contrapposizione tra Romani e barbari e la valutazione di questi ultimi secondo i parametri della inciviltà, della violenza e della aggressività dipendono anche, in testi essenzialmente retorici e di provenienza scolastica quali i panegirici dall’utilizzazione di schemi e topoi fortemente radicati nella cultura e nella tradizione letteraria latina. Barbarus e i suoi derivati (barbarici, barbaries, barbaricus) nella letteratura precedente — e soprattutto in Cicerone, palesemente modello stilistico dei panegiristi — erano stati impiegati o nella accezione più semplicemente «narrativa», a indicare, sul modello del greco, popoli diversi e lontani, o nella accezione traslata, a indicare popoli crudeli e feroci, regioni selvagge e inospitali, ecc. E ovvio che il senso traslato poté porsi sulla base di una valutazione obiettiva della feritas dei barbari, contrapposta alla humanitas romana; ed è anche ovvio che l’effettiva diversità e inferiorità culturale del mondo barbarico fu accentuata ed evidenziata dai panegiristi, quasi con lo scopo di esorcizzare una realtà geograficamente vicina, ma troppo diversa, sconosciuta e paurosa.

[46] Cfr. B. Luiselli, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma 1992.

[47] Questa visione di un mondo barbarico devastatore è comune nella letteratura del tempo. Amm. Marc. XV 8, 1, per esempio, così descrive la situazione della Gallia prima dell’intervento di Giuliano: Constantium vero exagitabant assidui nuntii deploratas iam Gallias indicantes nullo renitente ad internecionem barbaris vastantibus universa.

[48] Anche nel discorso del 307 Massimiano è elogiato per le vittorie sui Franchi (VI 4, 2: Multa ille Francorum milia… interfecit, depulit, cepit, abduxit) e su molti altri popoli barbari, che egli però trattò con clemenza.

[49] Anche in questa occasione, come nella precedente, Costantino appare spietato (tantum captivorum multitudinem bestiis obicit) e anche qui il panegirista approva: Namquid hoc triumpho pulchrius quo caedibus hostium utitur etiam ad nostrum omnium voluptatem… ? (IX 23, 3).

[50] Il panegirista utilizza in tal modo la tradizionale divisione del mondo in tre parti (Libia, cioè Africa, Europa e Asia), di cui comunque le prime due rappresentano quasi un’unità (occidentale) contrapposta all’Asia (orientale): vd. August. De civ. D. XVI 17: Si in duas partes orbem dividas, Orientis et Occidentis, Asia erit una, in altera vero Europa et Africa.

[51] Il Tanais (Don), secondo Amm. Marc. II 8, 27, Asiam terminat ab Europa.

[52] Gli Albani erano – secondo Flor. III 6, 1 – stanziati nella parte orientale del Caucaso.

[53] In Aristot. Pol. III 6, 12853, si legge che «gli Asiatici, più che gli Europei, sopportano il potere dispotico senza sdegnarsi.

[54] I Greci, che per Aristotele ovviamente erano «occidentali», per il panegirista della lontana Gallia sono assimilati senza alcun dubbio agli Orientali.

[55] Liv. IX 17-19.

[56] Marco Aurelio, secondo la testimonianza dell’Historia Augusta (Aurel. 24, 3), infinitos ex gentibus in Romano socio collocavit. Anche Claudio Gotico volle, sempre secondo l’Historia Augusta (Claud. 9, 4), che le province romane fossero riempite di barbari servi e Scythici cultores.

[57] Nelle parole del panegirista si percepisce l’espressione compiaciuta di chi può fare affidamento su nuove e più robuste braccia per il lavoro nei campi; mentre fa da contraltare l’atteggiamento impaurito dei barbari: uomini che, nonostante la nativa feritas, trepidano sbigottiti, vecchie stupite davanti all’inusitata ignavia dei giovani, donne altrettanto meravigliate davanti a quella degli sposi, fanciulli e fanciulle costretti a restare immobili.

[58] Oltre al panegirico di Costanzo, testimonia la presenza e l’attività dei laeti in Gallia anche il panegirista del 310, il quale afferma che Costantino immise nella provincia popolazioni transrenane con lo scopo di ricavarne braccia per l’agricoltura e per la milizia (VII 6, 2). Anche Ammiano Marcellino riferisce di laeti barbari, che compiono un assalto alla città di Lugdunum (Lione) e vengono respinti dai soldati di Giuliano, allora Caesar in Gallia (XVI 11), di laeti adulescentes, menzionati in una lettera che Giuliano scrive dalla provincia a Costanzo (XX 8, 13) e ancora di laeti, citati nel resoconto di ordini dati da Costanzo II (XXI 13, 16). Importanti poi le attestazioni dei laeti nel Codex Theodosianus, in costituzioni degli anni 369 (de veteranis, VII 20, 10), 399 (de censitoribus, XIII 11, 10) e 400 (de veteranis, VII 20, 12). Tutte le testimonianze posteriori al panegirico confermano la duplice funzione dei laeti indicata dal panegirista: contadini, impiegati nel risanamento e nella coltivazione delle terre, e leve per l’esercito. Sui laeti in Gallia, vd. D. Lassandro, I «cultores barbari» (laeti) in Gallia da Massimiano alla fine del IV secolo d.C., CISA 6 (1979), 178-188.

[59] Non tanto e soltanto in probabili ed espliciti riferimenti (per esempio, la «visione» di Costantino in X 14, la reazione di Giuliano alle restrizioni filosofiche dovute alla cristianizzazione dopo l’Editto di Milano in XI 23, la persecuzione degli eretici priscillianisti appoggiata dai vescovi ispanici in XII 29, ecc.), quanto in un linguaggio in cui diventa sempre più difficile distinguere, soprattutto in ambito religioso, quanto si debba al latino cristiano (per esempio, deus ille mundi creator et dominus, in IX 13, 2; arbiter deus et scrutatura divinitas, in X 7, 3; nimia religio et diligentius culta divinitas, in XII 29, 2, ecc.) e quanto invece sia semplice eredità del linguaggio «filosofico» tradizionale.

La frontiera britannica: il vallum Hadriani e il vallum Antonini

La creazione di una frontiera settentrionale fortificata in Britannia iniziò durante il principato di Traiano (98-117), in particolare dal 103, formando una vera e propria linea di demarcazione fra la provincia romana e le tribù caledoni del Nord, tra le più bellicose e restie all’integrazione culturale dell’Impero. Il tracciato del limes correva lungo l’istmo tra la foce del Tyne e l’estuario del Solway, seguendo parallelamente a una via militaris, tracciata a scopo strategico, la cosiddetta Stanegate (ang. strada di pietra). La frontiera comprendeva un complesso di fortificazioni, torri di guardia, fossati e una palizzata, nonché una serie di accampamenti: il fulcro di questo sistema difensivo era costituito dal forte di Vindolanda (od. Chesterholm), eretto poco prima del 90. Cinque anni dopo l’avvento di Adriano, nel 122 o più tardi, fu ordinata la costruzione di una fortificazione di frontiera permanente a nord della Stanegate, sotto la supervisione di Aulo Platorio Nepote, legatus Augusti pro praetore della Britannia dal 122 al 125 (AE 1959, 155).

Ricostruzione di una torre di guardia del vallo adrianeo a Vindolanda.

Secondo il progetto originario, il limes dal Tyne al Solway sarebbe stato costituito da un bastione di pietra. In realtà, a ovest del fiume Irthing, questo terrapieno fu inizialmente costruito con la torba, forse a causa della mancanza di malta di calce. Davanti al bastione correva un fossato, che la morfologia del terreno rendeva più o meno superfluo. Lungo il muro dovevano trovarsi singoli castella, posti a un miglio romano l’uno dall’altro; inoltre, a intervalli regolari, si ergevano delle torrette di guardia, una ogni due fortini. Per rafforzare ulteriormente le difese, al di qua delle fortificazioni sorgevano a breve distanza dei castra, in cui erano alloggiate delle guarnigioni. Alcuni forti legionari furono poi integrati direttamente nel bastione. In totale questi forti furono sedici: Segedunum (od. Wallsend), Pons Aelius (od. Newcastle), Condercum (od. Benwell), Vindobala (od. Rudchester), Onnum (od. Halton Chesters), Cilurnum (od. Chesters), Brocolitia (od. Carrawburgh), Vercovicium (od. Housesteads), Aesica (od. Great Chesters), Magnae (od. Carvoran), Banna (od. Birdoswald), Camboglanna (od. Castlesteads), Uxelodunum (od. Stanwix), Aballava (od. Burgh-by-Sands), Congavata (od. Drumburgh), Maia (od. Bowness-on-Solway). Un ulteriore elemento difensivo era un’ampia trincea con due bastioni, il vallum, subito dietro la fortificazione principale. I lavori sul limes furono, dunque, completati in una decina d’anni: la poderosa struttura raggiunse la lunghezza di 80 miglia romane (c. 120 km). Così ne parla Elio Sparziano, il biografo dell’imperatore: «In quel tempo, come spesso fece anche in molti altri luoghi, dove i territori dei barbari non erano limitati dai fiumi, ma da confini artificiali, [Adriano] fece erigere una barriera di divisione a guisa di muraglia, formata da pali fitti e conficcati profondamente nel suolo» (SHA Hadr. 12, 6, Per ea tempora et alias frequenter in plurimis locis, in quibus barbari non fluminibus sed limitibus dividuntur, stipitibus magnis in modum muralis saepis funditus iactis atque conexis barbaros separavit).

