Quinto Ennio

di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 129-135.

Nella memoria dei Romani Quinto Ennio rimase impresso come uno dei poeti arcaici più degni di venerazione. La sua opera restò infatti nei secoli successivi il simbolo di un’epoca – quella dello scontro politico e militare tra Roma e il mondo ellenico – e l’emblema di un approccio orgogliosamente romano, di confronto ma non di subalternità nei riguardi della cultura greca. Ennio fu un poeta estremamente influente, dunque: molte sue innovazioni marcarono la storia successiva di alcuni tra i più importanti generi letterari coltivati a Roma; senza di lui e senza l’opera riconosciuta come il suo capolavoro poetico, gli Annales, non si potrebbe più capire la storia dell’epica celebrativa romana, che sarebbe culminata con Virgilio; e se non si avesse conoscenza delle tragedie di Ennio, mancherebbe un tassello importante per comprendere alcuni sviluppi tipicamente romani del genere teatrale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una vita per la poesia

Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina della regione chiamata dai Romani Calabria (cioè l’area più meridionale dell’odierna Puglia). Dunque, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, anche Ennio non era latino ma proveniva da una zona di cultura italica fortemente grecizzata. Sembra inoltre molto probabile che egli abbia trascorso gli anni fondamentali della sua formazione nella città italiota di Taranto. Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204, quasi settant’anni dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse l’attività di insegnante, ma presto (entro il 190) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie.

Nel 189-187 egli accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne nei suoi versi la campagna militare contro la coalizione dei popoli e delle città raccolti nella Lega Etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò, infatti, un’opera intitolata Ambracia, molto probabilmente una tragedia praetexta. Nel seguito della sua vita Ennio fu protetto e favorito dalla nobile famiglia di Nobiliore nonché dalla casata degli Scipiones, entrando a far parte del loro “circolo”. Risale all’ultima fase della sua vita la fatica, senz’altro vastissima, degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio morì a Roma nel 169. Già in vita gli furono tributati grandi onori e, per questo, l’orgoglio per la propria fama e il presentimento dell’immortalità si incontrano spesso nella sua opera.

Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Dritto: Hercules | Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.

La produzione letteraria

Gli inizi poetici di Ennio, come si è visto, si posero nel segno del teatro. In questo campo egli fu poeta fecondo, con una produzione che non rimase confinata agli anni giovanili, ma si estese lungo l’arco di tutta la sua vita (la tragedia Thyestes, infatti, è databile al 169, l’anno della sua scomparsa). Restano, tuttavia, i titoli di circa venti tragedie coturnatae e un numero insolitamente ricco di brevi citazioni tratte dai drammi, per un totale di circa quattrocento versi. I temi delle tragedie enniane sono soprattutto quelli del ciclo troiano: Alexander, Andromacha aechmalotis, Hecuba, Iphigenia, Medea exul, ecc. Gli studiosi antichi conoscevano, di Ennio, anche due commedie, la Caupuncula [L’ostessa] e il Pancratiastes [Il lottatore], ma per questa parte della sua produzione il poeta era ritenuto un minore; in effetti, fu l’ultimo autore latino a praticare insieme tragedia e commedia.

L’opera che gli diede immensa celebrità nel mondo romano, e grazie alla quale ancora oggi egli resta un autore molto importante, furono gli Annales, il primo poema latino in esametri. In essi Ennio narrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi. Dei diciotto libri originari restano attualmente quattrocento trentasette frammenti, per un totale di circa seicento versi. Se si escludono i testi comici, il poema enniano è dunque l’unica opera latina di età medio-repubblicana della quale è possibile farsi un’idea di una qualche ampiezza.

Di Ennio sono attestate anche alcune opere minori, delle quali si può leggere poco, ma che meritano comunque menzione perché molte di esse hanno avuto un seguito nella letteratura latina. Gli Hedyphagètica [Il mangiar bene] erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela, vissuto nel IV secolo a.C. Se essi, come tutto fa pensare, furono composti prima degli Annales, si tratterebbe della prima opera latina in esametri attestata. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già il verso scelto, che era quello di Omero e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. Se è così, gli Hedyphagètica avevano probabilmente affinità con un’altra opera di Ennio, le Saturae, primo esempio di un genere che avrebbe avuto larga fortuna nella poesia latina, fino a Orazio e oltre. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri e in metri diversi, è largamente congetturale.

