ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Elena, nell’immaginario comune, è la donna infedele. È colei che non ha esitato ad abbandonare il marito, la casa e la famiglia, per gettarsi in una vicenda d’amore extra-coniugale irrispettosa di tutto e di tutti, al punto da causare una guerra. Non una guerra qualsiasi, ma la progenitrice epica di tutte le guerre, che ha visto contrapposti gli eserciti di tutto il mondo egeo. È facile etichettare così il personaggio di Elena: una donna bellissima, in grado di stregare ogni uomo, ma portatrice anche di guai e di sventure. Purtroppo, o per fortuna, Omero non rende il giudizio così semplice: l’Elena che ha saputo affrontare e violare ogni convenzione etica e tradizionale per fuggire con l’uomo che ama, viene rappresentata a Troia intenta alle stesse attività praticate dalle altre donne che non hanno mai lasciato il focolare; anche lei, come le altre spose d’eroi, tesse la tela. C’è qualcosa di molto stonato rispetto al ritratto di femme fatale che sembrava essere stato delineato fin dall’inizio.
Ma il vero colpo di scena deve ancora arrivare: Elena viene raggiunta da Iris, la dea dell’arcobaleno, messaggera degli dèi, che le annuncia che suo marito, Menelao, re di Sparta, tradito e furibondo, è in procinto di affrontare in duello il suo amante, Paride Alessandro. Lei, Elena, è il trofeo in palio per il vincitore della contesa. Altro che libertà, altro che padrona del proprio destino!
Pittore di Stoccolma 1999. Elena e Paride. Lato A di un cratere a campana apulo a figure rosse, c. 380-370 a.C. da Taranto. Paris, Musée du Louvre.
La donna, a quel punto, si lascia andare a un sentimento davvero imprevedibile per la seduttrice disinibita che il lettore moderno presumeva di conoscere: Ὣς εἰποῦσα θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ / ἀνδρός τε προτέρου καὶ ἄστεος ἠδὲ τοκήων· / αὐτίκα δ’ ἀργεννῇσι καλυψαμένη ὀθόνῃσιν / ὁρμᾶτ’ ἐκ θαλάμοιο τέρεν κατὰ δάκρυ χέουσα (Il. III 139-142, «Così dicendo la dea le ispirava nel cuore desiderio struggente / del marito di prima, della sua città, dei suoi genitori; subito, copertasi con un velo di bianchezza splendente, / si slanciò fuori della stanza, versando una tenera lacrima»).
Allora Elena ha una coscienza, si rende conto di quello che ha fatto, capisce, infine, che la libertà – sempre che sia riuscita a ottenerla – impone un prezzo molto alto: la rinuncia alla comodità, alle sicurezze, agli affetti e alle cose care. Certo, ci potrebbe essere il conforto della bellezza di Paride e del suo coraggio, che Elena spera dimostri contro il terribile Menelao. E, invece, Paride fugge, lasciando il suo elmo in mano all’avversario; anzi no, si dilegua, protetto da una provvidenziale nebbia divina! Adesso l’amante aspetta Elena a letto per fare l’amore. Quel letto, unico campo di battaglia dove il suo amato sembra riuscire a sfoggiare talento e ardimento! Ma, allora, chi è Elena? Una donna senza scrupoli e pudore, o una donna in cerca della libertà e della felicità?
Sorge perfino qualche dubbio sul suo matrimonio con il re di Sparta; perché Menelao, il cui nome significa «repressore del popolo» (da μένειν, «restare», «rimanere», e λαός, «popolo»), sembra in grado di apprezzare soltanto la bellezza fisica della sua sposa. Il dubbio, dunque, persiste, e l’aedo iliadico non fa nulla per dissiparlo. Chi è Elena?
Pittore di Brygos. Menelao ed Elena. Pittura vascolare su una λήκυθος attica a figure rosse, c. 480 a.C. da Armento. Berlin, Altes Museum.
L’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini (c. 483-380 a.C.) cerca di scagionare totalmente la donna dall’accusa di aver provocato la guerra. Seguendo la struttura di un’orazione giudiziaria (proemio, esordio, esposizione, confutazione, ricapitolazione, epilogo), l’autore assume la difesa della celeberrima eroina; nel corso della trattazione compaiono anche interessanti annotazioni sulla poesia, che viene considerata affine alla retorica per la capacità di coinvolgere emotivamente ascoltatori e lettori. Partendo dal presupposto che Elena aveva agito sotto l’influenza di una forza più grande di lei, la volontà di Afrodite, ovvero la capacità persuasiva del λόγος, il sofista dimostra la completa innocenza del personaggio.
Dopo averla già eletta a personaggio delle Troiane, Euripide di Atene (c. 486-406 a.C.) dedica un intero dramma a Elena. Accusata dalle donne di Troia di essere la causa, con il suo comportamento, della morte dei loro uomini e della distruzione della loro città, nella tragedia del 415 l’eroina si difende, addossando la responsabilità della guerra a Paride e alla madre di lui, Ecuba, colpevole di aver generato l’uomo di cui si era innamorata. La moglie di Priamo reagisce fino a indurre Elena a chiedere il perdono a Menelao. Nella tragedia del 412, invece, Euripide propone un ritratto della regina spartana completamente diverso: nella sua Elena il tragediografo adotta la versione del mito secondo cui la traditrice, quella fuggita con Paride, sarebbe stata solo un fantasma. Elena avrebbe dovuto essere il premio per un concorso di bellezza, che Paride aveva vinto, ma la dea Hera – adirata con lui – aveva dato al Priamide un simulacro, un fantasma appunto, mettendo al sicuro la vera Elena in Egitto. Ma anche qui il fascino della donna aveva creato problemi: il mite e pio re Proteo, al quale la donna era stata affidata dalla dea, muore e il successore, il figlio Teoclimeno, si innamora della regina di Sparta. Ella, tuttavia, fedele a Menelao, non abbandona mai lo spazio sacro della tomba di Proteo, per evitare che Teoclimeno la importuni. Arriva in Egitto Teucro, fratello di Aiace, che, dopo averla riconosciuta, non senza grande stupore, aggiorna la donna sugli ultimi sviluppi della guerra di Troia: la città è stata presa a distrutta e Menelao ha trascinato in patria il fantasma di Elena, convinto che si tratti davvero della sposa infedele. Infine, giunge in Egitto pure Menelao, con al seguito la regina-simulacro, che si dissolve non appena l’Atride incontra la vera sposa. A questo punto i due devono fuggire dall’Egitto senza incorrere nelle ire dello spasimante Teoclimeno: allora, Elena comunica al re egizio la falsa notizia che l’antico sposo è scomparso, ottenendo il permesso di celebrarne in mare i funerali; al largo, l’Atride la attende su una nave, travestito da semplice marinaio. Finalmente i due possono ritornare a Sparta.
Pittore di Menelao. Il tentativo di vendetta di Menelao. Pittura vascolare su un cratere attico a figure rosse, c. 450-440 a.C. da Egnazia. Paris, Musée du Louvre.
Con quest’opera Euripide mostra che tutta la guerra di Troia non è stata altro che un grande inganno, uno scontro sanguinosissimo, che ha provocato la morte di tanti e ha seminato distruzione senza alcuno scopo e senza alcun senso, se non le allucinazioni a cui vanno soggetti gli uomini. Mentre Menelao si batteva con accanimento per difendere il proprio onore, sua moglie, ritenuta a torto infedele, stava in Egitto, dall’altra parte del mondo allora conosciuto.
La versione “alternativa” di Elena che ripara in Egitto è stato ripreso, nel 1928, dal poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal nella sua Elena egizia, libretto di un’opera lirica composta da Richard Strauss. Nato a Vienna nel 1874, von Hofmannsthal fu testimone degli ultimi anni dell’Impero asburgico e poi del suo crollo, della Grande guerra e della nascita dell’Austria repubblicana. Morì nel 1929, prima che la sua nazione fosse fagocitata dal Terzo Reich hitleriano. Von Hofmannsthal fu, con la sua opera, un sostenitore della creazione di una cultura comune a tutta l’Europa, per lo scrittore unico strumento valido a scongiurare lo scatenarsi di un nuovo conflitto mondiale.
Gustave Moreau, Elena in gloria. Acquarello.
La sua Elena egizia si apre con Menelao che, distrutta Troia, riporta a Sparta la propria sposa. Il re è deciso a uccidere la fedifraga per vendicarsi della sua infedeltà, ma una tempesta, scatenata dalla ninfa Etra, che intende salvare la donna, fa affondare la nave; l’Atride salva a nuoto sé stesso ed Elena e approda sull’isola di Etra. Qui Menelao riprende i propri propositi uxoricidi, ma la ninfa interviene ancora, chiamando gli Elfi e chiedendo loro di fare un gran rumore; in questo modo, si ricreano i clamori della battaglia, distraendo il re e inducendolo a credere di essere ancora sotto le mura di Ilio (da notare come Hofmannsthal non esiti a introdurre nel mito greco personaggi della mitologia norrena). Menelao, convinto ancora di essere in guerra, si precipita fuori dal palazzo, dove crede di vedere Paride ed Elena insieme e di ucciderli; tornato all’interno della reggia, però, con grande stupore si trova davanti la vera moglie, che chiede a Etra di essere portata insieme al marito in un luogo dove possano dimenticare tutti i tristi fatti che li hanno visti protagonisti. La ninfa fa bere al re di Sparta un filtro che gli provoca oblio, inducendolo a desistere dalle sue idee di vendetta, e i due sposi si ritrovano in Egitto.
Se Euripide e Hofmannsthal riprendono, entrambi, il motivo della giovane Elena, dal fascino irresistibile, il poeta e scrittore greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) propone un punto di vista completamente diverso. Nella sua opera l’autore offre un ritratto della donna segnato dal passare del tempo, che lascia tracce indelebili sia sul suo aspetto sia nel suo spirito. Ritsos è considerato uno dei maggiori poeti ellenici del XX secolo e si è distinto, oltre che per la sua arte, anche per l’impegno politico, che l’ha visto prima nelle fila della resistenza contro l’invasione nazifascista della Seconda guerra mondiale, poi incarcerato durante il regime dei Colonnelli (1967-1974). Ritsos compose la sua Elena nel 1970 e, nel raffigurare una donna ormai anziana, rivisita un tema già caro ai filosofi e ai poeti della Roma imperiale: Elena, come qualsiasi altro essere vivente, è destinata a recare sulla propria persona i segni del tempo; anche di lei non resterà che un cranio perso in un mucchio d’ossa, come la descriveva Luciano di Samosata nei Dialoghi dei morti (18); anche Marco Aurelio parlava di lei come di «un’animuccia che trascina un cadavere».
