Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

***

Riferimenti bibliografici:

M.T.W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, Oxford 1972.

T.D. Barnes, Augustine, Symmachus, and Ambrose, in From Eusebius to Augustine: Selected Papers 1982-1993, Aldershot 1994, 7-13.

S.J.B. Barnish, Transformation, and Survival in the Western Senatorial Aristocracy, C.A.D. 400-700, PBSR 56 (1988), 120-155.

M. Bertolini, Sull’atteggiamento religioso di Q.A. Simmaco, SCO 36 (1987), 189-208.

H. Bloch, The Pagan Revival in the West, in A. Momigliano (ed.), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1964, 199-224.

R. Bonney, A New Friend for Symmachus?, Historia 24 (1975), 357-374.

G.W. Bowersock, Symmachus and Ausonius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 1-12.

P. Bruggisser, Gratia noui saeculi : Symmaque et le siècle de Gratien (Epist. 1, 13), MH 44 (1987), 134-149.

P. Bruggisser, Orator disertissimvs : A propos d’une lettre de Symmaque à Ambroise, Hermes 115 (1987), 106-115.

P. Bruggisser, Symmaque et la mémoire d’Hercule, Historia 38 (1989), 380-383.

P. Bruggisser, Symmaque, ou le rituel épistolaire de l’amitié littéraire. Recherches sur le premier livre de la correspondance, Fribourg 1993.

P. Bruggisser, Rarissimes païens. L’art du persiflage dans le Contre Symmaque de Prudence, Historia 51 (2002), 238-253.

R. Burgess, Quinquennial Vota, and the Imperial Consulship in the Fourth and Fifth Centuries, 337-511, NC 148 (1988), 77-96.

J.-P. Callu, Date et genèse du premier livre de Prudence contre Symmaque, REL 59 (1981), 235-260.

J.-P. Callu, Symmachus Nicomachis Filiis, in in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 17-40.

J.-P. Callu, Deux interpolations au Livre I ͤ ͬ des Lettres de Symmaque, in Y. Lehmann (éd.), Antiquité tardive et humanisme de Tertullien à Beatus Rhenanus: mélanges offerts à François Heim à l’occasion de son 70 Anniversaire, Turnhout 2005, 181-196.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Lettres, voll. I-IV, Paris 1972-2002.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Correspondance, Paris 2003.

J.-P. Callu (éd.), Culture profane et critique des sources de l’antiquité tardive: trente et une études de 1974 à 2003, Rome 2006.

J.-P. Callu (ed.), Symmaque Tome V. Discours – Rapports, Paris 2009.

A. Cameron, The Antiquity of the Symmachi, Historia 48 (1999), 477-505.

A. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011.

A. Cameron, The Origin, Context, and Function of Consular Diptychs, JRS 103 (2013), 174-207.

A. Cameron, Were Pagans Afraid to Speak Their Minds in a Christian World? The Correspondence of Symmachus, in M.R. Salzman, M. Sághi, R. Lizzi Testa (eds.), Pagans and Christians in Late Antiquity Rome: Conflict, Competition, and Coexistence in the Fourth Century, Cambridge 2016, 64-113 = in A. Cameron (ed.), Studies in Late Roman Literature and History, Bari 2016, 223-266.

F. Canfora, Sulla controversia per l’altare della Vittoria tra pagani e cristiani nel IV secolo, in Studi storici in onore di G. Pepe, Bari 1969, 103-126.

F. Canfora (ed.), Simmaco – Ambrogio, L’altare della Vittoria, Palermo 1991.

G.A. Cecconi, Commento storico al libro II dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 2002.

A. Chastagnol, L’évolution de l’ordre sénatorial aux IIIe et IVe siècles de notre ère, RhM 94 (1970), 305-314.

A. Chastagnol, Le Senat dans l’oevure de Symmaque, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 73-96.

A. Chastagnol, L’evoluzione dell’ordine senatorio nei secoli III e IV della nostra era, in S. Roda (ed.), La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 9-21.

R. Chenault, Statues of Senators in the Forum of Trajan and the Roman Forum in Late Antiquity, JRS 102 (2012), 103-132.

R. Chenault, “Thick Clouds and Continuous Cold”: The Date and Political Context of Symmachus’s Embassy to Trier, JLA 14 (2021), 213-228.

E. Colagrossi, Non uno itinere. La disputa tra Simmaco e Ambrogio nel quadro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo d.C., in E. Piazza (ed.), Quis est qui ligno pugnat? Missionari ed evangelizzazione nell’Europa tardoantica e medievale (secc. IV-XIII), Verona 2016, 81-98.

A. Coşkun, Symmachus, Ausonius und der “senex olim Garumnae alumnus”: Auf der Suche nach dem Adressaten von Symm. epist. 9,88, RhM 145 (2002), 120-128.

A. Coşkun, Q. Aurelius Symmachus und die Stadtpraefecten unter Kaiser Valentinian II. (a. 383-87), Prosopon 13 (2003), 1-11.

L. Cracco Ruggini, Simmaco e la poesia, in AA.VV., La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, Atti del V Corso della Scuola Superiore di Archeologia e civiltà medievali presso il Centro di Cultura Scientifica “E. Majorana”, Erice, 6-12 dicembre 1981, Messina 1984, 477-521.

L. Cracco Ruggini, Simmaco: otia e negotia di classe, fra conservazione e rinnovamento, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 97-118.

L. Cracco Ruggini, Rome in Late Antiquity: Clientship, Urban Topography, and Prosopography, CPh 98 (2003), 366-382.

S. Cristo, Quintus Aurelius Symmachus: A Political and Social Biography, Ph.D. diss. Fordham 1974.

S. Cristo, A Judicial Event in the Urban Prefecture of Symmachus, Latomus 36 (1977), 688-693.

I. D’Auria, Polemiche antipagane: Ambrogio (epist. 10, 73, 8) e Prudenzio (c. Symm. 2, 773-909) contro Simmaco (rel. 3, 10), StPatr 85 (2017), 1-14.

F. Del Chicca (ed.), Q. Aurelius Symmachus V.C. Laudatio in Valentinianum seniorem Augustum prior, Roma 1984.

F. Del Chicca, La struttura retorica del panegirico latino tardoimperiale in prosa. Teoria e prassi, AFLC 6 (1985), 79-113.

F. Del Chicca, Simmaco, Oratio 2, 17 e il tema polemica del pattuire pretio coi barbari, RCCM 28 (1986), 131-138.

F. Del Chicca, Per la datazione dell’Oratio 3 di Simmaco, Athenaeum 65 (1987), 534-541.

V. Del Core, Segnali di crisi nei frammenti panegiristici di Simmaco, in R. Angiolillo, E. Elia, E. Nuti (eds.), Crisi: immagini, interpretazioni e reazioni nel mondo greco, latino e bizantino, Atti del Convegno Internazionale dottorandi e giovani ricercatori, Torino, 21-23 ottobre 2013, Alessandria 2015, 73-84.

I. Dionigi, A. Traina, M. Cacciari (eds.), La maschera della tolleranza (Ambrogio, Epistole XVII e XVIII; Simmaco, Terza Relazione), Milano 2005.

S. Döpp, Prudentius’ Gedicht gegen Symmachus. Anlass und Struktur, JAC 23 (1980), 65-81.

O.N. Dorman, A Further Study of the Letters of Symmachus, Based on a New Manuscript of the Florilegium Group, TpAPhA 63 (1932), 45-53.