Altri testi di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante: l’Euhèmerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina; l’Epicharmus, in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del grande poeta comico greco Epicarmo, vissuto nel V secolo.

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

Le tragedie: il gusto per il patetico e il grandioso

Benché Ennio abbia acquistato l’immortalità poetica attraverso gli Annales, che sono la sua opera fondamentale, furono le tragedie a garantirgli nell’immediato la maggiore affermazione letteraria. Il motivo di questo successo va senza dubbio ricercato nella capacità del poeta di sviluppare una forma tragica sempre più in grado di collocarsi con dignità a fianco dei classici greci. Per quanto è possibile osservare dai frammenti superstiti, il carattere innovativo delle tragedie di Ennio rispetto alla tragedia greca va individuato nella netta accentuazione dell’elemento patetico e spettacolare: si tratta di visioni, apparizioni, orride descrizioni, in cui il poeta dà prova di una fantasia visionaria che sembra anticipare certi esiti del teatro moderno. Questa predilezione per le rappresentazioni a effetto sembra essere stata una cifra stilistica comune della tragedia latina arcaica: a differenza di quanto sarebbe accaduto in età imperiale, quando i drammi sarebbero stati concepiti espressamente per la recitazione nelle sale da lettura, le tragedie di Ennio (come pure quelle di Accio e Pacuvio) erano scritte per essere rappresentate sulla scena, ed è certo che la spettacolarità dell’allestimento doveva essere una sicura garanzia di successo e popolarità. Un frammento, tratto dall’Alcmeo (Scaenica, vv. 27-30 Vahlen, apud Cɪᴄ. de orat. III 217), porta in scena l’incubo del matricida Alcmeone, da cui l’opera trae il titolo, tormentato dalle Furie materne. Si tratta di un bell’esempio della predilezione di Ennio per i momenti di maggiore pathos e per la rappresentazione degli sconvolgimenti dell’animo e della mente.

unde haec flamma oritur?        

†incede incede† adsunt; me expetunt.

fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc uim quae me excruciat.

caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.

Donde si leva questa fiamma?

Corri, corri! Avanzano, s’avventano.

Aiuto! Scaccia da me questo malanno, quest’assalto avvampante che mi strazia!

Cinte di cerulee serpi irrompono, mi serrano con faci ardenti!

(trad. di C. Marchesi – G. Campagna)

Alcmeone uccide la madre Erifile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Sirico, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo il mito greco, Alcmeone era figlio di Anfiarao, re di Argo, e di Erifile. Quando la donna costrinse lo sposo a partecipare alla guerra contro la città di Tebe (un riflesso della quale si ha nella tragedia eschilea I sette contro Tebe), Anfiarao, sapendo che vi avrebbe trovato la morte, comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo: egli avrebbe dunque dovuto uccidere la madre e compiere una seconda spedizione contro Tebe. Il che, puntualmente, accadde. Tuttavia – come emerge anche da questo frammento enniano – Alcmeone dovette subire la persecuzione delle Furie (divinità vendicatrici dei delitti di sangue, corrispondenti alle greche Erinni, che si ritrovano nella saga dell’Orestea di Eschilo) e si recò esule in vari luoghi della Grecia per purificarsi del matricidio. Ma, nonostante i ripetuti tentativi in tal senso, venne infine ucciso dai figli di Fegeo, re di Psofi.

Un altro frammento enniano, tratto dall’Alexander (Scaenica, vv. 63-71 Vahlen, apud Cɪᴄ. Div. 1, 66), si sofferma sulla profezia di Cassandra, l’inascoltata profetessa, figlia di Priamo. La visione profetica, relativa alla caduta di Troia, è di raffinata struttura e di vivo effetto, stravolta com’è nel suo ordine logico e cronologico: prima l’immagine dell’incendio e del sangue simboleggiata e suscitata dalla fiaccola, poi l’invasione dell’armata nemica e, infine, la causa prima della rovina, il giudizio di Paride e la conseguente venuta a Troia di Elena (Lacedaemonia mulier), premio offerto da Venere al giudice che le aveva dato vittoria sulle dee rivali.

adest, adest fax obuoluta sanguine atque incendio,     

multos annos latuit, ciues, ferte opem et restinguite.  

iamque mari magno classis cita            

texitur, exitium examen rapit:

adueniet, fera ueliuolantibus

nauibus complebit manus litora.          

eheu uidete:     

iudicauit inclitum iudicium inter deas tris aliquis:      

quo iudicio Lacedaemonia mulier, Furiarum una adueniet.

