ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 [↗]), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).
Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).
L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [↗], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.
Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.
Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.
Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).
Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 [↗]; AE 1966, 518 [↗]): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).
Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 [↗]).
Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 [↗]; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).
Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).
Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.
Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.
Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 [↗]; CIL VI 102 = ILS 4003 [↗]): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.
Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.
Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.
Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).
Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 [↗]). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiaeet Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).
Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.
Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).
Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).
L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.
Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.
Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.
Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.
Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).
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Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.
Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.
La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.
Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).
Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).
L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.
Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).
È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).
Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).
Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).
I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).
Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).
La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.
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1. I Panegirici Latini
Tra la fine del III e la fine del IV secolo d.C. (dal 289 al 389), nell’ambito della molteplice e vasta letteratura latina tardoantica, si collocano undici discorsi di elogio e di ringraziamento per alcuni imperatori romani[1], che furono grandi protagonisti di un’epoca densa di trasformazioni politiche, sociali, economiche e religiose: Massimiano, che, con il titolo di Augustus, fu al vertice dell’Impero dal 286 al 305 (insieme al fondatore e capo della «tetrarchia» Diocleziano) e poi ancora nel 307-308 (insieme a Costantino, suo genero); Costanzo Cloro, che, con il titolo di Caesar, operò soprattutto in Britannia, ove morì nel 306; il figlio di quest’ultimo, Costantino il Grande, proclamato Augustus dalle truppe alla morte del padre, che fu imperatore dal 312 al 337 ed è passato alla storia per la sua conversione al Cristianesimo; il nipote di Costantino, l’Augustus Giuliano (detto poi l’Apostata per aver egli abbandonato la religione cristiana della sua famiglia), che regnò brevemente dal 361 al 363; Teodosio il Grande, infine, l’ultimo sovrano dell’Impero romano unitario, che regnò dal 379 al 395.
Tali discorsi — tramandati con il titolo di Panegirici Latini[2]— furono tenuti in pubblico in circostanze ufficiali e solenni, e spesso alla presenza degli stessi imperatori, di cui venivano celebrate le gesta. Gli autori, tutti di origine gallica e provenienti dalle città di Treviri, Autun e Bordeaux, sedi di rinomate scuole, pronunciarono i loro discorsi — per la maggior parte (sette) proprio a Treviri, una delle abituali residenze imperiali dell’epoca, ma anche ad Autun (uno), a Roma (due) e a Costantinopoli (uno) — esprimendo in una prosa classica e solenne, di chiara impronta ciceroniana, non solo il loro pensiero riconoscente e devoto nei confronti del princeps, ma anche la mentalità dell’establishment politico-burocratico della Gallia tardoantica, cui essi, professori di retorica e funzionari dell’amministrazione, appartenevano.
Fu probabilmente l’ultimo dei panegiristi, Latino Pacato Drepanio, a mettere insieme in un’unica silloge i panegirici a noi pervenuti, che ovviamente non furono i soli discorsi di tal genere a essere scritti e pronunciati in quel secolo, ma che, a differenza di tutti gli altri, ebbero la ventura di essere tramandati, proprio grazie al loro essere raccolti in un’antologia, che forse era di natura scolastica. Non è poi difficile ipotizzare che Pacato abbia collocato al primo posto della silloge — raggiungendo così il canonico numero di dodici — un testo a suo giudizio paradigmatico, quale la gratiarum actio di Plinio il Giovane a Traiano del 100 (orazione che, anche se cronologicamente e tematicamente distante dalle altre, poteva ben essere assunta come modello latino del genere encomiastico), e poi, partendo da sé e risalendo nel tempo, abbia inserito al secondo posto il panegirico da lui stesso pronunciato per Teodosio (389) e, di seguito, quelli di Claudio Mamertino per Giuliano (362) e di Nazario per Costantino (321); a questi quattro discorsi abbastanza lunghi (rispettivamente di 94, 47, 32 e 38 capitoli) Pacato stesso — o un altro ordinatore? — avrebbe aggiunto altri otto discorsi, più brevi (mediamente di 20 capitoli), in onore di Massimiano (due: quelli del 289 e del 291), Costanzo Cloro (due: quelli del 297 e del 298) e Costantino il Grande (quattro: quelli del 307, 310, 312 e 313), continuando a disporli, ma non sempre rigorosamente, in ordine cronologico inverso (dal 313 al 289)[3].
Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.
2. Gli autori e i contenuti
Dei panegiristi conosciamo, perché essi stessi talvolta ne parlano, la provenienza geografica — le città di Augustodunum (Autun) nella GalliaLugdunensis, Augusta Treverorum (Treviri) nella Belgica, Burdigala (Bordeaux) nell’Aquitania — la formazione culturale (avvenuta nelle scuole di quelle città), le carriere politiche e amministrative e — di alcuni — anche il nome: Mamertino, Eumenio, Nazario, Claudio Mamertino, Latino Pacato Drepanio.
I panegirici del 21 aprile 289 (II [10]) e il «Genetliaco» del 21 luglio (?) 291 (III [11]) furono tutti e due pronunciati a Treviri da un retore del luogo, Mamertino, in onore degli Augusti Massimiano «Erculio» e Diocleziano «Giovio»: nel primo si celebrano le vittorie di Massimiano sulle bande rivoltose dei contadini gallici (i Bagaudi), sui Germani e sui pirati; nel secondo l’anniversario della assunzione dei titoli «divini» da parte degli imperatori e la loro concordia e felicitas.
Il panegirico del 1° marzo 297 (IV [8])[4] fu detto, molto probabilmente a Treviri, da un anonimo retore proveniente da Autun, a nome della civitas Aeduorum (Autun appunto), in occasione dei Quinquennalia, le solenni feste anniversarie della elevazione di Costanzo Cloro al titolo di Cesare: nel discorso si celebrano la campagna di Britannia del principe e le sue vittorie sugli usurpatori Carausio e Alletto.
Il panegirico della primavera del 298 (V [9]) ha per autore, espressamente nominato nel testo stesso (cap. 14)[5], Eumenio, retore e professore, nato in Autun, ma appartenente ad una famiglia di maestri di origine greca, stabilitasi prima a Roma e poi in Gallia. Il discorso, che è l’unico tra gli undici non direttamente rivolto all’imperatore (Costanzo Cloro), fu pronunciato in Autun davanti al governatore della provincia lionese (cui l’oratore si rivolge nel corso del discorso col titolo ufficiale di Vir perfectissimus[6]), in occasione della rinascita — dopo la distruzione avvenuta molti anni prima ad opera dei Bagaudi — della città e delle sue antiche e celebri scuole «Meniane»[7]: l’autore, già magister memoriae di Costanzo, preposto alla direzione delle scuole stesse, alla cui ricostruzione generosamente egli destina parte del suo considerevole stipendio di direttore (cap. 11), traccia un quadro interessante della realtà scolastica della sua città e del suo tempo[8].
Nel panegirico del 31 marzo 307 (VI [7]), tenuto probabilmente a Treviri da un retore del luogo (forse un discepolo di Mamertino, come può dedursi dalle analogie dello stile, breve ed elegante), in occasione delle nozze di Costantino con Fausta, la figlia di Massimiano, sono accomunati nell’elogio il genero ed il suocero: la loro concordia è giudicata una garanzia di difesa per lo Stato.
Nel panegirico di fine luglio del 310 (VII [6]), invece, pronunciato sempre a Treviri da un retore di Autun, sono celebrati gli inizi della carriera imperiale di Costantino, mentre Massimiano, morto ormai in disgrazia, è dipinto a fosche tinte. Significativa in questo (e nel successivo) discorso la consapevolezza degli abitanti di Autun — la cui voce il panegirista rappresenta nella residenza imperiale di Treviri — di essere non soltanto Galli, ma anche e soprattutto Romani, e di meritare per questo una speciale protezione da parte dell’imperatore.
Nel panegirico del 312 (VIII [5]), detto a Treviri, l’autore, cittadino e senatore di Autun, professore anch’egli nelle scuole «Meniane», ringrazia Costantino — convenuto nella città imperiale per celebrarvi le feste Quinquennalia (quinto anniversario della nomina ad Augusto e del matrimonio con la figlia di Massimiano) — per la visita compiuta l’anno precedente nella civitas Aeduorum (Autun), quando l’imperatore, resosi conto dei gravi danni subiti dalla città a causa delle rivolte bagaudiche, aveva mostrato la sua benevolenza e generosità condonando agli abitanti parte delle imposte arretrate.
I panegirici del 313 (IX [12]) e del 1° marzo 321 (X [4]) — pronunciati, rispettivamente, da un anonimo di Autun a Treviri alla presenza di Costantino, e da Nazario di Bordeaux (retore famoso di cui tramandano notizia anche Ausonio nella Commemoratio professorum Burdigalensium[9] e Girolamo nel Chronicon[10]) a Roma davanti ai due Cesari figli di Costantino, Crispo e Costantino il Giovane — hanno entrambi come tema centrale il racconto della discesa di Costantino in Italia (Susa, Torino, Milano, Brescia, Verona, Modena) e della gloriosa vittoria di Ponte Milvio, terminata con la sconfitta e la morte dell’usurpatore Massenzio.
Il panegirico XI [3] fu tenuto il 1° gennaio 362 a Costantinopoli dal trevirese Claudio Mamertino (forse discendente del primo Mamertino), convinto sostenitore di Giuliano e da questo nominato, nell’anno precedente, amministratore del tesoro, prefetto dell’Illiria e infine console[11]. Come l’orazione pliniana il discorso è una gratiarum actio per il consolato ottenuto: il panegirista, che aveva seguito Giuliano nella lunga marcia dalla Gallia verso l’Oriente, descrive l’attività di buon governo del principe e ne esalta le virtutes militari e morali, quelle virtù che avevano consentito a lui di avanzare alla testa delle truppe seguendo il corso del Danubio, per giungere finalmente a Costantinopoli (nel frattempo, era morto a Naissus il cugino e rivale, l’Augusto Costanzo) a prender pieno possesso della dignità imperiale.
Il panegirico XII [2] — detto a Roma nell’estate del 389, davanti al Senato dell’Urbe ed all’imperatore Teodosio il Grande, da Latino Pacato Drepanio di Bordeaux (come si rileva dalle frequenti menzioni del suo nome nell’opera del conterraneo Ausonio)[12] — celebra le virtù civili e il valore militare dell’imperatore, dedicando ampio spazio alla rivolta dell’usurpatore Massimo in Gallia, alla sua sconfitta in Pannonia e alla sua morte in Aquileia.
Teodosio I e la sua corte. Missorium (replica), argento, 388-392, da Almendralejo (Badajoz). Mérida, Museo Nacional de Arte Romano.
3. Retorica e storia nei Panegirici
Il nome «panegirico» risale all’omonimo discorso che nel 380 a. C. il celebre oratore greco Isocrate scrisse per un’immaginaria assemblea del popolo ellenico, con lo scopo di rivendicare la preminenza politica di Atene e sollecitare la collaborazione con Sparta[13]. Il vocabolo nelle sue componenti etimologiche racchiude i valori semantici della «universalità» (πᾱν) e della «assemblearità» (ἀγoρά) e sta ad indicare un genere oratorio — il genere epidittico o dimostrativo (γένος έπιδειχτιχόν)[14] — caratterizzato dall’essere destinato ad una ricezione pubblica e solenne.
La πανηγυριχή λέξις, ritenuta in seguito da Cicerone più adatta alle esercitazioni scolastiche che non alle dispute forensi[15] e da Quintiliano inidonea alle battaglie politiche e giudiziarie[16], divenne poi nella tarda antichità sinonimo di laudatio e di gratiarum actio e come tale si cristallizzò, fino a essere canonizzata nello schema del βασιλιχòς λóγος, che un retore greco del III secolo d. C., Menandro di Laodicea, teorizzò in un suo trattato (Περί γενεθλίων ἐπιδεικτικῶν)[17], prescrivendo agli scrittori del genere la trattazione dei seguenti punti: 1. proemio: inadeguatezza dell’autore/grandezza dell’elogiato; 2. patria, città e popolo di origine del personaggio (πατρίς πόλις ἔθνς); 3. famiglia (γένος); 4. nascita (τὰ πεϱὶ τῆς γενέσεως); 5. qualità naturali (τά περί φύσεως); 6. educazione e infanzia (ἀνατροφή καί παιδεία); 7. genere di vita e occupazioni (ἐπιτηδεύματα); 8. gesta per illustrare le virtutes (πράξεις); 9. fortuna (τά τῆς τύχης); 10. epilogo, comprendente confronti con altri personaggi celebri.
E tale schema elogiativo fu sostanzialmente seguito dai panegiristi gallici, i quali con abile arte retorica, da un lato nutrita di solida cultura (formatasi soprattutto sui grandi classici della letteratura latina: Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.) e dall’altro esercitata nella vivace palestra dell’oratoria scolastica, elaborarono dei discorsi politici e di propaganda filoimperiale, nei quali, in genere con intelligenza e misura, presentarono le linee portanti dell’ideologia del buon reggitore dello Stato, realizzatasi finalmente con l’avvento dell’imperator invictus. Tale idealizzazione invero, fondata sul modello repubblicano del buon reggitore della cosa pubblica (si pensi al Somnium Scipionis ciceroniano), con Augusto aveva avuto inizio ed era poi, nei secoli successivi, divenuta sempre più patrimonio della mentalità comune delle popolazioni dell’Impero, per giungere, nell’età tardoantica, a essere formulata con grande chiarezza e con marcata connotazione politica nei Panegirici Latini.
La caratterizzazione ideologico-politica — di creazione e ricerca del consenso intorno alla figura del principe — è evidente nei panegirici, e di tale caratterizzazione la accorta e studiata retorica degli autori è utile strumento di diffusione: questa era d’altronde nel mondo romano l’essenza della retorica che, come aveva notato Quintiliano nel I secolo, non era solo capacità di persuadere — una simile e più ampia forza avevano, a suo giudizio, anche il denaro, il favore popolare, la bellezza (come quella della cortigiana Frine, accusata di empietà e difesa più che dalla orazione di Iperide[18], dall’avvenenza del suo corpo) — ma si identificava con la politica e la filosofia[19]. I panegiristi infatti nei loro retorici discorsi appaiono testimoni attendibili della realtà politica e sociale della Gallia renana del III-IV secolo, nell’epoca in cui, soprattutto in quelle regioni di frontiera, si venivano contrapponendo, ed anche fondendo, il mondo romano e quello barbarico.