Resti del castello miliare (milecastle) n° 39 (Castle Nick), lungo il vallum Hadriani, a Steel Rigg.

Dopo la morte di Adriano, sotto il principato di Antonino Pio (138-161), Quinto Lollio Urbico fu inviato in Britannia come nuovo legatus Augusti pro praetore (CIL VII 1125; RIB 1, 2192). Giulio Capitolino, nella biografia dell’imperatore, afferma che il princeps «condusse a termine molte operazioni militari per mezzo dei suoi legati; infatti, grazie a Lollio Urbico vinse i Britanni» (SHA Anton. 5, 4, per legatos suos plurima bella gessit, nam et Britannos per Lollium Urbicum vicit legatum). Il governatore della provincia, dopo aver ristrutturato il forte di Coria (od. Corbridge) tra il 139 e il 140 (RIB 1147; 1148), nei due anni successivi in nome di Antonino lanciò un’offensiva contro i Caledoni, riuscendo a strappare loro il controllo delle attuali Lowlands scozzesi; il successo della spedizione è testimoniato dall’emissione di monete che celebrano la vittoria sulla Britannia (RIC 745). Per proteggere la recente conquista da possibili contrattacchi, Urbico sovrintese ai lavori per la costruzione di un vallum più a nord di quello adrianeo (RIB 2191; 2192): la nuova barriera correva tra gli estuari del Clyde e del Forth, per una lunghezza di circa 40 miglia romane (c. 60 km). Come attesta sempre il biografo del principe, il nuovo sistema difensivo fu costruito secondo la tecnica del murus caespiticus (SHA Anton. 5, 4, alio muro caespiticio summotis barbaris ducto), cioè principalmente con zolle erbose su fondazioni di pietra larghe tra i 4,3 e i 4,9 m, con un’altezza (compreso il parapetto) di 3 m. Di fronte alla barriera si svolgeva un fossato a “V”, mentre alle sue spalle correva una via militaris. Con una frequenza superiore a quella dei fortini adrianei, il complesso difensivo di Antonino Pio era rinforzato da ben 16 castra, che ospitavano guarnigioni di auxilia.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Sesterzio, Roma, c. 143-144. Æ 23,70 g. Rovescio: Imperator II Britann(ia). Personificazione della Britannia assisa con piede su roccia, lancia nella destra e braccio sinistro appoggiato a uno scudo.

Il vallum Antonini rimase effettivamente in uso per un brevissimo periodo: circa otto anni dopo il suo completamento, intorno al 162/3, esso fu evacuato, a quanto pare sotto la pressione delle tribù settentrionali, per poi essere riconquistato nel 165/6 e, infine, essere abbandonato definitivamente poco prima del 168. La ragione dello sgombero di questo complesso difensivo non è chiara. La frontiera fu attestata sul vallum Hadriani, che, a parte il periodo tra il 208 e il 210 della campagna contro Caledoni e Meati di Settimio Severo (193-211), segnò il confine dell’Impero in Britannia fino alla fine dell’amministrazione provinciale romana negli anni 407-410.

La reale funzione svolta dal vallo di Adriano e in particolare la sua natura militare sono tuttora oggetto di estese e controverse dispute tra gli studiosi. Peraltro, quest’opera difensiva non dev’essere intesa solo come una postazione di combattimento in senso stretto: è evidente che essa, oltre naturalmente ad alloggiare forze armate da impiegare per un pronto intervento in caso di necessità, ebbe anche il compito fondamentale di regolare i traffici commerciali attraverso la frontiera. Dopo il governatorato di Lucio Alfeno Senecione (CIL VII 269; 270; 513; 1346; AE 1930, 111; 113), che tra il 206 e il 207 condusse una serie di vittoriose campagne contro i Caledoni, e la spedizione britannica di Settimio Severo, la provincia godette di una relativa tranquillità e diverse strutture fortificate del vallum caddero in disuso.

Pietra tombale di Flavino, vessillifero a cavallo. Hexham, Abbazia di Sant’Andrea

La funzione bellica del complesso fu brevemente riesumata da Costanzo Cloro, morto a Eburacum (od. York) nel 306, per le sue spedizioni nella regione. Le fortificazioni erette nel IV secolo ebbero però caratteristiche marcatamente differenti da quelle più antiche; gli insediamenti civili maggiori (vici), sorti nelle prossimità di questi castra, furono abbandonati; alcune modeste abitazioni rustiche all’interno dei fortini testimoniano della presenza di piccoli nuclei familiari. La consistenza delle guarnigioni, tuttavia, diminuì secondo un processo di smobilitazione durato per tutto il IV secolo. Non è certo se il vallum Hadriani sia stato veramente scavalcato dalle forze della cosiddetta barbarica conspiratio (Amm. Marc. XXVII-XXVIII), nel 367/8, a seguito di un ammutinamento delle guarnigioni di frontiera, che avrebbero permesso ai Pitti di dilagare nel territorio romano, e a una contemporanea serie di assalti degli Attacotti e degli Scoti dall’Hibernia (od. Irlanda) e dei Sassoni dal continente. Nonostante la riscossa di Flavio Teodosio il Vecchio, comes Britanniarum, nel 368/9, dopo questi eventi l’abbandono del vallum fu completo. La presenza di strutture lignee di epoca più tarda, ritrovate presso i granai del forte di Camboglanna (od. Birdoswald), indicano che il complesso difensivo fu riutilizzato dalle comunità locali ormai indipendenti dall’amministrazione imperiale.

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La fine della Tetrarchia

di F. Sampoli, L’imperatore di Cristo, in Archeo monografie – Storie di grandi imperatori, Agosto 2009, pp. 188-220.

Alla vigilia di lanciarsi nella lunga e avventurosa cavalcata per il potere del mondo, Flavio Valerio Costantino si richiamò alla gloria militare di Claudio II il Gotico, affermando che suo padre, Costanzo Cloro, ne era il diretto discendente.  Era il 310 e chiaro l’intento: attribuire alla propria gens e a se stesso nobilitas, honos, ius imperii. Ci furono subito panegiristi cristiani pronti a giurare sulla veridicità di ascendenze nobili, anche se lui, Costantino, era figlio naturale di una stabularia.

Di sicuro Claudio II (Marco Aurelio Valerio Claudio) era illirico, come Costanzo Cloro. Nato a Sirmium (oggi Sremska Mitrovica) sulla Sava nel 219, aveva militato sotto Decio e Valeriano, poi generale sotto Gallieno, finché, nel luglio 268, all’indomani dell’uccisione proditoria di quest’ultimo, le legioni della Moesia lo proclamarono imperatore. Pare che sia lui sia Aureliano (gli succederà nell’Impero) abbiano partecipato o fossero a conoscenza della congiura.

Per compiacere Costantino, gli scrittori cristiani, a cominciare da Eusebio di Cesarea e Lattanzio, lo negarono per Claudio. A Roma il Senato si affrettò a convalidare la volontà dell’esercito; la situazione politico-militare era critica: i barbari premevano alle frontiere, vacillavano le difese sul Reno e sul Danubio, era perduta più di metà dell’Asia. Claudio II affrontò prima i Goti, che erano dilagati oltre il Danubio; li batté nella Thracia occidentale e, quattro settimane più tardi, li macellò come pecore nella desolazione estiva della piana di Naissus (oggi Niš, in Serbia). Ma alla sua valentia militare fu avversa la fortuna: spostatosi con l’esercito in Pannonia, morì di peste nell’anno 270. Un fratello minore di lui, Prisco, aveva una figlia, Claudia, andata sposa a un certo Eutropio. Dal loro matrimonio, scrivono i panegiristi, nel 250 era nato Costanzo Cloro.

M. Aurelio Flavio Valerio Claudio II ‘il Gotico’. Antoniniano, Milano 270 d.C. Ar. 2,92 gr. Recto: Divo Claudio; testa radiata, barbata e drappeggiata dell’imperatore, voltata a destra.

Il padre, Costanzo Cloro.

Nei De Caesaribus Sesto Aurelio Vittore (storico latino del IV secolo d.C.), definisce la nobilitas di Costanzo Cloro una leggenda. Accettata per adulazione. D’altronde, era venuta fuori abbastanza tardi con il figlio Costantino; né Costanzo Cloro in vita aveva mai avuto l’improntitudine di inorgoglirsene o di rivendicarla. Pensava che la nobilitas dipendesse piuttosto dal coraggio e dalle capacità militari di ognuno; le sue gli valsero, appena trentacinquenne il titolo di Caesar, poi quello di Augustus. C’è comunque da aggiungere che, quanto a menzogne ideologicamente programmate, i panegiristi cristiani avevano pochi rivali. Costanzo Cloro era di Naissus – la città resa celebre dalla vittoria di Claudio II il Gotico – e proveniva dalla campagna come altri suoi commilitoni, che erano Diocleziano, Massimiano, Galerio, Severo, Licinio, Massimino Daia, insomma contadini o guardiani di armenti, ma saliti ai fastigi dell’Impero per virtù, ferocia, ardire nelle armi. La loro nazionalità era illirica. Provenivano dalle nebbie della Sava, dai monti della Dardania, dalle colline intorno a Naissus. Alti di statura, biondi, resistenti alle fatiche della guerra e combattenti impavidi, per un secolo, si può dire, ridettero tempra e spirito vitale all’Impero romano, giunto alla parabola di un lento disfacimento.