«Vecchia ubriaca». Statua, marmo, copia romana da un originale greco del II sec. a.C. attribuita a Mirone. Roma, Musei Capitolini.
Ritsos riprende questo motivo e presenta Elena chiusa nella stanza di un ospizio, in bilico fra un presente fatto di acciacchi, demenza senile e semi-infermità e un passato testimoniato da tanti oggetti e da molti ricordi: la collana ricevuta da Micene dopo l’uccisione di Clitemnestra, le lettere degli ammiratori, i nomi e le immagini degli eroi achei (soggetti, peraltro, alle frequenti amnesie di una vecchia malata). Anche Menelao è stato ormai portato via dal tempo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita insieme con Elena, a contemplare il bottino di tante guerre accumulato nella loro dimora. Il presente di Elena è fatto di solitudine e di conflitto, con le ancelle che la detestano, la derubano dei suoi tesori e la curano in modo negligente, truccandola malamente, forti della sua debolezza. In questo quadro, la morte giunge come una liberazione: ancora una volta, le serve se ne approfitteranno, portandole via tutto ciò che potranno. L’Elena di Ritsos, composta in pieno regime militare, sembra essere un’allegoria del passato e del presente della Grecia: una Grecia epica, quella omerica, della quale al tempo dello scrittore non sopravvivono che ricordi e oggetti, persi in una dimensione polverosa, volgare e prosaica. Da quel presente asfittico, l’eroe può essere liberato solo mediante la morte.
Il capitolo 31 della Vita Neronis si concentra sulla trattazione di uno dei vizi del principe, l’inclinazione al lusso sfrenato e allo sperpero facile di denari, e in particolare allo sfoggio di magnificenza nelle costruzioni. La prima parte del brano è dedicata alla descrizione della sontuosa dimora che Nerone si fece costruire tra Esquilino e Palatino, la Domus transitoria, che avrebbe dovuto garantire un “transito” e collegare i nuclei delle proprietà imperiali sui rispettivi colli. La casa “di passaggio” andò distrutta, insieme a mezza Roma, nel terribile incendio del luglio 64. Il disastro diede modo a Nerone di mettere in cantiere progetti urbanistici ancora più ambiziosi, certamente di pubblica utilità; ma naturalmente il principe sfruttò l’occasione per potare a compimento la costruzione del proprio palazzo, passato alla storia come Domus Aurea. La direzione dei lavori fu affidata agli architetti Severo e Celere (Tac. Ann. XV 42); è noto anche il principale decoratore, il pittore Fabullo, o Famulo: Plinio il Vecchio lo descrive come una persona di grande dignità, che dipingeva in toga perfino sulle impalcature, per rendere omaggio all’arte (Plin. NH. XXXV 120).
Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum.
La nuova versione della residenza imperiale è descritta da Svetonio come una città nella città, tanto sontuosa e sfarzosa da ospitare al suo interno campi e parchi, con grande varietà di flora e di fauna, e un lago tanto grande da sembrare un mare. Al suo interno Nerone fece erigere un colosso a propria immagine e somiglianza, affidandone la realizzazione allo scultore Zenodoro (cfr. Plin. NH. XXXIV 45-47): alta circa 36 metri (secondo Svetonio), 35 (secondo Plinio), la statua era nota semplicemente come “Colosso”; dopo la morte dell’imperatore (giugno 68), fu trasformata in effige del dio Sole (DCass. LXV 15, 1) e, in seguito, trasferita di fronte all’anfiteatro Flavio, facendo sì che quest’ultimo, con il tempo, prendesse il nome popolare di “Colosseo”.
Certamente, la Domus aurea non rappresentò l’unico eccesso architettonico di Nerone. Il principe, infatti, volle che fosse costruita anche un’immensa piscina coperta in cui convogliare le acque termali della città campana di Baia; alla piscina era possibile recarsi in nave direttamente dal porto di Ostia attraverso un canale scavato appositamente, abbastanza largo da consentire il transito simultaneo di due grandi imbarcazioni che procedevano in direzione opposta.
Lawrence Alma-Tadema, Scultori nell’antica Roma. Olio su rame, 1877. Kiev, Museo Chanenko.
[31.1] Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominauit. de cuius spatio atque cultu suffecerit haec ret‹t›ulisse. uestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper aruis atque uinetis et pascuis siluisque uaria, cum multitudine omnis generis pecudum ac ferarum. [2] in ceteris partibus cuncta auro lita, distincta gemmis unionumque conchis erant; cenationes laqueatae tabulis eburneis uersatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus uice mundi circumageretur; balineae marinis et albulis fluentes aquis. eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus comprobauit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse.
[3] Praeterea incohabat piscinam a Miseno ad Auernum lacum contectam porticibusque conclusam, quo quidquid totis Bais calidarum aquarum esset conuerteretur; fossam ab Auerno Ostiam usque, ut nauibus nec tamen mari iretur, longitudinis per centum sexaginta milia, latitudinis, qua contrariae quinqueremes commearent. quorum operum perficiendorum gratia quod ubique esset custodiae in Italiam deportari, etiam scelere conuictos non nisi ad opus damnari praeceperat.
[4] Ad hunc impendiorum furorem, super fiduciam imperii, etiam spe quadam repentina immensarum et reconditarum opum impulsus est ex indicio equitis R. pro comperto pollicentis thesauros antiquissimae gazae, quos Dido regina fugiens Tyro secum extulisset, esse in Africa uastissimis specubus abditos ac posse erui paruula molientium opera.
[31.1] Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una dimora che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, che dapprima chiamò transitoria e poi, quando la fece riedificare perché era andata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’è un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno, c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni specie. [2] Negli altri ambienti, ogni cosa era rivestita d’oro, di gemme preziose e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era a lastre d’avorio mobili e forate, cosicché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. Il salone principale era circolare e ruotava su sé stesso tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la Terra. Nelle sale da pranzo scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, finiti i lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente, poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo». [3] Intraprese anche la costruzione di una piscina coperta, cinta da porticati, da Miseno al lago d’Averno, dove far convogliare le acque termali di Baia, e un canale, dall’Averno a Ostia, per potervisi recare in nave, senza affrontare il mare aperto: sarebbe stato lungo centosessanta miglia e largo tanto da consentire il passaggio simultaneo di due quinqueremi che viaggiassero in direzione opposta. Per realizzare tali opere aveva ordinato di deportare in Italia tutti i detenuti da qualsiasi luogo si trovassero e di comminare a tutti i condannati, per qualsiasi crimine, i lavori forzati.
[4] A tale frenesia di spese fu spinto, oltre che dalla fiducia nel proprio potere, anche da una certa speranza, sorta all’improvviso, di poter scoprire immensi giacimenti sommersi, dietro rivelazione di un cavaliere romano, il quale sosteneva con certezza che le ricchezze dell’antichissimo tesoro che Didone, fuggendo da Tiro, aveva condotto con sé, erano nascoste in Africa, in enormi caverne e si potevano estrarre con pochissima fatica.
Grottesca (particolare). Affresco, c. 65-68 dalla Sala delle Maschere, Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.
L’espropriazione di una parte tanto rilevante del centro urbano suscitò meraviglia e malumori da parte del popolo, che pure amava l’imperatore. Le proteste si limitarono tuttavia a bisbigli e sarcasmo. Un celebre epigramma che, a detta di Svetonio (Nero 39), circolava in quel periodo – una sorta di “pasquinata” – era il seguente: Roma domus fiet: Veios migrate, Quirites / si non et Veios occupat ista domus («Roma diventa una casa: emigrate a Veio, o Quiriti! / Sempre che questa dimora non giunga fino a Veio!»). Dopo la fine di Nerone, Vespasiano si affrettò a restituire al pubblico un patrimonio architettonico e paesaggistico di simile valore, che comunque fu in gran parte smantellato. Il lago artificiale fu ricoperto e la valletta nella quale era stato realizzato servì per la costruzione dell’anfiteatro Flavio, nei pressi del quale fu collocata la statua colossale di Nerone. Anche le terme di Traiano e il tempio di Venere (cfr. SHAHadr. 19, 12-13) sorsero sul colle Oppio, un tempo occupato dalla Domus aurea. Nel giro di quarant’anni il sito in cui sorgeva la “Casa d’Oro” fu colmato di nuovi edifici. Questo fatto rappresentò, paradossalmente, una fortuna: inglobati nelle fondamenta delle costruzioni successive, i resti dell’enorme residenza conservarono, protetti dall’umidità, i pregevoli affreschi e le decorazioni parietali (le cosiddette “grottesche”)
La Domus aurea venne alla luce incidentalmente, quando, alla fine del XV secolo, un giovane romano cadde in una fessura sul versante del colle Oppio, ritrovandosi in una delle stanze dipinte del palazzo. Le “grottesche”, costituite da ghirlande di elementi vegetali, animali e creature fantastiche, suscitarono l’interesse degli artisti del Rinascimento come Pinturicchio, Michelangelo e Raffaello, che si fecero calare nei cunicoli per poter studiare da vicino queste immagini e copiarle sui loro taccuini. Questo genere di decorazioni ebbe un impatto di straordinaria importanza sullo sviluppo dell’arte rinascimentale e successiva: dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento i motivi “a grottesca” furono utilizzati praticamente ovunque, diventando una specie di ossessione. Si ricordi, tanto per fare un esempio, gli stucchi delle Logge Vaticane e quelle di Villa Madama, a opera di Giovanni da Udine (1487-1564).
Achille a Sciro. Affresco, c. 65-68, dalla Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.