I panegiristi, che appartenevano ai quadri della burocrazia statale e della dirigenza politica dello Stato romano (furono in genere professori e/o funzionari), divennero non solo convinti sostenitori della politica dell’imperatore, ma anche attivi promotori del consenso attorno a lui: ne rappresentarono perciò la figura come quella di un principe forte, giusto, vittorioso, clemente, liberale, e così via, delineando in tal modo le linee costitutive di un ideale di sovrano (Herrscherideal), che essi ritenevano pienamente realizzato in colui del quale di volta in volta celebravano le lodi[20]. Per questo nei loro discorsi mirano a dare un’immagine di generale felicitas, diffusa nell’intero Impero romano, in ogni parte del quale — essi dicono — sono finalmente tornate la sicurezza e la pace (IV 18, 4: omnibus nationibus securitasrestituta). E diffusa in primo luogo in Gallia, una grande provincia, i cui popoli, soprattutto gli Edui di Autun, che si sentono distinti e separati dalle vicine gentes transrenane (le barbarae nationes), sono orgogliosamente consapevoli di essere da secoli fratres populi Romani (V 4, 1; VIII 2, 4 e 3, 1)[21].
Ma al di là dell’evidente valenza «ideologica», altrettanto significativo è il valore storico dei panegirici, che già il grande Gibbon riteneva fonti di «verità»[22] e che cominciano ad essere apprezzati anche dagli studiosi moderni[23]. Questi discorsi infatti sono talvolta fonti uniche, o comunque decisive, nel tramandare notizie su accadimenti importanti svoltisi tra il III e il IV secolo d. C., come, ad esempio, le rivolte bagaudiche — quei movimenti «rivoluzionari» di contadini e soldati ribelli, che per lunghi anni scossero l’assetto sociale della Gallia romana, soprattutto nei territori lungo il Reno — o la vittoria di Costantino su Massenzio a Ponte Milvio, ecc.
Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum.
Diverse e molteplici sono le tematiche svolte dai panegiristi per elogiare le resgestae dell’imperatore romano e celebrarlo come il sovrano ideale. Tra queste le più ricorrenti appaiono: la celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione dell’avversario; la repressione delle rivolte contadine dei Bagaudi e la ricostituzione dell’ordine sociale; il rinnovamento politico, il risanamento morale e la rinascita economica; la vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes renano-danubiano; l’integrazioneromanobarbarica e l’inserimento dei cultores barbari.
1. La celebrazione dell’imperatore e la demonizzazione del nemico
Soprattutto sul concetto di invincibilità del principe — attraverso i resoconti delle spedizioni militari, delle battaglie, degli assedi, delle imprese valorose dei soldati romani, degli atti di clemenza nei confronti degli sconfitti, ecc. — i panegiristi incentrano i loro discorsi, nei quali l’elogio delle virtutes sia civili sia militari dell’imperatore ricorre con frequenza costante.
In questa prospettiva poi, e in modo specularmente antitetico rispetto alla celebrazione dell’imperatore, è demonizzato ogni suo nemico o avversario, interno o esterno, politico o militare che sia, il quale viene descritto secondo un cliché negativo[24]: in tal modo da una parte è collocato l’imperatore, personificazione e simbolo del bene, dall’altra invece l’avversario, incarnazione stessa del male; da una parte colui che riunisce nella sua persona tutte le qualità positive (religiose, civili, militari, ecc.), elevate al massimo grado, dall’altra invece chi racchiude in sé, sempre al massimo grado, ogni elemento negativo[25].
Molti invero sono gli elementi, sia di contenuto sia di forma, che denotano la forte presenza nei panegirici di un’idea politica e propagandistica, secondo la quale è da ritenersi mostruoso e turpe chi, agendo sacrilegamente, osa contrapporsi al legittimo e divino potere dell’imperator sacratissimus: Carausio, Alletto, Massimiano (pur elogiato in un altro panegirico), Massenzio, Massimo — di volta in volta i nemici di Costanzo, Costantino, Teodosio — sono infatti presentati come estrema antitesi del principe ideale; sono tyranni e hostes, nemici non solo dello Stato, ma di tutto il genere umano, meritevoli quindi del più totale disprezzo.
Carausio, per esempio, l’usurpatore che nel 287 si fece riconoscere imperatore, ponendosi a capo di una ribellione ai tetrarchi scoppiata nelle regioni costiere della Gallia settentrionale ed estesasi a quelle della Britannia meridionale, è da Mamertino bollato col termine spregiativo di pirata, giudicato meritevole della più totale rovina e paragonato a Gerione, il mitico e orribile pastore dalla triplice testa, del quale è ancor più spaventoso (II 12, 1-2). Ancora alcuni anni dopo, nel 297, il panegirista di Costanzo conserva le linee propagandistiche della negativa raffigurazione di Carausio, definendolo condottiero di una banda di disperati e autore di un’esecrabile ed empia azione delittuosa (IV 12, 1) e disegnando a tinte forti anche il successore, il satelles Alletto, che, amens (IV 16, 2)[26], è predestinato a sconfitta e morte senza onore.
Soprattutto nei panegirici costantiniani è descritta con molta efficacia espressiva e a fosche tinte la figura del nemico: costui, opponendosi all’imperatore, che ovviamente è invincibile perché protetto dalla divinità, è fatalmente spinto dalla sua stessa follia e rabbia all’annientamento di se stesso. Esemplare, sotto questo aspetto, la rappresentazione di Massimiano. Accomunato in un primo discorso al potente genero nella lode (nel panegirico del 307 è elogiato il divinum iudicium di Massimiano), dopo la rottura con Costantino e la morte per suicidio, subisce un processo di demonizzazione postuma e viene presentato come il prototipo dell’uomo maledetto dalla divinità: nel panegirico del 310 infatti egli non è più l’imperator aeternus celebrato nel discorso precedente, ma un uomo che fin dalla nascita ha avuto in sorte un esecrabile destino (VII 14, 5) e che, folle perché privo della protezione divina, ha osato ribellarsi a Costantino, usurpando l’Impero e turbando la fides dei soldati: perciò il suo empio atto è stato punito con la morte dagli dèi. Come è evidente, il ribaltamento della prospettiva da un panegirico all’altro è totale e rispecchia il reale svolgersi della vicenda storica e «ideologica» di Massimiano, il quale nell’immaginario collettivo — che i panegirici fedelmente rispecchiano — passa da principe ideale a tiranno detestabile, da simbolo del bene a simbolo del male.
È poi la raffigurazione di Massenzio, nei panegirici del 313 e del 321, a rivelare chiaramente la forza di un tema di natura religiosa — l’abiezione cui inevitabilmente perviene chi profana la sacra maestà dell’imperatore — utilizzato nella propaganda politica costantiniana quale supporto ideologico per l’opera di damnatio memoriae. Massenzio, sprezzantemente definito suppositus, cioè figlio illegittimo di Massimiano, è presentato come l’antitesi esatta di Costantino (IX 4, 3-4): la nascita (da una parte il figlio del pius Costanzo, dall’altra un figlio illegittimo), l’aspetto fisico (da una parte il decor tutto romano di Costantino, dall’altra la deformità «barbarica» di Massenzio), le qualità morali (da un lato la pietas, la clementia, la pudicitia, dall’altro l’impietas, la crudelitas, la libido), il rapporto con la divinità (l’uno segue i divina praecepta, l’altro si lascia trascinare dai superstitiosa maleficia), il modo di esercitare il potere (l’uno rigetta calunnie e delazioni, l’altro saccheggia i templi ed è rovina per il popolo romano), tutto divide e allontana Massenzio, simbolo del male, da Costantino, simbolo del bene.
E nel resoconto della decisiva battaglia di Ponte Milvio (312) il quadro è costruito, soprattutto dal panegirista del 313, con lo scopo di colpire l’immaginazione degli uditori (IX 17). Al solo apparire di Costantino in tutto il suo splendore di sovrano, Massenzio e i suoi restano atterriti e volgono in fuga precipitando in gran numero nel Tevere. Massenzio stesso viene inghiottito dal fiume, perché a lui, empio, non sia concesso l’onore di essere ucciso di spada o di freccia; e il Tevere non ne trascina via il corpo, ma lo lascia in quel luogo a perenne memoria della estinzione definitiva di un così deforme prodigium. La descrizione della battaglia si conclude con la preghiera al Tevere, nella quale l’antichissimo concetto dell’esecrazione del tiranno viene applicato a Massenzio: il fiume — proclama l’anonimo autore — non ha sopportato che sopravvivesse un falso Romolo, un parricida urbis: nel passo il tono dell’invocazione, nella quale retorica e sincerità di ispirazione sono ugualmente presenti, evidenzia il significato religioso attribuito alla vittoria di Costantino e alla damnatio memoriae di Massenzio.
Nel panegirico scritto da Nazario invece, più lontano dalla data della battaglia (si è nel 321), vi è forse meno asprezza verbale nei confronti dello sconfitto Massenzio, ma la tematica è identica: a Costantino, che nella sua generosità e magnanimità vorrebbe evitare lo scontro e preferirebbe vincere piuttosto i vitia che non le armi dell’avversario, si oppone la cieca follia di Massenzio, il quale, nella terribile disfatta, non ottiene nemmeno una morte virile, ma, tradito dalla sua stessa turpe fuga, precipita nel Tevere: così finalmente — esclama Nazario — scelleratezza, perfidia, furore, superbia, lussuria sono eliminate dal mondo (X 31, 3).
Nel panegirico di Claudio Mamertino a Giuliano, così come nel discorso di Eumenio, lo sviluppo della topica antitesi imperator victor et optimus / hostis victus et pessimus è assente, data la particolare struttura dell’orazione che è una gratiarum actio; ma basta un solo accenno agli usurpatori, per rincontrare le usuali requisitorie: furore, follia, corsa cieca verso l’inevitabile morte accomunano infatti agli usurpatori del passato anche il romano Flavio Popilio Nepoziano, che nel 350 si era impadronito della città di Roma, facendosi proclamare imperatore, e il franco Silvano, un magister peditum, che nell’agosto 355 aveva assunto la porpora, ma era stato assassinato qualche settimana dopo (XI 13, 1-2).
Nell’ultimo panegirico infine vengono ricordate l’usurpazione, la sconfitta e la morte nel 388 in Aquileia di un importante avversario politico di Teodosio, Magno Massimo. Latino Pacato Drepanio, che scrive nell’anno successivo alla vittoria di Teodosio, presenta l’usurpatore con lo stesso schema concettuale, e perfino con la stessa terminologia, usati dai panegiristi precedenti per gli altri tiranni. Anche da Pacato la detestata figura di Massimo è contrapposta alla celebrata immagine dell’imperatore: mentre Teodosio infatti compiva le sue imprese vittoriose in terre lontane, Massimo — sprezzantemente definito patris incertus, tyrannus, carnifex purpuratus, belua furens, pirata, praedo, latro (XII 24, 1 sgg.) e inoltre connotato come uomo dalla crudeltà senza limiti, tanto da esser capace di infierire persino sulle donne[27] — osava tramare una segreta congiura per assumere il potere,invadendo l’Italia e scacciandone il legittimo sovrano Valentiniano II; ma dopo la sconfitta veniva indotto dalla sua stessa follia, ormai disperato, a fuggire verso Aquileia incontro alla morte, che pur desiderando pavidamente rifuggiva[28].
La battaglia di Ponte Milvio (312). Illustrazione di Seán Ó’ Brógáin.
2. La repressione delle rivolte dei Bagaudi
Nei panegirici vi sono le più antiche e importanti testimonianze sulle rivolte dei Bagaudi[29], quei contadini ribelli, di natura probabilmente celtica (come parrebbe dall’etimologia del nome)[30], i quali, spinti dalla miseria e dalla disperazione, nei secoli III e IV d. C. percorsero la Gallia, devastando città, tra cui in primo luogo Autun (e forse per questo sono augustodunensi i due panegiristi che ne parlano), e campagne, per essere poi sconfitti dall’imperatore Massimiano (ma non definitivamente, perché il movimento bagaudico continuò a sussistere per almeno altri due secoli, estendendosi anche in Spagna)[31].
Nelle prime due testimonianze — contenute, l’una nel discorso di Eumenio (V 4, 1-2), l’altra in quello anonimo del 312 (VIII 4, 2) — è ricordata la distruzione della ricca e fiorente città di Autun, avvenuta nel 269, durante l’impero di Claudio Gotico, a opera di rebelles Gallicani. Eumenio dà la notizia quasi di sfuggita, in un passo dedicato all’orgogliosa rivendicazione dei meriti della città (la fraterna amicizia con Roma) e all’elogio della liberalità degli imperatori, grazie ai quali era stata risollevata dalle rovine causate dal latrocinium e dalla rebellio Bagaudica[32]. Il panegirista del 312 invece, ricordando l’ormai lontano assedio, ne descrive le condizioni con espressioni che fanno trasparire, a distanza di oltre quarant’anni, l’ancora amaro ricordo di un evento tanto funesto.
Altre importanti testimonianze sui Bagaudi sono nei due panegirici di Mamertino per Massimiano (anni 289 e 291), nei quali si celebra la vittoria dell’imperatore sui ribelli, sconfitti militarmente negli anni 285-86 (II 4, 3-4; III 5, 3). Massimiano viene celebrato perché egli, appena ottenuta la nomina a Caesar, ha abbracciato il difficile compito di portare soccorso alla navicella dello Stato, e non in un momento di tranquillità, ma quando tale navicella era in grave pericolo a causa delle sommosse dei Bagaudi, pastori e contadini ribelli, che avevano indossato l’armatura militare ed erano insorti arrecando ovunque danno e rovina. Ma, come un tempo aveva fatto il dio Ercole (Herculius era stato il titolo assunto da Massimiano al momento dell’ascesa al potere, Iovius invece dal collega maggiore Diocleziano), che aveva prestato soccorso a Giove impegnato nell’epica lotta contro i «biformi» Giganti (metà uomini e metà serpenti), così Massimiano era giunto in aiuto di Diocleziano, combattendo e sconfiggendo altri «mostri biformi», i Bagaudi, simili, per l’insolito loro duplice aspetto — di contadini e di soldati insieme — ai mitologici nemici di Giove[33].