J.E. Dunlap, The Manuscripts of the “Florilegium” of the Letters of Symmachus, TpAPhA 57 (1926), xxv-xxvi = CPh 22 (1927), 391-398.

J.E. Dunlap, The Earliest Editions of the Letters of Symmachus, CPh 32 (1937), 329-340.

J.V. Ebbeler, C. Sogno, Religious Identity and the Politics of Patronage: Symmachus and Augustine, Historia 56 (2007), 230-242.

R.J. Edgeworth, Symmachus Ep. III.47: Books, Not Children, Hermes 120 (1992), 127-128.

W. Evenepoel, Ambrose vs. Symmachus: Christians and Pagans in AD 384, AncSoc 29 (1998-1999), 283-306.

S. Fascione, Inter sodales Apollinis ac Dianae sectator. Elementi di ripresa pliniana nell’epistolario di Simmaco, IFC 18 (2018/19), 259-276.

M. Forlin Patrucco, S. Roda, Le lettere di Simmaco ad Ambrogio. Vent’anni di rapporti amichevoli, in Ambrosius Episcopus. Atti del Congresso Internazionale di studi ambrosiani, Milano 2-7 dicembre 1974, II, Milano 1976, 284-297.

C.W. Fornara, Studies in Ammianus Marcellinus: I. The Letter of Libanius and Ammianus’ Connection with Antioch, Historia 41 (1992), 328-344.

E. Germino, La Relatio XXVII di Simmaco e l’ordo successionis del collegium archiatrorum di Roma, Koinonia 39 (2015), 249-272.

S. Giglio, A proposito della “Relatio” 49 di Q. Aurelio Simmaco, ARC 8 (1990), 579-597.

S. Giglio, Intorno alla “Relatio” 23 di Q. Aurelio Simmaco, SDHI 62 (1996), 309-330.

S. Giglio, Giurisdizione e fisco nelle “Relationes” di Q. Aurelio Simmaco, ARC 13 (2001),191-216.

B. Girotti, Nicomaco Flaviano, “historicus disertissimus”?, Hermes 143 (2015), 124-128.

C. Gnilka, Zur Rede der Roma bei Symmachus Rel. 3, Hermes 118 (1990), 464-470.

B. Goldlust, Rhétorique de l’éloge dans le livre 1 de la “Correspondance” de Symmaque: à propos de Symm., “Epist.”, 1,3,2 et de Aus., ap. Symm., “Epist.” 1,32,3, REAP 55 (2009), 215-224.

G. Haverling, Studies on Symmachus’ Language and Style, Göteborg 1988.

J. Hillner, Domus, Family, and Inheritance: The Senatorial Family House in Late Antique Rome, JRS 93 (2003), 129-145.

M. Humphries, Nec metu nec adulandi foeditate constricta: The Image of Valentinian I from Symmachus to Ammianus, in J.W. Drijvers, D. Hunt (eds.), The Late Roman World and its Historian: Interpreting Ammianus Marcellinus, London 1999, 117-126.

G. Ivascu, Clementia principis. An Aspect of the Imperial Power in Symmachus’ Works, C&C 15 (2020), 95-104.

G. Kelly, Pliny, and Symmachus, Arethusa 46 (2013), 261-287.

G. Kelly, The First Book of Symmachus’ Correspondence as a Separate Collection, in F.R. Moretti, R. Ricci, C. Torre (eds.), Culture and Literature in Latin Late Antiquity: Continuities and Discontinuities, Turnhout 2015, 197-220.

B. Kiilerich, Symmachus, Boethius, and the Consecratio Ivory Diptych, AntTard 20 (2012), 205-215.

R. Klein, Symmachus: eine tragische Gestalt des ausgehenden Altertums, Darmstadt 1971.

R. Klein, Der Streit um den Victoriaaltar ; die dritte Relatio des Symmachus und die Briefe 17, 18 und 57 des Mailänder Bischofs Ambrosius, Darmstadt 1972.

R. Klein, Die Romidee bei Symmachus, Claudian und Prudentius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 119-144.

R. Klein, Symmachus. Eine tragische Gestalt des ausgehenden Heidentums, Darmstadt 1986.

R. Klein, Die dritte Relatio des Symmachus. Ein denkwürdiges Zeugnis des untergehenden Heidentums, in U. Schmitzer (ed.), Suus cuique mos: Beiträge zur paganen Kultur des lateinischen Westens im 4. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2004, 25-58.

D. Lassandro, L’altare della vittoria: “letture” moderne di un’antica controversia, in A. Garzya (ed.), Metodologie della ricerca sulla tarda antichità. Atti del Primo Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1989, 443-450.

D. Lassandro, La controversia de ara Victoriae del 384 d.C. nell’età sua e nella riflessione dei moderni, in F. Bessone, E. Malaspina (eds.), Politica e cultura in Roma antica. Atti dell’incontro di studio in ricordo di Italo Lana (Torino, 16-17 ottobre 2003), Bologna 2005, 157-171.

D. Lassandro, Simmaco, Ambrogio e la controversia sull’altare della Vittoria, in B. Luiselli (ed.), Saggi di storia della cristianizzazione antica e altomedievale, Roma 2006, 213-224.

D. Lassandro, Una disputa religiosa tra il prefetto pagano Simmaco ed il vescovo Ambrogio sul finire del IV secolo d.C., Euphrosyne 35 (2007), 231-240.

D. Lassandro, I paradigmi della controversia ‘De ara Victoriae’ tra il senatore pagano Simmaco e il vescovo Ambrogio, in M. Marin, M. Veronese (eds.), Temi e forme della polemica in età cristiana (III-V secolo), Bari 2012, 359-368.

M. Lauria, De ara Victoriae virginibusque Vestalibus, SDHI 50 (1984), 235-280.

D. Liebs, Landraub und Gerechtigkeit in Rom 384 n. Chr.: (Symmachus, Relatio 28), in O. Behrends (ed.), Gerechtigkeit und Geschichte: Beiträge eines Symposions zum 65. Geburtstag von Malte Dießelhorst, Göttingen 1996, 90-106.

R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004.

R. Lizzi Testa, Alla corte dell’imperatore: Quinto Aurelio Simmaco e i suoi amici quaestores, in G. Crifò (ed.), XVI Convegno Internazionale in onore di Manuel J. Garcia Garrido, Napoli 2007, 325-364.

B. Marien, Symmachus’ Epistolary Influence: the Rehabilitation of Nicomachus Flavianus through Recommendation Letters, in K. Choda, M. Sterk de Leeuw, F. Schulz (eds.), Gaining and Losing Imperial Favour in Late Antiquity: Representation and Reality, Leiden 2019, 105-124.

A. Marcone, Commento storico al Libro VI dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1983.

A. Marcone, Simmaco e Stilicone, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 145-162.

A. Marcone, Commento storico al Libro IV dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1987.

A. Marcone, Praesentia tuae imago. Storia e preistoria di un topos epistolare e la corrispondenza di Simmaco, in J.-M. Carrié (éd.), “Humana sapit” : études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Turnhout 2002, 201-208.

A. Marcone, L’ultima aristocrazia pagana di Roma e le ragioni della politica, ITFC 8 (2008-2009), 99-111.

D. Matacotta, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, Firenze 1992.

J.F. Matthews, Symmachus and the “Magister Militum” Theodosius, Historia 20 (1971), 122-128.

J.F. Matthews, Symmachus, and the Oriental Cults, JRS 63 (1973), 175-195.