Ecco, ecco la fiaccola avvolta di sangue e di fuoco!

Per molti anni rimase nascosta: portate aiuto, cittadini, spegnetela!

E già sul mare una veloce flotta

si allestisce e con sé porta uno sciame di sventure.

Giungerà qui un’armata di guerra

e navi con le vele al vento riempiranno i lidi!

Ahimè, guardate:

un uomo ha giudicato le tre dee col celebre giudizio:

per quel giudizio giungerà qui una donna spartana, una delle Furie!

Cassandra (al centro) predice la caduta di Troia. Priamo stringe tra le braccia Paride (sinistra). Ettore assiste alla scena (destra). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La profezia di Cassandra inverte completamente la consueta successione degli eventi che portano alla guerra e alla caduta della città. All’inizio del frammento (vv. 63-64) l’abitato è già presentato come dato alle fiamme per mano dei Greci. Quindi, secondo un cammino a ritroso, vengono richiamati i momenti dell’allestimento della flotta greca e, implicitamente, dell’approdo sui lidi della Troade (vv. 65-68). Solo alla fine (vv. 69-71) la profetessa evoca gli antefatti della guerra, connessi con il giudizio di Paride, che tra Giunone, Minerva e Venere scelse di attribuire la palma della bellezza a quest’ultima, in cambio dell’amore di Elena.

Ora, questo frammento e quello precedente costituiscono un bell’esempio delle rappresentazioni a tinte forti tipiche della tragedia latina arcaica. Al tono profetico si mescolano infatti parole dense di significato, che orientano nettamente la descrizione in senso macabro. Soprattutto in questo, al v. 63 la fiaccola che prefigura la fine di Troia è descritta come avvolta da sangue e fuoco (fax obuoluta sanguine atque incendio). Ai vv. 67-68 l’armata achea è definita fera… manus, che letteralmente vale «feroce manipolo (di uomini)». Al v. 71 Elena, causa della guerra, è equiparata a una delle Furie, terribili e vendicative entità rappresentate come donne alate dai capelli intrecciati di serpi e con in mano una torcia o una frusta. Al v. 67 Ennio definisce le navi ueliuolantes. Si tratta dell’unico esempio, in tutta la letteratura latina, dell’aggettivo composto ueliuolans, letteralmente «che vola con le vele», che è dunque, per usare una locuzione tecnico-retorica, un hàpax legòmenon. A quanto si sa, Ennio, che prediligeva la coniazione di aggettivi composti, sentiti come caratteristici dello stile poetico elevato, introdusse nella poesia latina anche ueliuolus (due esempi, sempre in riferimento alle navi), poi ripreso da Lucrezio, Virgilio e Ovidio.

Il gusto di Ennio per la sperimentazione linguistica, che caratterizza il suo stile, è riconoscibile, tra l’altro, nell’invenzione di aggettivi composti (quelli che diventeranno un marchio stilistico della lingua poetica latina). Ennio li modellò sugli “aggettivi doppi”, cari alla lingua elevata della poesia greca. Già Aristotele, infatti, aveva fatto notare che una delle caratteristiche principali della lingua della poesia greca solenne era l’uso di composti; intendeva riferirsi a quelle formazioni linguistiche prodotte dall’unione di due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, quasi centauri formati da due corpi diversi. È appunto questa immagine con cui li definisce Quintiliano (Inst. I 5, 65), e duobos quasi corporibus coalescunt («risultano formati come se consistessero di due corpi insieme»).