In entrambi i passi ricordati, Mamertino esprime idee e valutazioni non soltanto sue, ma comuni all’ambiente e alla classe sociale cui egli, come tutti gli altri panegiristi, appartiene — la classe dell’establishment, vicina all’imperatore e a lui grata per la restaurazione dello status quo, cioè del benessere e dei consueti privilegi, che erano stati minacciati e messi in pericolo dalle sommosse bagaudiche — e ben ne rappresenta la mentalità e l’opinione pubblica, di «odio» verso quei ribelli. La ricorrente presenza di figure retoriche poi (anafora, chiasmo, ecc.) rivela lo stupore di Mamertino davanti all’ardire di pastores e cratores (termini usati in senso spregiativo, in quanto contrapposti ai più nobili pedites, equites), che hanno osato rivestire l’armatura militare, tentando così di turbare l’assetto sociale e politico della Gallia e la prosperità economica delle città e della gente onesta che in esse viveva. Il panegirista nel rievocare, ovviamente con enfasi, l’opera devastatrice dei contadini nelle campagne da essi stessi coltivate, esalta la figura di Massimiano, rivolgendoglisi direttamente e ricordandone la fortitudo, la clementia e la pietas: la virtus degli imperatori ha liberato lo Stato da un dominatus saevissimus, causa di iniuriae gravissimae per le province galliche, le quali, ormai stremate dalle rivolte, hanno così potuto ristabilire rapporti di devota e spontanea sudditanza verso Roma.
Dai vivaci resoconti di Mamertino emerge in particolare la caratterizzazione e rappresentazione della natura dei ribelli, contadini e soldati, e quindi, come i mitici Giganti, «biformi» e «mostri». Significativa riprova della diffusione di un simile paragone «ideologico» può essere ritenuto un grande gruppo scultoreo, certamente databile all’epoca delle prime e più violente rivolte bagaudiche (ultimi decenni del III secolo), rinvenuto in frammenti (circa duecento) nel 1878, proprio nella stessa zona (casuale coincidenza?) che era stata teatro delle jacqueries bagaudiche, e precisamente nel villaggio di Merten in Lorena[34]. Si tratta di un reperto in pietra arenaria, formato da una base a tre piani, da una colonna con capitello e da un gruppo statuario, di pregevole fattura ed espressività, rappresentante un cavaliere che atterra sotto le zampe del suo cavallo una figura per metà uomo (fino alla cintola) e per il resto serpente. Il cavaliere, dal volto barbuto, indossa la corazza e, al di sopra di questa, il paludamentum, il tipico mantello dei generali romani, e porta, ai piedi, i coturni; il braccio destro, oggi mancante, doveva essere posto in posizione elevata, nell’atto di colpire con la lancia il nemico caduto. Costui poi appare nell’atto di fare resistenza al cavallo che lo sta schiacciando, mentre il suo volto che, rispetto a quello nobile del condottiero, presenta tratti di rozzezza e primitività, ha un’espressione di stupore attonito e terrorizzato. Ma la caratteristica più interessante del personaggio sconfitto è la sua duplice natura: egli ha infatti, al posto delle gambe, il corpo di un drago (o, se si vuole, di un serpente)[35].
La scultura di Metz rappresenta certamente una scena di vittoria e fu probabilmente elevata sulla colonna per celebrare, come era usuale per monumenti del genere nell’antichità (e come d’altronde si è continuato a fare anche in età moderna), la vittoria su un nemico particolarmente spaventoso ed efferato: non si tratta infatti di una generica celebrazione della civiltà romana vincitrice sulla barbarie, ma di un preciso evento di natura militare, una battaglia cioè, in cui il Romano (il cavaliere) vince sulle forze avverse (il gigante anguiforme). Per questo un ideale accostamento del testo letterario di Mamertino al gruppo statuario di Metz sembra quanto mai credibile: molte infatti appaiono le analogie e le somiglianze, tanto che il passo del panegirista potrebbe in un certo qual senso essere posto come didascalia esplicativa del monumento stesso: il cavaliere barbuto rappresenterebbe assai bene Massimiano, l’imperatore vittorioso e, soprattutto, il gigante sconfitto — raffigurato come anguipede, secondo uno schema tipico della letteratura e dell’arte antiche — raffigurerebbe il monstrum biforme di cui parla il panegirico riferendosi al ribelle Bagauda in armi, il contadino divenuto soldato[36].
Anche nel panegirico del 307 infine vi sono i temi (e, in parte, i termini) di Mamertino: l’autore, esponente illustre della sua città (Treviri) e portavoce degli stati d’animo, della cultura, dei ricordi e dei desideri dei suoi concittadini, elogia l’imperatore per aver posto riparo ai danni provocati dai Bagaudi e aver restaurato finalmente in Gallia l’autorità dello Stato, da cui è giunta nuova salvezza per la nazione.
L’atteggiamento dell’opinione pubblica dei ceti cittadini che, attraverso le testimonianze panegiristiche, riusciamo a intravedere è dunque nettamente ostile ai Bagaudi e può forse essere interpretato come una significativa testimonianza di quel contrasto «di classe» — da una parte gli abitanti delle città, civilizzati ed istruiti, dall’altra le masse contadine, che aspiravano a un migliore livello di vita — che, secondo il Rostovzev, sarebbe stato alla base della progressiva decadenza dell’impero[37]: le rivolte dei Bagaudi contro l’establishment dimostrerebbero infatti che si andavano formando, in quell’epoca di tensioni sociali ed economiche, come «due mondi culturali distinti, quasi incomunicabili, ed in opposizione tra loro»[38] e si approfondiva ancor più la distinzione sociale ed economica tra gli honestiores, cioè i benestanti, depositari della «onorabilità» sociale, e gli humiliores, la gente più povera, addetta ai lavori della terra.
Naturalmente i panegirici — in quanto fonti contemporanee al momento di massima esplosione delle rivolte bagaudiche — determinano una vulgata storiografica sulle rivolte stesse, caratterizzata, da un lato, dall’elogio del vincitore, dall’altro, quasi rovescio della medaglia, dalla valutazione fortemente negativa degli insorti. E gli storici successivi conserveranno le linee fondamentali di questa tradizione, anche se elimineranno, specie i cristiani, il tono aspro e duro nei confronti dei ribelli[39].
Cavaliere romano abbatte un gigante anguipede. Gruppo scultoreo su colonna, marmo, fine III secolo, da Merten. Metz, Musée de la Cour d’Or.
3. Il rinnovamento politico e morale e la rinascita economica
Con grande frequenza i panegiristi esprimono il concetto secondo cui l’adventus dell’imperatore — e con lui di un governo giusto e liberale — ha dato finalmente avvio al risanamento sociale e morale dello Stato: sulla base di questo parametro elogiativo compaiono frequentemente nei panegirici, da un lato la ricorrente lamentazione sullo stato delle province devastate dalle guerre e dai soprusi degli amministratori disonesti, dall’altro l’elogio del principe, che ha posto fine alle incessanti rapinae di costoro e ha finalmente fatto trionfare la giustizia, dispensando altresì i doni della sua liberalità, ristabilendo il buon governo e promuovendo il rifiorire dell’agricoltura e dell’economia della Gallia.
Nel panegirico del 297, per esempio, l’autore ringrazia Costanzo, reduce da un’importante vittoria sui pirati Britanni, per aver riportato la felicitas nelle terre dell’impero, e in particolar modo in Britannia, che così è tornata a essere regione fertile, ricca di pascoli e miniere, fornitrice di ricchezza per l’impero grazie alle sue rendite fiscali (IV 11, 1). Il panegirista si mostra ben lieto perché, dopo le tante rovine dovute al malgoverno e alla corruzione dei funzionari, si è finalmente ottenuta una stagione di benessere e prosperità: lungo i portici di Treviri si può vedere infatti — segno di potenza e di ricchezza — una folla di barbari impauriti trapiantati nel territorio romano, destinati ad animare il mercato cittadino e a contribuire con il loro lavoro al benessere collettivo (IV 9).
Nel panegirico del 310 per Costantino si elogia il padre Costanzo per l’alto senso di giustizia da lui mostrato nel restituire i beni perduti a coloro che ne erano stati ingiustamente privati. Analogamente sono elogiati i soldati di Costantino, perché non si erano lasciati corrompere dalle promesse di denaro di Massimiano, il suocero divenuto rivale ed avversario del potente genero, ed erano rimasti fedeli al loro condottiero.
Ma è soprattutto nel panegirico del 312 che appaiono lunghe digressioni sullo stato di corruzione e decadenza morale delle province: l’autore si sofferma lungamente a descrivere le afflictiones di Autun, causate soprattutto dalla gravosissima pressione fiscale (novi census acerbitas VIII 5, 4), ed elogia Costantino per aver finalmente, con la sua visita, riportato la giustizia e risollevato le finanze degli abitanti, condonando tutta una serie di insostenibili gravami fiscali. Per il panegirista l’arrivo dell’imperatore rappresenta l’atteso segnale di renovatio, di un rinnovamento sociale, economico e morale. Egli accenna alle tristi condizioni in cui versa il popolo degli Edui, cui l’insicurezza politica e sociale ha tolto la volontà e i mezzi stessi per lavorare la terra. L’aspetto della regione rivela infatti squallore e abbandono: non si incontrano più, come in passato, coltivatori barbari (Remi, Nervi o Tricassini) intenti al lavoro nei campi e le terre, pur un tempo ben coltivate, sono ora infestate da paludi e roveti; anche le vigne dell’ampia pianura della Saone, un tempo floride, sono ormai distrutte e arse; la pianura stessa, già amena e fertile per i suoi corsi d’acqua e le sue sorgenti, è divenuta regione di stagni e acquitrini; le strade infine sono abbandonate e per questo inidonee al transito delle merci e allo sviluppo del commercio. Ma con l’adventus di Costantino, che ha voluto rendersi direttamente conto delle differenti realtà territoriali delle regioni attraversate (a occidente, campagne coltivate, aperte, fiorite, strade percorribili, fiumi navigabili scorrenti presso le porte delle città; a oriente invece, verso il territorio dei Belgi, campi devastati, incolti, desolati, strade che, utilizzate per il passaggio dei soldati e divenute perciò impraticabili, a mala pena consentono il passaggio dei carri), gli abitanti di Autun hanno ottenuto benefici e gioia grande. Per questo essi hanno offerto un’accoglienza lieta e festosa all’imperatore: uomini di ogni età, tutti insieme, sono giunti dalle campagne per vederlo e augurargli una vita lunga e prospera. E un sincero entusiasmo si è impadronito di tutti gli Augustodunensi, che hanno visto nella presenza di Costantino un presagio di futura prosperità: tutte le strade sono state perciò adornate, anche se in modo modesto, sono state esposte le insegne dei collegi cittadini e le immagini delle divinità locali e un piccolo numero di suonatori ha accompagnato il passaggio dell’imperatore benefattore. E questi con grande sollecitudine ha deciso generose provvidenze per la popolazione: ha alleggerito i debiti fiscali, riducendo i tributi dovuti (dei 32.000 capita ne ha abolito 7.000, ben più della quinta parte) e condonando cinque anni di arretrati di imposta: e questo sgravio è stato davvero apportatore di speranza per l’intera cittadinanza, che, pur non restando del tutto libera dai debiti, ha avvertito comunque esserne divenuto molto più leggero il peso. Certamente — conclude l’oratore con enfasi — i figli ora amano di più i genitori, i mariti hanno maggior cura delle mogli, i padri e le madri non si pentono più di aver messo al mondo e aver allevato dei figli: tutti riprendono le proprie attività, fiduciosi per l’avvenire e senza il timore che il peso di tassazioni eccessive renda vana ogni intrapresa.
Un altro tema di rilievo è trattato nel panegirico del 312: dopo le vittorie sui nemici e il ristabilimento della pace e del buon governo il sovrano promuove in primo luogo l’agricoltura. Così aveva fatto Augusto e così, secoli dopo, nella scia di quello, fanno gli imperatori del IV secolo. Esemplificativo sotto questo rispetto — elogio della fertilità dei campi, dell’abbondanza del raccolto e della salubrità dell’aria, collegate alla presenza e al buon governo dell’imperatore — appare un possibile raffronto tra alcuni versi del Carme secolare di Orazio (vv. 29-32: Fertilis frugum pecorisque Tellus / spicea donet Cererem corona / nutriant fetus et aquae salubres / et lovis aurae) e un passo, dal contenuto analogo, del panegirico (VIII 13, 5-6: …valet piena fuisse horrea, plenas cellas… Hoc nobis est ista largitio, quod Terra mater frugum, quod Iuppiter moderator aurarum…)[40].
Nei suoi ispirati versi, dedicati a un motivo centrale della ideologia e della politica augustee, Orazio aveva religiosamente augurato che la Terra, madre di messi e di bestiame, donasse abbondanza di raccolto e che le acque apportatrici di vita ed i climi inviati dal padre degli dèi fossero propizi alla crescita e al pieno sviluppo dei virgulti[41]. A sua volta il panegirista, che a Treviri — egli che è di Autun — sta celebrando i Quinquennalia dell’ascesa all’impero di Costantino, paragona l’avvento dell’imperatore nella sua città al giorno che sorge e illumina, ed esprime gioia per la rinnovata fertilità dei campi e l’abbondanza del raccolto. Appare chiara nelle sue parole una significativa e ideale consonanza con quello che è stato definito lo «spirito» del Carme secolare, consistente in primo luogo nel sentimento di aspettazione di un abbondante raccolto[42]. Questo tipico e tradizionale tratto dell’ideologia romana, sia repubblicana sia imperiale, è documentato fin da Catone il Censore, e non è forse senza significato che l’orazione del 183 a.C., De lustri sui felicitate — nella quale egli orgogliosamente rivendicava, durante la solenne cerimonia della lustratio con cui concludeva la censura, la felicitas del periodo in cui era stato in carica — sia stata tramandata, limitatamente al passo riguardante appunto l’abbondanza del raccolto, proprio dal panegirico VIII (13, 3: Praeclara fertur Catonis oratio de lustri sui felicitate. Iam tunc enim in illa vetere re publica ad censorum laudem pertinebat, si lustrum felix condidissent, si horrea messis implesset, si vindemia redundasset, si oliveta large fluxissent)[43].