J.F. Matthews, The Letters of Symmachus, in J.W. Binns (ed.), Latin Literature of the Fourth Century, London-Boston 1974, 58-99.

J.F. Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court, A.D. 364-425, Oxford 1975.

J.F. Matthews, Symmachus and His Enemies, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 163-175.

J.A. McGeachy Jr., Quintus Aurelius Symmachus and the Senatorial Aristocracy of the West, diss. Chicago 1942.

S. McGill, The Right of Authorship in Symmachus’ Epistulae 1.31, CPh 104 (2009), 229-232.

B. Moroni, Il conflitto per l’altare della Vittoria in Ambrogio, De obitu Valent. 19-20, RIL 130 (1996), 237-263.

A.V. Nazzaro, L’utilizzazione di Virgilio nella disputa Simmaco-Ambrogio “De ara Victoriae”, in C. Gallico (ed.), Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, 245-261.

N. Marinone, Il medico Disario in Simmaco e Macrobio, Maia 25 (1973), 344-345.

S. Mazzarino, Tolleranza e intolleranza: la polemica sull’ara della Vittoria, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, 339-377.

G. Mazzoli, Prima fortuna medievale di Simmaco, Sandalion 2 (1979), 235-246.

G. Mazzoli, Corniger Hesperidum (Prud. c. Symm. II 606), CdM 8 (2019), 125-138.

P. Meloni, Il tempo e la storia in Simmaco e Ambrogio, SSR 1 (1977), 103-124.

P. Meloni, Il rapporto fra impegno politico e fede religiosa in Simmaco e Ambrogio, Sandalion 1 (1978), 153-170.

L.R. Miranda, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, CCM 17 (2013), 184-188.

A.F. Norman, On the Dating of Three Letters of Symmachus, ByZ 57 (1964), 1-5.

S. Olszaniec, The Two Prefects of 384 – Symmachus and Praetextatus, in K. Twardowska, M. Salamon, S. Sprawski, M. Stachura, S. Turlej (eds), Within the Circle of Ancient Ideas and Virtues. Studies in Honour of Professor Maria Dzielska, Kraków 2014, 233-242.

A. Pabst (ed.), Quintus Aurelius Symmachus, Reden = Orationes, Darmstadt 1989.

D.C. Pangerl, Von der Kraft der Argumente. Die Strategien des römischen Stadtpräfekten Symmachus und des Bischofs Ambrosius von Mailand beim Streit um den Victoriaaltar im Jahre 384, RQcAK 107 (2012), 1-20.

F. Paschoud, Réflexions sur l’idéal religieux de Symmaque, Historia 14 (1965), 215-235.

F. Paschoud, Symmaque, Jérome et l’Histoire Auguste, MH 57 (2000), 173-182.

A. Pellizzari, Commento storico al libro III dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco: introduzione, commento storico, testo, traduzione, indici, Pisa 1998.

A. Pelttari, Symmachus’ Epistulae 1.31 and Ausonius’ Poetics of the Reader, CPh 106 (2011), 161-169.

M. Petric, Corruption and Elites in Late Antiquity: The Case of Quintus Aurelius Symmachus, Keria 20 (2018), 63-87.

G. Polara, A proposito di Symm. epist. 2, 7, 3, in M. Paladini (ed.), Templa serena. Studi in onore di Enrico Flores, Napoli 2021, 261-266.

S.R. Rebenich, Augustinus im Streit zwischen Symmachus und Ambrosius um den Altar der Victoria, Laverna 2 (1991), 53-75.

S.R. Rebenich, “Pars melior humani generis” – Aristokratie(n) in der Spätantike, in H. Beck, P. Scholz, U. Walter (eds.), Die Macht der Wenigen. Aristokratische Herrschaftspraxis, Kommunikation und “edler” Lebensstil in Antike und Früher Neuzeit, München 2009, 153-175.

H. Remus, Apuleius to Symmachus (and Stops in Between): Pietas, Realia and the Empire, in S.G. Wilson, M. Desjardins (eds.), Text and Artifact in the Religions of Mediterranean Antiquity: Essays in honour of Peter Richardson, Waterloo 2000, 527-550.

S. Roda, Simmaco nel gioco politico del suo tempo, SDHI 39 (1973), 53-111.

S. Roda, Commento storico al libro IX delle epistole di Simmaco, Pisa 1981.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio?, REA 83 (1981), 273-280.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio? (Nota a proposito di Symm. Ep., IX, 88), in Mélanges à la mémoire de Franco Simone, Genève 1983, 27-37.

S. Roda, Polifunzionalità della lettera comendaticia: teoria e prassi nell’epistolario simmachiano, in La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 225-254.

K. Rosen, Fides contra dissimulationem. Ambrosius und Symmachus im Kampf um den Victoriaaltar, JAC 37 (1994), 29-36.

M.R. Salzman, Travel and Communication in the Letters of Symmachus, in L. Ellis, F.L. Kidner (eds.), Travel, Communication and Geography in Late Antiquity: Sacred and Profane, Aldershot 2004, 81-94.

M.R. Salzman, Symmachus and His Father: Patriarchy and Patrimony in the Late Roman Senatorial Elite, in R. Lizzi Testa (ed.), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica: Atti del Convegno Internazionale, Perugia, 15-16 marzo 2004, Roma 2006, 357-376.

M.R. Salzman, Symmachus’ Ideal of Secular Friendship, in É. Rebillard, C. Sotinel (éds.), Les frontières du profane dans l’Antiquité tardive, Rome 2010, 247-272.

M.R. Salzman, Symmachus’ Varro: Latin Letters in Late Antiquity, BICS 61 (2018), 92-105.

H. Schneider, Der Einspruch des Symmachus, in W. Geerlings, R.M. Ilgner (eds.), Monotheismus – Skepsis – Toleranz, Turnhout 2009, 73-210.

D.R. Shackleton Bailey, Critical Notes on Symmachus’ Private Letters, CPh 78 (1983), 315-323.

J.J. Sheridan, The Altar of Victory: Paganism’s Last Battle, AntClass 35 (1966), 186-206.

O. Seek (ed.), Q. Aurelii Symmachi quae supersunt, MGH AA 6, 1, Berlin 1883.

M. Siedow, Q. Aurelius Symmachus und die Netzwerke der spätrömischen Aristokratie soziale Netzwerkanalyse in der alten Geschichte?, in D. Bauerfeld, L. Clemens (eds.), Gesellschaftliche Umbrüche und religiöse Netzwerke. Analysen von der Antike bis zur Gegenwart, Bielefeld 2014, 13-43.

E. Simon, The Diptych of the Symmachi and Nicomachi: An Interpretation. In Memoriam Wolfgang F. Volbach 1892-1988, G&R 39 (1992), 56-65.

K. Smolak, Simmaco ed Enea. Alcune considerazioni riguardo a Prudenzio, Contra Symmachum 2,583-640, in M.G. Moroni (ed.), Poesia tardoantica e medievale: Atti del 6° Convegno Internazionale di Studi, Macerata, 3-5 dicembre 2013, Pisa 2018, 101-114.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Career between Senate and Court, New Haven 2002.

C. Sogno, Aegidius Beneventanus and the “Epistulae” of Q. Aurelius Symmachus, MJ 40 (2005), 407-416.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Biography, Ann Arbor 2006.