Costanzo Cloro aveva poco più di un anno quando ad Abrittus (città le cui rovine si conservano nella località di Hisarlaka, presso Razgrad, in Bulgaria, n.d.r.), nella Dobrugia nei pressi del Danubio orientale, un esercito romano cadde nell’agguato di un terreno paludoso e fu trucidato dai Goti. Vi morì anche l’imperatore Decio, cinquantenne, pannonico di origine e duro, tenace, innamorato come nessun altro della romanità. La perdita risultò disastrosa per due motivi: nella palude di Abrittus andò distrutto oltre a un esercito, anche il prestigio militare dell’Impero. Dopo secoli di dominio la potenza di Roma franava come una fortezza corrosa dall’interno. Vituperosamente l’Impero venne a patti con i Goti, concedendo loro non solo tutto il bottino ammassato al di qua e al di là del Danubio, ma impegnandosi a pagare loro un tributo annuo proprio perché non riattraversassero il Danubio. Era scontato che una pace, comprata e degradata fino a una tale ignominia, spalancasse agli stessi Goti e agli altri popoli di confine le porte dell’opulenza e della debolezza dell’Impero. L’una e l’altra erano esche troppo ghiotte per giovani popoli avidi di preda. Spinti dal successo dei Goti, né vincolati da tributi o patteggiamenti, si riversarono oltre il Danubio, devastarono le province illiriche, la Moesia, oltrepassarono il Bosforo a oriente, a occidente si spinsero fino alle porte di Roma.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Ma c’era di peggio della peste, che aveva ucciso l’imperatore Decio, o dell’incombente minaccia ai confini: la lacerazione interna dell’Impero, che nella Historia Augusta va sotto il nome dei «Trenta tiranni» (Tyranni triginta), giacché tanti – uno dopo l’altro, a volte due o tre insieme – funestarono Roma e le province con lo scempio delle guerre civili. Ci vollero diciotto anni e un imperatore come Claudio II per aver ragione dei Goti e, morto lui, un altro imperatore illirico, Aureliano, per ridare all’Impero romano fiducia e capacità di ripresa. Nel 267, a diciassette anni, che era allora l’età per arruolarsi nell’esercito, Costanzo Cloro militò sotto l’imperatore Gallieno. Il fronte era quello del Danubio. Gallieno era succeduto al padre Valeriano, prigioniero dei Sasanidi dopo una disgraziata campagna militare (260) e morto in cattività; in pratica ereditava la situazione politico-militare dell’Impero più caotica, nefanda, incontrollabile dell’intero secolo. La figura di Gallieno è controversa. Il biografo dell’Historia Augusta, Trebellio Pollione, lo accusava di ogni infamia – viltà, lussuria, ingordigia, eccesso di ellenismo, imprudenza, avidità – e perfino di un’imperdonabile leggerezza: coltivare la poesia e, in particolare, scrivere epitalami. Ammiano Marcellino, di gran lunga il maggior storico della decadenza, è meno severo. La storiografia moderna ha invece riabilitato Gallieno, gli riconosce addirittura «una grande figura di imperatore», sia per il valore militare, sia per la «posizione eminente» che rappresenta nell’evoluzione dell’Impero romano. Il fatto, comunque, più stranamente controverso è che il «corrotto», l’«ignavo», il «gaudente» Gallieno sia stato ucciso in un accampamento vicino a Mediolanum da una congiura militare per una motivazione specifica: il rigore e la disciplina che intendeva introdurre o forse aveva già introdotti nell’esercito.

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal.

Elena, la stabularia.

Costanzo Cloro seguì il nuovo imperatore, Aureliano, nelle campagne sul Danubio, poi in Oriente e fino a Palmyra contro la regina Zenobia. Nel 273, al ritorno da Palmyra, si fermò a Drepanon in Bithynia (oggi Yalova, in Turchia). Era il riposo del guerriero dopo tante battaglie. E fu a Drepanon che Costanzo Cloro vide e si innamorò di Elena. Faceva la stabularia in una di quelle osterie, dove al piano di sopra era lecito alle ragazze, le stabulariae, intrattenere rapporti con i clienti, vogliosi di compagnia femminile. Elena era bella, procace, l’occhio timido di cerbiatta, ma nel portamento altera come una principessa. Aveva poco più di sedici anni: per una donna d’Oriente il fiore della giovinezza. Costanzo Cloro, ventitreenne, biondo, struttura atletica, apparteneva, per la sua virtù militare, all’alta ufficialità delle legioni. Non ebbe difficoltà ad avere nel letto l’avvenente stabularia. Quello che agli occhi degli altri e di lui stesso sembrò inconsueto, fu invece la continuità della loro relazione. Il concubinato non era una difformità, al contrario: fra gli ufficiali delle legioni era quasi una regola tenere amanti ovunque la necessità del servizio militare li destinasse di guarnigione. I panegiristi cristiani si sono arrampicati sugli specchi per trasformare la convivenza di Costanzo Cloro con Elena nel vincolo sacrale del matrimonio.

Statua di matrona (Elena, madre di Costantino). Marmo, V secolo d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nel 275, a Byzantium Aureliano venne ucciso in una congiura. Succedono altri imperatori: Tacito (275-76), Probo (276-82), Caro (282-83), Carino (283-84), in ultimo Diocleziano dal 284 al 305. Costanzo Cloro ha combattuto dal Danubio al Reno, alla Thracia, all’Illyricum contro Franchi, Sarmati, Geti, Vandali. Ha unanimi riconoscimenti di coraggio, di sagacia militare, primo ufficiale nella guardia imperiale, poi tribuno, comandante di legione, infine governatore della Dalmatia (279). Ora ha la possibilità di fermarsi, ed Elena è accanto a lui, desiderosa di amare, il suo grembo è come la terra arata, pronta a ricevere il seme: e l’anno dopo (280) a Naissus gli partorisce un figlio, Costantino.

L’idillio familiare conobbe pause già nel 282 con l’uccisione di Probo, la cui morte si portò dietro i contraccolpi più o meno fisiologici dei cambi di potere. Un segnale impietoso dei tempi è anche in questo: che in meno di quindici anni furono dodici gli imperatori legittimi o illegittimi morti ammazzati. Allora e nel biennio successivo Costanzo Cloro si seppe districare con una certa abilità, valutando tempestivamente uomini e circostanze. Ed Elena? Era cambiata con la maternità: non più la giovane avvenente che aveva affascinato Costanzo Cloro, ma ora, piuttosto, madre scrupolosa e gelosa della propria creatura. Improvvisamente, nel 284, la separazione. Diocleziano, il nuovo imperatore, opera negli alti gradi dell’esercito una serie di «avvicendamenti». Costanzo Cloro è scaraventato sul Reno contro i Germani, mentre Elena con il figlio deve tornare in Bithynia a Nicomedia (oggi Izmit), dove Diocleziano ha stabilito la capitale. Non rivedrà mai più Costanzo Cloro. Passano quattro anni, prima lettere sempre più rade, poi il silenzio, infine la notizia per lei dirompente: Costanzo Cloro ha sposato la figliastra dell’Augustus Massimiano, Teodora. Bella, raffinata, figlia di una Siriana e molto più giovane di lui. Nel giro di una decina di anni gli darà sei figli.

La tetrarchia.

Ma Diocleziano ha in mente, soprattutto, un progetto nuovo per la struttura dell’Impero. Con l’obiettivo preciso di scongiurare le continue ribellioni nelle province o nei vari scacchieri periferici, aumentando nel contempo la vigilanza e ripristinando la disciplina nell’esercito, divide l’Impero in Oriente e Occidente, chiama il vecchio commilitone Massimiano, al quale affida l’Occidente, riservando a sé l’Oriente, oltre la preminenza del comando e delle grandi decisioni. Di lì a poco perfeziona la divisione nella tetrarchia: due Augusti, Diocleziano e Massimiano; e due Caesares alle dipendenze degli Augusti: rispettivamente Galerio e Costanzo Cloro. Poi quattro capitali: Nicomedia (Diocleziano), Sirmium (Galerio), Mediolanum (Massimiano), Augusta Treverorum (Costanzo Cloro). Indubbiamente la tetrarchia, almeno negli anni a cavallo del secolo, riportò l’Impero all’antico prestigio e l’efficienza militare delle legioni a livelli che sembravano perduti. Ai margini, tuttavia, restavano sussulti di rivolta. Due si ebbero, in Africa proconsularis e in Aegyptus, in due città dal nome fatidico: Carthago e Alexandria. Nell’una e nell’altra si erano proclamati imperatori Giuliano e Achilleo. Contro Achilleo (anno 296) si mossero da Nicomedia lo stesso Diocleziano, portando con sé il giovanissimo Costantino. La resistenza di Achilleo, rinchiuso dentro Alexandria, costrinse Diocleziano a tagliare gli acquedotti. Quando la città si arrese, fu il massacro. Archiviato il capitolo Alexandria, Costantino seguì Diocleziano in Mesopotamia, dove il Caesar d’Oriente, Galerio, era impegnato sul fronte dell’Eufrate contro i Sasanidi. Ignaro o ostentatamente dimentico delle precedenti campagne di Roma, Galerio si era avventurato nelle pianure desolate della Mesopotamia alla mercé della cavalleria sasanide. A stento riuscì a salvare le legioni dalla distruzione. Diocleziano lo accolse senza rimproveri, ma lo costrinse a percorrere a piedi più di un miglio dietro il suo carro per la grande strada di Antiochia. L’anno dopo Galerio, umiliato, roso dalla rabbia, cambiò truppe e tattica. Accertatosi del modo di accamparsi dei Sasanidi, li assaltò di notte, cogliendoli di sorpresa. Ne fece strage. Quanto alle condizioni, che allora impose ai vinti, valsero ad assicurare all’Impero quarant’anni di pace sulla frontiera del Tigri.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Costantino come Achille.