Proseguendo nella indicazione delle tematiche celebrative della renovatio promossa dagli imperatori, può notarsi come nel panegirico del 313 si sottolinei l’evento felice della vittoria di Costantino sull’usurpatore Massenzio, rapace predone, che non solo aveva posto le mani su tutte le ricchezze giunte a Roma nel corso della sua lunghissima storia da ogni parte del mondo, ma aveva perfino depredato i templi degli dèi (IX 3-4); e nel discorso di Nazario del 321 si elogi l’imperatore perché, dopo la vittoria sul «tiranno» Massenzio, è stato finalmente posto un freno alle confische e alle rapine da quello brutalmente compiute: ora, dice il panegirista, la nobiltà è finalmente libera dall’oppressione imposta dal corrotto tiranno e il giorno dell’ingresso in Roma di Costantino, che riporta pace e benessere, è simile per splendore solo a quello che aveva visto la fondazione della città di Romolo (X 30).
Nel panegirico del 362, infine, l’oratore Claudio Mamertino professa con orgoglio la propria onestà, contrapponendola alla diffusa corruzione di tanti rapaci funzionari preposti al governo delle province (XI 1, 4: exhaustae provinciae… praesidentium rapinis), ed elogia Giuliano con accenti di viva sincerità: l’imperatore nella sua discesa da Occidente a Oriente ha voluto ascoltare le doléances dei popoli incontrati lungo il corso del Danubio e ha ristabilito la giustizia, ponendo fine ai soprusi e alla corruzione, soprattutto fiscale, degli amministratori; tutto perciò è tornato a risplendere, tanto che, per esempio — dice con enfasi retorica il panegirista — a chi, per avventura posto nell’alto del cielo, fosse stato possibile scorgere da lì ogni cosa, sarebbe apparso un panorama talmente mirabile, da indurlo a ridiscendere sulla terra per fruire del novus ordo ristabilito dal sovrano.
Per i panegiristi l’adventus dell’imperatore rappresenta dunque — in ideale continuità con la tradizionale aspirazione romana a un nuovo magnus saeclorum ordo[44] — un punto di rottura con il passato di malgoverno e corruzione: grazie al sacratissimus imperator si instaura un rinnovato clima di rigenerazione politica e morale, sociale ed economica, e l’intero territorio della Gallia rifiorisce: le città risorgono e nelle campagne ritornano la fertilità e l’abbondanza.
Scena di vita campestre (dettaglio). Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C. dal sarcofago di L. Annio Ottavio Valeriano. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
4. La vittoria sulle barbarae nationes e la difesa del limes
Tema tra i più ricorrenti nei panegirici è l’esaltazione dell’imperatore vittorioso sui barbari: la figura del princeps romano si innalza sulla folla degli sconfitti e risalta per valore militare e livello di civiltà. I panegiristi insistono nelle definizioni e valutazioni del mondo barbarico, utilizzando un’ampia gamma di concetti e di espressioni. Essi osservano la vasta e crescente realtà delle invasioni con l’attenzione e la partecipazione di chi, pur vivendo nel pieno della civiltà romana, si sente troppo vicino al limes renano, al di là del quale le barbarae nationes appaiono come qualcosa di grandioso e di terribile.
Denominatore comune nella valutazione del mondo barbarico da parte dei panegiristi appare un atteggiamento di condanna e di disprezzo: i barbari, definiti devastatori di ogni segno di civiltà, sono posti in contrapposizione con i Romani, quasi antitesi tra bene e male[45]. Leggendo nei panegirici le tante menzioni del mondo barbarico — di invasioni e di scontri militari, ma anche di progressiva integrazione — siamo in grado di valutare la risonanza di una così imponente realtà nella vita e nella cultura di una regione romanizzata come la Gallia; e possiamo anche trarre utili notizie sui rapporti (di scontro, ma anche di incontro) tra mondo romano e mondo germanico nei secoli III-IV d.C.[46]
Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.
a. Le barbarae nationes
Particolarmente significativo appare nei panegirici l’uso ricorrente dell’espressione barbarae nationes: nel discorso per Massimiano e Diocleziano del 289, per esempio, esse sono viste nell’atto devastatore della loro irruzione nelle province galliche (II 5, 1), mentre in quello del 291 appaiono sine animo dinanzi agli imperatori (III 14, 1); nel panegirico per Costanzo del 297 poi alla loro sconfitta corrisponde la rinascita delle province (IV 1, 4), mentre in quello per Costantino del 313 il valore dell’imperatore è per esse motivo di terrore (IX 3, 2) e in quello per Teodosio del 389 l’immagine delle genti barbare appare di tragica grandiosità nel richiamo a una inondazione devastatrice di civiltà: Iacebat innumerabilibus malis aegra vel potius dixerim exanimata res publica, barbaris nationibus Romano nomini velut quodam diluvio superfusis (XII 3, 3)[47].
La contrapposizione tra i due mondi, il romano ed il germanico, si rivela anche nell’uso di un concetto, secondo cui la realtà geografica e umana dei barbari è caratterizzata da immanitas, cioè da immensità di estensione e incommensurabile numero di uomini, presupposti entrambi di quegli attributi di orrore e di terrore, che i barbari portano con sé (II 7, 3; III 17, 4; VII 2, 2 e 6, 4). Nei panegirici la definizione più efficace del concetto di immanitas è data da Nazario, il quale, evocando una coalizione dei popoli germanici (Brutteri, Camavi, Cherusci, Lancioni, Alamanni, Tubanti) sconfitta da Costantino all’inizio della sua carriera, dice di sentire nel suono stesso di tali nomi tutto l’orrore del mondo barbarico (X 18, 1).
Oltre che sul concetto di immanitas i panegiristi si soffermano su quelli relativi alla feritas, alla ferocia, al furor, alla vesania, alla rabies, alla perfidia, tutte «qualità» dei barbari e tutte riconducibili a un unico status, quello appunto del barbaro incivile. La feritas sta a indicare la natura selvaggia, sia dei barbari — quella natura che ostinatamente li spinge verso la meritata autodistruzione (III 16, 5: ruunt omnes in sanguinem suum populi… obstinataeque feritatis poenas nunc sponte persolvunt) — sia dei loro territori, situati nelle interne regioni dell’Illirico e della Pannonia, ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2). La ferocia ha invece una connotazione più specifica di carattere militare, come nel panegirico del 297, ove Costanzo viene elogiato per aver fatto prigioniero il re di una nazione «ferocissima» (IV 2, 1), o in quello del 312, ove l’oratore, rivolgendosi retoricamente ai popoli barbari, che non osano più attraversare il Reno, perché andrebbero incontro a sconfitta sicura a opera di Costantino, chiede loro dove sia finita la loro famosa «ferocia» (VII 11, 4). Il furor dei barbari è poi messo in risalto sia, per esempio, nel secondo panegirico per Massimiano, ove le barbaraenationes appaiono pervase da tal furore, da giungere a distruggersi a vicenda (III 16, 1; 17, 1), sia in quello per Giuliano, ove si afferma con enfasi che i barbari che si sollevano contro l’imperatore vindice della libertà romana, altro non fanno che ritornare al loro primitivo furore (XI 6, 1). Anche la vesania e la rabies sono tipiche del mondo barbarico: nel panegirico per Massimiano, per esempio, Mamertino ringrazia gli dèi protettori dei tetrarchi perché essi hanno finalmente trasferito le guerre civili, le lotte e le discordie intestine fuori dai confini dell’impero, all’interno di popolazioni folli e rabbiose (III 16, 2). Ulteriore caratteristica negativa dei barbari è la loro perfidia, che i panegiristi contrappongono alla fides romana: nel panegirico del 310 a Costantino, l’oratore, ricordando la spedizione nel Paese dei Brutteri e parlando dei prigionieri di quel popolo, afferma che era la perfidia a renderli inadatti per la milizia ed era la ferocia a impedirne una possibile utilizzazione come schiavi, per cui era giusto metterli a morte, e in modo crudele (VII 12, 3).
Con queste premesse ideologiche è ovvio che la raffigurazione dei barbari maggiormente ricorrente nei panegirici sia quella che li rappresenta sconfitti e annientati dall’imperatore. Anche per il nemico esterno dunque, come per quello interno, i panegiristi offrono, in contrasto con l’immagine ideale del principe, quella brutta e deforme dello / degli sconfitto/i.
Mamertino, per esempio, ricordando l’invasione della Gallia nel 286 da parte di Burgundi, Alamanni, Caiboni, Eruli, popoli disordinati in battaglia e danneggiati nei movimenti militari dal loro stesso numero, esalta Massimiano per aver sottomesso con ogni mezzo (vastatione, proeliis, caedibus, ferro ignique) popolazioni fiere e indomite, vincendole nel loro stesso territorio (in media barbaria) e riportando al collega Diocleziano, in segno di fraterna concordia, le spoglie di guerra germaniche (II 5-9: III 5)[48]. Il panegirista di Costanzo a sua volta ricorda le imprese vittoriose dei tetrarchi nelle regioni dei barbari (IV 1, 4: tot excisae undique barbarae nationes), in particolare la cattura di un non identificato re. La devastazionedell’intera Alamannia dal ponte del Reno fino a Gunzburg (IV 2, 1: deusta atque exhausta penitus Alamannia), le vittorie sui Sarmati e sui popoli dellaRezia, del Norico, della Pannonia e infine sui Franchi.
Nei panegirici costantiniani le vittorie dell’imperatore sui barbari sono ricorrentemente celebrate: per esempio, in quello del 310, secondo l’usuale schema laudativo del discorso epidittico, che prevedeva la celebrazione del padre e degli antenati dell’elogiato, sono ricordate le vittorie di Costanzo Cloro sugli Alamanni a Langres (battaglia particolarmente gloriosa) e a Vindonissa, ove — dice con enfasi il panegirista — dopo oltre dieci anni si potevano ancora vedere nei campi i segni della strage dei nemici (VII 6, 3); nello stesso panegirico è menzionata anche l’aeterna victoria di Costantino sui barbari Ascarico e Merogaiso, fatti prigionieri e gettati insieme agli altri davanti alle bestie nei giochi del circo (VII 11, 5). Anche nel panegirico del 313, che pur è quasi interamente dedicato alla celebrazione del trionfo su Massenzio, vi sono accenni alle battaglie contro i barbari (i Franchi): la vittoria dell’imperatore è completa, le sue navi riempiono l’alveo del Reno e il suo esercito reca devastazione nelle case e nei territori di una gens periura, della quale viene cancellato per il futuro perfino il nome (IX 21-22)[49]. Nel discorso di Nazario del 321 sono ricordate le vittorie di Costantino e del figlio Crispo sui re barbari Ascarico e Merogaiso, sui Franchi e su altri popoli, la cui barbarie è talmente cieca (O vere caeca barbaria…!), da impedir loro di riconoscere l’imperatore in persona (X 17-18).
Possiamo infine osservare come nella Gratiarum actio del 362 Claudio Mamertino elogi Giuliano per aver sconfitto i barbari nella battaglia di Strasburgo dell’agosto 357 (XI 4, 3: una acie Germania universa deleta est, uno proelio debellatum), sottomettendoli dall’Alamannia fino all’Illirico e fino agli ultima ferarum gentium regna (XI 6, 2), e nel panegirico del 389 Pacato Drepanio ricordi, in un tipico crescendo retorico, le vittorie di Teodosio, sia sui popoli abitanti al di là del Reno e del Danubio, sia su Sarmati, Britanni, Mauri, Scoti e tante altre lontane gentes (XII 5, 2).
Scena di battaglia equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, fine II secolo. Pisa, Camposanto.
b. Il limes renano-danubiano
Tra mondo dei barbari e provinciae dell’impero era il Reno, con il Danubio, la linea di frontiera, non soltanto reale ma anche ideale. Il grande fiume era per gli abitanti della Gallia — come rivelano appunto i panegiristi gallici — una realtà geograficamente vicina ed emotivamente incombente. Nel discorso di Mamertino del 289, per esempio, sono elencati i confini naturali dell’impero (Reno e Danubio, Oceano ed Eufrate), per affermare, ovviamente con enfasi, che il Reno ormai non è più l’unica difesa dell’impero, perché, anche se esso divenisse guadabile a causa della scarsità delle piogge, ciò non sarebbe però motivo di paura, perché la presenza dell’imperatore rappresenta una difesa ben più sicura dello stesso fiume (II 7, 3-4). Il panegirista, che fa riferimenti precisi alle campagne che negli anni 286-288 Massimiano compì contro gli Alamanni provenienti dal medio corso del Reno e contro i Burgundi che invece giungevano dalle regioni danubiane, ovviamente esagera nella valutazione del ruolo di difesa della figura del princeps, ma è proprio attraverso l’amplificazione retorica che egli vuol evidenziare la preminenza della difesa politico-militare, rappresentata dall’esercito dell’imperatore, rispetto a quella naturale data dal fiume. E nel secondo panegirico di Mamertino (del 291) la pacificazione dell’impero operata da Massimiano è interpretata come la realizzazione di un accordo universale tra tutte le terre poste all’interno dei confini, mentre al di là del limes, sia a oriente, presso la palude Meotide e nelle lontane regioni settentrionali, dove — dice l’oratore — l’Elba, orrido come i suoi popoli, attraversa la Germania, sia a occidente, nelle regioni ove tramonta il sole, i popoli barbari continuano ad aggredirsi sanguinosamente a vicenda (III 16, 4-5).
Anche nel panegirico a Costanzo del 297 vi sono riferimenti sia al limes germanico-retico, ristabilito sotto la tetrarchia, sia alla presenza dell’imperatore in ripa, presenza che, per quella zona di frontiera, al panegirista appare difesa ben più valida degli stessi contingenti militari (IV 13, 3). Nel panegirico di Eumenio del 298 sono a loro volta menzionate le tradizionali frontiere di Reno e Danubio, finalmente ristabilite dai tetrarchi e tutelate per il futuro dallo stanziamento in quei luoghi di accampamenti militari (V 18, 4).