C. Sogno, Age, and Style in Late Antique Epistolography: Symmachus’ Polemics against the Rhetoric of the Old, in A. Classen (ed.), Old Age in the Middle Ages and the Renaissance: Interdisciplinary Approaches to a Neglected Topic, Berlin 2007, 85-102.

C. Sogno, The Letter Collection of Quintus Aurelius Symmachus, in Id., B.K. Storin, E.J. Watts (eds.), Late Antique Letter Collections: A Critical Introduction and Reference Guide, Oakland 2017, 175-189.

J. Straub, Germania Provincia. Reichsidee und Vertragspolitik im Urteil des Symmachus und der Historia Augusta, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 209-230.

C.-M. Ternes, Ambroise, Symmaque, deux cultures pour une Europe?, in R. Poignault, O. Wattel de Croizant (éds.), D’Europe à l’Europe. I. Le mythe d’Europe dans l’art et la culture de l’Antiquité au XVIII ͤ siècle. Actes du colloque tenu à l’ENS, Paris (24-26 avril 1997), Tours 1998, 117-130.

K. Thraede, Concordia Romana in der Antwort des Prudentius auf die dritte Relatio des Symmachus, in Id., E. Dassmann (eds.), Tesserae: Festschrift für Josef Engemann, Münster i. W. 1991, 380-394.

D. Vera, Commento storico alle “Relationes” di Quinto Aurelio Simmaco (Introduzione, commento, testo, traduzione, appendice sul libro X, 1-2, indici), Pisa 1981.

D. Vera, Simmaco e le sue proprietà: struttura e funzionamento di un patrimonio aristocratico del quarto secolo d.C., in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 231-276.

L.M.A. Viola, Quinto Aurelio Simmaco: lo splendore della Romanitas; la perfezione dell’uomo religioso romano-italiano e la costituzione della civiltà universale della Pace, Forlì 2010.

M. Vitiello, Emperor Theodosius’ Liberty, and the Roman Past, HSCPh 108 (2015), 571-620.

C. Vogler, Les médecins dans le Code Théodosien 13.3 et la Relatio 27 de Symmaque, in J.-J. Aubert (éd.), Droit, religion et société dans le Code Théodosien; troisièmes Journées d’Etude sur le Code Théodosien, Neuchâtel, 15-17 février 2007, Genève 2009, 327-373.

E. Walter, Die dritte Relatio des Symmachus und die Entgegnungen des Bischofs Ambrosius von Mailand und des Prudentius. Vorschlag für eine Unterrichts-Einheit, AU 20 (1977), 5-20.

J. Weisweiler, The Price of Integration. State and Élite in Symmachus’ Correspondence, in P. Eich, S. Schmidt-Hofner, C. Wieland (eds.), Der wiederkehrende Leviathan. Staatlichkeit und Staatswerdung in Spätantike und Früher Neuzeit, Heidelberg 2011, 343-373.

G. Wirth, Symmachus und einige Germanen, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 277-300.

J. Wytzes, Der Streit um den Altar der Viktoria: die Texte der betreffenden Schriften des Symmachus und Ambrosius mit Einleitung, Übersetzung und Kommentar, Amsterdam 1936.

P. Zanna, Ambrogio, Simmaco, Agostino: il dialogo tra retorica, religione e pastorale dei pagani, in L. Alici, R. Piccolomini, A. Pieretti (eds.), La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino, Roma 2005, 85-103.

M. Zelzer, Symmachus, Ambrosius, Hieronymus und das römische Erbe, StPatr 28 (1993), 146-160.

Gli Unni di Attila

di E. JAMES, I barbari (trad. it. S. Guerrini), Bologna 2011,100-102.

Prima di Attila, il re degli Unni era stato Rua, il quale aveva inaugurato la politica del ricatto, costringendo gli imperatori romani a pagare ingenti somme di denaro dietro la minaccia d’invasione. Dal 435 circa, per una decina di anni, Attila governò insieme al fratello Bleda; poi, stando agli autori latini, nel 445 il fratricidio lo avrebbe reso unico detentore del potere. È difficile comprendere fino a che punto fosse ambizioso. Fu certamente molto abile nell’estorcere oro agli imperatori. Inizialmente gli imperatori d’Oriente avevano accettato di versare agli Unni 350 libbre d’oro all’anno che, dal 438, salirono a 700. Nel 447 Attila invase l’Impero arrivando a minacciare la stessa Costantinopoli e pretese tutti i territori entro una distanza di cinque giorni di viaggio a sud del Danubio, oltre a 2.100 libbre d’oro all’anno e 6.000 libbre di arretrati. È stato calcolato che, fino al momento in cui l’imperatore smise di pagare, agli Unni furono versate più di 9 tonnellate d’oro[1].

Mappa del mondo romano nel 450 [Schulteis 2019, 18].

Le quattro grandi invasioni di Attila riguardarono dapprima l’Oriente – dove avanzò su Costantinopoli nel 442 e nei Balcani nel 447 – e, successivamente, l’Occidente con l’invasione della Gallia nel 451 – fermata dalla coalizione di armate barbariche messa insieme da Ezio – e nel 452 dell’Italia, dove fu probabilmente arrestata dall’intervento di papa Leone I Magno anziché da un miracolo, come vorrebbe la leggenda[2]. Prisco di Panion racconta che quando Attila giunse a Mediolanum vide un dipinto che raffigurava gli imperatori romani assisi in trono con ai loro piedi i corpi di Goti uccisi; quindi, avrebbe ordinato a un pittore di ritrarre lui stesso assiso in trono con gli imperatori che rovesciavano sacchi ricolmi d’oro ai suoi piedi[3]. D’altra parte, è possibile che le sue ambizioni siano andate oltre la semplice estorsione di denaro, anche se è oltremodo problematico stabilire se dobbiamo considerare la richiesta d’aiuto rivoltagli da Onoria, sorella di Valentiniano III, come indizio del fatto che gli era stata promessa in sposa, o se egli abbia veramente preteso come dote di Onoria l’Impero d’Occidente. Se queste furono le sue ambizioni, non le realizzò. L’Impero romano, nonostante tutti i problemi, aveva ancora una considerevole capacità di resistenza tanto che nel 451, con una battaglia campale, fu in grado di arrestare la formidabile invasione della Gallia e, nel 452, di respingere l’invasione dell’Italia. Attila morì l’anno seguente. Sembra che abbia avuto un’epistassi mentre stava festeggiando con una sua concubina; alcuni, peraltro, sostennero che fu la concubina ad assassinarlo, mentre altri ancora dissero che Ezio avrebbe prezzolato una delle sue guardie del corpo per eliminarlo[4]. Resta il fatto che Attila morì e in un brevissimo volgere di tempo anche l’Impero che egli aveva costruito si dissolse.

Guerriero unno. Illustrazione di P. Glodek.

Per Attila possediamo uno dei testi più interessanti fra tutti quelli che riguardano Roma e i barbari: il resoconto di Prisco di Panion relativo a un’ambasceria fatta presso la corte di Attila nel 449. Se ne è conservato un lungo frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò nel suo libro sulle ambascerie. Prisco fece parte della delegazione guidata dall’ambasciatore Massimino. Il resoconto evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato. Prisco descrive i palazzi di legno del regno di Attila, uno dei quali comprendeva un impianto termale in pietra costruito in stile romano da uno schiavo che aveva inutilmente sperato di ottenere in cambio la libertà. Gli stessi segretari di Attila erano Romani e lessero un documento di papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuoriusciti unni che si trovavano presso i Romani e di cui Attila voleva la restituzione. Addirittura, Attila era talmente furibondo con l’ambasciatore perché i fuggiaschi non erano già stati riconsegnati da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli se non fosse stato che, così facendo, avrebbe infranto i diritti degli ambasciatori[5].