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Per i colonizzatori dell’Italia meridionale il mito non rappresentava soltanto un veicolo per la sopravvivenza dei legami con la madrepatria, ma anche un modo per interpretare e giustificare l’impulso migratorio, collegando le storie di Eracle, degli Argonauti, di Diomede e degli altri reduci dalla guerra troiana alla scelta dei siti in cui le nuove colonie sarebbero sorte. In quest’ottica, l’eroe protettore della nuova comunità si configurava spesso come una sorta di proiezione del capo aristocratico (οἰκιστής) che aveva guidato la spedizione e che, con il tempo, avrebbe potuto diventare egli stesso oggetto di culto eroico. In più, il mito, con le tensioni implicite delle multiformi vicende degli eroi, permetteva di alludere attraverso figure e atteggiamenti esemplari ai problemi che agitavano l’attualità coloniale e in special modo a quei contrasti sociali forieri di στάσεις, che ben presto emersero all’interno delle nuove πολεῖς, dopo un iniziale momento egalitario della lotta per l’insediamento e dell’organizzazione del nuovo spazio territoriale.
Pittore anonimo. Un poeta (dettaglio). Pittura vascolare su un λήκυθος attico a figure rosse, c. 480 a.C. da Atene. Los Angeles-Malibu, Villa Getty Museum.
Massimo interprete della tradizione mitica all’interno del mondo magno-greco nelle forme, verosimilmente, della lirica citarodica fu Stesicoro (Στησίχορος), figlio di Eufemo (o di Euclide?). Gli antichi, in genere, associavano questo poeta alla siciliana Imera, dove si era presumibilmente trasferito dall’originaria Matauro (colonia locrese nell’Italia meridionale). Stesicoro avrebbe soggiornato anche in altre località magno-greche e siceliote (PMGF TA 8-13).
Le testimonianze antiche sulla sua cronologia sono alquanto incerte, forse perché lo si confuse con omonimi più tardi oppure perché fu considerato l’«inventore» (πρῶτος εὑρετής) della lirica corale: secondo la testimonianza del lessico Sud. σ 1095 (IV 433. 16-20 Adler = Stes. TA 10, 1-5 Ercoles1), il nome stesso Stesicoro sarebbe stato un epiteto derivato dal fatto che egli «per primo, istituì un coro con la citarodia, mentre il suo vero nome era Tisia» (πρῶτος κιθαρῳδίᾳ χορὸν ἔστησεν· ἐπεί τοι πρότερον Τισίας ἐκαλεῖτο).
Comunque stessero le cose, mentre è sicuramente da escludere la data registrata dal Marmor Parium (FGrHist. 239, 50 = PMGF TA 6, che riferisce di un suo arrivo nella Grecia continentale nel 485/4 a.C., in sincronia con la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici e con la nascita di Euripide), sembra probabile una sua collocazione tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.: nell’ultimo periodo, in particolare, Stesicoro doveva essere ancora in vita, se Aristotele (Rhet. 1393b) lo connetté con il tiranno di Agrigento Falaride (570-554 a.C.), da cui il poeta avrebbe invano cercato di mettere in guardia gli abitanti di Imera, quando essi gli si assoggettarono. Non lontana dal vero appare dunque la datazione già suggerita da Sud. σ 1095, che collocava la sua vita fra la XXXVII e la LVI Olimpiade, cioè fra il 632/629 e il 556/553, anche se andrebbe posticipata di poco la data di morte, se si presta fede alle testimonianze che collegano Stesicoro alla battaglia del fiume Sagra, combattuta fra Locresi e Crotoniati verso il 550 a.C. (cfr. [Luc.]Macr. 26, I 81 Macleod = PMGF TA 7, che riferisce che il poeta visse fino a 85 anni).
Più incerta è la notizia secondo cui il poeta avrebbe soggiornato per un certo tempo a Pallantio, in Arcadia, donde sarebbe tornato in Sicilia, a Catania. E a Catania (oppure a Imera) sarebbe morto.
Pittore di Dana. Scena musicale (dettaglio): due donne in atto di ascoltare una terza mentre canta e suona la lira. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 460 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
I componimenti di Stesicoro furono raccolti dai filologi alessandrini in 26 libri. Di questa produzione, di cui ora si sa con certezza che era davvero enorme e che aveva incontrato nel mondo antico una vasta diffusione, era nota fino al secolo scorso solo una cinquantina di versi (frammenti desunti da citazioni, per lo più assai brevi), mentre già si conosceva un buon numero di titoli (probabilmente stabiliti dai grammatici alessandrini), che per la maggior parte si riferiscono a fatti e personaggi della leggenda: Giochi per Pelia, Gerioneide, Elena, Palinodie per Elena, Distruzione di Ilio, Cerbero, Cicno, Ritorni, Orestea, Scilla, Cacciatoridelcinghiale. Si confermava, comunque, la sentenza di Quintiliano (X 1, 62), secondo cui Stesicoro epici carminis onera lyra sustinentem («sostenne con la cetra il peso dell’epos»).
Parecchi studiosi contemporanei attribuiscono non a Stesicoro, ma a un omonimo imerese vissuto nel IV secolo a.C. altri carmi che, a giudicare dai titoli, trattavano storie d’amore a triste fine: Calica, Radina, Dafni (la storia del pastore che muore d’amore, nota dall’Idillio I di Teocrito). Stesicoro avrebbe infine composto, secondo la dubbia testimonianza di Ateneo (XIII 601a), anche carmi omoerotici.
Se nel 1936 il filologo inglese Cecil M. Bowra poteva parlare di Stesicoro come dell’«ombra indistinta di un grande nome agli inizi della poesia greca», oggi quest’ombra è certamente assai meno vaga, perché un considerevole incremento alla conoscenza dell’opera stesicorea è venuto da una serie di scoperte papiracee, che hanno restituito brani più o meno estesi inseribili nella Gerioneide (F S7-S87), nella Distruzione di Ilio (F S88-S147), nei Ritorni (PMGF 209) e nella Tebaide (PMGF 222b).
Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
I nuovi frammenti papiracei hanno permesso di accertare le dimensioni davvero cospicue dei testi: un’indicazione sticometrica contenuta in P. Oxy. 2617, che conserva frammenti della Gerioneide, documenta che questo carme superava i 1.300 versi! In particolare, è ora possibile chiarire il rapporto di innovazione/continuazione, se non di concorrenzialità, che legava i carmi stesicorei con l’epica non solo a livello lessicale e stilistico, ma anche nella costruzione di ampi intrecci e di estese sezioni narrative, intercalate da scambi dialogici.
Discusse sono le modalità di esecuzione di queste composizioni, la cui struttura strofica, detta “triadica” (PMGF TA 19), era caratterizzata dalla ripetizione ad libitum di segmenti composti da una strofe, un’antistrofe (metricamente equivalente) e un epodo (metricamente autonomo, ma ritmicamente connesso alle precedenti) e dall’innovativo impiego dei metri dattilo-epitriti. Questa articolazione “triadica” è documentata al di là di ogni dubbio dalla testimonianza dei papiri e gli antichi ne assegnavano l’invenzione allo stesso Stesicoro.
Oggi l’opinione dei più è che l’esecuzione dei carmi non fosse (o almeno non sempre) realizzata da un coro, come si riteneva in passato, ma da un solista (di solito, il poeta in persona), che si accompagnava con la cetra alla maniera della citarodia lirica pre-omerica (della quale Stesicoro sarebbe stato un continuatore).
È pur vero che la stessa articolazione triadica rende probabile, insieme con le testimonianze antiche, la presenza di un coro, che doveva pertanto limitarsi a eseguire mute evoluzioni di danza destinate a porsi in un rapporto mimetico nei confronti dello sviluppo del tema mitico di volta in volta affrontato.
Quale luogo privilegiato delle esecuzioni dei carmi stesicorei Luigi Enrico Rossi (1983) individuò l’ambito di quelle gare citarodiche che si svolgevano all’interno delle riunioni festive diffuse in tutto il mondo greco arcaico: in tale contesto Stesicoro avrebbe cantato le sue composizioni di epica lirica “alternativa” fianco a fianco con rapsodi che recitavano brani di Omero o nuovi brani di epica esametrica. E con la necessità di soddisfare le richieste di un pubblico di cui dipendeva la vittoria agonale si spiegherebbe anche la frequente rifunzionalizzazione “regionale” del mito.
Pittore di Londra E. Apollo musico. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480-470 a.C. da Chiusi. London British Museum.
La proposta di Giocasta(PMGF 222b)
È la colonna meglio conservata (A II) di una serie di frustoli papiracei (P. Lille 76A II + 73 I) recuperati dal cartonnage di una mummia e pubblicati nel 1977 da G. Archer e C. Meillier nel Cahier de Recherches de l’Istitut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille 4, 287 ss. Contengono brani di un carme in triadi strofiche e nell’impasto linguistico tipico della lirica corale – attribuibile con quasi assoluta certezza a Stesicoro – sulla divisione dell’eredità paterna tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice: un soggetto trattato già nella Tebaide epica e poi ripreso ripetutamente dalla tragedia attica (Sette contro Tebe di Eschilo; Fenicie di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle – sulla trattazione stesicorea della leggenda, cfr. A. Carlini, QUCC 25 [1977], 61-67, e Bremer 1987).
Il brano qui riprodotto inizia nel mezzo di una risposta della madre Giocasta all’indovino Tiresia, perché non voglia aggiungere nuovi mali a quelli esistenti. La soluzione prospettata dalla regina consiste nel proporre un sorteggio in base al quale uno dei fratelli otterrà il regno, mentre l’altro se ne andrà in esilio portando con sé i tesori paterni.
La colonna successiva (73 II + 76C I + 111C) a quella riportata qui doveva appunto contenere, come possiamo arguire dai miseri monconi superstiti, una rapida descrizione del sorteggio e della raccolta dei beni paterni da parte di Polinice, a cui la sorte assegnava l’esilio, seguita da uno scambio dialogico (cfr. v. 253 μῦθον ἔειπε), di cui non possiamo identificare gli interlocutori. Poi, nella colonna ancora seguente (76C II + B), l’indovino prediceva le nozze che Polinice avrebbe contratto in Argo con la figlia di Adrasto (vv. 274 ss.) e annunciava i mali che avrebbero colpito Tebe, se l’accordo fosse stato infranto. Dagli ultimi residui di testo (vv. 291 ss.) si deduce che, appena terminato l’ultimo intervento di Tiresia, Polinice partiva in direzione di Argo, giungendo all’Istmo di Corinto.