Dai panegirici costantiniani poi apprendiamo notizie, tanto sulle operazioni di guerra compiute da Massimiano, che per primo — dice il panegirista del 307 — portò le insegne romane al di là del Reno (VI 8, 4), quanto sulla realtà fisica del limes. Ricordando la vittoria di Costanzo sugli Alamanni presso Langres e Vindonissa (inverno 298-299 d. C.), il panegirista del 310 narra di alcune tribù germaniche, le quali approfittando del fiume ghiacciato, passarono su di un’isola del fiume stesso, e lì, in seguito al successivo scioglimento del manto ghiacciato, restarono imprigionate e furono quindi facilmente sconfitte (VII 6, 4); celebrando inoltre gli inizi dell’attività militare e politica di Costantino e in particolare le sue vittorie sui barbari, il panegirista afferma, secondo l’usuale topos, che il Reno non è più l’unico baluardo posto a fronte del mondo germanico, perché, a difesa della Gallia, basta la presenza dell’imperatore, il cui solo nome incute terrore e paura nelle popolazioni germaniche, timorose perfino di avvicinarsi al grande fiume (VII 11, 1-5). Il Reno ormai, grazie alle flottiglie militari che continuamente lo solcano e alle legioni dislocate lungo tutto il suo corso, non è più soltanto barriera naturale, ma anche invalicabile linea fortificata (VII 13, 1-3): e proprio lungo questa, a Colonia, Costantino ha fatto costruire un grandioso ponte. Nel panegirico del 312 infine vi sono delle interessanti sottolineature circa la realtà del fiume, inteso come confine della Gallia e, in particolare, della regione degli Edui (VIII 2, 4 e 3, 3), mentre in quello del 313 si afferma che, dopo la vittoriosa conclusione della battaglia contro Massenzio a Ponte Milvio, Costantino volle nello stesso anno ritornare sulla frontiera del Reno inferiore, sospinto sia dall’ansia dei soldati di tornare nelle zone a loro più gradite (segno evidente della provenienza di quei soldati), sia dalla necessità di arginare nuove invasioni (IX 21-22, 3).
La suggestione del Danubio poi, l’altro immenso tratto del limes d’acqua posto tra romanità e barbarie, è soprattutto rinvenibile nel panegirico per Giuliano di Claudio Mamertino. Questi, compagno di viaggio dell’imperatore, descrive le due rive del fiume, delle quali la destra gli appare piena di città in festa all’arrivo del princeps, la sinistra invece popolata da barbari, costretti ad inginocchiarsi in atteggiamento supplice e miserevole: da una parte dunque, al di qua del limes, le città romane, ove la gente stupita ammira Giuliano, che nonostante la fatica del lungo percorso appare per nulla stanco, ma con l’aspetto vivace di uomo forte e avvezzo alle fatiche militari; dall’altra invece, al di là del fiume, il mondo delle gentes externae, che hanno osato muovere guerra all’imperatore, costringendolo a intervenire in difesa del nome di Roma.
Nel panegirico è evidenziata una netta divisione tra le due partes separate dal Danubio, l’occidentale e l’orientale: il panegirista ricorda la discesa di Giuliano verso Costantinopoli e afferma che, mentre la nave solcava il fiume, l’imperatore distribuiva «doni» diversi: a destra, in territorio romano, speranza, libertà, ricchezze, a sinistra, sul suolo barbarico, terrore, paura e fuga. Nelle regioni poste a destra del fiume si riversavano dunque i benefici del sovrano, per i popoli della Dalmazia, per gli abitanti dell’Epiro e anche per i cittadini di città lontane, quali Nicopoli, Atene ed Eleusi: tali città, che si trovavano in uno stato di estrema rovina morale e materiale, così risorgevano e tornavano ad animarsi: le fontane riprendevano a scorrere, i portici e i ginnasi si riempivano nuovamente di gente, le antiche festività venivano rimesse in auge e nuove se ne istituivano in onore del principe benefattore; nei territori della riva sinistra invece il mondo dei barbari appariva in preda a sentimenti di paura e di terrore e volgeva in fuga davanti all’imperatore che avanzava (XI 8-9).
Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
c. Oriente e Occidente
L’ideale limes dei panegiristi non si identifica però solo con il Reno e il Danubio, ma attraversa anche una divisione più ampia, quella tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo della tradizionale virtus romana e quello delle deliciae Orientis (IX 24, 1). La menzione dell’Oriente è infatti nei panegirici abbastanza frequente e, ogni volta che tale parte del mondo viene contrapposta o paragonata a quella occidentale, essa è definita come distante, separata ed inferiore, soprattutto sul piano delle virtutes tipiche dell’uomo romano, il valore militare, la morigeratezza, la parsimonia, ecc. La sottolineatura dell’antitesi, a vantaggio naturalmente di tutto quello che è «occidentale», è chiaro segno della mentalità diffusa nelle regioni a ovest del Reno e del Danubio, regioni che si sentono in tutto e per tutto romane, ove i lontani territori dell’Oriente sono ritenuti distanti e divisi, non solo e non tanto geograficamente, ma anche e soprattutto idealmente.
La prima divisione tra Oriente e Occidente evidenziata dai panegiristi è ovviamente di carattere geografico: a indicare, per esempio, che l’imperatore ha esteso il suo dominio sul mondo intero, Claudio Mamertino proclama solennemente che Giuliano è divenuto in pochi mesi, e per dono divino, Libyae Europae Asiaeque regnator (XI 27, 2)[50]; e a sua volta Pacato Drepanio identifica l’Oriente con le regioni lontanissime in cui sorge il sole e dove, segno di grande valore, riesce a giungere Teodosio vittorioso (XII 23, 1). Altri riferimenti all’Oriente geografico sono in quei luoghi dei panegirici, ove vengono ricordati i più importanti fiumi del mondo, il Tanai, il Reno, il Danubio, l’Eufrate, il Tigri, il Nilo: ancora nel panegirico di Pacato Drepanio, per esempio, si parla del Tanai, il fiume che per gli antichi segnava il confine tra Asia ed Europa[51], per esaltare le vittoriose attività militari di Teodosio, in seguito alle quali l’attraversamento di quel fiume era stato interdetto agli Sciti e agli imbelli Albani (XII 22, 3)[52].
Ma la divisione tra Oriente e Occidente è per i panegiristi soprattutto una divisione ideale, sentita fortemente ed espressa frequentemente. Tale divisione, teorizzata già da Aristotele[53], è per la mentalità dei panegiristi — mentalità perfettamente nel solco della tradizione greca e latina — separazione tra un mondo, l’orientale, caratterizzato da assenza di valore militare e scelta di una vita molle e raffinata, e una realtà invece, quella occidentale, connotata da grande capacità bellica, spirito di sacrificio, senso austero della famiglia e così via. Per esempio, nel panegirico per Costantino del 313, per celebrare le diverse campagne realizzate dall’imperatore contro i Franchi che avevano attraversato il fiume Reno, penetrando al di qua del limes, viene formulata una distinzione tra occidentali e orientali, fondamentalmente basata sulle opposte caratteristiche degli uni e degli altri: gli orientali, tra cui anche i Greci[54] — dice il panegirista — sono inadatti alla guerra e pieni di paura, immemori della libertà e pronti ad asservirsi pur di ottenere pietà; gli occidentali invece, o sono legati alla disciplina militare da un giuramento sacro, come i Romani, o sono totalmente sprezzanti del pericolo della vita, come i Franchi (IX 24, 1-2). Al panegirista anche il confronto tra il famoso Alessandro Magno e Costantino serve per evidenziare la superiore capacità militare degli occidentali rispetto agli orientali: nella scia del noto confronto liviano tra il grande Alessandro e i Romani[55], viene infatti esaltato Costantino come soldato e condottiero più valoroso perché, mentre il Macedone aveva facilmente combattuto contro degli orientali — i Medi effeminati, i Siri imbelli, i Parti abili unicamente nel lancio delle frecce — destinati solo a mutar padrone nella loro condizione di perenne e vile schiavitù, l’imperatore romano ha dovuto invece affrontare duramente i soldati di Massenzio, traditori sì, ma pur sempre valorosi e forti, in quanto romani (IX 5, 3). Il valore militare degli occidentali è posto in risalto anche nel panegirico per Teodosio, ove Pacato Drepanio elogia la Spagna, terra di nascita dell’imperatore, fortunata, oltre che per la felice posizione geografica, anche, e soprattutto, per essere patria di soldati fortissimi (durissimi milites) e condottieri espertissimi, come appunto Teodosio (XII 4, 5). Per concludere, anche Pacato istituisce un confronto militare tra i soldati «orientali» di Antonio e Cleopatra, vinti da Ottaviano ad Azio, e quelli «occidentali» di Teodosio, assai più validi e forti in guerra (XII 33, 4-5).
Caccia alle fiere (particolare). Mosaico pavimentale della Megalopsychia, c. V-VI secolo, dal villaggio di Yakto (Daphne, Antiochia). Antakya, Hatay Archaeology Museum.
5. Un’integrazione romano-barbarica
Se nei panegirici la rappresentazione delle gentes externae è fatta in chiave negativa, ciò non impedisce che negli stessi discorsi appaiano talvolta le tracce di una valutazione diversa, forse più vicina alla complessa realtà storica e geografica di un’epoca di grandi mutamenti sociali e di una regione — quella del limes renano-danubiano — che era di grande importanza strategica, politica e militare. Lì infatti, in una terra di frontiera, proprio nel secolo dei panegiristi, era in atto uno scontro, reale e ideale, tra due civiltà — la romana e la germanica — incommensurabili e distanti tra loro, ben diversamente evolute, eppure destinate necessariamente a integrarsi.
Nei panegirici possiamo leggere importanti testimonianze relative a tale incipiente integrazione: sono le notizie — le prime che possediamo sul fenomeno — di quegli stanziamenti di agricoltori barbari nei territori dell’impero romano, che gli imperatori del III-IV secolo, seguendo la tradizione dei loro predecessori[56], decisero di attuare. Leggiamo pertanto nel panegirico del 297 l’elogio di Massimiano, perché ha fatto coltivare dai Laeti (cioè da cultoresbarbari) i campi abbandonati nel territorio di Treviri, e di Costanzo, perché si è servito degli stessi cultores per far rifiorire il territorio della Gallia Lugdunensis (IV 21, 1). E leggiamo anche, nello stesso discorso, quello che può essere ritenuto il passo più significativo di tutto il corpus dei panegirici in ordine alla tematica dell’integrazione (IV 9, 1-4): i barbari, sconfitti e fatti prigionieri, sono raccolti in una (non determinata) ricca e fiorente città della Gallia e disciplinatamente ordinati per gruppi (ad obsequium distribuii)[57], per essere quindi destinati a coltivare i terreni abbandonati (ad destinatos sibi cultus solitudinum), vendere nei mercati i prodotti della pastorizia e dell’agricoltura (operatur et frequentat nundinas meas pecore venali), contribuire a sollevare le tristi condizioni economichedella città (cultor barbarus laxat annonam), o — destinazione quest’ultimasommamente gratificante — essere inseriti nell’esercito tra gli auxilia militari (si ad dilectum vocetur… servire se militiae nomine gratulatur)[58].
I panegirici testimoniano dunque che gli scontri, militari e sociali, tra romani e barbari si andavano pian piano mutando in incontri e che lentamente prendeva avvio un progressivo e inarrestabile processo di romanizzazione dei territori posti al di là dei fiumi Reno e Danubio. Nel discorso del 289, per esempio, Mamertino elenca le vittorie di Massimiano, grazie alle quali l’imperatore, «primo tra tutti», ha dimostrato che unico confine dell’impero è quello delle armi del principe: per cui il Reno, posto dalla natura a difesa delle province romane dinnanzi all’immensità delle regioni barbariche, ha ormai perso la sua antica importanza difensiva: per gli abitanti della Gallia renana infatti non è più causa di paura l’eventuale abbassamento delle acque dovuto a scarsità di piogge, perché anche l’intravedersi dei sassolini sul fondo, non sarebbe segnale di pericolo, in quanto tutto ciò che si scorge al di là del Reno è ormai parte del mondo romano: quidquid ultra Rhenum prospicio Romanum est, esclama convinto il panegirista (II 7, 7). Significativa, nel passo di Mamertino, non tanto la memoria delle vittorie degli imperatori, al di qua e al di là del Reno, quanto la coscienza, che vi traspare, dei provinciali della Gallia, i quali sentono ormai come romane le terre transrenane; sentono insomma che tra le due sponde del Reno vi è meno distanza di prima.
Altri panegiristi vanno ancora più in là, affermando la necessità di un’«amicizia» tra Romani e barbari. Nel panegirico del 307 l’oratore ricapitola le imprese di Massimiano — le vittorie sui Bagaudi in Gallia e le spedizioni tra i Germani — affermando con enfasi che l’imperatore è stato «il primo» a trasferire le insegne romane tra i barbari della Germania, costringendo questi a deporre le armi e a divenire, nell’obbedienza a Roma, «amici» del popolo romano (VI 8, 5: domita Germania aut boni consulit ut quiescat aut laetatur quasi amica si pareat). Tale concetto, della «necessità» dell’amicizia tra barbari e romani, è poi significativamente ripetuto in panegirici successivi, come in quello di Nazario per Costantino (X 38, 3) o di Pacato Drepanio per Teodosio (XII 22, 4).
Da qui, da questo lento ma inevitabile processo di integrazione etnica e sociale tra popoli diversi, i cittadini dell’impero romano e i «barbari», iniziato nei secoli della tarda antichità — e per cui i Panegyrici Latini rappresentano un corpus di coeve e significative testimonianze storiche e culturali — sorgerà, grazie anche all’immensa forza ideale e morale del Cristianesimo (della cui presenza una qualche traccia può forse scorgersi anche nei pagani panegirici)[59], la civiltà medievale, dai regni romano-barbarici al Sacro Romano Impero, e la stessa civiltà moderna.
Guerriero germanico si arrende a un Romano (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
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[1] In realtà, il corpus manoscritto comprende dodici discorsi, essendo i panegirici tardo-antichi preceduti da quello di Plinio il Giovane a Traiano (cfr. F. Trisoglio [ed.], Plinio Cecilio Secondo, Opere, vol. II, Torino 1973, 1125-1385).