Tornato a Nicomedia con Diocleziano, Costantino ha vent’anni. Combatte nella Moesia e sul Danubio contro Goti e Sarmati, le incursioni dei quali erano, si può dire, periodiche come le stagioni dell’anno. La guerra contro i Sarmati fu anche teatro di un episodio d’altri tempi ed ebbe l’effetto di richiamare alla memoria l’epicità dei duelli omerici dell’Iliade. Costantino che sfida e scende a singolar tenzone con il capo dei barbari, al cospetto dei due eserciti schierati, e ne esce vincitore. Di statura e struttura atletica, era inoltre coraggiosissimo e come tale, allora e poi in seguito, amatissimo dai soldati. Anzi, la fiducia e la popolarità che riscuoteva fra loro, la sua virtù militare, la rapidità delle risoluzioni sono la chiave per capire – come per Alessandro, Annibale o Cesare – la straordinarietà delle sue vittorie. Diocleziano, che a Nicomedia lo aveva tenuto vicino a sé quasi come un ostaggio (o almeno all’inizio, secondo le insinuazioni di Lattanzio), ebbe modo e tempi per valutare di lui l’ardire dell’animo e le qualità militari, come aveva valutato quelle del padre Costanzo Cloro. La stima manifestatagli in più occasioni da Diocleziano, aggiunta alla popolarità fra i soldati, finì per ingelosire Galerio. Con dispetto il Caesar d’Oriente intravide in Costantino non soltanto un futuro, valente condottiero d’eserciti, ma un avversario temibile. I prodromi della rivalità saltarono fuori alle dimissioni di Diocleziano; dimissioni che, inusitate e impreviste, furono un evento sconvolgente.

Pretoriani ed equites singulares. Bassorilievo, marmo, II sec. d.C., dal Grande fregio traianeo. Roma, Arco di Costantino.

Il gran rifiuto di Diocleziano.

Nella storia romana c’era un unico precedente: Lucio Cornelio Silla, che, nel 79 a.C., aveva rinunciato alla dittatura. Lo fece pubblicamente, scegliendo la platea sbigottita e trepidante del Foro. Diocleziano, quasi quattrocento anni dopo, preferì per il gran rifiuto la piana a tre miglia da Nicomedia, dove aveva convocato l’assemblea dei soldati. Era il 1 maggio 305: dritto nella persona, ma pallido per la strana malattia che lo affliggeva da un anno, Diocleziano per l’ultima volta passò in rivista i vessilli delle legioni, gli ufficiali, la guardia palatina prima di salire alla tribuna e rendere esplicita la sua decisione. Per le fatiche sopportate e per la debolezza degli anni (toccava in realtà appena i sessanta) non se la sentiva più di reggere il peso del governo; quindi cedeva la somma del potere a chi aveva energie e forze adeguate per adempiere ai doveri e ai compiti richiesti dalla vastità dell’Impero. In quello stesso giorno a Mediolanum, rispettando le disposizioni concordate in precedenza per un corretto funzionamento della tetrarchia, anche Massimiano abdicava dal suo potere di Augustus. Li avrebbero sostituiti Gaio Galerio in Oriente, Costanzo Cloro in Occidente. Restava da nominare i nuovi Caesares, che furono rispettivamente Valerio Massimino Daia e Flavio Valerio Severo. Presente alla cerimonia dell’abdicazione del passaggio di consegne c’era un testimone avidissimo di notizie e retore: Lucio Celio Firmiano Lattanzio (autore in seguito di un libro famoso per l’apologia del Cristianesimo, De mortibus persecutorum). Di Diocleziano e del suo rifiuto scriverà dodici anni dopo, quando era ad Arelate (Arles) e precettore di Crispo, il figlio naturale di Costantino. Nel racconto di Lattanzio la figura di Diocleziano è molto diversa da quella dell’imperatore imperturbabile e controllato degli storici pagani. Alla tribuna dinanzi all’esercito schierato si presenta addirittura in lacrime. La decisione di dimettersi gli è stata imposta con le minacce, o peggio con l’incubo di una guerra civile, da Galerio che oltretutto gli era genero, avendo sposato la sua unica figlia Valeria. E ci sarebbe stata anche un’altra imposizione di Galerio: la nomina dei due nuovi Caesares. Lattanzio sostiene che la scelta di Diocleziano era caduta su Costantino (per l’Occidente) e Massenzio (per l’Oriente), quest’ultimo figlio legittimo di Massimiano e, fra l’altro, genero di Galerio. Il racconto di Lattanzio si colora di imprevisti: ecco che all’annuncio dei nuovi Caesares un vento iroso scompiglia le linee irrigidite dell’esercito. Si pensa perfino che Costantino abbia cambiato nome, tanto più che i soldati lo vedevano sulla tribuna; finché Galerio, senza nemmeno voltarsi, allunga una mano all’indietro, afferra Massimino Daia, poi Severo e li trascina in prima fila alla vista dei soldati. La nomina dei due Caesares poneva le premesse, in un non lungo volgere di lune, a future rivalse, discordie, guerre civili. Rientrato in città, Diocleziano cambiò la biga in una carrozza da viaggio e, senza fermarsi ulteriormente a Nicomedia, proseguì per il Bosforo, poi per le strade polverose della Thracia fino alla solitudine di Spalatum (Split, in Croazia). Con lui finiva una struttura politica, una concezione del potere. Doveva averlo avvertito lui stesso nel momento in cui si accingeva all’abdicazione, se arrivò a proporre alla dignità di Caesares Costantino e Massenzio. Ritornava cioè al principio di successione ereditaria in luogo dell’altro, aristocratico e razionale, dell’adozione e della scelta per merito. Ma era anche riconoscere, almeno in parte, il fallimento di una costruzione politica, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione. Nella quale, quasi da neofita, lui, Diocleziano, che era figlio di schiavi, aveva creduto con un eccesso di ottimismo, riversando nell’efficacia delle leggi concepite la salvaguardia risolutiva di tutti i problemi politici e sociali.

Diocleziano. Testa, marmo, 284-305 d.C. da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Costanzo Cloro richiama il figlio.

Scomparso Diocleziano dalla scena politica, Costantino non aveva più ragione né voglia di rimanere a Nicomedia, né tanto meno intendeva militare agli ordini dell’uno o dell’altro dei Caesares, in particolare di Galerio. Ambizione e orgoglio lo mordevano alla nuca. Dei nuovi Caesares, Flavio Valerio Severo, bravo generale e più bravo bevitore, era sempre stato alle dirette dipendenze di Galerio; l’altro Massimino Daia, era più giovane, irruente, superstizioso e figlio della sorella dell’Augustus. In pratica due creature di quest’ultimo. Nella tetrarchia Galerio assumeva non solo il compito di primus inter pares, che era stato di Diocleziano, ma indirettamente – attraverso il Caesar d’Occidente, Severo – veniva a invadere il terreno dell’altro Augustus, Costanzo Cloro. Il quale non tardò a far sentire la sua voce. Dapprima in forma, si può dire, amichevole, con la richiesta a Galerio di Costantino, adducendo a pretesto lo stato non buono di salute e il naturale desiderio paterno di rivedere il figlio primogenito dopo dodici anni. Galerio indugiò a rispondere, poi enumerò una serie di motivi. Taceva ovviamente quello vero, determinante: che padre e figlio uniti, proprio per le loro ambizioni, qualità militari, generale consenso negli eserciti, sarebbero stati prima o poi tentati dalla grande avventura di essere i soli padroni del mondo. Su Costantino, in particolare, anche nel periodo di Nicomedia, non mancavano descrizioni celebrative dei panegiristi. Senza alcun dubbio, nelle operazioni di guerra sui vari fronti, aveva dato prove di coraggio, abilità, grande valore, risolutezza. Basta ricordare il duello omerico con il capo dei Sarmati. Dalle statue, poi, appare evidente come fosse aitante e forte della persona. Eusebio di Cesarea aggiunge che «non c’era nessuno che gli si potesse paragonare per grazia e bellezza del corpo, nonché per la statura, e che superava tutti i suoi coetanei in gagliardia e attività al punto da sembrare loro perfino temibile». Per di più a Nicomedia, nel 303, Costantino era stato testimone della persecuzione dei cristiani e insieme dell’incendio del palazzo imperiale, che doveva fugare le residue perplessità di Diocleziano. La persecuzione era stata voluta soprattutto da Galerio Caesar quando nell’esercito si era trovato di fronte a casi di viltà, mascherati da motivi religiosi. I soldati che avevano disertato – obiettori di coscienza ante litteram – erano cristiani.