Mór Than, La festa di Attila. Olio su tela, 1870. Budapest, Magyar Nemzeti Galéria.

Fu in occasione del suo secondo incontro con Attila che qualcuno si rivolse a Prisco porgendogli il saluto in greco. Prisco aveva già incontrato in precedenza tra gli Unni persone che parlavano il greco, ovvero prigionieri che si potevano facilmente riconoscere come tali dalle vesti cenciose e dai capelli luridi. Ma quest’uomo assomigliava a uno Scita ben vestito e dall’acconciatura curata. Disse di essere un mercante greco di una città sul Danubio; era stato fatto schiavo dagli Unni ma, avendo combattuto per loro, aveva riacquistato la propria libertà; adesso aveva una moglie barbara e dei figli e sosteneva di condurre una vita migliore rispetto a quella di prima. Poi, dato che Prisco ribatté a questo atteggiamento antipatriottico, il suo interlocutore pianse e dichiarò che le leggi romane erano giuste e gli ordinamenti buoni, ma i governanti li stavano corrompendo perché non se ne preoccupavano più così come avevano fatto gli antichi[6]. Dal testo si deduce che Prisco ebbe la meglio nella discussione, ma poco tempo dopo un’argomentazione analoga fu riproposta a Prisco da uno degli uomini di Attila, un Unno che gli ribadì, appunto, il concetto di fondo espresso dall’anonimo greco, sostenendo che essere schiavi di Attila fosse preferibile all’essere ricchi tra i Romani[7]. Prisco e Massimino fecero infine ritorno in patria, ma non senza essere stati prima testimoni di alcuni esempi pratici delle severe leggi di Attila: una spia impalata e alcuni schiavi arrestati per aver ammazzato in battaglia i loro padroni.

Nessun’altra fonte di quell’epoca ci offre altrettanti dettagli (e, con ogni probabilità, piuttosto attendibili) sui meccanismi delle ambascerie presso i barbari, sulla vita in mezzo a loro e sulla natura complessa e sfaccettata dei rapporti tra Romani e barbari.

***

Riferimenti bibliografici:

M.A. Babcock, The Stories of Attila the Hun’s Death. Narrative, Myths, and Meaning, Lewiston (N.Y.) – Queenston, Ontario, Lampeter, Edwin Mellen, 2001.

B.S. Bachrach, The Hun Army at the Battle of Chalons (451). An Essay in Military Demography, in K. Brunner, B. Merta (eds.), Ethnogenese und Überlieferung: Angewandte Methoden der Frühmittelalterfoschung, Wien-München 1994, 59-67.

B. Barry, Priscus of Panium, Byzantion 50 (1980), 18-61.

S.J.B. Barnish, Old Kaspars. Attila’s Invasion of Gaul in the Literary Sources, in J.F. Drinkwater, H. Elton (eds.), Fifth-Century Gaul. A Crisis of Identity?, Cambridge 1992, 38-48.

R.C. Blockley, The Fragmentary Classicising Historians of Later Roman Empire: Eunapius, Olympiodorus, Priscus and Malchus, II, Liverpool 1983.

I. Boná, Les Huns : Le grand empire barbare d’Europe, IV ͤ-V ͤ siècles, Paris 2002.

A. Ferrill, The Fall of the Roman Empire: The Military Explanation, London 1986.

A. Gillett, Envoys and Political Communication in the Late Antique West, 411-533, Cambridge 2003.

H. Gracanin, The Western Roman Embassy to the Court of Attila in A.D. 449, ByzSlav 6 (2003), 53-74.

G. Halsall, Barbarian Migrations and the Roman West, Cambridge 2007.

M. Hardt, The Nomad’s Greed for Gold; from the Fall of the Burgundians to the Avar Treasure, in R. Corradini, M. Diesenberger, H. Reimitz (eds.), The Construction of Communities in the Early Middle Ages: Texts, Resources and Artefacts, Leiden-Boston 2003, 95-107.

P. Heather, The Huns and the End of the Roman Empire in Western Europe, HER 110 (1995), 4-41.

Id., The Fall of the Roman Empire: A New History of Rome and the Barbarians, Oxford 2006.

C. Kelly, Attila the Hun: Barbarian Terror and the Fall of the Roman Empire, London 2008.

B.D. Shaw, «Eaters of Flesh and Drinkers of Milk». The Ancient Mediterranean Ideology of the Pastoral Nomad, AS 13/14 (1982-1983), 5-31.

U. Tackholm, Aetius and the Battle on the Catalaunian Fields, OpRom 7 (1969), 259-276.

E.A. Thompson, The Huns, Oxford 1996.


[1] Hardt 2003, 97.

[2] Vd. Gillett 2003, 114-115.

[3] Priscus, F 22, 3 = Suid. μ 405 = K 2123, Μεδιόλανον: πολυάνθρωπος πόλις, ἣν καταλαβὼν Ἀττήλας ἠνδραποδίσατο. ὡς δὲ εἶδεν ἐν γραφῇ τοὺς μὲν Ῥωμαίων βασιλεῖς ἐπὶ χρυσῶν θρόνων καθημένους, Σκύθας δὲ ἀνῃρημένους καὶ πρὸ τῶν σφῶν ποδῶν κειμένους, ζητήσας ζωγράφον ἐκέλευσεν αὑτὸν μὲν γράφειν ἐπὶ θάκου, τοὺς δὲ Ῥωμαίων βασιλεῖς κωρύκους φέρειν ἐπὶ τῶν ὤμων καὶ χρυσὸν πρὸ τῶν αὑτοῦ χέειν ποδῶν («Milano: città molto popolosa, che Attila conquistò e sottomise. Come vide che in un affresco erano rappresentati gli imperatori romani2 assisi su troni aurei e alcuni Sciti uccisi giacenti ai loro piedi, mandò a cercare il pittore e gli ordinò di rappresentare lui stesso sul seggio e invece gli imperatori romani che recavano sacchi sulle spalle e ne versavano oro ai suoi piedi»)

[4] Malala, Chron. 14, 10 (279 Thun). Vd. Babcock 2001.

[5] Priscus, F 8 = Exc. De leg. Rom. 47-71.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

Aurelio Ambrogio, vescovo di Milano

di G. La Piana, in Enciclopedia Biografica Universale, I, Moncalieri 2006, pp. 434-442.

 

Aurelio Ambrogio nacque verso il 330 o poco prima, da famiglia romana, e probabilmente ad Augusta Treverorum, dove il padre, che era uno dei quattro prefetti del pretorio dell’Impero, aveva allora la sua residenza. Morto questi verso il 354, la vedova con i suoi figli, Satiro, Marcellina e Ambrogio, tornò a Roma, dove Ambrogio si preparò a percorrere il cursus honorum delle pubbliche magistrature. Verso il 372 o 373 per la protezione di Sesto Petronio Probo, prefetto del pretorio d’Italia, fu nominato consularis della Liguria e dell’Aemilia, con sede a Mediolanum. Era allora vescovo di quella città Aussenzio, nativo della Cappadocia e di parte ariana, durante il lungo episcopato del quale (335-374), la parte cattolica aveva sofferto molte vessazioni. Alla sua morte scoppiò quindi un vivo conflitto. Ambrogio, che per dovere d’ufficio interveniva alle riunioni, venne egli stesso eletto vescovo per acclamazione, sebbene fosse un laico, anzi non avesse ricevuto ancora neppure il battesimo. Questa elezione contraria ai canoni che proibivano l’elevazione di laici all’episcopato, fu, a quanto pare, dovuta all’entusiasmo del popolo per il suo giovane governatore, seppure non fu il risultato di un compromesso tra i due partiti. Ambrogio cercò di sottrarsi all’inaspettato incarico, ma cedette all’ordine espresso dell’imperatore ed in pochi giorni ricevette il battesimo, gli ordini e la consacrazione episcopale (7 dicembre 374).