In quanto espressioni in cui due concetti sono riuniti in una sola parola, i composti risultano particolarmente appropriati nei linguaggi che hanno bisogno di mezzi fortemente espressivi, vale a dire soprattutto nella lingua viva del popolo e nella lingua intensa dei poeti, due forme di linguaggio che spesso paradossalmente si incontrano. Per quanto riguarda il parlato, si possono citare molte forme popolari frequenti nelle commedie arcaiche, soprattutto quelle di Plauto, che ama inventare espressioni ingiuriose vivaci: per esempio, multiloqua et multibiba… anus (Cist. v. 149: «una vecchia chiacchierona e ubriacona»). Quanto al linguaggio della poesia elevata, i composti più conformi allo spirito della lingua latina sembrano essere stati quelli che hanno un elemento verbale nel secondo membro (del tipo omnipotens, horrisonus), e soprattutto quelli in -fer-, -ger- e -cola, antichi temi verbali (fero, gero, colo), che per il loro uso frequente erano di fatto ridotti quasi a suffissi (come frugifer, «fruttifero, ferace, fertile»; armiger, «armato»; coelicola, «abitatore del cielo, divinità»). Di Ennio si può citare come buon esempio un verso degli Annales (v. 198 Skutsch = 181 Vahlen): bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes («forti-in-guerra sono più che forti-in-senno»), dove di grande efficacia espressiva è anche la “rima” (o meglio l’omeoteleuto, cioè una uguale fine di parola). In Annales, v. 593 Skutsch oratores doctiloqui («gli ambasciatori abili a parlare»), il composto doctiloquus è invenzione enniana, anche se già Plauto aveva prodotto forme analoghe, come blandiloquus, «che parla in modo carezzevole», falsiloquus, stultiloquus. Molti sono i composti che appaiono come calchi di aggettivi doppi greci consacrati dalla grande poesia: così Annales, v. 554 Skutsch contremuit templum magnum Iouis altitonantis, «tremò il grande recinto (= il cielo) di Giove che tuona dall’alto», dove l’aggettivo altitonans riproduce il corrispondente greco βαρυβρεμέτης; così ancora Annales, v. 76 Skutsch genus altiuolantum, «la stirpe degli uccelli», dove altiuolans ricalca il greco ὑψιπετήεις. Questa innovazione introdotta da Ennio fu assai rilevante per la lingua poetica romana: l’uso dei composti diventò uno dei principali elementi capaci di differenziare la lingua poetica da quella della prosa letteraria. I composti, infatti, adatti per la loro forma a riempire lunghi versi e a offrire ampie possibilità di effetti fonici, furono un importante mezzo di espressività e insieme un vero e proprio marchio dello stile elevato.

Dunque, il gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano, quali il terrore e la paura, la grande commozione, sono tutti elementi tipici di questo linguaggio teatrale che si avviò, sul modello tracciato da Ennio, a diventare tipico della poesia tragica latina. Su questa scia, infatti, si sarebbero posti in seguito i più importanti tragediografi: Pacuvio e Accio prima, e poi Seneca.

A questo proposito, vale la pena di citare un brano come il “cantico di Andromaca”, tratto dall’omonima Andromacha aechmalotis, che rappresenta un caso esemplare degli effetti di commozione propri della tragedia arcaica; ancora ai tempi di Cicerone, esso costituiva un pezzo di bravura per i più celebri attori, che sapevano sfruttare i toni altamente patetici caratteristici della situazione tragica del monologo, quali il disperato ricordo della patria lontana e distrutta e il dolore per la nuova condizione di servitù (Scaenica vv. 86-99):

quid petam praesidi aut exequar? quoue nunc             

auxilio exili aut fugae freta sim?           

arce et urbe orba sum: quo accedam? quo applicem? 

cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent,     

fana flamma deflagrata, tosti †alii† stant parietes,      

deformati atque abiete crispa.

o pater, o patria, o Priami domus,        

saeptum altisono cardine templum.    

uidi ego te adstante ope barbarica,      

tectis caelatis laqueatis,            

auro ebore instructam regifice.             

haec omnia uidi inflammari,    

Priamo ui uitam euitari,            

Iouis aram sanguine turpari.

Dove chiedere protezione o dove cercarla? Adesso, in quale

esilio trovare aiuto, in quale la fuga?

Sono stata privata della città e della rocca: dove mi aggrapperò? Dove piegherò le ginocchia? Per me non ci sono più altari dei padri in patria, esse giacciono infrante e disperse,

i templi incendiati dalle fiamme, bruciacchiate si levano alte le pareti

deformate e con le travi contorte.

O padre, o patria, o casa di Priamo,

sacra dimora chiusa da altisonanti cardini!