Costanzo Cloro. Testa, marmo, 300 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.

La persecuzione dei cristiani.

Diocleziano, contrario all’inizio a decisioni radicali, aveva ordinato allora un’inchiesta nell’esercito. Sospettati di slealtà, i cristiani erano stati ipsō factō radiati. Ma il vero e più pericoloso covo degli adepti della religione salvifica del Cristianesimo era all’interno del palazzo e costituito dagli eunuchi. Forse per loro istigazione lo stesso palazzo imperiale andò a fuoco, bruciarono le stanze di Diocleziano. Era troppo anche per uno come lui, disposto alla ragionevolezza. Da allora non ebbe più dubbi: i cristiani erano i nemici subdoli dell’Impero. Arrestati, gli eunuchi furono giustiziati uno dopo l’altro e con loro altre persone, eminenti per gli uffici che avevano ricoperto come per il favore che avevano goduto. Potentissimi quondam eunuchi necati, scrive Lattanzio. Sulla persecuzione dei cristiani Costantino aveva evitato di pronunciarsi; sull’incendio, invece, se l’era cavata proponendo la caduta di un fulmine, visto che pioveva. Insomma Galerio, due anni dopo, non aveva nessuna ragione valida per opporsi alla richiesta di Costanzo Cloro per il figlio Costantino, anzi solo un presentimento, partorito dalla paura. Continuò, in ogni modo, a tergiversare, affidandosi agli eventi. Il grande gioco del potere era già in atto. E Costantino non attese oltre: una notte fuggì e, temendo di essere raggiunto, in ogni stazione di posta, dopo aver cambiato i cavalli, azzoppò gli altri che rimanevano, affinché gli inseguitori non se ne potessero servire. Attraversò il Bosforo, percorse la Thracia, l’Illyricum, la Pannonia, entrò in Gallia e arrivò a Bononia (Boulogne-sur-Mer), dove suo padre stava imbarcando le truppe per una spedizione in Britannia contro i Pitti e gli Scoti.

Galerio officia un sacrificio propiziatorio prima della battaglia. Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. su pannello. Thessaloniki, Arco di trionfo di Galerio.

La fuga avvenne nella primavera del 306, e non fu soltanto la lunga cavalcata di un giovane nel pieno delle forze (aveva ventisei anni), ma anche irta di non poche difficoltà, giacché Costantino si portava dietro il figlio naturale Crispo, natogli l’anno precedente, e la madre di lui, Minervina, con la quale viveva morē uxoriō. Come Costanzo Cloro, più di vent’anni prima, con Elena, la stabularia. Solo che lui, Costantino, scappando, non poteva lasciare ostaggi nelle mani vendicative di Galerio. La spedizione in Britannia ebbe un esito rapido. Nell’isola Costantino combatté a fianco del padre; più verosimilmente, per la precarietà della salute di Costanzo Cloro, ottenne sul campo le insegne del comando delle legioni; il che spiega come, alla morte del padre, Augustus d’Occidente, proprio le legioni, senza esitazione alcuna, lo proclamarono imperatore.

Caesar d’Occidente.

Costanzo Cloro morì a Eboracum (York) il 21 o il 25 luglio del 306, a cinquantasei anni. Era stato Augustus d’Occidente poco meno di quindici mesi. Al suo capezzale la moglie Teodora con i sei figli e Costantino. Gli storici del tempo sono abbastanza incerti sul fatto che Costanzo Cloro abbia o no designato il suo primogenito a succedergli. La proclamazione di Costantino venne dalle truppe, spontaneamente, ritornando alla vecchia e deleteria provocazione per cui fosse l’esercito ad eleggere un imperatore. Il che era poi il contrario della costruzione ideata e voluta da Diocleziano. Di sicuro l’esercito sbarcato in Britannia, eleggendo il figlio di Costanzo Cloro, intendeva assicurare la continuità del comando, sotto il quale aveva militato per quindici anni, apprezzandone sia la sagacia militare, la temperanza, la sollecitudine, sia il tenore di vita uguale negli accampamenti come nella residenza imperiale. Si diceva, per esempio, che in occasione di ricevimenti o di pranzi ufficiali Costanzo Cloro si facesse prestare da amici e dignitari l’argenteria. A ogni buon conto l’elezione di Costantino si avvalse anche del pieno consenso di un corpo di Alemanni che in Gallia si era imbarcato con Costanzo Cloro. Era il segno dei tempi: in seguito, quando l’impiego di interi corpi di “barbari” divenne normale e indispensabile, l’Impero affrettò la propria rovinosa catastrofe.

Costantino. Follis, Londinium 310 d.C. Æ 4,32 gr. Recto: Soli invicto comiti; Sole, stante verso sinistra, con la destra alzata e un globo nella sinistra; le sigle T-F ai suoi fianchi e PLN in exergo.

Costantino, di solito risoluto nelle decisioni militari, nella situazione specifica si comportò da politico navigato, forse ricordandosi della lezione di Diocleziano. Scrisse una lettera a Galerio. Travolto, diceva, dalla morte del padre, come dal fermento dell’esercito, aveva accettato o meglio subito la proclamazione a “imperatore” per stroncare sul nascere le possibili degenerazioni di mestatori e capipopolo, come era accaduto in passato prima della tetrarchia dioclezianea. In breve, gli era mancato proprio il lasso necessario di giorni per sollecitare direttamente da lui, Galerio, l’investitura costituzionale. Prudente, modesto il tono della lettera, non però servile, giacché Costantino era cosciente di rivendicare con giusta ragione il diritto alla successione del padre.

A Nicomedia Galerio fu tutt’altro che convinto. Quello che più lo imbestialiva era l’ipocrisia di Costantino, la stessa che imputava ai cristiani e per la quale era stato ed era con loro inesorabile. Furibondo, accecato dalla rabbia, voleva addirittura trapassare da parte a parte con la spada l’incolpevole messaggero. Anche le minacce, dichiarate al momento, si esaurirono come il fuoco nelle are dei sacrifici. Non solo la distanza di Nicomedia da Eboracum era immensa, ma, soprattutto, avrebbe dovuto affrontare sul campo l’esercito d’Occidente, formato in gran parte da Celti e Germani. Non tanto la ragione, insomma, quanto l’incertezza di una guerra civile, l’abilità militare e, al di là delle poche parole cortesi o “ipocrite”, la risolutezza di Costantino lo indussero a ratificare la scelta dell’esercito delle Galliae. Si riservò, comunque, una non piccola rivalsa: promosse Severo da Caesar ad Augustus, facendolo subentrare a Costanzo Cloro con sede a Mediolanum, e dette a Costantino il titolo di Caesar. La forma dell’istituzione tetrarchica si poteva dire slava, come era salvo, apparentemente, il rispetto fra i suoi quattro membri.

Ma non resistette che due mesi. I venti inclementi d’autunno scoperchiarono prima il tetto della costruzione dioclezianea, poi presero a sgretolare i cornicioni, infine i muri di sostegno. La rovina prese l’avvio proprio da Roma, la capitale dimenticata e abbandonata. Diocleziano c’era stato una sola volta insieme con Massimiano, nel novembre 303, per il ventennale della sua proclamazione all’Impero. Mai Costanzo Cloro e Galerio. A Roma, invece, abitava Massenzio. Avvelenato per essere stato escluso dalla spartizione del potere, lui che era l’unico figlio maschio di Massimiano, si fece interprete dell’insofferenza e della rivolta di Roma contro l’Augustus d’Oriente. Per avidità o perché pressato da vuoti di cassa, Galerio aveva in effetti ordinato un censimento sui beni dei sudditi dell’Impero con lo scopo preciso di gravare nuove imposte sugli immobili, come sulle persone.

C. Galerio Valerio Massimiano. Testa, porfido, inizi IV sec. d.C. dal palazzo imperiale di Felix Romuliana (od. Gamzigrad, Serbia).

Di Massenzio i panegiristi delinearono il ritratto di un uomo corrotto, dissoluto, sensuale, crudele. Forse aveva davvero queste tare del carattere e del comportamento. Era anche «brutto e meschino d’aspetto», faceva della notte giorno e appunto di notte entrava nelle case e violentava le donne. Lo strano, tuttavia, è che tutti questi difetti, vizi, brutture dell’animo vennero fuori quando si mese a contendere il possesso dell’Italia a Costantino. In pratica cinque anni dopo.