Mosaico di Sant’Ambrogio. Dalla cappella di S. Vittore in Ciel d’oro, fine IV secolo d.C. Basilica di S. Ambrogio.

Da vescovo di Mediolanum, che era allora la residenza preferita degli imperatori d’Occidente, Ambrogio si trovò mescolato ai più grandi avvenimenti politici e religiosi del tempo, vi prese parte attiva assumendo spesso posizione di battaglia, ed esercitò una grande influenza in nome di un’autorità morale e religiosa, di cui egli si considerava in tutta coscienza come il depositario autorizzato da Dio. Morì a Mediolanum il 4 aprile 397.

L’autorità di cui Ambrogio godette presso gli imperatori del suo tempo, prima Graziano, poi Valentiniano II e Teodosio, mirò principalmente ad assicurare l’adozione di più severe misure contro i culti pagani, a togliere gli ariani o arianeggianti l’appoggio del potere civile e a ristabilire la pace nella Chiesa. Graziano fu il primo imperatore a rinunciare al titolo di pontifex maximus e con lui la legislazione romana prese quell’atteggiamento definitivamente ostile ai culti tradizionali di Roma, che culminò nell’editto del 382 in cui si ordinava la rimozione della statua della Vittoria dalla Curia romana. L’editto provocò una forte resistenza e vive proteste da parte dei senatori pagani; ma frattanto Graziano veniva assassinato a Lugdunum dall’usurpatore Massimo che rimaneva padrone delle Galliae, lasciando l’Italia a Valentiniano II.

Valentiniano II. Busto, marmo, 387-390 d.C. da Aphrodisias. Museo Archeologico di Istanbul.

Simmaco, senatore e prefetto di Roma, indirizzò al nuovo imperatore un’eloquentissima difesa dei culti patri, producendo un’impressione vivissima nel circolo imperiale. Ambrogio venne alla riscossa prima con una vibrata lettera all’imperatore (Ep., XVII), poi con una minuziosa confutazione della difesa di Simmaco (Ep., XVIII). L’editto di Graziano fu confermato, ma la questione si trascinò ancora sino a che non fu più tardi risolta da Teodosio in favore della parte cristiana. Il Cristianesimo diveniva oramai religione di Stato. La difesa di Simmaco e le due lettere di Ambrogio sono documenti eloquenti della nuova situazione. Simmaco non domandava che una benevola tolleranza per la religione antica, affinché «la religione romana non fosse messa fuori dal diritto romano» e concludeva con il solito spunto apologetico delle calamità dell’Impero, quale punizione degli dèi trascurati e rinnegati. Ma su questo punto di facile confutazione, Ambrogio appunta i suoi strali e la sua ironia; al paganesimo implorante tolleranza, egli rinfaccia la sua intolleranza sanguinosa verso i cristiani nel passato; giustifica la confisca delle proprietà delle istituzioni religiose tradizionali con l’affermare che neppure la Chiesa cristiana domandava possessi temporali, poiché quanto essa possedeva era in realtà dei poveri. Ma, soprattutto, Ambrogio ricordava all’imperatore il suo dovere di cristiano e minacciava d’incorrere in sacrilegio se avesse annuito alla richiesta di Simmaco. Tutto il programma religioso-politico della Chiesa medievale si trova già in nuce nelle parole di Ambrogio.

Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico dedicato all’apoteosi del senatore. London, British Museum.

Le due successive missioni diplomatiche affidate ad Ambrogio presso l’usurpatore Massimo (la prima nell’inverno del 383-384, la seconda generalmente assegnata al 386-87, ma avvenuta forse nel 385), ebbero scopo puramente politico. Si trattava di persuadere Massimo a non invadere l’Italia, lasciandola al fanciullo Valentiniano II sotto la tutela della madre Giustina. Non pare che Ambrogio ottenesse molto dall’usurpatore (Ep., XXIV). Nel 388 Massimo invase l’Italia e conquistò Roma, ma sopravvenuto Teodosio dall’Oriente, fu battuto e massacrato dai soldati ad Aquileia. Nonostante questi servigi resi a Valentiniano II, Ambrogio durante il 385 e il 386 dovette sostenere fierissime lotte con la corte che favoriva la fazione ariana. L’imperatrice, Giustina, era rimasta attaccata alla confessione semi-ariana di Ariminium e la corte era piena di generali e di funzionari di origine germanica ed ariani. Ripetuti editti imperiali durante quei due anni, specialmente all’avvicinarsi delle feste pasquali, ordinavano che si consegnassero alcune basiliche agli ariani. Il rifiuto energico del vescovo e i tumulti del popolo fedele ad Ambrogio ne impedirono l’esecuzione. Le basiliche furono invase dalla popolazione, che vi si accampò per giorni al fine di impedirne l’ingresso ai soldati, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza. Ambrogio, sfidando il potere civile, commentava frattanto al popolo passi dei libri sacri (Ep., XX) e teneva occupata la moltitudine, specialmente nelle lunghe ore di veglia, col canto d’inni e salmi a cori alternati, usanza già praticata in Oriente e che da allora divenne comune anche nelle chiese occidentali. La fermezza di Ambrogio, che non esitava a negare in modo assoluto ogni diritto del potere civile d’intervenire nell’amministrazione della Chiesa (Ep., XXI), finalmente vinse e l’imperatore, che non osava far mettere le mani addosso al vescovo tanto popolare, cedette. Le relazioni tra Teodosio e Ambrogio furono sempre improntate a mutua stima e grande rispetto; ma in due occasioni Ambrogio non esitò a censurare l’imperatore e a domandare riparazioni. In Kallinikos, città dell’Osroene, erano scoppiati tumulti durante i quali, sembra ad istigazione del vescovo, una sinagoga giudaica venne incendiata e distrutta. Teodosio ordinò che si punissero i colpevoli e che si riedificasse la sinagoga a spese del vescovo. Ad Ambrogio ciò parve un insulto alla Chiesa cristiana e in una lettera all’imperatore (Ep., XL) qualificava di sacrilegio l’ordine di usare il patrimonio della Chiesa (del vescovo) per edificare una sinagoga. E poiché Teodosio, convinto dell’equità del suo giudizio, non cedeva, un giorno Ambrogio pronunciò in chiesa alla presenza dell’imperatore una violenta invettiva contro i Giudei esclusi dalla grazia e dalla redenzione per la loro cecità, e ricordò energicamente a Teodosio i benefici ricevuti da Dio e dalla Chiesa (Ep., XLI, alla sorella Marcellina). L’editto fu ritirato. Con ciò Ambrogio incitava la legislazione romana ad adottare regolarmente misure restrittive contro tutta una parte dei cittadini che non fossero cristiani. Il secondo incidente fu quello del massacro di Thessalonika ordinato da Teodosio in un momento d’ira, al ricevere la notizia che durante un tumulto il governatore ed altri funzionari imperiali erano stati assassinati. La lettera di Ambrogio a Teodosio (Ep., LI) è un documento nobilissimo di coraggio e di alto senso morale. Vi si denunzia l’enormità della repressione che aveva fatto tante vittime innocenti e dell’imperatore stesso un reo di grave peccato da espiarsi pubblicamente prima di presentarsi all’altare. Per otto mesi Teodosio resistette, ma, avvicinandosi il Natale, domandò la riconciliazione, si sottomise ad una penitenza pubblica e fu riammesso alla comunione. Il racconto dello storico Teodoreto, col drammatico incontro dell’imperatore e di Ambrogio dinanzi alla porta della basilica e le impressionanti umiliazioni pubbliche a cui Teodosio si sarebbe sottomesso, sembra in gran parte leggendario; ma ciò nulla toglie al valore morale e storico dell’episodio.