Io ti vidi ergerti nello sfarzo orientale,

coi soffitti a cassettoni tutti intarsiati,

regalmente adorna d’oro e d’avorio.

Tutto questo io vidi preda delle fiamme,

e la vita violentemente tolta a Priamo,

e l’altare di Giove insozzato di sangue!

Georges-Antoine Rochegrosse, Andromaca. Olio su tela, 1883.

Gli Annales: finalità e composizione dell’opera

Gli Annales garantirono al poeta grande fama in virtù dell’argomento affrontato: la celebrazione della storia di Roma. Gli intenti laudativi dovevano, del resto, essere fondamentali in tutta la sua produzione: il poeta in precedenza aveva composto un poema dal titolo Scipio in lode di Scipione Africano e la tragedia Ambracia per ricordare la vittoria di Nobiliore. In particolare, il caso dell’Ambracia è sintomatico e, in qualche modo, fece epoca. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia “di corte”: presso le regge dei dinasti greci orientali (ad Alessandria, Pella, Antiochia, Pergamo, ecc.) risiedevano artisti che celebravano – spesso in narrazioni epiche – le gesta dei loro sovrani. Poesia ed encomio erano strettamente saldati. Così, Ennio, partecipando alla campagna di Nobiliore come poeta “al seguito” e poi componendo una tragedia per celebrarne l’impresa, non fece che ripetere quel modello. Difatti, Catone protestò vivacemente contro quell’iniziativa, che ai suoi occhi costituiva un atto di propaganda personale. Ennio, invece, doveva vedere la propria poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva così da un lato a Omero, dall’altro alla recente tradizione epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Nella parte più tarda della sua carriera Ennio dovette concepire il grandioso progetto di una laudatio che si allargasse a tutta la storia di Roma, raccontata in un unico poema epico: gli Annales, appunto. L’opera risultò, per ampiezza e concezione, assai più vasta di quei poemi ellenistici scritti in lode dei sovrani. Per ricchezza di struttura, il precedente più prossimo era certamente il Bellum Poenicum di Nevio, che però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio, invece, decise di narrare la sua materia senza stacchi e in ordine cronologico. Rispetto a Nevio, un’importante novità fu la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi omerici, originariamente un continuum indiviso di versi.

Il titolo Annales voleva richiamarsi alle raccolte degli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi che i pontifices maximi, membri del più autorevole collegio sacerdotale dell’Urbe, erano soliti redigere anno per anno. Anche l’opera enniana era condotta secondo una scansione cronologica progressiva, “dalle origini ai giorni nostri”; ma non bisogna pensare che il poeta trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Se, da un lato, lasciava un certo spazio alle antiche leggende sulle origini di Roma, dall’altro, mostrandosi assai più selettivo di uno storico, Ennio prediligeva quasi esclusivamente gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna: per lui era ovviamente la guerra l’interesse di un poeta epico ed era la guerra l’attività in cui si mostrava la virtus romana.

Secondo le ricostruzioni degli studiosi, alle origini leggendarie della città erano dedicati i primi libri dell’opera. Al contrario di Nevio, che aveva narrato probabilmente in un excursus il solo viaggio di Enea da Troia all’Italia, come una sorta di “premessa” al racconto della guerra punica, in Ennio le leggende sulla fondazione dovevano essere esposte in una forma narrativa continua e più sistematica. Nel poema enniano trovava così per la prima volta una sistemazione coerente tutto quel patrimonio mitico propriamente quiritario, che voleva dare lustro e dignità anche alle origini storiche dell’Urbe, ammantandole di un velo leggendario e riconducendole all’opera degli dèi e degli eroi del mito. Questa rivendicazione della nobiltà del passato della città era ideologicamente molto importante, nel momento in cui la potenza di Roma si avviava a dominare su tutto il Mediterraneo e la cultura romana tentava di affiancarsi a quella greco-ellenistica, con il suo vastissimo patrimonio mitologico.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