Fino al 306 l’Italia e Roma in primis erano state quasi esenti da regolari tassazioni (Roma lo era dalla conquista della Macedonia). Adesso, però, i funzionari inviati da Galerio e preposti all’estimo, temendo occultamenti o frodi, usavano non pochi mezzi coercitivi e perfino la tortura. Fu la causa o il principio più saldo per la rivolta. Machiavelli dice che un principe, nella pratica di governo, deve soprattutto fuggire l’odio, e questo lo può quando si astenga «dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi… perché gli uomini sdimenticano più presto la mote del padre che la perdita del patrimonio». Era un pensiero di Tacito, ma Arbelio, vicarius in urbe Roma, l’aveva scordato o non l’aveva mai letto o temeva più le ire di Galerio che le dimostrazioni popolari. Furono spogliate le famiglie più ricche e non solo quelle; carri pieni di suppellettili, argenteria, vasi dorati, statue, attraversavano ogni giorno le strade. La loro vista eccitava la folla. Per contro le guardie di Arbelio erano insolenti, volutamente spregiose. Accadde che da Hostia per quattro o cinque giorni non arrivassero i barconi con il grano. La città era alla fame, ma ci voleva un capo che prendesse su di sé l’onere e l’orgoglio di riscattare la grandezza di Roma, come la libertà dell’Italia dal dispotismo di un armentario illirico. Per il nome e la volontà di riscatto Massenzio era l’uomo. Galerio, ovvero Arbelio per lui, commise l’errore definitivo: minacciò una riduzione drastica delle coorti pretoriane, addirittura la loro soppressione. Fu una fiammata: Arbelio ucciso, saccheggiato il palazzo vicariale, Massenzio acclamato imperatore romano. Era il 28 ottobre 306.

Massenzio. Follis, Roma 307-312 d.C. Æ 3,2 gr. Recto: Maxentius P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa laureata e barbata dell’imperatore, volta a destra.

Per Galerio franava il mondo. Nel giro di appena diciotto mesi i legami, le aspettative, le leggi, la struttura medesima della tetrarchia, di cui si vantava di essere ora il capo supremo, gli si disfecero tra le mani, divennero passato. Non era mai stato un abile politico, pensava da soldato come in un campo di battaglia. e adesso la rivolta in atto non era in un angolo dell’Impero, ma in Italia, e il capo era suo genero. Non cercò neppure un approccio. Era offeso: Massenzio si tenesse pure sua figlia in ostaggio; Severo, che da Mediolanum si sarebbe subito mosso con un esercito, non avrebbe incontrato difficoltà o resistenza, doveva combattere con una plebaglia, quella romana, avvezza solo ai giochi del circo e a vivere di congiari (le distribuzioni alla plebe di olio e di vino, n.d.r.); e Massenzio – il genero impostogli da Diocleziano – non era che un imbelle vizioso.

La sorpresa Severo l’ebbe non appena si trovò di fronte alle mura di Roma. Fino ad allora si era figurato di compiere una rapida spedizione punitiva: vide sulle Mura aureliane macchine da lancio e armati spavaldi pronti a resistere a qualunque assedio. Inoltre, già nei primi giorni, successe un fatto increscioso e assolutamente imprevisto e che ebbe conseguenze devastanti: un numeroso contingente di cavalleria maura disertò, passando a Massenzio. Certo era stato adescato con il miraggio di donativi speciali, ma era proprio questo che inquietava. Arrivarono altre defezioni. Infine, una mattina di gennaio, il pallido sole invernale, alzatasi la nebbia, scoprì nella campagna intorno a Roma la desolazione che segue all’abbandono di un esercito.

Ricompare Massimiano.

Severo fuggì a Ravenna in attesa di aiuti e di ordini precisi da parte di Galerio. Quanto era accaduto gli appariva incredibile, peggio di un brutto incubo. Poi venne a sapere che dalla villa in Calabria, in cui si era ritirato, Massimiano era piombato a Roma. Forse c’era già anche durante l’assedio. Chiamato dal figlio o spinto dall’insopprimibile desiderio di potere. Massimiano conosceva bene Galerio e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato del doppio scacco subito. Per non avere contemporaneamente a combattere con tutti e due, avrebbe dovuto ingabbiare Severo prima che Galerio giungesse in Italia. Si presenta davanti alle mura di Ravenna, parla di tregua, ricorda ai soldati il suo recente passato di Augusto, ottiene anche un colloquio con Severo. Promesse, giuramenti, elogi ammantati di sottili adulazioni. Non era forse meglio, aggiunge, affidarsi alla lealtà di un vecchio Augusto piuttosto che alla collera irata del nuovo? Lo convince. Severo esce da Ravenna diretto a Roma per stipulare le condizioni di un accordo. Ma, varcate appena le mura, è ucciso. Zosimo sostiene che l’uccisione avvenne tra Spoletium (Spoleto) e Interamna (Terni) e che fu Massenzio a tendergli l’imboscata e che poi «gli strinse il cappio intorno al collo». Per Massimiano la calata di Galerio in Italia era scontata. Di sicuro sarebbe venuto con un esercito imponente, agguerrito; né lui, Massimiano, era al momento in grado di opporglisi. Pensò, allora, a Costantino come all’unica alleanza capace e di contrastare e di battere l’Augustus d’Oriente. D’accordo, la morte proditoria di Severo rendeva la situazione ancor più difficile dal punto di vista morale, ma restava il fatto che Massenzio e il figlio di Costanzo Cloro si erano ripresi i territori (l’Italia il primo, le Gallie il secondo) assegnati loro dalla volontà e dalla decisione di Diocleziano, poi stravolte da Galerio. L’incontro con Costantino ebbe luogo ad Augusta Treverorum. La neve imbiancava ancora le campagne intorno al Reno e Massimiano aveva con sé la sua ultima figlia, Fulvia, bella di un fascino esotico, giovanissima, e la offrì in matrimonio a Costantino. Dimenticata o morta, secondo le fonti cristiane, Minervina, l’amante e madre di Crispo. Il matrimonio fu celebrato il 31 marzo del 307 ad Augusta Treverorum con grandi festeggiamenti. Allo scopo di attirare il genero nell’alea della sua politica, Massimiano si prestò ora a conferirgli il titolo di Augustus. Insomma, per una combinazione di eventi, Massimiano aveva dato in moglie le figlie prima al padre, poi al figlio e posto loro sul capo, successivamente, con le proprie mani, la corona di imperatore.

Massimiano. Testa, marmo, fine III sec. – inizi IV sec. d.C. dalla villa romana di Chiragan. Toulouse, Musée St.-Raymond.

Galerio contro Roma.

Galerio scese in Italia con l’esercito d’Oriente, i veterani illirici e l’animo vendicativo e gonfio di ferocia. Arrivò fino a Narnia (Narni), a sessanta miglia da Roma, incontrando una resistenza limitata. Ma la grande battaglia in campo aperto, come si aspettava, contro Massimiano e il genero non avvenne. Si ripeté, anche se in scala meno sconvolgente, ciò che era successo a Severo. Tanto erano forti l’astio, il rancore, la paura, la collera contro Galerio che i Romani, spontaneamente, dettero a Massimiano e Massenzio le ricchezze che avevano sottratto alla sua rapacità. A questo si aggiungono la liberalità di Massenzio e il ricordo delle elargizioni alle truppe di Severo, esche fin troppo appetibili per la diserzione. Galerio più che combattere contro i nemici, fu ora costretto a trattenere anche i veterani. La loro fedeltà cominciava a mostrare buchi, aperti alla corruzione. Ritirandosi, permise loro saccheggi indiscriminati e selvaggi. Le campagne furono bruciate, villaggi e piccole città rasi al suolo. L’esercito di Galerio che ripassava le Alpi era carico di preda, di rabbia e di buia impotenza. Come il suo imperatore.

Massenzio aveva tallonato a distanza la ritirata del suocero. Massimiano, invece, fremeva dal desiderio di non lasciare impunite le distruzioni che l’altro si lasciava dietro di sé. Corre da Costantino: gli si profilava davanti, dice, la più insperata delle occasioni: sbarazzarsi una volta per sempre di Galerio, in fuga dall’Italia, stanco e avvilito l’esercito. Se attaccato improvvisamente e al momento opportuno, l’avrebbe avuto alla sua mercé e l’esercito si sarebbe disfatto come una grossa palla di lardo messa al fuoco. L’Impero, insomma, si poteva ridurre a una questione familiare. E, tuttavia, nemmeno le voglie di una giovanissima moglie bastarono a impigliare fra le lenzuola del letto la lucidità di Costantino. Semmai, proprio la prospettiva di un Impero da gestire o spartire in famiglia, lo dissuase.

Massimiano valeva Galerio; fra i due era da preferire il secondo, impulsivo, prevedibile, meno dissimulatore e meno abile nel gioco della politica. inoltre Costantino, che era stato a lungo sulla frontiera del Danubio, sapeva perfettamente che le migliori truppe di Galerio erano di stanza appunto su quel fronte e, all’occorrenza, potevano essere richiamate in qualunque momento. Fra l’altro le comandava un commilitone di Galerio, a lui legato da vecchia amicizia e generale validissimo, Licinio.

Padre e figlio.