Scena tebana con Eteocle, Polinice, Giocasta, Antigone e Creonte. Rilievo, marmo, II sec. da un sarcofago in stile attico. Roma, Villa Doria Pamphilj.
Giovanni Silvagni, Il duello tra Eteocle e Polinice. Olio su tela, 1820. Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca.
[1]vv. 201-210. La colonna A II inizia col terzultimo colon di un’antistrofe, nel corso della replica di Giocasta all’indovino Tiresia: «… “Non creare ansie opprimenti (χαλεπὰς… μερίμνας costituisce un nesso formulare arcaico estraneo a Omero, attestato in Hes. Erga 178 χαλεπὰς δὲ θεοὶ δώσουσι μερίμνας; Mimn. 1, 7 ἀμφὶ κακαὶ τείρουσι μέριμναι; Sapph. 1, 25 χαλέπαν …/ἐκ μερίμναν) in aggiunta ai dolori (presenti: forse si allude al lutto per la morte di Edipo, o più in generale alla sequela di sciagure che hanno colpito la regina tebana a partire dalla morte del marito Laio) e a me non predire (πρόφαινε: il verbo ha spesso questa accezione in relazione a oracoli e indovini: cfr. Soph. Trach. 849, Hdt. VII 37, 2; cfr. R. Tosi, MCr 13-14 [1978/1979], 125-142 [126] Bremer, 137) d’ora in poi (ἐξοπίσω) gravi attese (ἐλπίς ha generalmente connotazione positiva, “speranza”, ma di per sé è una vox media, “attesa”, e può essere associata ad aggettivi con qualificazione negativa, cfr. Soph. Ajax 606 κακὰν ἐλπίδ’ ἔχων). Né, infatti, sempre (αἰὲν = ἀεί) allo stesso modo (ὁμῶς) gli dèi immortali provocano (θέσαν = ἔθεσαν, aoristo gnomico: il nesso paretimologico θεοὶ θέσαν, che tende a prospettare gli dèi come coloro che, per definizione, dispongono degli eventi e degli uomini, è tradizionale) ai mortali sulla sacra (ἱρὰν = ἱεράν: l’aggettivo è spesso riferito nell’epica a singole località, non alla terra intera) terradiscordia incessante, e neppure (οὐδέ γα μὰν = οὐδέ γε μὴν) concordia (la presenza della polarità νεῖκος/φιλότης, centrale nella cosmologia di Empedocle 31 B 17,7-20; 26,5-6; 33,3-13 D.-K., induceva J. Bollack a datare il nostro brano al V secolo a.C., negando l’attribuzione a Stesicoro; ma si è opportunamente osservato che già Esiodo include Φιλότης ed Ἔρις nel catalogo delle forze cosmiche in Th. 211 ss.), ma gli dèi dispongono la mente (τιθεῖσι di v. 208 riprende θέσαν 205) degli uomini secondo gli eventi del giorno (ἁμέριον = ἡμέριον, in contrasto con αἰὲν di v. 204). Ma il sire Apollo lungisaettante (ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων è clausola formulare, cfr. Il. XV 253; XXI 461, ecc.) non porti a compimento (τελέσσαι = τελέσαι, ottativo deprecativo, non infinito) tutte le tue (τεὰς = σὰς) profezie (μαντοσύνας, cfr. Emped. 31 B 112, 10 D.-K.)».
[2]vv. 211-224. «Ma se (αἰ = εἰ) è destino, e le Moire (le dee del destino, figlie di Zeus e di Themis: Cloto, Lachesi e Atropo, secondo Hes. Th. 904-906 Μοίρας θ’, ᾗς πλείστην τιμὴν πόρε μητίετα Ζεύς,/Κλωθώ τε Λάχεσίν τε καὶ Ἄτροπον, αἵ τε διδοῦσι/θνητοῖς ἀνθρώποισιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε) hanno filato (l’immagine è ridondante dopo μόρσιμόν, ma tradizionale),che io veda i figli uccisi l’uno dall’altro, subitoa me venga il termine (il modulo del “potessi morire prima di…” compare più volte in Omero) dell’odiosa morte (θανάτου…στυγεροῖο/-ροῦ rappresenta lo smembramento di una formula omerica, cfr. Od. XII 341 στυγεροὶ θάνατοι; XXIV 414 στυγερὸν θάνατον), prima di veder mai (ποκα = ποτε) queste molto lamentevoli (e) lacrimevoli (giustapposizione asindetica con effetto patetico) cose per i dolori (ἄλγεσ‹σ›ι = ἄλγεσι), i figli morti nel (ἐνὶ = ἐν) palazzoo (con riferimento alla profezia resa da Apollo a Laio, il dilemma stirpe/città ricomparirà in Aesch. Theb. 745-749 …Ἀπόλλωνος εὖτε Λάιος/βίᾳ, τρὶς εἰπόντος ἐν/μεσομφάλοις Πυθικοῖς/χρηστηρίοις θνῄσκοντα γέν-/νας ἄτερ σῴζειν πόλιν) la città conquistata (ἁλοίσαν = ἁλοῦσαν < ἁλίσκομαι).Suvvia, figli (παίδες = παῖδες),alle mie parole date ascolto, figli (τέκνα) diletti, io a voi (ὑμὶν = ὑμῖν) propongo (προφαίνω, con intenzionale antitesi, ma con diversa valenza semantica, rispetto al πρόφαινε di v. 203) questa (τᾶιδε = τῇδε, prolettico) soluzione: l’uno abiti‹la celebre città di Cadmo› (πό[λιν εὐκλέα Κάδμου), tenendo (ἔχοντα) la reggia, l’altro se ne vada (ἀπίμεν = ἀπιέναι) tenendo (ἔχοντα, con ricercata simmetria dell’ἔχοντα di v. 220) il bestiame (κτεάνη) e tutto quanto l’oro di suo padre, colui che per primo (πρᾶτος = πρῶτος) per volere (ἕκατι = ἕκητι) delle Moire ottenga il verdetto col getto delle sorti (κλαροπαληδὸν, avverbio non attestato altrove, formato su *κλαροπαλέω; l’aggettivo κληροπαλής è presentein H. Herm. 129)». La relativaὃς…Μοιρᾶν è agganciata al secondo corno del dilemma essendo stato prefissato che colui la cui sorte fosse stata estratta per prima avrebbe preso la parte maggiore.
[3]vv. 225-234. «E ciò io credo (con δοκέω parentetico) chesarebbe per voi (ὔμμι = ὑμῖν) un riscatto (λυτήριον: è la prima attestazione del termine; cfr. Soph. Elect. 1489-1490 κακῶν/…λυτήριον) dal maligno destino,secondo i suggerimenti del vate divino, se il Cronide ‹proteggerà› (σαώσει) la nuova progenie (Eteocle e Polinice, opposti a Laio e a Edipo; cfr. Pind. Paean. IX, 20; Soph. OT 1) e la città di Cadmo sovrano, allontanando (ἀμβάλλων = ἀναβάλλων) per molto tempo la sventura, che è destinata (πέπρωται, forma di perfetto dalla radice * πορ-, donde l’aor. πορεῖν) ad abbattersi su Tebe”. Così disse (ὣς φάτο = ἔφατο, modulo frequentissimo nell’epica per chiudere la “cornice” di un discorso diretto) la donna divina (δῖα γυνά) parlando (ἐνέποισα = ἐνέπουσα) con miti parole,ricomponendo (π[αύο]ισα = παύουσα) la lite dei figli nel palazzo, e insieme (ἅμα) con Tiresia interprete di prodigi (τ[ερασπό]λος, integrazione su analogia con τερασκόπος, “profeta”, e ὀνειροπόλος, “interprete di sogni”),e quelli obbedirono».
Sette contro Tebe. Rilievo, marmo pario, II sec. da un sarcofago romano. Corinto, Museo Archeologico.
Il passo presenta un ritratto tutt’altro che convenzionale di una donna impegnata a prendere una decisione cruciale sotto la pressione di un forte e improvviso impatto emotivo prodotto in lei da una dolorosa profezia: Tiresia ha profetizzato che la contesa fra Eteocle e Polinice potrà risolversi solo con la mutua uccisione dei fratelli o con la distruzione di Tebe (cfr. vv. 214-217: alternativa – marcata dalla disgiuntiva ἢ – fra morte dei figli e città distrutta). Di fronte a questo dilemma soffocante la regina non si abbandona a uno sfogo patetico (anche il modulo, impiegato ai vv. 213 ss., del «potessi morire prima di…[se non…]» – cfr. p. es. Il. XXIV 244-246; Od. XVI 106-111; Mimn. F 1, 2 ss.; Theogn. 342-343 – non esprime una reale volontà di suicidio), bensì elabora una personale risposta intesa ad affrontare il problema sia sul piano ideologico che su quello operativo.
Quanto al primo, ella nega che esista alcunché di immutabile, tanto meno odio e amore, «sulla sacra terra»: tutto cambia e gli dèi adattano la mente degli uomini agli accadimenti che di giorno in giorno si verificano (il motivo compare già in Od. XVIII 136-137: «perché così è la mente degli uomini sopra la terra, /come l’ispira di giorno in giorno il padre dei numi e degli uomini»; e in Archil. F 131-132 West2: «Glauco, figlio di Leptine, l’indole degli uomini/ha la patina dei giorni che via via ci porta Zeus,/e all’azione che li impegna uniformano l’idea»). È una considerazione di sapore esistenziale che tuttavia – come ha opportunamente osservato A. Burnett, CA 7 (1988), 107-154 (114) – veniva ad assumere un’importante valenza politica in quanto rispondeva alle esigenze di una ristretta comunità oligarchica: significativa a questo proposito la possibilità di un confronto sia con una delle norme che si tramandano codificate da uno dei grandi “legislatori” arcaici, Zaleuco di Locri, secondo cui (cfr. Diod. XII 20, 3) «non bisogna avere nessuno dei concittadini come nemico inconciliabile, ma considerare l’inimicizia come se in futuro potrà di nuovo volgersi in riconciliazione e amicizia», sia con un passo dell’Aiace di Sofocle (vv. 678-683), dove il protagonista dichiara, sia pure con ironia, di aver preso consapevolezza del fatto che «i nemici odiati/ci potranno anche amare, più tardi,/e gli amici a cui farò del bene, non saranno amici per sempre; l’amicizia non è un porto sicuro per gli uomini».