L’investitura poetica

Riguardo agli Annales sembra che Ennio avesse progettato inizialmente un poema in quindici libri, che si sarebbe concluso con il trionfo di Fulvio Nobiliore, il suo protettore, e forse con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio alle Muse. Per motivi non del tutto chiari, però, Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario, probabilmente per aggiornare l’opera con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane. Il suo poema rimase comunque contrassegnato da due grandi proemi, al libro I e al libro VII, punti in cui il poeta prendeva direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo far poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (v. 1 Skutsch = Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum («O Muse, che col vostro passo l’alto Olimpo calcate»). Dopodiché, con un’invenzione molto più audace, Ennio raccontava di un sogno, in cui gli era apparsa l’ombra di nientemeno che Omero, il capofila di tutti i poeti epici, il quale gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui, nel poeta romano Quinto Ennio (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): … somno leni placidoque reuinctus / … uisus Homerus adesse poeta («… preso da un dolce e calmo sonno /… apparve di fronte a me Omero, il poeta»). In questo modo, Ennio si presentava come il “sostituto” vivente di colui che, a giudizio degli antichi, era stato il più grande poeta di tutti i tempi.

Nel proemio al VII libro l’autore dava più spazio alle divinità della poesia (vv. 206-210 Skutsch = 213-217 Vahlen): … scripsere alii rem / uersibus quos olim Fauni uatesque canebant, / cum neque Musarum scopulos… / … nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. nos ausi reserare… («… altri scrissero di storia / con i versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati, / quando né le rocce delle Muse… / e quando, prima di me, non c’era neppure qualcuno che professasse il culto della parola. / Noi osammo aprire…»).

Ora, il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le Camenae dell’arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso – così lo definisce Ennio – cantato da «Fauni e vati», il verso dal passato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Lui, Ennio, era il primo poeta dicti studiosus, cioè “filologo”, “cultore della parola”. In altri termini, il primo che poteva pretendere di stare alla pari con i contemporanei poeti greci, gli alessandrini, che praticavano un’arte per pochi, raffinata ed erudita, curatissima nella forma. Sicuramente Ennio, nell’affermare orgogliosamente la propria priorità tra i Romani, poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia epica.

Un generale tiene una contio davanti alle sue truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.

Uno stile all’insegna della sperimentazione

Dato il carattere di estrema frammentarietà in cui è giunta l’opera di Ennio, del suo stile si rischia di farsi un’idea distorta. Ciò dipende in gran parte – come avviene regolarmente per i poeti romani arcaici – dalla tipologia delle fonti che lo riportano. A citare Ennio, infatti, sono per lo più grammatici e filologi tardo-antichi, studiosi spesso – anche se non sempre – più interessati a raccogliere dalla letteratura dei secoli passati esempi di stranezze e particolarità linguistiche che non casi di normalità. Così, l’immagine che si ha di Ennio epico è quella di un autore che adotta uno stile quasi sperimentale, arditamente innovatore. Egli accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò persino, della lingua ellenica, caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino-italico, addirittura alcune desinenze. Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei (per esempio, Āfrĭcă tērrĭbĭlī trĕmĭt hōrrĭdă tērră tŭmūltu e ōllī rēspōndīt rēx Ālbāī Lōngāī; in entrambi i casi appare evidente una motivazione stilistica per la scelta del ritmo); e insieme, il suo stile è ricco di figure di suono (com’era tipico della tradizione indigena dei carmina), che a volte sottolineano il pathos della situazione con esiti veramente felici.

In alcuni casi, il procedimento raggiunge l’esasperazione, come nel famigerato verso (104 Skutsch = 109 Vahlen) o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti («o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!»), dalla fortissima insistenza onomatopeica, sottolineata dall’ininterrotta serie dattilica; o ancora in quest’altro verso, in cui Ennio escogita una parola come taratantara per riprodurre il suono di una tromba militare (v. 451 Skutsch = 140 Vahlen): at tuba terribili sonitu taratantara dixit («con terribile suono la tromba fece udire il suo taratatà»).

Molte innovazioni introdotte da Ennio ebbero un grande futuro nella letteratura latina successiva: la ripresa dell’esametro dattilico greco fece storia, ma non fu l’unica conquista. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e per l’uso delle cesure. Se i suoi esametri possono comunicare una certa impressione di durezza per il lettore moderno, è perché è possibile confrontarli con quelli, più fluidi, di Virgilio o Ovidio. Ma non bisogna dimenticare che Ennio è stato il primo ad adattare la lingua latina a questa forma metrica, senza avere alcun modello davanti a sé: è lui il creatore di una tradizione letteraria.