Iscrizione onorifica di Q. Fabio Memmio Simmaco per il padre Q. Aurelio Simmaco (CIL VI 1699). Base di statua, marmo, 402 d.C. Roma, Musei Capitolini:
Q(uinto) Aur(eli) Symmacho v̅(iro) (larissimo),
quaest(ori), praet(ori), pontifici
maiori, correctori
Lucaniae et Brittiorum,
comiti ordinis tertii,
procons(uli) Africae, praef(ecto)
urb(i), co̅(n)(uli) ordinario,
oratori disertissimo,
Q(uintus) Fab(ius) Memm(ius) Symmachus
v(ir) c(larissimus) patri optimo.

Uomo di governo e di spirito pratico, Ambrogio fu un fedele sostenitore delle istituzione pubbliche dell’Impero, ma in lui le virtù romane erano illuminate dalle ragioni superiori dello spiritualismo e dalla morale cristiana; ed egli non esitò mai a sostenere di fronte ai sovrani, e con straordinaria fermezza, i diritti della legge divina e di quella ecclesiastica. Sebbene invocasse qualche volta l’appoggio del potere civile, come nel caso degli Orientali, si può dire che in massima parte Ambrogio ripudiasse ogni forma di ingerenza di esso in affari ecclesiastici e condannasse i costanti abusi che di tale ingerenza facevano i vescovi. Ridonda pure ad onore di Ambrogio l’aver rifiutato ogni comunione con i vescovi che avevano portato innanzi la corte dell’imperatore Massimo la causa di Priscilliano, provocandone la condanna a morte, e l’aver deplorato lo spargimento di sangue per divergenze dottrinali.

Camillo Procaccini, Ambrogio impone la penitenza a Teodosio (390). Affresco, 1603. Duomo di Milano.

Tra le grandi figure di vescovi del IV secolo quella di Ambrogio è una delle più cospicue per lo zelo instancabile nell’adempimento della sua missione. Le lotte e le controversie dottrinali contro eretici e dissidenti, la formazione morale del clero, l’istruzione religiosa del popolo, la direzione delle anime dedite all’ascetismo, la restaurazione e la fabbrica di nuove basiliche, la regolarizzazione della liturgia, il culto dei martiri e la cura dei poveri, degli orfani e dei bisognosi, furono il campo in cui Ambrogio lasciò tracce profonde della sua attività. Il suo epistolario è ricco di informazioni a questo riguardo. Da esso apprendiamo (Ep., XXII) il famoso episodio dell’invenzione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio, avvenuta proprio quando i torbidi di Mediolanum per la questione delle basiliche reclamate dagli ariani avevano raggiunto il periodo più acuto. Le agiografie del tempo sono piene di racconti di visioni rivelatrici di luoghi dove corpi di martiri giacevano ignorati; e, come osserva il Duchesne (Histoire ancienne de l’Eglise, II, Parigi 1907, p. 554) Ambrogio divenne abilissimo in tali scoperte e così più tardi trovò a Bononia la tomba dei santi Vitale ed Agricola e di nuovo a Mediolanum quelle dei santi Nazario e Celso. Ma l’attività di Ambrogio si esercitò anche fuori dell’ambito della sua chiesa. Non di rado egli prese l’iniziativa in affari di ordine generale e la sua autorità era così rispettata, che a lui, più ancora che ai vescovi di Roma, si rivolgevano quanti cercavano che la Chiesa riorganizzasse i propri ordinamenti e mettesse riparto al processo di disgregamento prodotto dalla crisi ariana. All’opera di restaurazione della Chiesa occidentale Ambrogio prese parte vivissima; impedì l’elezione di vescovi arianeggianti, altri ne fece deporre, e fu l’anima di parecchi sinodi, tra cui quelli ai Aquileia (382?), di Roma (387), di Capua (391): uno ne convocò egli stesso a Mediolanum, in cui fu condannato Gioviniano per i suoi attacchi contro la verginità. Il suo interessamento si estendeva a tutte le chiese ed egli non risparmiava consigli e suggerimenti, esortazioni e minacce e soprattutto non lasciava passare occasione per distogliere gli imperatori dal favorire coloro che, a suo giudizio, nuocevano alla Chiesa. Si occupò vivamente anche degli affari della Chiesa orientale sebbene il suo intervento in cose, di cui evidentemente era mal informato, riuscisse in fondo più dannoso che utile alla pace. L’appoggio dato a Paolino, contro il vescovo Melezio di Antiochia, l’errore commesso nel sostenere anche per poco la causa del malfamato Massimo detto il Cinico, pretendente alla sede di Costantinopoli contro Gregorio di Nazianzo e il suo successore Nettario, non fecero che acuire il risentimento degli Orientali contro l’intervento degli Occidentali, che nulla capivano della situazione vera di quelle chiese e che stranamente diffidavano della sincerità di quel gruppo di vescovi capitanati dai grandi Dottori cappadoci, i quali si sforzavano di ristabilire la concordia dopo tante tragiche lotte e dolorose scissioni.

Vaticano, BAV. Ms. Vat. gr. 1613. Menologion di Basilio II (X-XI sec.), f. 249r. Ambrogio in preghiera.

Quale autore di trattati dottrinali e morali, Ambrogio è annoverato tra i grandi dottori della Chiesa latina. Al tempo della sua elevazione all’episcopato, egli difettava interamente di preparazione teologica e, come dice egli stesso, si trovò nella necessità d’insegnare prima ancora di aver imparato. Imparò presto e bene; ma sia per il carattere pratico della sua mentalità, sia perché tutto preso dalle esigenze del governo ecclesiastico, Ambrogio non fece opera originale di speculazione teologica e di esposizione morale. Più che altro, egli fu un divulgatore. I suoi trattati teologici non sono che collezioni di sermoni predicati al popolo e poi raccolti e messi insieme da lui stesso per istruzione ed edificazione dei fedeli. Gli scritti ambrosiani si possono classificare in esegetici, dogmatici, morali-ascetici, a cui bisogna aggiungere una non larga collezione di orazioni specialmente funebri, l’epistolario e gli inni liturgici. Dei trattati esegetici ce ne sono pervenuti una ventina, il più esteso e più noto dei quali è l’Hexaemeron in sei libri (sui sei giorni della creazione: Genesi I-II, 4).