Era un messaggio che, trasposto nella relazione fra Stesicoro e il pubblico delle città magnogreche presso il quale i suoi canti venivano eseguiti, poteva cooperare al tentativo, a cui anche le feste religiose e gli agoni poetici contribuivano, di frenare i contrasti tra le fazioni in lotta, secondo un ruolo del poeta e più in generale del “saggio” che le fonti antiche dichiarano esercitato proprio da Stesicoro a proposito di tensioni interne alla comunità di Locri Epizefiri.
Non meno significativa è la dimensione operativa della risposta elaborata dalla regina. Rispetto ai due schemi di sorteggio tradizionalmente usati nella Grecia arcaica – sorteggio attraverso cui si opera la divisione in lotti o porzioni uguali, ad esempio in occasione di un’eredità (cfr. Od. XIV 209-210) o della fondazione di una colonia, e sorteggio in cui si sceglie qualcuno all’interno di un gruppo – Giocasta cerca infatti di contaminare i due procedimenti, mirando simultaneamente a dividere i beni parteni fra beni immobili e beni mobili (oro e armenti) e a scegliere chi fra i due dovrà tenere i primi insieme con il regno e chi invece dovrà prendersi i secondi andando in esilio.
Si tratta di un’ingegnosa soluzione di compromesso, fondato su una personale «opinione» (δοκέω v. 225) che cerca di sfruttare le pieghe dei responsi, ma che sembra tuttavia condannata al fallimento. La simultanea salvezza della stirpe e della città può infatti realizzarsi solo temporaneamente: la stessa regina invoca da Zeus non l’eliminazione ma solo un «rinvio» (ἀμβάλλων v. 230) della rovina incombente. E nel contempo una tale spartizione non avrebbe fatto che esacerbare il figlio esiliato e insieme indebolire il regno di colui che restava (Eteocle): «regnare», nel mondo della monarchia eroica, comportava non solo autorità su uomini e cose, ma anche il disporre di armenti e di quel metallo che «voleva dire strumenti e armi», nonché disponibilità di κειμήλια (“tesori”), in quanto simboli di ricchezza e di prestigio (cfr. Finley, 70 s.).
Sul piano espressivo, dunque, è possibile cogliere nell’arte di Stesicoro una puntigliosa aderenza a moduli già noti dall’epica, ma non è possibile accertare in che misura essi derivino direttamente da quella tradizione o da una ancora più antica. D’altra parte, una tale impressione è verificabile solo nell’ambito del discorso diretto di Giocasta, mentre le sezioni narrative (come, p. es., quella della partenza e del viaggio di Polinice e dei suoi compagni alla volta di Argo) dovevano procedere con un ritmo molto veloce e una selezione estremamente sintetica dei dettagli. Si può, ancora, osservare, anche all’interno della replica di «Giocasta», che la dizione tradizionale, con un procedimento che si potrebbe definire “manieristico”, viene caricata e appesantita dalle Stesichori… graves Camenae di oraziana memoria. Si riscontra, infatti, la costante ricerca di un’enfasi espressiva che va spesso al di là della misura epica, determinata da fenomeni peculiari, come la ripetizione di nozioni già espresse, l’accumulo di sinonimi, la contrapposizione polare di concetti antitetici.
La lettura del testo evidenzia, insomma, uno stile che rende ora meglio comprensibile il giudizio di Quintiliano (X 1, 62), che se elogiava in Stesicoro la capacità di attribuire ai suoi personaggi l’appropriato rilievo sia nell’agire sia nel parlare (reddit enim personis in agendo simul loquendoque debitam dignitatem) ne sottolineava, d’altra parte, l’effusa ridondanza (sed redundat atque effunditur).
La Gerioneide (F S11; S13, 2-6; S15, col. II)
Non meno interessanti del brano della Tebaide appaiono i frammenti provenienti dalla Gerioneide, che presenta la rievocazione di una di quelle saghe legate all’esplorazione e alla colonizzazione di nuove terre occidentali. Generalmente, Gerione è rappresentato come un mostro gigante dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), che possedeva una mandria di buoi, custodita dal pastore Eurizione e dal cane a due teste Ortro. Nei suoi versi Stesicoro narrava della cattura da parte di Eracle, come una delle sue proverbiali fatiche, delle vacche di Gerione nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente presso Cadice, di fronte alla foce del fiume Tartesso, oggi Guadalquivir (cfr. Strab. III 2, 11).
Sia pure a costo di qualche lacuna, oggi, grazie a un fortunato ritrovamento papiraceo, possiamo leggere almeno tre parti: il dialogo fra qualcuno (probabilmente un guardiano delle mandrie, in genere chiamato Eurizione nella tradizione mitografica) che cerca di dissuadere il gigante dal battersi con Eracle e Gerione stesso che, sul punto di affrontare lo scontro, ne prevede l’esito mortale ma rifiuta di dar prova di viltà (F S11); la supplica della madre Calliroe a Gerione perché rinunci allo scontro (F S13, 2-6); infine la rappresentazione della morte patita dallo sventurato mandriano (F S15, col. II).
Pittori del Gruppo di Priceton. Il gigante Gerione. Pittura vascolare su anfora a collo con figure nere, 540-530 a.C. ca. dall’Attica. New York, Metropolitan Museum of Art.
Pittore delle Iscrizioni. Eracle combatte contro Gerione e gli ruba il bestiame. Pittura vascolare da un’anfora calcidica a figure nere, c. 540 a.C. dall’Italia meridionale. Paris, Cabinet des Médailles.
[1]vv. 1-4. «… con le mani ‹…A lui› rispondendo diceva (ποτέφα = προσέφη: calco dell’omerico τὸν δ᾽ ἀπαμειβόμενος προσέφη) ‹il forte figlio di Crisaore› immortale ‹e di Calliroe› (la genealogia è quella già fissata da Hes. Th. 287 ss.; 979-983;Crisaore, “Spada d’oro” era balzato fuori dal capo di Medusa insieme con il cavallo Pegaso, quando Perseo le aveva mozzato latesta)».
[2]vv. 6-29: «“No, ‹preannunciando› a me una morte ‹agghiacciante› (κρυόεν-]|-τα),non cercare di terrorizzarmi‹l’animo fiero›, né…Se (αἰ = εἰ),infatti, ‹fossi immune da morte› e da vecchiezza ‹così da vivere› sull’Olimpo, ‹sarebbe› meglio ‹…› e i biasimi… ‹osservare (ἐπιδῆν = ἐπιδεῖν) le mie vacche› razziate ‹via› dalle nostre ‹stalle›. Ma se, o mio caro, ‹mi tocca› arrivare alla vecchiezza e vivere tra ‹gli effimeri› (l’uso di ἐφήμεροι / ἐφημέριοι per indicare gli uomini – in quanto sottoposti agli influssi della sorte e dei loro stessi volubili pensieri e tali quindi da mutare condizione ogni giorno – non è omerico ma è attestato fra i lirici in Semon. F 1, 3 W2; Pind. Pyth. VIII 95; F 157, 1; 182, 1) lungi dagli dèi beati, ora per me è molto più nobile‹patire› (παθῆν = παθεῖν) ciò che è mio destino patire e che il figlio di Crisaore ‹non attacchi› le infamie ‹ai suoi nati› e a tutta la stirpe futura (ἐξοπίσω, cfr. Sol. F 13, 32 W2): questo non sia caro agli dèi beati, che ‹…› per le mie vacche ‹…› la fama… (l’accento batte sul fatto che il κλέος è qualcosa di strettamente legato alla condizione mortale, che non conosce altra risorsa per affermare il proprio valore)».
[3]vv. 2-5. «… io, ‹misera› e che ho generato un figlio sventurato e sventure indimenticabili ho sofferto (παθοῖσα = παθοῦσα),… supplico (γωνάζομαι = γουνάζομαι, propriamente “stringo le tue ginocchia”, cfr. Od. XI 66 νῦν δέ σε τῶν ὄπιθεν γουνάζομαι) ‹te›, o Gerione, ‹se mai› (αἴ ποκ’ = εἰ ποτ’) ti (τιν = σοι) ‹porsi› il mio seno».
[4]vv. 1-17. «… ‹la freccia› che aveva intorno alla punta ‹il termine› della morte odiosa, intrisa del sangue e della bile ‹…› dell’Idra (l’Idra di Lerna, nell’Argolide, nata da Tifone e da Echidna, un serpente mostruoso dalle molte teste che ricrescevano ogni volta che fossero state mozzate: Eracle la uccise nel corso della seconda delle sue “fatiche” con l’aiuto del nipote Iolao, che diede fuoco a una vicina foresta, procurando all’eroe rami infuocati con cui l’eroe cicatrizzava la pelle dell’Idra, là dove ne aveva appena tagliato una testa) omicida dal collo screziato (altrove in età arcaica e classica αἰολοδείρος compare solo in Ibyc. PMGF 317a, 2, in relazione a delle anatre; l’accostamento con ὀλεσάνορος = ὀλεσήνορος crea un effetto di violento chiaroscuro) ‹…› per gli spasimi di dolore. In silenzio, furtivamente (ἐπικλοπάδαν, sonante avverbio formato su ἐπίκλοπος),essa si conficcò nella fronte e lacerò la carne ‹e› le ossa per volere di un nume (cfr. Od. XI 61 δαίμονος αἶσα κακὴ).Da parte a parte la freccia raggiunse (σχέθεν = ἔσχεν) l’apice del capo e macchiava di sangue purpureo (cfr. da un lato Il. IV 146 μιάνθην αἵματι μηροὶ; XVI 795–796 μιάνθησαν δὲ ἔθειραι / αἵματι; dall’altro Il. XVII 360-361 αἵματι δὲ χθὼν / δεύετο πορφυρέῳ: Stesicoro fonde i due nessi omericicreando un’espressione più enfatica) la corazza e ‹le membra› (già) insanguinate (Stesicoro trasferisce alle membra un aggettivo che Omero riferiva alle “spoglie”, le armi tolte al nemico ucciso),e Gerione piegò il collo di lato, come quando (ὅκα = ὅτε) unpapavero, sfigurando (καταισχύνοισα = καταισχύνουσα: ἅτε conferisce al participio un tenue valore causale) la delicata ‹figura›, d’un tratto lasciando cadere (ἀπὸ …βαλοῖσα = ἀποβαλοῦσα) i petali…».