T. Vettio Sabino. Denario, Roma 70 a.C. Ar. 4,05 gr. Dritto: Sabinus, testa nuda barbata di Tito Tazio verso destra con di fronte l’espressione S(enatus) C(onsulto).

I destini dell’epica a Roma: Ennio e i suoi successori

Ennio restò per molti secoli il “poeta nazionale” romano, esercitando con i suoi Annales un’enorme influenza su tutta la produzione epica successiva. Il discorso epico, dopo di lui, fu interpretato come discorso panegirico, celebrativo; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un poema che non rinuncia a essere celebrazione (del nuovo ordine augusteo), ma che è soprattutto una complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra.

Ennio fu il cantore della virtus individuale, eroica: a differenza di quanto accadeva nelle opere di Nevio e di Catone, gli Annales erano affollati di condottieri (imperatores, duces), ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta avrebbe saputo renderli immortali, si badi bene, non solo per le loro abilità guerresche, ma anche per quelle di pace. Questo filone avrebbe avuto un enorme seguito ed esiti non necessariamente disprezzabili. Un elegante poeta come il neoterico Varrone Atacino scrisse il Bellum Sequanicum, poema sulle campagne condotte da Cesare in Gallia; e compose un’opera epica a contenuto storico anche Cicerone, il De consulatu suo. Il genere, così concepito, avrebbe continuato a vivere a lungo, sopravvivendo anche all’Eneide, che pure avrebbe battuto una strada del tutto diversa. Molti Romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi; e molti illustri protettori avranno incoraggiato questi esercizi, che erano adatti ad amplificare, in una cornice epica e trasfigurante, le più recenti imprese di generali che erano anche capi politici. Fino a tutta l’età imperiale, insomma, la poesia epico-storica continuò a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere.

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Sitografia:

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PHI Latin Texts: https://latin.packhum.org/author/43

La fortuna di Plutarco

di B. SCARDIGLI, Introduzione alle Vite parallele di Plutarco (Agesilao-Pompeo), ed. E. LUPPINO MANES, Milano 1996, 5-14.

Plutarco nacque attorno al 45 d.C. nella cittadina di Cheronea in Beozia. Della famiglia parla con calore e rispetto, tanto del padre Autobulo, del nonno Lampria e dei fratelli Lampria e Timone, quanto della moglie Timossena e dei figli. Studiò ad Atene, seguendo soprattutto le lezioni di Ammonio, filosofo platonico[1]. A Cheronea rivestì cariche pubbliche e fondò una scuola. Dal 95 fu sacerdote del santuario di Delfi. Ricevette la cittadinanza romana (portò il nome gentilizio di Mestrio) e tra il 98 e il 117 gli ornamenta consularia, cioè le insegne proprie di un console. La condizione economica agiata gli permise di fare molti viaggi in Asia, in Egitto, nell’Italia settentrionale e a Roma[2], dove tenne conferenze e strinse amicizia con personaggi autorevoli, tanto che dedicò le Vite parallele, le Quaestiones conviviales e il De profectibus in virtute a Q. Sosio Senecione, consolare di alto rango[3].

Plutarco. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Delfi, Museo Archeologico.

È significativo che dopo la prima decade delle Vite Plutarco (Aem. I 1) dichiari di voler continuare, per suo personale piacere, l’opera concepita su sollecitazione di altri; è altrettanto significativo che proprio la prima copia della nuova decade (Emilio Paolo – Timoleonte) sia la più idealizzata di tutte[4].

Plutarco è uno degli scrittori più fertili dell’antichità e uno dei più letti in tutte le epoche. La maggior parte delle sue opere, composte a Cheronea, nacque da occasioni ben precise ed era anche destinata a mantenere le relazioni con gli amici vicini e lontani e con i vecchi scolari.