Non si rassegnò Massimiano, vedendo svanirgli un potere o almeno la possibilità di un ritorno al potere, che gli era sembrato a portata di mano. Rientrò in Italia, fidando nella riconoscenza di Massenzio. Per due volte l’aveva salvato dagli eserciti di Severo e di Galerio. Giudicava il figlio dissoluto ed indolente, come la madre siriana, e abituato a vivere non negli accampamenti, ma fra i bagni, il circo, le orge notturne. Meno che mai sarebbe stato in grado di governare o destreggiarsi in una situazione che di giorno in giorno diveniva più drammatica, in continuo cambiamento, e che richiedeva nervi saldi e prontezza di azione. Galerio, operata una nuova divisione dell’Impero d’Oriente, aveva affidato a Licinio (nominato Augustus al posto di Severo) la Raetia, la Pannonia, l’Illyricum, cioè le regioni a ridosso dell’Italia. Nel caso di un attacco come gli avrebbe resistito Massenzio? In Italia era al potere per un colpo fortunoso di mano. Ma se gli era stato facile impadronirsene, molto più difficile gli sarebbe stato mantenerla. In breve, gli occorreva una guida, la mente e l’esperienza di chi aveva alle spalle una serie vittoriosa di battaglie, sostenute nei diversi fronti, e quindi sapeva come guidare un esercito. Contrariamente a quanto si aspettava, Massenzio non solo non cedette, ma gli si rivoltò con arroganza: lui, Massenzio, era l’imperatore d’Italia, legittimato dal voto del popolo romano e del Senato. Per Massimiano, roso dall’ossessione di quello che era stato (padrone di una metà del mondo), fu uno schiaffo intollerabile da sopportare, ricevuto per di più dal figlio. Cieco di furore arrivò, nel buio dell’esasperazione, fino a deturpare se stesso, mettendo in giro una voce ignobile: che Massenzio non era suo figlio, ma nato dall’adulterio di sua moglie con un Siriano. Poi gonfio del vecchio orgoglio, si presenta alla caserma dei pretoriani e alla tribuna inveisce contro Massenzio. Un uomo corrotto, imbelle, che mai nella mischia di una battaglia ha rischiato il ferro del nemico, può vestire la porpora di imperatore? Nel fervore dell’accusa e dell’indignazione gliela strappa di dosso. Credeva già di udire urla e gridi di consenso. Niente. Lo investì, invece, il gelo del silenzio. Poi via via mugugni, contestazioni che andavano a infrangersi contro la tribuna come marosi contro gli scogli. Era la fine. L’altro, figlio o bastardo, lasciò la tribuna e si gettò nelle braccia dei pretoriani. A Massimiano la fortuna mostrava ora la livida faccia della malignità. Tutti l’avevano tradito: la moglie, il figlio e, in parte, anche l’altra figlia ad Augusta Treverorum. Partì per l’Illirico e, solitario e triste, andò alla ricerca dell’unico che gli restava e in cui aveva sempre avuto una fede intemerata: l’esule volontario di Spalatum.

La riunione di Carnuntum.

Carnuntum era una cittadina della Pannonia alla confluenza del Danubio con l’Inn e il Lech (oggi in territorio austriaco). Nel novembre del 308 vi si riunirono i membri della tetrarchia con l’esclusione del non riconosciuto Massenzio e di Costantino, che al momento, forse, era il membro più determinante. L’idea era partita da Galerio, con lo scopo preciso di ridare fondamenti legali e spettacolari a una struttura politica per molti versi traballante. Pretesto: la consacrazione ufficiale ad Augustus di Licinio Valerio Liciniano.

Altare dedicato a Mitra da Galerio, Licinio, Massimino Daia e Costantino. Marmo, 308 d.C. CIL III 4413. Carnuntum Museen.

Naturalmente Diocleziano e Massimiano nei posti d’onore per conferire, almeno alla facciata, lustro e solennità. Diocleziano era stato molto restio a lasciare il palazzo di Spalato per Carnuntum. A spingerlo erano state due persone a lui più vicine e interessate: Massimiano e Valeria, la figlia; ambedue con la volontà dichiarata di convincerlo a riprendere nella tetrarchia la sua posizione di Iovius, di indiscusso primato. Massimiano vi aggiunse i rigurgiti ambiziosi di rientrare nel ruolo che aveva avuto. Un progetto o un disegno politicamente anacronistico, inattuabile. L’autunno in Pannonia era piovoso e lo scenario naturale, grigio e spoglio, induceva a riflettere sull’instabilità della fortuna. Silla e Cesare avevano insegnato che l’esercito era il potere. Diocleziano e Massimiano, che non avevano più il comando degli eserciti che legittimassero la validità, nonché la forza delle loro richieste, incredibilmente (Massimiano, soprattutto), se ne dimenticarono. E il loro passato di Augusti, al di fuori delle ipocrite e sontuose attestazioni di rispetto, non poteva avere, né ebbe alcun peso sulla bilancia decisionale del potere.

Carnuntum servì a Galerio per l’ultima illusione di un prestigio e di una maestà, che in parte erano soltanto formali, e a Licinio Valerio Liciniano per una specie di investitura sacrale, a lungo desiderata, dalle mani dell’Augustus Iovius. In definitiva fu anche l’epilogo della tetrarchia. Dall’indomani avrebbero preso a spirare i venti furiosi e distruttivi delle guerre civili. Augusti e Caesares, gli uni contro gli altri, senza esclusioni di colpi, con massacri e stragi fin nello stesso ambito familiare. Proprio niente di nuovo sotto il sole.

Non erano finite le brume autunnali sul Danubio che Massenzio lasciò Carnuntum e si diresse ad Arelate, nella Gallia meridionale, presso la figlia Fulvia e il genere Costantino. Era avvilito, moralmente distrutto. A Carnuntum i contrassegni esterni dell’antica considerazione gli erano sembrati una mascheratura da Saturnali. Nella cerimonia, poi, dei commiati, Galerio – dopo aver recitato una sorta di apologia di se stesso – vi aveva aggiunto una nota vendicativo-sarcastica, eleggendolo insieme con lui console per il 309. Sapeva bene che i consoli nominati a Nicomedia e Serdica non erano riconosciuti a Roma, e viceversa. Sicché lui, Massimiano, sarebbe stato console contro o al posto del figlio Massenzio.

Diocleziano. Antoniniano, Lugdunum 290-291 d.C. AE 5, 02 gr. Recto: Iovi Augusto. Giove stante, con Vittoria su globo e scettro, e un’aquila ai suoi piedi.

L’inganno di Arelate.

Ad Arelate – dove Costantino da Augusta Treverorum aveva trasferito una parte del governo e soprattutto il tesoro per le campagne di guerra – Massimiano depone la porpora per la seconda volta. Si sentiva estraneo, tagliato fuori dalla vita attiva della politica e ripensava alla saggezza e al distacco di Diocleziano. «Se tu vedessi quali cavoli mi crescono negli orti di Spalatum – gli aveva detto, accomiatandosi da lui – nemmeno mi avresti chiesto di tornare ad occuparmi dell’Impero».  Arrivò la primavera e con essa ripresero sul Reno le invasioni dei popoli germanici. Questa volta furono i Franchi, popolo fra i più valorosi e amanti della guerra. Costantino si mosse da Augusta Treverorum con la solita rapidità. Era la sua arma migliore e più sorprendente. Ma, improvvisamente, sulla riva sinistra del Reno, poi nella Gallia si propagò la voce che i Franchi avessero rotto, massacrato l’esercito romano, lo stesso Costantino fosse morto sul campo. Valorosamente. La voce arrivò ad Arelate. Sgomento e paura. Non per Massimiano, che anzi di colpo riacquistò energie, spirito combattivo, iniziativa. La morte di Costantino lo rimise di necessità in gioco. Potè riprendersi la porpora di Augustus. Né lasciò tempo in mezzo: si impadronì del tesoro imperiale, poi radunò e parlò ai soldati di stanza ad Arelate, corse all’accampamento fuori città, dispensò denaro a piene mani. Era convinto che la fortuna gli alitasse di nuovo sulla faccia. Ma se lui conosceva, per esperienza, i vantaggi della violenza, le sorprese dell’inganno, l’altro, il creduto morto, fu un fulmine di guerra. Appena informato di quello che stava accadendo ad Arelate, stipulò una tregua con i Franchi: rinunciava a inseguirli e ad ammucchiare i loro cadaveri sulla riva del fiume, purché ripassassero subito il Reno e se allontanassero per quaranta miglia; poi velocemente giunse a Soana, imbarcò le truppe Ad Catalaunos e, seguendo la corrente del Rodano, arrivò ai porti di Arelate. Massimiano era pratico di guerra e di movimenti di truppe, ma rimase meravigliato, atterrito dalla stupefacente rapidità di Costantino. Neppure tentò di opporglisi in qualche modo. Fuggì a Massilia (Marsiglia), ritenuta imprendibile. E Costantino pose l’assedio alla città dalla parte di terra. Massimiano credeva di contare su due fattori: la via libera sul mare, che gli consentiva rifornimenti e quindi una resistenza a oltranza; l’aiuto di Massenzio. I Massalioti vanificarono l’uno e l’altro, aprendo le porte a Costantino.

Ricostruzione a disegno del teatro di Arelate (od. Arles).

La versione dei panegiristi cristiani.