Ercole e Gerione. Rilievo, marmo, III sec. d.C. ca. Toulouse, Musée Saint-Raymond.
Soprattutto nel primo brano si trovano, come nella Tebaide, scansioni elaborate e simmetriche: il discorso diretto viene introdotto, omericamente, con l’espressione di dire e il nesso nome/epiteto del parlante; l’invito iniziale («non indurmi a temere la morte») viene allargato con una motivazione sviluppata attraverso due ipotesi in contrasto avviate rispettivamente da αἰ μὲν (v. 8) e αἰ δ’ (v. 16) in principio di colon metrico; infine balza agli occhi il parallelismo fra ἐλέγχεα (vv. 11-12) e ὀνείδε[α (v. 22) e tra κρέσσον (v. 11) e κά[λλιον (v. 20).
Di qui una “liricizzazione” che espande in calme geometrie un modello epico più energico ed essenziale che si può ravvisare nel discorso rivolto da Sarpedonte a Glauco in Il. XII 322-328: «Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila né spingerei te alla lotta gloriosa; ma poiché a migliaia incombono i destini di morte, e nessun uomo mortale può sfuggirli o evitarli, andiamo, dunque, daremo gloria ad altri o altri a noi la daranno» (tr. M. G. Ciani).
Anche nel secondo brano, relativo al dialogo fra madre e figlio, è riconoscibile la memoria di un modello epico illustre, ossia la supplica di Ecuba al figlio Ettore perché non affronti Achille in campo aperto (Il. XXII 82-85): «Ettore, figlio mio, rispetta questo seno; e abbi pietà di me che te lo offrivo un tempo per calmare il tuo pianto; ricordalo, figlio mio, e respingi il nemico restando dentro le mura, al riparo, non affrontarlo in campo» (tr. M. G. Ciani); d’altra parte, è presente anche la propensione stesicorea a variare l’epos con l’epos: il raffinato composto ἀλαστοτόκος («che ha generato ἄλαστα, cose indimenticabili», da ἀ- privativo e tema verbale di λανθάνω) non compare nella supplica di Ecuba a Ettore ma ha dietro di sé un diverso aggettivo epico, δυσαριστοτόκεια «che ha generato in modo sventurato [δυσ-] un figlio eccelso»), usato anch’esso per l’apostrofe di una madre a un figlio sventurato (Teti ad Achille in Il. XVIII 54).
Nel terzo brano, infine, il gesto di reclinare il collo e il paragone con il papavero richiamano la descrizione omerica della morte di Gorgizione figlio di Priamo, colpito per errore da una freccia scagliata da Teucro in Il. VIII 306-308 – «Come un papavero, in un orto, piega la corolla di lato sotto il peso dei semi e delle piogge primaverili, così si piegò la testa dell’eroe, sotto il peso dell’elmo» (tr. M. G. Ciani) –, e più genericamente tradizionale si più considerare l’osservazione analitica del percorso compiuto dal dardo, mentre nuovo sembra il tentativo di suggerire preliminarmente l’atmosfera della scena attraverso la giustapposizione iniziale degli avverbi σιγᾷ («in silenzio», v.6) e ἐπικλοπάδαν («furtivamente», vv. 6-7). Più in generale, appare innovativo nella Gerioneide soprattutto il dato per cui Stesicoro attribuisce a Gerione, un essere deforme che la tradizione letteraria e iconografica dipinge in genere come dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), lo statuto di eroe valoroso provvisto di un’acuta sensibilità umana, e dunque rifiuta implicitamente la concezione tradizionale per cui la bellezza fisica era componente essenziale dell’eroismo.
Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. München, Staatliche Antikensammlung.
Le παλινῳδὶαι per Elena
L’atteggiamento assai libero di Stesicoro nei confronti della mitologia e la sua disponibilità a conformare le singole versioni di una storia al gusto dei diversi contesti di pubblico a cui erano destinati i suoi carmi sono eloquentemente documentati dai suoi interventi sulla figura di Elena (PMGF 192-193). Dell’eroina il poeta doveva aver narrato una prima volta la vicenda nella forma tradizionale (omerica), che presentava la donna come un’adultera e traditrice della patria Sparta. In un secondo momento, però, sullo stesso mito Stesicoro avrebbe composto due παλινῳδὶαι («ritrattazioni»), probabilmente perché sollecitato da un uditorio magno-greco insoddisfatto della memoria dell’eroina dorica. Secondo una tradizione aneddotica, il poeta avrebbe cercato per questa via di recuperare la vista perduta, dopo che l’eroina divinizzata, incollerita con lui, lo aveva reso cieco. È plausibile che questa leggenda si sia sviluppata a partire da qualche dichiarazione di Stesicoro stesso che, per giustificare il mutamento della versione e ammettere che «non era vero» il suo racconto precedente, aveva forse affermato di essere stato metaforicamente «accecato», perché non aveva saputo «vedere» la verità (così Cameleonte e Conone, FGrHist. 26 F 1, 18; e Ireneo, Haer. I 23, 2).
La prima delle due palinodie – ammesso che non si trattasse di una sola, articolata in due fasi –, che iniziava con δεῦρ’ αὖτε θεὰ φιλόμολπε («Orsù, di nuovo, o dea amica del canto», PMGF 193), rigettò la precedente presentazione della storia, condotta sulla falsariga di Omero, proponendo la versione per cui Elena partì da Sparta con Paride, ma non sarebbe mai andata a Troia: durante una sosta in Egitto, ella sarebbe stata sostituita da un εἴδωλον, un «fantasma» della bellissima donna, creato da Hera, che, desiderosa di scatenare la guerra fra Achei e Troiani, voleva anche vendicarsi di Paride, impedendogli di godere del premio promessogli da Afrodite. Perciò, il conflitto si sarebbe risolto per questa falsa immagine della regina spartana; questa, infatti, sarebbe stata ritrovata da Menelao al ritorno dalla guerra: si tratta di una versione del mito attestata per la prima volta in Esiodo, F 358 Merkelbach-West, e che si ritrova in seguito anche nell’Elena di Euripide.
La seconda palinodia, che iniziava con χρυσόπτερε παρθένε («O vergine dalle ali dorate», PMGF 193), doveva proporre un’ulteriore versione ancora più assolutoria, secondo la quale Elena non avrebbe mai messo piede sulla nave di Paride: non solo l’eroina non sarebbe mai giunta a Troia, ma non avrebbe neppure abbandonato Sparta. A questa seconda palinodia appartiene il tristico, costituito da due enopli (vv. 1 e 3) e da una pentapodia trocaica catalettica (v. 2), il cui principale testimone è Platone (Plat. Phaedr. 243a-b = PMGF 192):
οὐκ ἔστ’ ἔτυμος λόγος οὗτος,
οὐδ’ ἔβας ἐν νηυσὶν ἐυσσέλμοις
οὐδ’ ἵκεο πέργαμα Τροίας.
Non è veritiera questa storia:
tu non salisti sulla nave dai bei banchi,
né giungesti alla rocca di Troia.
Oltre al prologo dell’Elena e al finale dell’Ecuba euripidee, la retractatio stesicorea influenzò l’Encomio di Elena di Gorgia e quello di Isocrate, e a Roma le composizioni di Orazio (Hor. Carm. I 16, 34; Epod. 17, 37-45) e di Tibullo (Tib. I 5, 1-18).
Pittore di Amasis. Ricongiungimento fra Elena e Menelao. Pittura vascolare su anfora attica (lato B) a figure nere, 550 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.
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A giudicare dal metro – l’esametro dattilico – questo frammento, che è forse il più noto di Alcmane, doveva provenire da un προοίμιον citarodico, ovvero da un assolo eseguito dal χοροδιδάσκαλος, che fungeva da introduzione al partenio. Rivolgendosi al coro delle fanciulle, l’esecutore maschile (il poeta stesso?) lamenta la debolezza fisica che gli impedisce di unirsi alle fanciulle in danza, rimpiangendo di non possedere più lo stesso vigore di un tempo e vagheggia di trasformarsi nel «sacro uccello colore di mare», il cerilo, che volteggia sul fiore dell’onda insieme con le femmine, le alcioni. Questa la lettura più credibile del testo di Alcmane, sulla cui interpretazione ha gravato la fantasiosa notizia del paradossografo e teratologo ellenistico Antigono di Caristo (Libro delle meraviglie, 23 ss.), il testimone principale, che cita questi versi per suffragare una tradizione secondo la quale il cerilo, l’alcione maschio, quando per la vecchiaia perde le forze e non riesce più a volare, viene preso sulle ali e trasportato a volo dalle femmine. Interpretazione piuttosto bislacca, in quanto qui il cerilo è visto in atto di volare, non di essere trasportato (D. Page annota giustamente: «ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτῆται, non φορεῖται hic cerylus»). Non si tratta quindi, da parte del poeta, del desiderio di essere trasportato alla danza dalle ragazze del coro (apostrofate al v. 1), quanto piuttosto dello struggimento per la propria menomazione fisica e del rimpianto per la giovinezza perduta.