[2] Per un’informazione sintetica sui Panegirici, cfr. D. Lassandro, I «Panegirici Latini» del III-IV secolo, in I. Lana, E.V. Maltese (dir.), Storia della civiltà letteraria greca e latina, III. Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Torino 1998, 476-483.
[3] Poiché la successione secondo la quale i XII Panegyrici Latini sono disposti nelle edizioni critiche non è cronologica, ma rispetta la «disordinata» sequenza manoscritta, è invalso l’uso di numerare queste orazioni in modo duplice, a indicare sia l’ordine tràdito, sia quello cronologico. Nella presente edizione, ai fini di un più immediato e chiaro inquadramento storico, si è adottato il solo criterio dell’indicazione «cronologica», segnalata con un numero romano, a partire dal II (con il numero I si indica ovviamente il panegirico di Plinio). Quando necessario, comunque, è stato anche notato l’ordine «manoscritto» (con numero arabo posto tra parentesi quadre).
[4] L’anno potrebbe anche essere il 298: per questo nelle edizioni la numerazione «cronologica» del panegirico è generalmente indicata con V (e con IV invece quella dell’oratio di Eumenio).
[5] Importante ai fini documentari questo capitolo (evidenziato nei codici con la miniatura della lettera iniziale dell’incipit), perché è l’esatta trascrizione della lettera di nomina imperiale con la quale Eumenio veniva preposto alla direzione delle scuole.
[6] I Viri perfectissimi erano ufficiali superiori di rango equestre: Cod. Theod. VI 38, 1.
[7] Ne parla anche Tac. Ann. III 43, 1, testimoniandone l’esistenza come sede di alti studi per la gioventù nobile della Gallia.
[8] Particolarmente significativo è il capitolo 20 del panegirico, non solo perché vi si indicano alcune materie oggetto di studio (la storia e la geografia), ma anche la metodologia di quello stesso studio: sono infatti descritte le «carte» geografiche affrescate nei portici della città, osservando le quali i giovani augustodunensi avrebbero potuto facilmente apprendere la storia degli imperatori e la geografia delle conquiste romane.
[11] Nomine formali, essendo in quest’epoca il consolato, come le altre magistrature, soltanto un titolo onorifico attribuito dall’imperatore ai suoi amici.
[12] Ausonio nomina più volte Pacato, dedicandogli anche alcuni carmi.
[13] Il discorso – «la prima grande orazione epidittica con fini politici» (A. Lesky, Storia della letteratura greca, trad. it., I, Milano 1962, 727) – destinato alla lettura, imitava la forma dei discorsi ufficiali pronunciati in occasione delle grandi feste panelleniche.
[14] Assieme al γένος σνμβονλεντιϰóν, di natura prettamente politica e deliberativa, e al γένος διϰανιϰóν, di indole giudiziaria, rappresentava il triplice mondo dell’eloquenza pubblica degli antichi.
[20] I tratti di questo «ideale di sovrano» possono ritrovarsi in seguito, fino ai nostri giorni, in tante propagande filo-imperiali o filo-regie (e non solo…). Sull’Herrscherideal tardoantico, cfr. J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1937.
[21] Tale fratellanza è ricordata da Caes. BG I 33, 2, ove si dice che gli Edui erano stati con deliberazioni del Senato dichiarati fratelli del popolo romano (Aeduos fratres consanguineosque saepe numero ab Senatu appellatos), e da Tac. Ann. XI 25, 1, ove è scritto che i primi tra i Galli a ottenere dall’imperatore Claudio il diritto di sedere in Senato furono i rappresentanti degli Edui, e ciò in grazia di un’antica fratellanza (Datum id foederi antiquo, et quia soli Gallorum fraternitatis nomen cum populo Romano usurpant).
[22] «Si può spesso sapere la verità anche dal linguaggio dell’adulazione» (E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it., Torino 1967, 320). La monumentale opera di E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire (la narrazione va dal 180 al 1453), fu pubblicata in Inghilterra dal 1766 al 1788; ed è rimasta da allora non solo strumento indispensabile per chiunque voglia accostarsi alla storia antica, ma anche splendido libro ove risalta con grande evidenza la capacità narrativa del vero storico.
[23] Per esempio da M. von Albrecht, Storia della letteratura latina da Livio Andronico a Boezio, trad. it. di A. Setaioli, III, Torino 1996, 1459-1462.
[24] In questo schema confluiscono tutti gli elementi concettuali e verbali di una consolidata tradizione letteraria. La forma di tale schema deriva dalla sua tradizione «ideologica» e letteraria, risalente, per limitarci a un esempio significativo, a Cic. Phil. IV 2, 4-5, ove viene contrapposto il nobile Ottaviano ad Antonio, definito ardens odio… cruemtus sanguine civium Romanorum… hostis, latro, parricida patriae, pestis.
[25] Già Quint. III 7 (De laude et vituperatione) aveva teorizzato lo schema elogiativo, basato sull’antitesi bene/male, schema che poi sarebbe divenuto tipico dei panegirici: elogio del personaggio (sua patria, sua gens, presagi della sua grandezza, sua fortuna, suoi attributi: forza, bellezza, ecc.) da un lato, disprezzo per i nemici dall’altro.
[26] L’uso di un tale attributo (e del sinonimo tremens) rivela la studiata utilizzazione di un lessico evocante i fenomeni dello sconvolgimento mentale, che necessariamente subentra in chi osa profanare la divinità, e pertanto l’imperatore.
[27]… in sexum cui bella parcunt pace saevitum (XII 29, 1). Su Magno Massimo abbiamo invece testimonianze positive da parte di Sulp. Sev. Dial. II 6: vir omni vita merito praedicandus; si ei vel diadema non legitime, tumultuante milite, impositum repudiare vel armis civilibus abstinere licuisset, e di Oros. VII 14, 9: Maximus, vir quidem strenuus et probus atque Augusto dignus, nisi contra sacramenti fidem per tyrannidem emersisset: testimonianze che, pur condannando l’usurpazione, valutano con serenità ed elogiano il carattere dell’uomo.
[28] Il quadro è simile a quelli degli altri panegirici, ma vi è un’aggiunta: Quisquis purpura quandoque regali vestire umeros cogitabit, Maximus ei exutus occurat. Quisquis aurum gemmasque privatis pedibus optabit, Maximus ei plantis nudus appareat. Quisquis imponere capiti diadema meditabitur, avulsum umeris Maximi caput et sine nomine corpus adspiciat (XII 45, 1-2): Massimo con la sua fine tragica deve servire di esempio a chi osa o solo pensa di usurpare il regno.
[29] Sulle rivolte bagaudiche vd. D. Lassandro, Le rivolte bagaudiche nelle fonti tardoromane e medievali: aspetti e problemi (con appendice di testi), InvLuc 3-4 (1981-1982), 57-110.
[30] Vd. A. Holder, Altceltischer Sprachschatz, I, Leipzig 1896, 329-331.
[31] In documenti e carte medievali è attestata la sopravvivenza di un toponimo Castrum Bagaudarum presso Parigi, nel luogo dell’antico monastero di Saint-Maurdes-Fossés, ove oggi è situata l’omonima cittadina.
[32] I manoscritti riportano Batavica rebellio, ma la correzione Bagaudica (avanzata di Giusto Lipsio, nell’edizione e commentario di Tacito, Anversa 1581) è palmare, paleograficamente e filologicamente dimostrabile (vd. D. Lassandro, Batavica o Bagaudica rebellio?, GIF 4 [1973], 300-308).
[33] Il panegirista celebra ane il nuovo culto per Giove ed Ercole, gli dèi protettori dei tetrarchi: alle divinità celesti, unite da un patto di mutuo aiuto, corrispondono infatti, in terra, gli imperatori Diocleziano e Massimiano, legati anch’essi da un vincolo «di fedeltà reciproca e aiuto militare».
[34] Ricostruito quasi nella sua interezza, il monumento è ora conservato nei «Musées» della città di Metz in Francia.
[35] Il gruppo statuario ritrovato a Merten non può non richiamare alla memoria, per la notevole somiglianza figurativa ed espressiva, la Gigantomachia, il grande fregio scolpito a Pergamo negli anni 190-180 a.C., che correva esternamente, al di sotto del colonnato, sullo zoccolo dell’ara, il solenne monumento fatto erigere da Eumene II sull’acropoli della città (ora è conservato nel Pergamonmuseum di Berlino). E poiché la grandiosa allegoria della Gigantomachia pergamena rappresentava la vittoria su quei barbari, di origine celtica, che al tempo del re Eumene II avevano devastato le coste del regno di Pergamo, non può essere ipotizzabile che lo scultore di Merten abbia scelto proprio quel lontano, ma famoso modello, per celebrare un’analoga vittoria su altri Galli — i Bagaudi — anch’essi barbari e devastatori? Notevoli sono infatti le somiglianze plastiche tra la figura di Alcioneo, abbattuto da Atena nel fregio orientale dell’ara pergamena, e quella del gigante, atterrato dal cavaliere nel gruppo statuario di Metz: simile è, per esempio, l’inclinazione delle figure verso destra, dovuta al fatto che, in entrambe le opere, il vincitore (Atena o il cavaliere) sospinge a terra il vinto con la destra (Atena direttamente, il cavaliere con la lancia nell’atto di colpire); simile ugualmente è l’appoggio dei corpi, ovviamente sul lato destro (il ginocchio destro per il gigante pergameno, la parte destra della coda serpentina per quello di Metz); simile inoltre è la possente muscolatura dei due giganti, protesi nello sforzo di resistere alla forza del vincitore (il gigante pergameno tenta di trattenere col braccio destro la mano della dea che lo atterra; il gigante di Metz, a sua volta, tenta con la sinistra di bloccare lo zoccolo innalzato del cavallo, ad evitare di essere abbattuto). Anche le due teste presentano delle analogie: volti senza barba ed espressioni terrorizzate, sottolineate dagli occhi stravolti verso l’alto.
[36] E ragionevole pertanto supporre — come già fece nell’Ottocento O.A. Hoffmann, Die Bagaudensàule von Merten im Museum zu Metz, JGGA 1888-1889, 14-39 — che la colonna e il gruppo statuario ritrovati nei luoghi che furono teatro delle jacqueries bagaudiche possano riferirsi proprio alla vittoria che nel 285-286 Massimiano riportò sui contadini ribelli: l’elevazione della colonna poté perciò avvenire dopo quella vittoria, nello stesso luogo ove l’imperatore aveva sconfitto i Bagaudi, liberando la città di Treviri e la zona circostante da un pericolo gravissimo.
[37] Vd. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, ed. it., Firenze 1933.
[38] Vd. M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari 1973, 90.
[39] Vd. Aur. Vict. Caes. XXXIX 17-20; Eutrop. IX 20, 3; Oros. VII 25, 1-2. Solo il cristiano Salviano, nato a Treviri e vissuto a Marsiglia, nel De gubernatione Dei (opera scritta intorno alla metà del V secolo), riuscì a comprendere le motivazioni delle rivolte bagaudiche, cioè la povertà, la miseria, le continue ingiustizie cui i più umili venivano quotidianamente sottoposti. Nel libro V (capp. 21-28) egli parla della condizione dell’impero invaso dai barbari e rileva gli aspetti più drammatici della nuova realtà: le vedove piangono, gli orfani sono maltrattati e, soprattutto, i poveri vengono «devastati» (vastantur pauperes); questa triste realtà spinge molti, anche di illustri natali, a cercare riparo tra gli stessi barbari e a preferire le difficoltà della vita presso di quelli alle vessazioni e ingiustizie diffuse nel mondo romano (cap. 21: malunt tamen in barbari; pati cultum dissimilem quam in Romanisinmstitiam saevientem). Sullo stesso piano dei barbari Salviano pone i Bagaudi, affermando che anche presso costoro fuggono gli oppressi: nella digressione sui rivoltosi (cap. 22) egli dà la sua interpretazione del fenomeno bagaudico, che certamente doveva essere ancora vivo ai suoi tempi, giudicando con profonda comprensione i ribelli e attribuendo la causa delle rivolte alle ingiustizie e ai soprusi di cui erano vittime. L’invettiva accusatrice di Salviano è rivolta soprattutto contro gli autori delle rapine fatte in nome dello Stato, i funzionari disonesti e gli esattori rapaci. Il linguaggio ha poi una vivezza e una passionalità fortissime, attraverso le quali si scorge con chiarezza la valutazione che del fenomeno bagaudico dà l’autore: è una valutazione che si scosta dalla vulgata storiografica sui Bagaudi (che li vedeva come ribelli e mostri) e nella quale invece vi è un’acuta (anche se retoricamente amplificata) visione delle cause delle rivolte contadine, la povertà e lo sfruttamento. Su Salviano, si vd. il fondamentale studio di M. Pellegrino, Salviano di Marsiglia, Roma 1940.
[40] Significative appaiono anche le analogie di ordine verbale (Terra mater frugum riprende fertilis frugum… Tellus; Iuppiter moderator aurarum può avvicinarsi a lovis aurae). Esse, però, non indicano tanto una ripresa diretta da Orazio, quanto piuttosto l’utilizzazione di un repertorio ideologico, che alla propaganda augustea faceva capo e che nei panegiristi dimostra ancora la sua vitalità.
[41] La solenne invocazione, cantata dai ventisette fanciulli e dalle ventisette fanciulle nei Ludi del 17 a.C., era nel segno dei tipici valori tradizionali dell’antico e agreste Lazio, da Augusto fortemente promossi e finalizzati alla prosperità dello Stato romano e alla continuazione dell’assetto politico-istituzionale e ideologico-morale da lui instaurato. Orbene, quei valori — grazie anche alla splendida letteratura che nel saeculum Augustum fiorì e che, tra i massimi, accanto al grande Virgilio, ebbe il poeta di Venosa — sopravvissero all’età augustea e conservarono grande rilevanza nell’ideologia imperiale delle epoche successive, fino alla tarda antichità.
[42] Vd. A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, 108.