A torto si è creduto che Ambrogio fosse l’introduttore del metodo allegorico nell’esegesi latina; però non vi è dubbio che egli ne sia stato il gran divulgatore. Poco derivò dai teologi latini suoi predecessori, ma attinse in larga copia dai teologi greci dai quali trasse non solo il metodo, ma anche il contenuto dottrinale dei suoi trattati. Filone e Origene furono gli autori principali a cui attinse Ambrogio, mettendo pure a larga contribuzione Ippolito e specialmente Basilio, l’Hexaemeron del quale egli stesso riproduce e parafrasa nel suo trattato dallo stesso titolo. Dominato da preoccupazioni di ordine pratico ed ansioso di trarre dai testi sacri ogni sorta di insegnamento positivo per istruzione del popolo, Ambrogio usò ed abusò del metodo allegorico, e servì di modello ai teologi latini posteriori. Molto pure derivò dagli scrittori profani, greci e latini, che ebbe familiari; così nell’Hexaemeron, a proposito della creazione degli animali, si dilunga a descriverne il comportamento e il simbolismo, specialmente degli uccelli, attingendo molte nozioni da Plinio, da Eliano e dai poeti, e creando così il modello a cui si ispirarono anche nell’ordine della trattazione gli Specula, in cui i teologi medievali descrissero l’universo e ne spiegarono il complicato simbolismo.

Delle opere dogmatiche di Ambrogio ci restano un trattato De fide, scritto nel 378 e poi rifatto nel 381, per uso dell’imperatore Graziano, tre libri De Spiritu Sancto, dedicati allo stesso, ed un trattato De Incarnationis dominicae sacramento, scritto nello stesso periodo. Più che altro sono affrettate complicazioni fatte sui trattati dogmatici (specialmente il De Spiritu Sancto) di Atanasio, Basilio, Didimo il Cieco, Gregorio di Nazianzio ed Epifanio. Girolamo, che indubbiamente aveva dei rancori contro Ambrogio (riflettendo forse in questo suo atteggiamento l’irritazione del circolo romano di papa Damaso contro l’inframmettenza di Ambrogio in affari che erano al di fuori della sua giurisdizione ecclesiastica), nella prefazione alla sua traduzione del trattato di Didimo, dedicata appunto a papa Damaso, diede un giudizio molto severo sul De Spiritu Sancto: «Preferisco farla da traduttore di lavori altrui, anziché, come fanno certuni, da cornacchia disgustosa che si adorna delle penne di altri. Lessi poco fa il lavoruccio di un tale [= Ambrogio] sullo Spirito Santo, e, come dice il poeta comico, ex Graecis bonis, vidi Latina non bona. Nulla di dialettico in esso, nulla di virile, nulla di convincente» (Patrologia latina, XXIII, c. 103). Ciononostante i trattati dogmatici di Ambrogio hanno una grande importanza nella storia della teologia latina, perché da essi i teologi occidentali derivarono in larga misura formulazioni dottrinali e processi di esposizione, caratteristici nella tradizione teologica. A questa classe di scritti si possono aggiungere il breve trattato De mysteriis, esposizione catechistica, in cui attraverso faticose parafrasi di testi biblici Ambrogio spiega il contenuto simbolico del rituale, e il trattato De paenitentia (commento al Salmo XXXVII) diretto contro i sopravviventi novazianisti che negavano alla Chiesa il potere di riconciliare i peccatori.

St. Gallen, Stiftsbibliothek. Cod. Sang. 97, Ambrosii de officiis ministrorum, p. 51.

Il trattato De officiis ministrorum rappresenta il primo tentativo di una sintesi dell’etica cristiana dedicato, giusta il titolo, al clero, ma di fatto a tutta la società cristiana. In questo lavoro, Ambrogio segue da vicino il De officiis di Cicerone, non solo nel piano generale dell’opera, ma anche nelle idee e spesso nelle espressioni, accomodando l’insegnamento stoico a quello biblico e dalla tradizione cristiana. Come è stato osservato (Thamin, Saint Ambroise et la morale chrétienne au IV siècle, Parigi 1895), Ambrogio prese dalla morale stoica, di cui Cicerone era stato l’interprete eloquente, una serie di nozioni, quali la distinzione tra la ragione e le passioni, l’argomento del bene supremo, la classificazione delle virtù, la distinzione tra doveri primari e doveri secondari, il valore attribuito al giudizio della coscienza, ecc. Però in Ambrogio queste nozioni sono compenetrate da uno spirito ben diverso e illuminate da ragioni superiori, ignote a Cicerone, e sanzionate con efficacia nuova. Di carattere morale-ascetico sono parecchi trattati ambrosiani, concernenti specialmente la verginità (De virginibus ad Marcellinam, De virginitate, De istitutione virginis, Exhortatio virginitatis, ecc.) presentata come la virtù essenzialmente cristiana ed esaltata con immagini e parole eloquenti quale istituzione divina. La continua ed entusiasta propaganda ambrosiana per la verginità provocò l’accusa che egli condannasse il matrimonio, e perciò contribuisse allo spopolamento; egli si difese riconoscendo l’ordinamento divino nel matrimonio. D’altra parte egli invitava a riflettere che là dove spasseggiano le vocazioni verginali s’addensa e s’accresce provvidenzialmente la popolazione. Con ciò, come è stato argutamente osservato (Ricerche religiose, IV, 1928, p. 185), Ambrogio scambiava ingenuamente l’effetto con la causa. La sua celebrazione della verginità e l’esempio della sua vita stessa, che fu tutta un nobile saggio di austerità e di pietà, contribuirono molto alla cristallizzazione nella tradizione cattolica latina di certi principi ascetici che influirono non poco in seguito all’intera disciplina ecclesiastica.

Le orazioni funebri (in morte del fratello Satiro, di Valentiniano II, e di Teodosio) sono tra i migliori esempi dell’eloquenza latina del IV secolo; in esse l’autore, pur usando abilmente di tutte le risorse dell’arte retorica, dà libero sfogo a sentimenti, affetti e reminiscenze personali, intrecciandovi considerazioni filosofiche, religiose e morali sulla morte e sulle vicende della storia umana. L’epistolario di Ambrogio comprende 91 lettere, parecchie delle quali però sono rapporti o scritti di origine non epistolare. Esse costituiscono un documento storico di primaria importanza, sia per la biografia di Ambrogio, sia perché, data la partecipazione di lui ad affari religiosi e politici, sono anche una fonte importante per la storia del tempo.

Coligny, Fondation Bodmer. Cod. Bodmer 127, Weissenau Passionale (XII sec.), f. 182v. Sant’Ambrogio officia un battesimo.

Non ultima fra le sue attività fu il contributo all’iconografia cristiana. Abbiamo già accennato come, durante i conflitti per il possesso delle basiliche di Mediolanum, Ambrogio tenesse occupato il popolo che faceva la guardia con il canto di inni e salmi. Egli stesso ne compose parecchi; ma degli innumerevoli inni che nelle raccolte vanno sotto il nome di “ambrosiani” soltanto una dozzina possono sicuramente attribuirsi a lui. Sono scritti nel metro classico (dimetro giambico) però, sebbene i versi siano strettamente quantitativi, la loro struttura mostra molta affinità con quella della poesia ritmica. Composti con lo scopo pratico di esporre la dottrina cattolica in modo da colpire l’immaginazione popolare, questi inni possiedono allo stesso tempo ammirevoli qualità: semplicità di frasi, evidenza d’immagini e fervore evangelico. Essi servirono di modello, e Ambrogio può a ragione considerarsi come il padre dell’innologia liturgica latina.