[1]vv. 1-4«Non più (con οὐ in rilievo in principio di verso e forte stacco rispetto a φέρην δύναται del v. 2), vergini (παρσενικαὶ = παρθένοι) dal canto soave (μελιγάρυες = μελιγήρυες, propriamente “dalla voce di miele”; cfr. Od. XII 187, dove l’aggettivo è riferito al canto delle Sirene) e dal canto sacro (ἱαρόφωνοι = ἱερόφωνοι), le membra hanno forza di portarmi (φέρην = φέρειν; cfr. Sapph. F 58, 15 V γόνα δ’ ο]ὐ φέροισι); fossi, oh fossi (βάλε = lat. utinam, è una forma di imperativo, forse di βάλλω, cristallizzatasi in congiunzione desiderativa) un cerilo (κηρύλος, maschio dell’alcione secondo Antigono, mentre due scoli a Teocrito sostengono che l’alcione prende il nome di “cerilo” nella vecchiaia: cfr. Calame, 473-475), che (ὅς τε: τε è il cosiddetto “τε epico” e ha valore generalizzante, indicando una condizione o attività abituale) sul fior dell’onda (metafora che indica la schiuma delle onde, cfr. Callim. F 260, 57 Pf.) vola (ποτήται = ποτᾶται, πέτεται) insieme con le alcioni con cuore intrepido (νηδεὲς dal prefisso negativo νή + δέος, hapax; cfr. Aristoph. Av. 1376; è correzione di J.F. Boissonade per νηλεές, “spietato”; cfr. Il. XIX 229; IX 497 –, accolto da alcuni editori tra cui Calame, o ἀδεές, tramandati rispettivamente da Antigono e da Fozio),sacro (ἱαρὸς = ἱερὸς, cfr. Riano F 73, 3 P probabilmente in relazione alla leggenda – attestata a partire da Simonid. F 508 – delle “giornate alcionidi”, cioè della quiete marina che si avrebbe al tempo del solstizio d’inverno per consentire all’alcione di nidificare; peraltro, ἱαρὸς è correzione di A. Hecker, mentre la tradizione – Antigono, Fozio, Ateneo – riporta concordemente εἴαρος, e questa lezione ha trovato consensi anche col richiamo a Sapph. F 136 V) uccello dal cangiante colore del mare (ἁλιπόρφυρος, < ἅλς + πορφύρω; cfr. Od. VI 53; XIII 108; Anacr. PMG 447)».
Elihu Vedder, Le Pleiadi. Olio su tela, 1885. New York, Metropolitan Museum of Art.
Ricordava Gennaro Perrotta che «quando un Greco diceva “vorrei essere un uccello”, la frase aveva un senso ben diverso da quello che ha per noi: voleva dire che era al colmo dell’infelicità e voleva divenire un essere irragionevole, per non soffrire»: si tratta in effetti di un tópos che ricorre in Anacreonte (PMG 378) e in vari luoghi di Euripide (Hipp. 732 ss.; 1292-1293; Med. 1297; HF 1157-1158; vd. Di Benedetto 1971, 263), ma in Alcmane il riferimento al cerilo mostra un’evidente connotazione positiva, come figura di un desiderio sia pure irrealizzabile, e sembra piuttosto comparabile – per quanto riguarda il nesso fra l’assimilazione a un animale alato e la liberazione dalla vecchiaia – con l’aspirazione, espressa da Callimaco, nel prologo degli Aitia (F 1, 31-36 Pfeiffer), a essere come una cicala:
θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο
ἄλλος, ἐγ]ὼ δ’ εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,
ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω
πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων,
αὖθι τ δ ’ ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος
ὅσσον ἔπεστι τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ’ Ἐγκελάδῳ.
Nomos, Metaponto c. 500 a.C. AR 8,05 g. Recto: META(ΠOΝΤΙΟΝ), una spiga di grano con cavalletta/cicala.
Altri ragli simile in tutto alla bestia orecchiuta, ma io
sia il minuscolo alato animaletto – ah, sì! Davvero! –
perché la vecchiaia, perché la rugiada – cibandomi di
questo cibo distillato dall’etere divino io canti ma per
contro mi spogli di quella che addosso mi pesa
quanto l’isola a tre punte pesava su Encelado sciagurato.
Dibattuta l’identificazione dell’io: il disegno metrico (esametri dattilici) e la testimonianza di Antigono («[Alcmane] dice così essendo debole a causa della vecchiaia e non potendo partecipare ai cori né alla danza delle fanciulle») ha indotto a più riprese a ricondurre il brano a un προοίμιον, a un preludio citarodico per un partenio (destinato a essere eseguito subito dopo), e forse non è un caso che troviamo un’allocuzione a un coro di giovani coreute da parte del poeta alla fine (vv. 156 ss.) della sezione delia dell’inno omerico Ad Apollo (che in realtà era propriamente un προοίμιον, non diversamente da tutti i più antichi e più estesi inni detti “omerici”). Assai meno verosimile, in quanto priva di riscontri, parrebbe invece l’ipotesi secondo cui l’apostrofe era diretta alle coreute da un corego o da un χοροδιδάσκαλος diverso dal poeta (è semmai il coro a potersi eventualmente rivolgere al suo corego). «Alcmane guida i virginei cori: / “Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza, / come il cèrilo vola tratto da le alcioni: / vola con le alcioni tra l’onde schiumanti in tempesta, / cèrilo purpureo nunzio di primavera”»: traduzione “bella e fedele”, il Cèrilo (vv. 12-16), tratto dalle carducciane Odi barbare, costituisce la più famosa tra le riprese di questi celebri versi. Eppure, anche nell’antichità questo brano alcmaniano doveva essere famoso, come mostrano tra gli altri i riecheggiamenti in Saffo (F 58, 11-16 Voigt), negli Uccelli di Aristofane (vv. 250-251) e in Apollonio Rodio (IV 363).
Herbert James Draper, Halcyone. Olio su tela, 1915
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Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brundisium intorno al 220. Secondo Plinio il Vecchio (Plin. Nat. hist. XXXV 7, 19), era figlio di una sorella di Quinto Ennio (Enni sorore genitus) e probabilmente già in giovane età raggiunse lo zio a Roma, dove condusse un’esistenza agevolata dall’illustre parentela: si occupò della sua formazione Ennio stesso, da cui Pacuvio ereditò gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche; introdotto grazie allo zio negli ambienti ellenizzanti dell’Urbe, in particolare nel «circolo» scipionico, Pacuvio intraprese l’attività di pittore – ancora ai tempi di Plinio il Vecchio si ammirava un suo quadro nel tempio di Ercole, nel Foro Boario (Plin. ibid.) – e quella di poeta. Evidentemente, il rango rispettabile, che, per il mos maiorum, non ammetteva una vita dedicata alle arti, non gli impedì di impegnarsi in vari campi artistici, che anzi contribuì con ogni probabilità a nobilitare agli occhi dell’aristocrazia romana. Stando a Cicerone (Cic. Lael. 24), Pacuvio strinse amicizia con Gaio Lelio, ma è probabile che si tratti di una finzione letteraria dello stesso Arpinate. Rispettato e stimato da molti, negli ultimi anni della sua lunga vita Pacuvio si ritirò a Tarentum, dove morì, quasi novantenne, intorno al 130.
Pacuvio forse, ispirato all’attività letteraria dello zio, scrisse anche delle Saturae, ma è più verosimile che l’ambito nel quale si specializzò fosse quello del teatro tragico. Di lui restano, infatti, dodici titoli e circa quattrocento frammenti di tragedie cothurnatae, ovvero drammi incentrati sulla mitologia greca: Antiopa, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermion, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea, Teucer. Si conosce anche il titolo di una praetexta, ovvero una tragedia di argomento romano: il Paulus, che probabilmente narrava le gesta di Lucio Emilio Paolo e della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna (168), rappresentata durante il trionfo del condottiero o durante i ludi funebres dello stesso nel 160.
Mentre Ennio si era ispirato soprattutto al tragediografo Euripide come fonte per le proprie cothurnatae, Pacuvio sembra aver attinto ugualmente a tutt’e tre i grandi tragici ateniesi e forse ad altri drammaturghi perduti.
Dai frammenti superstiti e dai titoli delle tragedie emerge comunque una predilezione per vicende e varianti mitiche per molti versi marginali, spesso con personaggi secondari assurti a protagonisti, ma che presentavano ampie potenzialità per costruire intrecci complicati, ricchi di scene strazianti e sorprendenti. L’Antiopa trattava di Antiope, vittima delle angherie degli zii Lico e Dirce e salvata da Anfione e Zeto, i figli che aveva avuto da Zeus, abbandonati in tenera età e creduti morti da tutti; l’Armorum iudicium era incentrato sullo scontro tra Aiace e Odisseo per ottenere, dopo la sua morte, le armi di Achille; il Dulorestes vedeva Oreste vestire i panni di uno schiavo per punire gli uccisori del padre, Clitemnestra ed Egisto; il protagonista del Medus era l’omonimo figlio di Medea, fondatore del regno di Media, mentre nei Niptra («I lavacri») il protagonista era Odisseo tornato a Itaca. In questo dramma lo spunto tratto dall’Odissea (il riconoscimento dell’eroe, durante il bagno che dava il titolo alla tragedia, grazie a una cicatrice sulla gamba) era combinato con un episodio estraneo alla saga omerica, ovvero l’arrivo di Telegono, il figlio che il Laerziade aveva avuto da Circe e dal quale viene ucciso per errore.
Maschera tragica. Mosaico, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Alcune scene delle tragedie di Pacuvio rimasero famose per la loro carica di altissimo e virtuosistico patetismo. Cicerone (Cic. Tusc. I 106, 1) ricorda in particolare l’incipit dell’Iliona, in cui alla protagonista appariva, per mezzo di una macchina scenica, in sogno il fantasma del figlio Deipilo, ucciso dal padre e rimasto insepolto (vv. 197-201 Ribbeck = vv. 227-231 D’Anna):
Mater, te appello; tu quae curam somno suspensam levas
neque te mei miseret, surge et sepeli natum ‹tuum› prius
quam ferae volucresque…
neu reliquias sic meas sireis denudatis ossibus
per terram sanie delibutas foede divexarier.
Madre, te io chiamo; tu che con il sonno dai requie e sollievo
alla pena e non hai pietà di me; alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima
che fiere e uccelli…
non lasciare che le mie spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo,
siano sconciamente lacerate e disperse per terra, grondanti putredine.
Allegoria della Fortuna (memento mori). Mosaico, I sec. a.C. ca., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Nell’Iliade Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, re di Troia, confidando nella propria rapidità nella corsa, partecipa ai combattimenti contro il volere del padre e cade per mano di Achille. Ma fin dalla tragedia attica si diffuse un’altra versione della leggenda: affidato dal padre al re di Tracia Polimestore insieme a molti tesori, garanzia di un futuro degno del suo rango, Polidoro è ucciso a tradimento dal suo ospite, gettato in mare e ritrovato sulla costa della Troade dalla madre Ecuba durante i preparativi per il funerale di Polissena, la figlia sacrificata sulla tomba di Achille. È Ecuba a vendicarsi su Polimestore, attirato al campo acheo con una scusa e accecato in modo orrendo.