[43] Si tratta dell’orazione De suis virtutibus contra L. Thermum post censuram (F 135 Malcovati; F 99 Sblendorio Cugusi): vd. R. Stark, Catos Rede de lustri sui felicitate, RhM 96 (1953), 184-187.
[45] Naturalmente la netta contrapposizione tra Romani e barbari e la valutazione di questi ultimi secondo i parametri della inciviltà, della violenza e della aggressività dipendono anche, in testi essenzialmente retorici e di provenienza scolastica quali i panegirici dall’utilizzazione di schemi e topoi fortemente radicati nella cultura e nella tradizione letteraria latina. Barbarus e i suoi derivati (barbarici, barbaries, barbaricus) nella letteratura precedente — e soprattutto in Cicerone, palesemente modello stilistico dei panegiristi — erano stati impiegati o nella accezione più semplicemente «narrativa», a indicare, sul modello del greco, popoli diversi e lontani, o nella accezione traslata, a indicare popoli crudeli e feroci, regioni selvagge e inospitali, ecc. E ovvio che il senso traslato poté porsi sulla base di una valutazione obiettiva della feritas dei barbari, contrapposta alla humanitas romana; ed è anche ovvio che l’effettiva diversità e inferiorità culturale del mondo barbarico fu accentuata ed evidenziata dai panegiristi, quasi con lo scopo di esorcizzare una realtà geograficamente vicina, ma troppo diversa, sconosciuta e paurosa.
[46] Cfr. B. Luiselli, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma 1992.
[47] Questa visione di un mondo barbarico devastatore è comune nella letteratura del tempo. Amm. Marc. XV 8, 1, per esempio, così descrive la situazione della Gallia prima dell’intervento di Giuliano: Constantium vero exagitabant assidui nuntii deploratas iam Gallias indicantes nullo renitente ad internecionem barbaris vastantibus universa.
[48] Anche nel discorso del 307 Massimiano è elogiato per le vittorie sui Franchi (VI 4, 2: Multa ille Francorum milia… interfecit, depulit, cepit, abduxit) e su molti altri popoli barbari, che egli però trattò con clemenza.
[49] Anche in questa occasione, come nella precedente, Costantino appare spietato (tantum captivorum multitudinem bestiis obicit) e anche qui il panegirista approva: Namquid hoc triumpho pulchrius quo caedibus hostium utitur etiam ad nostrum omnium voluptatem… ? (IX 23, 3).
[50] Il panegirista utilizza in tal modo la tradizionale divisione del mondo in tre parti (Libia, cioè Africa, Europa e Asia), di cui comunque le prime due rappresentano quasi un’unità (occidentale) contrapposta all’Asia (orientale): vd. August. De civ. D. XVI 17: Si in duas partes orbem dividas, Orientis et Occidentis, Asia erit una, in altera vero Europa et Africa.
[51] Il Tanais (Don), secondo Amm. Marc. II 8, 27, Asiam terminat ab Europa.
[52] Gli Albani erano – secondo Flor. III 6, 1 – stanziati nella parte orientale del Caucaso.
[53] In Aristot. Pol. III 6, 12853, si legge che «gli Asiatici, più che gli Europei, sopportano il potere dispotico senza sdegnarsi.
[54] I Greci, che per Aristotele ovviamente erano «occidentali», per il panegirista della lontana Gallia sono assimilati senza alcun dubbio agli Orientali.
[56] Marco Aurelio, secondo la testimonianza dell’Historia Augusta (Aurel. 24, 3), infinitos ex gentibus in Romano socio collocavit. Anche Claudio Gotico volle, sempre secondo l’Historia Augusta (Claud. 9, 4), che le province romane fossero riempite di barbari servi e Scythici cultores.
[57] Nelle parole del panegirista si percepisce l’espressione compiaciuta di chi può fare affidamento su nuove e più robuste braccia per il lavoro nei campi; mentre fa da contraltare l’atteggiamento impaurito dei barbari: uomini che, nonostante la nativa feritas, trepidano sbigottiti, vecchie stupite davanti all’inusitata ignavia dei giovani, donne altrettanto meravigliate davanti a quella degli sposi, fanciulli e fanciulle costretti a restare immobili.
[58] Oltre al panegirico di Costanzo, testimonia la presenza e l’attività dei laeti in Gallia anche il panegirista del 310, il quale afferma che Costantino immise nella provincia popolazioni transrenane con lo scopo di ricavarne braccia per l’agricoltura e per la milizia (VII 6, 2). Anche Ammiano Marcellino riferisce di laeti barbari, che compiono un assalto alla città di Lugdunum (Lione) e vengono respinti dai soldati di Giuliano, allora Caesar in Gallia (XVI 11), di laeti adulescentes, menzionati in una lettera che Giuliano scrive dalla provincia a Costanzo (XX 8, 13) e ancora di laeti, citati nel resoconto di ordini dati da Costanzo II (XXI 13, 16). Importanti poi le attestazioni dei laeti nel Codex Theodosianus, in costituzioni degli anni 369 (de veteranis, VII 20, 10), 399 (de censitoribus, XIII 11, 10) e 400 (de veteranis, VII 20, 12). Tutte le testimonianze posteriori al panegirico confermano la duplice funzione dei laeti indicata dal panegirista: contadini, impiegati nel risanamento e nella coltivazione delle terre, e leve per l’esercito. Sui laeti in Gallia, vd. D. Lassandro, I «cultores barbari» (laeti) in Gallia da Massimiano alla fine del IV secolo d.C., CISA 6 (1979), 178-188.
[59] Non tanto e soltanto in probabili ed espliciti riferimenti (per esempio, la «visione» di Costantino in X 14, la reazione di Giuliano alle restrizioni filosofiche dovute alla cristianizzazione dopo l’Editto di Milano in XI 23, la persecuzione degli eretici priscillianisti appoggiata dai vescovi ispanici in XII 29, ecc.), quanto in un linguaggio in cui diventa sempre più difficile distinguere, soprattutto in ambito religioso, quanto si debba al latino cristiano (per esempio, deus ille mundi creator et dominus, in IX 13, 2; arbiter deus et scrutatura divinitas, in X 7, 3; nimia religio et diligentius culta divinitas, in XII 29, 2, ecc.) e quanto invece sia semplice eredità del linguaggio «filosofico» tradizionale.
L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.
Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.
L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).
P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal
Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».
Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).
C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.
Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.
Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).
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Aurelio Ambrogio nacque verso il 330 o poco prima, da famiglia romana, e probabilmente ad Augusta Treverorum, dove il padre, che era uno dei quattro prefetti del pretorio dell’Impero, aveva allora la sua residenza. Morto questi verso il 354, la vedova con i suoi figli, Satiro, Marcellina e Ambrogio, tornò a Roma, dove Ambrogio si preparò a percorrere il cursus honorum delle pubbliche magistrature. Verso il 372 o 373 per la protezione di Sesto Petronio Probo, prefetto del pretorio d’Italia, fu nominato consularis della Liguria e dell’Aemilia, con sede a Mediolanum. Era allora vescovo di quella città Aussenzio, nativo della Cappadocia e di parte ariana, durante il lungo episcopato del quale (335-374), la parte cattolica aveva sofferto molte vessazioni. Alla sua morte scoppiò quindi un vivo conflitto. Ambrogio, che per dovere d’ufficio interveniva alle riunioni, venne egli stesso eletto vescovo per acclamazione, sebbene fosse un laico, anzi non avesse ricevuto ancora neppure il battesimo. Questa elezione contraria ai canoni che proibivano l’elevazione di laici all’episcopato, fu, a quanto pare, dovuta all’entusiasmo del popolo per il suo giovane governatore, seppure non fu il risultato di un compromesso tra i due partiti. Ambrogio cercò di sottrarsi all’inaspettato incarico, ma cedette all’ordine espresso dell’imperatore ed in pochi giorni ricevette il battesimo, gli ordini e la consacrazione episcopale (7 dicembre 374).
Mosaico di Sant’Ambrogio. Dalla cappella di S. Vittore in Ciel d’oro, fine IV secolo d.C. Basilica di S. Ambrogio.
Da vescovo di Mediolanum, che era allora la residenza preferita degli imperatori d’Occidente, Ambrogio si trovò mescolato ai più grandi avvenimenti politici e religiosi del tempo, vi prese parte attiva assumendo spesso posizione di battaglia, ed esercitò una grande influenza in nome di un’autorità morale e religiosa, di cui egli si considerava in tutta coscienza come il depositario autorizzato da Dio. Morì a Mediolanum il 4 aprile 397.
L’autorità di cui Ambrogio godette presso gli imperatori del suo tempo, prima Graziano, poi Valentiniano II e Teodosio, mirò principalmente ad assicurare l’adozione di più severe misure contro i culti pagani, a togliere gli ariani o arianeggianti l’appoggio del potere civile e a ristabilire la pace nella Chiesa. Graziano fu il primo imperatore a rinunciare al titolo di pontifex maximus e con lui la legislazione romana prese quell’atteggiamento definitivamente ostile ai culti tradizionali di Roma, che culminò nell’editto del 382 in cui si ordinava la rimozione della statua della Vittoria dalla Curia romana. L’editto provocò una forte resistenza e vive proteste da parte dei senatori pagani; ma frattanto Graziano veniva assassinato a Lugdunum dall’usurpatore Massimo che rimaneva padrone delle Galliae, lasciando l’Italia a Valentiniano II.
Valentiniano II. Busto, marmo, 387-390 d.C. da Aphrodisias. Museo Archeologico di Istanbul.
Simmaco, senatore e prefetto di Roma, indirizzò al nuovo imperatore un’eloquentissima difesa dei culti patri, producendo un’impressione vivissima nel circolo imperiale. Ambrogio venne alla riscossa prima con una vibrata lettera all’imperatore (Ep., XVII), poi con una minuziosa confutazione della difesa di Simmaco (Ep., XVIII). L’editto di Graziano fu confermato, ma la questione si trascinò ancora sino a che non fu più tardi risolta da Teodosio in favore della parte cristiana. Il Cristianesimo diveniva oramai religione di Stato. La difesa di Simmaco e le due lettere di Ambrogio sono documenti eloquenti della nuova situazione. Simmaco non domandava che una benevola tolleranza per la religione antica, affinché «la religione romana non fosse messa fuori dal diritto romano» e concludeva con il solito spunto apologetico delle calamità dell’Impero, quale punizione degli dèi trascurati e rinnegati. Ma su questo punto di facile confutazione, Ambrogio appunta i suoi strali e la sua ironia; al paganesimo implorante tolleranza, egli rinfaccia la sua intolleranza sanguinosa verso i cristiani nel passato; giustifica la confisca delle proprietà delle istituzioni religiose tradizionali con l’affermare che neppure la Chiesa cristiana domandava possessi temporali, poiché quanto essa possedeva era in realtà dei poveri. Ma, soprattutto, Ambrogio ricordava all’imperatore il suo dovere di cristiano e minacciava d’incorrere in sacrilegio se avesse annuito alla richiesta di Simmaco. Tutto il programma religioso-politico della Chiesa medievale si trova già in nuce nelle parole di Ambrogio.
Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico dedicato all’apoteosi del senatore. London, British Museum.
Le due successive missioni diplomatiche affidate ad Ambrogio presso l’usurpatore Massimo (la prima nell’inverno del 383-384, la seconda generalmente assegnata al 386-87, ma avvenuta forse nel 385), ebbero scopo puramente politico. Si trattava di persuadere Massimo a non invadere l’Italia, lasciandola al fanciullo Valentiniano II sotto la tutela della madre Giustina. Non pare che Ambrogio ottenesse molto dall’usurpatore (Ep., XXIV). Nel 388 Massimo invase l’Italia e conquistò Roma, ma sopravvenuto Teodosio dall’Oriente, fu battuto e massacrato dai soldati ad Aquileia. Nonostante questi servigi resi a Valentiniano II, Ambrogio durante il 385 e il 386 dovette sostenere fierissime lotte con la corte che favoriva la fazione ariana. L’imperatrice, Giustina, era rimasta attaccata alla confessione semi-ariana di Ariminium e la corte era piena di generali e di funzionari di origine germanica ed ariani. Ripetuti editti imperiali durante quei due anni, specialmente all’avvicinarsi delle feste pasquali, ordinavano che si consegnassero alcune basiliche agli ariani. Il rifiuto energico del vescovo e i tumulti del popolo fedele ad Ambrogio ne impedirono l’esecuzione. Le basiliche furono invase dalla popolazione, che vi si accampò per giorni al fine di impedirne l’ingresso ai soldati, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza. Ambrogio, sfidando il potere civile, commentava frattanto al popolo passi dei libri sacri (Ep., XX) e teneva occupata la moltitudine, specialmente nelle lunghe ore di veglia, col canto d’inni e salmi a cori alternati, usanza già praticata in Oriente e che da allora divenne comune anche nelle chiese occidentali. La fermezza di Ambrogio, che non esitava a negare in modo assoluto ogni diritto del potere civile d’intervenire nell’amministrazione della Chiesa (Ep., XXI), finalmente vinse e l’imperatore, che non osava far mettere le mani addosso al vescovo tanto popolare, cedette. Le relazioni tra Teodosio e Ambrogio furono sempre improntate a mutua stima e grande rispetto; ma in due occasioni Ambrogio non esitò a censurare l’imperatore e a domandare riparazioni. In Kallinikos, città dell’Osroene, erano scoppiati tumulti durante i quali, sembra ad istigazione del vescovo, una sinagoga giudaica venne incendiata e distrutta. Teodosio ordinò che si punissero i colpevoli e che si riedificasse la sinagoga a spese del vescovo. Ad Ambrogio ciò parve un insulto alla Chiesa cristiana e in una lettera all’imperatore (Ep., XL) qualificava di sacrilegio l’ordine di usare il patrimonio della Chiesa (del vescovo) per edificare una sinagoga. E poiché Teodosio, convinto dell’equità del suo giudizio, non cedeva, un giorno Ambrogio pronunciò in chiesa alla presenza dell’imperatore una violenta invettiva contro i Giudei esclusi dalla grazia e dalla redenzione per la loro cecità, e ricordò energicamente a Teodosio i benefici ricevuti da Dio e dalla Chiesa (Ep., XLI, alla sorella Marcellina). L’editto fu ritirato. Con ciò Ambrogio incitava la legislazione romana ad adottare regolarmente misure restrittive contro tutta una parte dei cittadini che non fossero cristiani. Il secondo incidente fu quello del massacro di Thessalonika ordinato da Teodosio in un momento d’ira, al ricevere la notizia che durante un tumulto il governatore ed altri funzionari imperiali erano stati assassinati. La lettera di Ambrogio a Teodosio (Ep., LI) è un documento nobilissimo di coraggio e di alto senso morale. Vi si denunzia l’enormità della repressione che aveva fatto tante vittime innocenti e dell’imperatore stesso un reo di grave peccato da espiarsi pubblicamente prima di presentarsi all’altare. Per otto mesi Teodosio resistette, ma, avvicinandosi il Natale, domandò la riconciliazione, si sottomise ad una penitenza pubblica e fu riammesso alla comunione. Il racconto dello storico Teodoreto, col drammatico incontro dell’imperatore e di Ambrogio dinanzi alla porta della basilica e le impressionanti umiliazioni pubbliche a cui Teodosio si sarebbe sottomesso, sembra in gran parte leggendario; ma ciò nulla toglie al valore morale e storico dell’episodio.