Sulla morte di Massimiano le versioni sono diverse. Il dato certo è che, il giorno dopo la resa della città, Massimiano comparve in catene davanti al vincitore. Incerto è se, nella circostanza, si parlassero o no; e quale morte fosse riservata al prigioniero. Costantino gli concesse di morire da Romano, suicidandosi, oppure lo fece impietosamente strangolare? La versione dei panegiristi cristiani è più fantasiosa e molto meno credibile, conoscendo il carattere duro, inflessibile di Costantino e come in seguito si sia comportato con chiunque – legato o no a lui da vincoli di parentela – avesse attentato al suo potere. Dunque, secondo Eusebio e Lattanzio, Costantino fece grazia della vita a Massimiano e non solo: gli permise di vivere a corte, benché spogliato di ogni potere. E a corte, ad Augusta Treverorum, Massimiano cercò un giorno dopo l’altro di persuadere la figlia a rendersi complice dell’assassinio del marito; assassinio che si doveva compiere di notte e nel letto matrimoniale. Fausta acconsentì o finse di acconsentire; finché un giorno rivelò il piano al marito. La notte stabilita per l’assassinio di Costantino, il posto di lui nel letto fu preso da un eunuco. Sicché, quando Massimiano, lordo di sangue e uscito dalla camera, si mise a gridare di essere il solo imperatore, ecco che dal fondo del corridoio, illuminato improvvisamente dalle torce dei soldati, gli venne incontro proprio Costantino, la figura alta e ieratica come una condanna.

Nell’estate del 310 Galerio era nella Moesia a Serdica (l’odierna Sofia), che con Nicomedia in Bithynia divideva il vanto di capitale dell’Impero d’Oriente. La montagna a ridosso della città rendeva l’aria più salubre di quella affocata di Nicomedia. Inoltre Serdica gli ricordava gli anni della giovinezza, della prima milizia, le battaglie sul Danubio e il periodo esaltante di quando era Caesar e aveva sposato Valeria, la figlia di Diocleziano. Dopo l’euforia momentanea di Carnuntum gli riaffiorarono alla mente i problemi non risolti, gli scacchi subiti: l’Italia e l’Africa proconsularis in mano a Massenzio, invendicati il fallimento della sua «spedizione» fin quasi alle porte di Roma e la morte di Severo. E non stava bene in salute. Aveva un temperamento bilioso e facilmente irritabile. Nel riposo, per la rabbia, si era messo a bere più del dovuto, ingrassava, poi un giorno si scoprì un’ulcera ai genitali, che più o meno rapidamente gli si propagava al basso ventre. Nell’inverno gli si aprirono altre ulcere, le loro bocche pullulavano di vermi. Il fetore era enorme. Si chiamarono medici, maghi, guaritori, si immolarono vittime sulle are dei vari dèi. Bagni, profumi, pomate erano inutili contro i vermi e il fetore. Il corpo di Galerio si decomponeva in un sozzo, inarrestabile, vituperoso marciume.

Rotonda di Galerio, Thessaloniki.

L’editto di Galerio.

Lo scrupoloso cronista della malattia di Galerio è Lucio Celio Firmiano Lattanzio. Nel suo libro De mortibus persecutorum – scritto comunque dopo il 317 ad Augusta Treverorum, alternando la sua attività di retore a quella di precettore di Crispo, il bastardo primogenito di Costantino – con freddo, pietoso sadismo segue ogni ulteriore fase del male, che era poi la prova evidente del castigo di Dio per la persecuzione dei cristiani. Fu Valeria, la moglie dell’Augustus (che si diceva essere cristiana o simpatizzante insieme con la madre Prisca della nuova religione) a chiamare medici cristiani per la malattia del marito. Non servirono a nulla. Alla fine di aprile del 311 Galerio si umiliò a emettere, in favore dei cristiani, l’editto di ritrattazione e di tolleranza. Nemmeno questo gli servì per scampare alla morte. E implacabile il giudizio di Lattanzio: «Coloro che si avventarono contro Dio, giacciono sconfitti; coloro che torturarono a morte i giusti hanno esalato l’anima colpevole fra meritati tormenti, sotto i colpi della mano di Dio». Gaio Galerio Massimiano morì a Serdica il 3 o 4 maggio del 311. Era stato eletto Augustus esattamente sei anni prima, il 1 maggio 305. Al suo capezzale, oltre alla moglie, il solo Licinio, venuto da Sirmium sulla Sava. A lui il morente raccomandò la moglie e il figlio bastardo Candidiano. Ma come non lo avevano «miracolato» i medici cristiani o l’editto di tolleranza, così non sortirono alcun effetto le raccomandazioni per la moglie e il figlio. Anzi Licinio, che gli era stato commilitone fin dalla giovinezza e a lui doveva titoli, cariche, comandi di eserciti, province, lo avrebbe tradito miserevolmente, arrivando addirittura ad uccidergli e l’una e l’altro.

La spartizione dell’Impero d’Oriente.

I sintomi della guerra civile si erano avvertiti già nei bui risvolti della riunione di Carnuntum. Massimino Daia non era stato affatto contento della consacrazione di Licinio ad Augustus. Per quanto più giovane, credeva di avere più titolo e diritti di lui. Erano entrambi feroci, sensuali, avidi di potere. E si odiavano visceralmente. Ingordo, rozzo e depravato Massimino Daia; Licinio più abile ed esperto condottiero, ma gonfio di libidine, come un soldato mercenario. Nella morte di Galerio videro un’occasione unica di rifarsi: l’uno defraudato da una sorte avversa, l’altro dall’invidia degli antagonisti. Licinio di province aveva solo la Raetia, la Pannonia e parte dell’Ilyricum; Massimino Daia la Syria e l’Aegyptus. Ora si spalancavano loro le province di Galerio: l’altra parte dell’Illyricum, la Graecia, la Macedonia, Moesia Superior e Moesia Inferior, tutta l’Asia Minor, inclusa la Bithynia con la capitale Nicomedia.

Massimino Daia. Busto, porfido, inizi IV sec. d.C. Cairo Museum.

Avvantaggiò enormemente Massimino Daia la circostanza in cui Galerio durante la malattia e al momento della morte si trovasse a Serdica. Né lui si era mosso per visitarlo o per i funerali, benché gli fosse nipote e debitore della nomina a Caesar, fra l’altro non voluta ed ostacolata da Diocleziano. Così, avendo mano libera in Asia, si spinse con l’esercito fino alla Troas, occupò Nicomedia e arrivò al Bosforo senza colpo ferire. Licinio, ancora impelagato a Serdica, era stato colto di sorpresa e quando,  radunato in tutta fretta un esercito, corse al Bosforo, l’altra riva era saldamente presidiata dalle truppe di Massimino Daia. Stettero a guardarsi attraverso la liquida barriera del mare, misurando l’uno le forze dell’altro, finché decisero che era meglio venire ad una tregua, lunga o breve che fosse. Del resto nessuno dei due era, al momento, preparato per una guerra, né intendeva rischiare in una battaglia i territori appena conquistati. E in effetti il Bosforo, con il mare che separava le due rive, diveniva un confine naturale: da una parte l’Occidente, dall’altra l’Oriente.

Un imprevisto della tregua, trasformata poi in accordo, fu la fuga repentina da Licinio di Valeria insieme con la madre Prisca e il figlio bastardo di Galerio, Candidiano. Attraversato il Bosforo, Valeria chiese asilo all’altro contendente, Massimino Daia a Nicomedia, tornata ora a essere capitale dell’Oriente. Lattanzio addebita la fuga alla paura di Valeria di fronte alla libidine di Licinio. Lui sessantenne, lei sotto i trenta. Per lo più le passioni senili sono pervicaci, distruttive e non di rado (come nel caso in questione) impossibili a dominarsi. Valeria era illirica, bionda, una di quelle bellezze misteriose, dal fascino segreto. Galerio ne era stato innamorato e geloso, ma da lei non aveva avuto figli. Delle donne all’apice del potere la vicenda umana di Valeria è fra le più penose. Toccò i due estremi della fortuna. La sua avvenenza fisica le fu al tempo stesso causa di passioni e di grandi sciagure. È strano come la storia, paludata o austera, dimentichi o releghi in un canto la storia cosiddetta «minore», il dietro della facciata per intendersi, o quella che ha il letto come naturale gioco di contesa, e il cui peso non è meno determinante, a volte, dei colpi di Stato o delle battaglie perdute o vinte. In una struttura politica, quale la tetrarchia per esempio, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione, le rivalità di potere si intrecciarono con i vincoli di famiglia e con quelli generati dalle passioni. Gli uni e gli altri, come era sempre accaduto dal tappeto di Cleopatra o dal ballo discinto di Ester, univano o strangolavano. Galerio aveva sposato la figlia di Diocleziano, Valeria, e la passione per lei fu un aculeo di continuo presente nella lotta mortale fra Licinio e Massimino Daia. Costantino, unito in matrimonio con Fausta, figlia di Massimiano e sorella di Massenzio, combatté e uccise sia l’uno che l’altro. Ugualmente si comportò con Licinio, al quale dapprima, per convenienza politica, da in moglie la sorellastra prediletta Costanza, poi, nel giro di pochi anni, muove guerra per arraffare il potere unico del mondo, arrivando impietosamente alla morte dello stesso e del figlio (ovverosia cognato e nipote).