Virgilio avrebbe variato la versione euripidea, immaginando che il corpo del principe troiano non fosse stato gettato in mare, ma lasciato sulla spiaggia dov’era caduto, trafitto da un nugolo di dardi, poi trasformati in un boschetto di mirto: approdato in Tracia, Enea scoprì l’orrenda fine di Polidoro, svellendo un arboscello dalla pianta che dal suo corpo traeva la linfa vitale.
In Pacuvio, dunque, la storia conobbe ancora un’altra variante: Polidoro era stato affidato neonato a Iliona, figlia maggiore di Priamo e sposa del crudele e sanguinario re trace; la donna per proteggere il fratellino lo aveva sostituito al figlio appena nato, facendo passare quest’ultimo come il proprio fratello. Dopo la caduta di Troia, d’accordo con gli Achei, Polimestore acconsente a sopprimere l’ultimogenito di Priamo, ma per l’inganno di Iliona uccide suo figlio Deifilo. Quando, consultato l’oracolo di Delfi, Polidoro scopre la verità sulle proprie origini, trama vendetta contro Polimestore, che muore accecato da Iliona.
Cicerone, che conserva il frammento pacuviano, attesta che le parole del piccolo Deifilo, declamate con l’accompagnamento di una musica atta a suscitare il pianto, provocavano nel pubblico forte emozione e commozione. Come in altri testi dello stesso poeta, anche qui si rintracciano caratteristiche simili a quelle del teatro tragico enniano – che si possono considerare tipiche della tragedia romana, fino a Seneca: nell’adattamento dei modelli greci, infatti, si tende ad accrescere e a “caricare” il pathos e la sublimità, in una direzione che certa critica moderna ha definito “espressionistica”. L’apostrofe di Deifilo alla madre esibisce proprio questi tratti, ovvero l’accentuazione patetica e l’espressionismo orrido: la preghiera è enfatizzata dall’anafora (variata dal poliptoto) del pronome di seconda persona te… tu… te, efficacemente accostato al nesso allitterante mei miseret e chiuso dal possessivo tuum…, e dalla studiata allitterazione in sibilante che contrappone somno suspensam (l’oblio della colpa nel sonno) alla coppia paratattica di imperativi surge et sepeli. L’insistenza sui dettagli orridi del corpo in decomposizione è sottolineata ancora dalla catena fonica che lega gli elementi verbali successivi denudatis… delibutas… divexarier.
Il supplizio di Dirce: Anfione e Zeto vendicano la madre Antiope. Affresco pompeiano, ante 79 d.C. dalla Casa dei Vettii. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
È noto che Pacuvio eccelleva, in particolare, nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica, come, per esempio, nel Teucer, l’invettiva di Telamone contro il figlio Teucro, maledetto e ripudiato perché era tornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace e senza averne impedito o vendicato la morte; o come nei Niptra, l’agonia di Ulisse, ferito a morte da Telegono, in mezzo ad atroci sofferenze.
L’accentuazione del pathos e la ricerca del patetismo si manifestava talora con l’insistenza su particolari orridi e raccapriccianti, destinati a commuovere e a impressionare gli spettatori. Per esempio, nell’Antiopa, la protagonista, ridotta in miseria e nello squallore, era descritta con un cumulus di aggettivi (vv. 20-21 Ribbeck = vv. 17-18 D’Anna):
inluvie corporis
et coma prolixa, impexa, conglomerata atque horrida.
Con il corpo sudicio
e i capelli lunghi, scarmigliati, arruffati e irti.
E, ancora, nel Chryses fece sensazione la scena in cui gli inseparabili amici, Oreste e Pilade, fatti prigionieri da re Toante intenzionato a uccidere Oreste, sostenevano entrambi di esserlo, per salvarsi reciprocamente: Ego sum Orestes! – Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes! (v. 365 Ribbeck, «Io sono Oreste!» «Niente affatto! Sono io, lo ripeto, Oreste!»).
Pilade, Oreste ed Ifigenia (da sx a dx). Affresco, ante 79 d.C., dal triclinium del procurator, Casa del Centenario (IX 8, 3-6), Pompei.
Anche l’alta frequenza di protagoniste femminili, che sembra emergere dai titoli delle tragedie, appare collegata a questa ricerca del patetismo, all’esasperazione dell’emotività, alla carica espressionistica.
Il teatro di Pacuvio, comunque, non si esauriva soltanto nella ricerca di trame a effetto, nelle atmosfere tragicamente cupe (simili, per certi versi, a quelle del moderno horror), nei soggetti angosciosi e nelle visioni orripilanti (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), negli «effetti speciali»; il poeta sapeva anche ricorrere alla suspence ottenuta attraverso la dilazione dello scioglimento finale, l’inserzione di elementi a sorpresa, le scene di agnizione. Talvolta le rheseis («discorsi») dei personaggi contenevano dei brillanti excursus narrativi, come la celebre descrizione della tempesta del Teucer, conservata da Cicerone (Cic. Div. 1, 24 = vv. 409-416 Ribbeck):
profectione laeti piscium lasciviam
intuentur, nec tuendi satietas capier potest.
interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,
tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum obcaecat nigror,
flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru contremit,
undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines,
fervit aestu pelagus.
Lieti per la partenza, osserviamo i giochi dei delfini
e non possiamo saziarci di guardarli.
Ma ecco che, verso il tramonto del Sole, il mare s’increspa,
le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte e dei nembi ci acceca,
i fulmini balenano fra le nubi, il cielo trema per i tuoni,
grandine mista a pioggia dirotta si rovescia d’improvviso,
da ogni lato i venti irrompono, s’abbattono raffiche crudeli,
il mare ribolle di flutti.
Nave. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Boscoreale, Antiquarium.
Il poeta mostra di conoscere già tutti gli ingredienti topici della tempesta letteraria: la natura improvvisa, imprevedibile del fenomeno, annunciato dall’incresparsi del mare, il raddoppiarsi dell’oscurità che cancella la distinzione tra cielo e mare, il balenare dei lampi seguito dal fragore dei tuoni, la grandine che scroscia a dirotto, la violenza dei venti in lotta, che soffiano in tutte le direzioni, il ribollire del mare. Ogni tratto descrittivo sembra sviluppato da Pacuvio attingendo da tutte le risorse dell’espressionismo: ne risulta uno stile ridondante, ripetitivo ed enfatico. Enfatici sono appunto verbi come conduplicantur e contremit, mentre la ricerca di suoni duri (t, c, r, s) e nasali (n, m) intende evocare le sonorità orride del mare in burrasca.
La ricercatezza di Pacuvio, evidente nella scelta degli argomenti e nell’attenzione alle problematiche etiche, emergeva anche nella sua cura attentissima per la forma. Gli antichi parlavano della sua ubertas («magniloquenza») e, come si vede, i suoi frammenti sono appunto contraddistinti dalla fitta presenza di coppie sinonimiche e dall’insistenza delle figure di suono – tutti tratti che fecero dire a Cicerone summum… Pacuvium tragicum (Cic. Opt. gen. 2). Emblematico, a tal riguardo, risulta un altro verso dal Teucer: periere Danai, plera pars pessum datast (v. 320 Ribbeck, «Sono periti i Danai, e per la massima parte sono andati in rovina»), passo nel quale tutte le parole sono legate da allitterazione e omeoarco (accostamento di parole di significato diverso che iniziano con la stessa sillaba).
Certi frammenti costituiscono, per esempio, vere e proprie massime morali, che rispecchiano gli ideali romani dell’autocontrollo e della gravitas, ovvero compostezza e dignità, come, per esempio, la seguente, tratta dai Niptra (vv. 268-269 Ribbeck = vv. 317-318 D’Anna, apud Gell. N.A. II 26, 13):
conqueri fortunam advorsam, non lamentari decet;
id viri est officium, fletus muliebri ingenio additust.
È ammissibile lamentarsi della sorte avversa, non piangere;
questo è il comportamento di un uomo, mentre le lacrime sono proprie dell’indole femminile.
In altre tragedie comparivano dibattiti etici, in cui si discuteva se la virtus fosse da intendere come valore militare o come superiorità intellettuale e spirituale (qualità incarnate rispettivamente da Aiace e da Ulisse nell’Armorum iudicium); in altri casi al centro del dibattito compariva il confronto tra vita attiva e vita contemplativa (rappresentate da Zeto e Anfione nell’Antiopa). A questo si aggiungeva l’interesse dell’autore per la scienza e la filosofia naturale, che contribuì a circondarlo della fama di poeta doctus. Come tale, oltre ad applicare per primo la tecnica della contaminatio alla tragedia (per esempio, fondendo nel Chryses elementi dell’omonimo dramma di Sofocle con dettagli dell’Ifigenia in Tauride di Euripide), la cothurnata di Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco di stampo euripideo. Sempre nel Chryses, infatti, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo, ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita soltanto di essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).
Cupido che cavalca una coppia di delfini. Mosaico, c. 120-80 a.C. Delos, Casa dei Delfini.
Oltre a considerarlo il massimo autore scenico romano, Cicerone lodava lo stile accurato di Pacuvio (Cic. de orat. 36), giudicandolo più elegante di quello di Ennio: la ricerca della sublimità si spingeva sino ad ardite sperimentazioni. Famoso, anzi famigerato, perché deriso già dal poeta satirico Lucilio (v. 212 Marx, apud Gell. N.A. XVIII 8, 2) e poi criticato da Quintiliano (Quint. Inst. I 5, 67), fu il tentativo di Pacuvio di coniare composti ricalcati sull’uso epico-tragico greco. È il caso dei delfini, che Livio Andronico nell’Aegisthus aveva definito Nerei simum pecus («il camuso gregge di Nereo», F 2, 1 Ribbeck) e che Pacuvio con un’iperbolica perifrasi chiamò Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus («il gregge di Nereo dal muso rivolto in alto e dal collo incurvato», v. 408 Ribbeck = v. 366 D’Anna). I neologismi dalla struttura linguistica troppo audace sia per l’eccessiva lunghezza, sia per il tipo di composizione (aggettivo più sostantivo) assai più congeniale alla lingua greca che a quella latina, non ebbero alcun seguito nella tradizione romana e simili forzate innovazioni sarebbero state criticate anche da grammatici e da puristi.
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