Uomo di governo e di spirito pratico, Ambrogio fu un fedele sostenitore delle istituzione pubbliche dell’Impero, ma in lui le virtù romane erano illuminate dalle ragioni superiori dello spiritualismo e dalla morale cristiana; ed egli non esitò mai a sostenere di fronte ai sovrani, e con straordinaria fermezza, i diritti della legge divina e di quella ecclesiastica. Sebbene invocasse qualche volta l’appoggio del potere civile, come nel caso degli Orientali, si può dire che in massima parte Ambrogio ripudiasse ogni forma di ingerenza di esso in affari ecclesiastici e condannasse i costanti abusi che di tale ingerenza facevano i vescovi. Ridonda pure ad onore di Ambrogio l’aver rifiutato ogni comunione con i vescovi che avevano portato innanzi la corte dell’imperatore Massimo la causa di Priscilliano, provocandone la condanna a morte, e l’aver deplorato lo spargimento di sangue per divergenze dottrinali.
Camillo Procaccini, Ambrogio impone la penitenza a Teodosio (390). Affresco, 1603. Duomo di Milano.
Tra le grandi figure di vescovi del IV secolo quella di Ambrogio è una delle più cospicue per lo zelo instancabile nell’adempimento della sua missione. Le lotte e le controversie dottrinali contro eretici e dissidenti, la formazione morale del clero, l’istruzione religiosa del popolo, la direzione delle anime dedite all’ascetismo, la restaurazione e la fabbrica di nuove basiliche, la regolarizzazione della liturgia, il culto dei martiri e la cura dei poveri, degli orfani e dei bisognosi, furono il campo in cui Ambrogio lasciò tracce profonde della sua attività. Il suo epistolario è ricco di informazioni a questo riguardo. Da esso apprendiamo (Ep., XXII) il famoso episodio dell’invenzione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio, avvenuta proprio quando i torbidi di Mediolanum per la questione delle basiliche reclamate dagli ariani avevano raggiunto il periodo più acuto. Le agiografie del tempo sono piene di racconti di visioni rivelatrici di luoghi dove corpi di martiri giacevano ignorati; e, come osserva il Duchesne (Histoire ancienne de l’Eglise, II, Parigi 1907, p. 554) Ambrogio divenne abilissimo in tali scoperte e così più tardi trovò a Bononia la tomba dei santi Vitale ed Agricola e di nuovo a Mediolanum quelle dei santi Nazario e Celso. Ma l’attività di Ambrogio si esercitò anche fuori dell’ambito della sua chiesa. Non di rado egli prese l’iniziativa in affari di ordine generale e la sua autorità era così rispettata, che a lui, più ancora che ai vescovi di Roma, si rivolgevano quanti cercavano che la Chiesa riorganizzasse i propri ordinamenti e mettesse riparto al processo di disgregamento prodotto dalla crisi ariana. All’opera di restaurazione della Chiesa occidentale Ambrogio prese parte vivissima; impedì l’elezione di vescovi arianeggianti, altri ne fece deporre, e fu l’anima di parecchi sinodi, tra cui quelli ai Aquileia (382?), di Roma (387), di Capua (391): uno ne convocò egli stesso a Mediolanum, in cui fu condannato Gioviniano per i suoi attacchi contro la verginità. Il suo interessamento si estendeva a tutte le chiese ed egli non risparmiava consigli e suggerimenti, esortazioni e minacce e soprattutto non lasciava passare occasione per distogliere gli imperatori dal favorire coloro che, a suo giudizio, nuocevano alla Chiesa. Si occupò vivamente anche degli affari della Chiesa orientale sebbene il suo intervento in cose, di cui evidentemente era mal informato, riuscisse in fondo più dannoso che utile alla pace. L’appoggio dato a Paolino, contro il vescovo Melezio di Antiochia, l’errore commesso nel sostenere anche per poco la causa del malfamato Massimo detto il Cinico, pretendente alla sede di Costantinopoli contro Gregorio di Nazianzo e il suo successore Nettario, non fecero che acuire il risentimento degli Orientali contro l’intervento degli Occidentali, che nulla capivano della situazione vera di quelle chiese e che stranamente diffidavano della sincerità di quel gruppo di vescovi capitanati dai grandi Dottori cappadoci, i quali si sforzavano di ristabilire la concordia dopo tante tragiche lotte e dolorose scissioni.
Vaticano, BAV. Ms. Vat. gr. 1613. Menologion di Basilio II (X-XI sec.), f. 249r. Ambrogio in preghiera.
Quale autore di trattati dottrinali e morali, Ambrogio è annoverato tra i grandi dottori della Chiesa latina. Al tempo della sua elevazione all’episcopato, egli difettava interamente di preparazione teologica e, come dice egli stesso, si trovò nella necessità d’insegnare prima ancora di aver imparato. Imparò presto e bene; ma sia per il carattere pratico della sua mentalità, sia perché tutto preso dalle esigenze del governo ecclesiastico, Ambrogio non fece opera originale di speculazione teologica e di esposizione morale. Più che altro, egli fu un divulgatore. I suoi trattati teologici non sono che collezioni di sermoni predicati al popolo e poi raccolti e messi insieme da lui stesso per istruzione ed edificazione dei fedeli. Gli scritti ambrosiani si possono classificare in esegetici, dogmatici, morali-ascetici, a cui bisogna aggiungere una non larga collezione di orazioni specialmente funebri, l’epistolario e gli inni liturgici. Dei trattati esegetici ce ne sono pervenuti una ventina, il più esteso e più noto dei quali è l’Hexaemeron in sei libri (sui sei giorni della creazione: Genesi I-II, 4).
A torto si è creduto che Ambrogio fosse l’introduttore del metodo allegorico nell’esegesi latina; però non vi è dubbio che egli ne sia stato il gran divulgatore. Poco derivò dai teologi latini suoi predecessori, ma attinse in larga copia dai teologi greci dai quali trasse non solo il metodo, ma anche il contenuto dottrinale dei suoi trattati. Filone e Origene furono gli autori principali a cui attinse Ambrogio, mettendo pure a larga contribuzione Ippolito e specialmente Basilio, l’Hexaemeron del quale egli stesso riproduce e parafrasa nel suo trattato dallo stesso titolo. Dominato da preoccupazioni di ordine pratico ed ansioso di trarre dai testi sacri ogni sorta di insegnamento positivo per istruzione del popolo, Ambrogio usò ed abusò del metodo allegorico, e servì di modello ai teologi latini posteriori. Molto pure derivò dagli scrittori profani, greci e latini, che ebbe familiari; così nell’Hexaemeron, a proposito della creazione degli animali, si dilunga a descriverne il comportamento e il simbolismo, specialmente degli uccelli, attingendo molte nozioni da Plinio, da Eliano e dai poeti, e creando così il modello a cui si ispirarono anche nell’ordine della trattazione gli Specula, in cui i teologi medievali descrissero l’universo e ne spiegarono il complicato simbolismo.
Delle opere dogmatiche di Ambrogio ci restano un trattato De fide, scritto nel 378 e poi rifatto nel 381, per uso dell’imperatore Graziano, tre libri De Spiritu Sancto, dedicati allo stesso, ed un trattato De Incarnationis dominicae sacramento, scritto nello stesso periodo. Più che altro sono affrettate complicazioni fatte sui trattati dogmatici (specialmente il De Spiritu Sancto) di Atanasio, Basilio, Didimo il Cieco, Gregorio di Nazianzio ed Epifanio. Girolamo, che indubbiamente aveva dei rancori contro Ambrogio (riflettendo forse in questo suo atteggiamento l’irritazione del circolo romano di papa Damaso contro l’inframmettenza di Ambrogio in affari che erano al di fuori della sua giurisdizione ecclesiastica), nella prefazione alla sua traduzione del trattato di Didimo, dedicata appunto a papa Damaso, diede un giudizio molto severo sul De Spiritu Sancto: «Preferisco farla da traduttore di lavori altrui, anziché, come fanno certuni, da cornacchia disgustosa che si adorna delle penne di altri. Lessi poco fa il lavoruccio di un tale [= Ambrogio] sullo Spirito Santo, e, come dice il poeta comico, ex Graecis bonis, vidi Latina non bona. Nulla di dialettico in esso, nulla di virile, nulla di convincente» (Patrologia latina, XXIII, c. 103). Ciononostante i trattati dogmatici di Ambrogio hanno una grande importanza nella storia della teologia latina, perché da essi i teologi occidentali derivarono in larga misura formulazioni dottrinali e processi di esposizione, caratteristici nella tradizione teologica. A questa classe di scritti si possono aggiungere il breve trattato De mysteriis, esposizione catechistica, in cui attraverso faticose parafrasi di testi biblici Ambrogio spiega il contenuto simbolico del rituale, e il trattato De paenitentia (commento al Salmo XXXVII) diretto contro i sopravviventi novazianisti che negavano alla Chiesa il potere di riconciliare i peccatori.
St. Gallen, Stiftsbibliothek. Cod. Sang. 97, Ambrosii de officiis ministrorum, p. 51.
Il trattato De officiis ministrorum rappresenta il primo tentativo di una sintesi dell’etica cristiana dedicato, giusta il titolo, al clero, ma di fatto a tutta la società cristiana. In questo lavoro, Ambrogio segue da vicino il De officiis di Cicerone, non solo nel piano generale dell’opera, ma anche nelle idee e spesso nelle espressioni, accomodando l’insegnamento stoico a quello biblico e dalla tradizione cristiana. Come è stato osservato (Thamin, Saint Ambroise et la morale chrétienne au IV siècle, Parigi 1895), Ambrogio prese dalla morale stoica, di cui Cicerone era stato l’interprete eloquente, una serie di nozioni, quali la distinzione tra la ragione e le passioni, l’argomento del bene supremo, la classificazione delle virtù, la distinzione tra doveri primari e doveri secondari, il valore attribuito al giudizio della coscienza, ecc. Però in Ambrogio queste nozioni sono compenetrate da uno spirito ben diverso e illuminate da ragioni superiori, ignote a Cicerone, e sanzionate con efficacia nuova. Di carattere morale-ascetico sono parecchi trattati ambrosiani, concernenti specialmente la verginità (De virginibus ad Marcellinam, De virginitate, De istitutione virginis, Exhortatio virginitatis, ecc.) presentata come la virtù essenzialmente cristiana ed esaltata con immagini e parole eloquenti quale istituzione divina. La continua ed entusiasta propaganda ambrosiana per la verginità provocò l’accusa che egli condannasse il matrimonio, e perciò contribuisse allo spopolamento; egli si difese riconoscendo l’ordinamento divino nel matrimonio. D’altra parte egli invitava a riflettere che là dove spasseggiano le vocazioni verginali s’addensa e s’accresce provvidenzialmente la popolazione. Con ciò, come è stato argutamente osservato (Ricerche religiose, IV, 1928, p. 185), Ambrogio scambiava ingenuamente l’effetto con la causa. La sua celebrazione della verginità e l’esempio della sua vita stessa, che fu tutta un nobile saggio di austerità e di pietà, contribuirono molto alla cristallizzazione nella tradizione cattolica latina di certi principi ascetici che influirono non poco in seguito all’intera disciplina ecclesiastica.
Le orazioni funebri (in morte del fratello Satiro, di Valentiniano II, e di Teodosio) sono tra i migliori esempi dell’eloquenza latina del IV secolo; in esse l’autore, pur usando abilmente di tutte le risorse dell’arte retorica, dà libero sfogo a sentimenti, affetti e reminiscenze personali, intrecciandovi considerazioni filosofiche, religiose e morali sulla morte e sulle vicende della storia umana. L’epistolario di Ambrogio comprende 91 lettere, parecchie delle quali però sono rapporti o scritti di origine non epistolare. Esse costituiscono un documento storico di primaria importanza, sia per la biografia di Ambrogio, sia perché, data la partecipazione di lui ad affari religiosi e politici, sono anche una fonte importante per la storia del tempo.
Coligny, Fondation Bodmer. Cod. Bodmer 127, Weissenau Passionale (XII sec.), f. 182v. Sant’Ambrogio officia un battesimo.
Non ultima fra le sue attività fu il contributo all’iconografia cristiana. Abbiamo già accennato come, durante i conflitti per il possesso delle basiliche di Mediolanum, Ambrogio tenesse occupato il popolo che faceva la guardia con il canto di inni e salmi. Egli stesso ne compose parecchi; ma degli innumerevoli inni che nelle raccolte vanno sotto il nome di “ambrosiani” soltanto una dozzina possono sicuramente attribuirsi a lui. Sono scritti nel metro classico (dimetro giambico) però, sebbene i versi siano strettamente quantitativi, la loro struttura mostra molta affinità con quella della poesia ritmica. Composti con lo scopo pratico di esporre la dottrina cattolica in modo da colpire l’immaginazione popolare, questi inni possiedono allo stesso tempo ammirevoli qualità: semplicità di frasi, evidenza d’immagini e fervore evangelico. Essi servirono di modello, e Ambrogio può a ragione considerarsi come il padre dell’innologia liturgica latina.
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