L’opera si divide in due corpora: da un lato i Moralia, dall’altro le biografie. I Moralia sono saggi che trattano questioni di etica, antiquaria, filosofia, religione, retorica, di critica letteraria e di politica: questi ultimi sono in genere i più vicini all’altro corpus, quello delle biografie, consistente in ventidue coppie greco-romane (di cui una perduta[5] e una eccezionalmente composta di quattro Vite: Agide e Cleomene – i due Gracchi); vi erano anche biografie singole, di cui alcune perdute, altre rimaste allo stadio di progetto[6], come l’Eracle, il Leonida (De Her. Malignitate 32, 866b), il Metello Numidico (Mar. 29), il Cratete e forse la Vita di Scipione Emiliano, se il partner dell’Epaminonda era l’Africano[7]; due superstiti (l’Arato e l’Artaserse). Plutarco scrisse inoltre le Vite degli Imperatori fino ai Flavi (sono conservate quelle di Galba e di Otone), redatte diverso tempo prima delle Vite parallele.

Anche se i due grandi ambiti tematici a prima vista sembrano distanziarsi l’uno dall’altro, essi hanno in realtà non pochi elementi in comune: gli stessi temi infatti si ripropongono spesso in opere da diversi punti di vista[8].

Plutarco. Stele, marmo, 126 d.C. con iscrizione onorifica (Syll.³ 843A, Δελφοὶ Χαιρωνεῦσιν ὑμοῦ Πλούταρχον ἔθηκαν τοῖς Ἀμφικτυόνων δόγματι πειθόμενοι). Delfi, Museo Archeologico.

Obiettivo delle Vite parallele era ricordare ai Romani, ormai dominatori dell’intero mondo mediterraneo (della Grecia da due secoli e mezzo), il glorioso passato del popolo greco e invitare i Greci a un atteggiamento conciliante nei confronti di Roma[9], così da prevenire malintesi e litigi[10]. A questo scopo le biografie comparate si prestavano assai meglio di un testo storico[11], poiché la lettura della Vita di un Grande coinvolge un pubblico più largo e offre un ampio materiale di confronto.

Il pubblico al quale Plutarco si rivolge è greco e romano[12], ma il destinatario privilegiato è certamente quello greco, al quale vengono illustrati istituzioni, costumi e termini romani[13]. Non conosciamo le reazioni dei contemporanei, non sappiamo se i Greci si sentissero, per esempio, onorati o piuttosto umiliati dal confronto con gli eroi del passato romano, se i Romani riconoscessero i Greci come popolazione alla pari in virtù della loro superiorità culturale, o se li guardassero dall’alto in basso, a causa della loro ormai scarsa rilevanza politica[14].

Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.

In Plutarco, che era convinto del valore assoluto della cultura greca, il Greco è spesso colui che gode della migliore e più eletta educazione, che manifesta un gusto più raffinato di fronte all’arte, che s’intende di filosofia[15], e che vive in modo speciale la quotidianità, anche se nella vita pubblica è un noto statista o comandante militare.

Personaggi come Coriolano, Mario e Catone Censore, invece, sono uomini rudi, anche se ottimi generali. I Romani più colti e più abili a controllare i πάθη e lo θυμός hanno avuto un’educazione greca: in alcuni essa rimane alla superficie (come in Antonio, e per certi aspetti anche in Marcello), mentre in altri ancora penetra in profondità (in Emilio Paolo, Lucullo, Catone Uticense, Cicerone, Bruto e nei Gracchi[16]: e questi – pur con qualche elemento di riserva – costituiscono il gruppo di eroi romani preferito da Plutarco!).

Vittoria. Testa, marmo, copia romana del II secolo d.C. dell’originale di Peonio. Stoà di Attalo, Museo dell’Antica Agorà, Atene.

Gli studi moderni riguardanti il corpus delle Vite concentrano l’attenzione prevalentemente sui seguenti temi:

  1. il periodo in cui Plutarco vive e i suoi governanti; questioni di programma, di metodo e di redazione (l’ordine cronologico della composizione, i rinvii interni, l’eventuale redazione contemporanea di più biografie, l’utilizzo per la preparazione di riassunti di letture fatte, di aiuto per parte di terzi, ecc.);
  2. la scelta dei personaggi e delle fonti e il loro reciproco rapporto[17]. Spesso Plutarco rivela una mano felice in ambedue i settori (su alcuni personaggi soprattutto sapremmo molto poco, se non disponessimo delle biografie); nel caso di non pochi autori antichi dobbiamo solo a lui, se abbiamo un’idea della loro opera (o di parte di essa), spesso di qualità eccellente, come le Storie di Posidonio o di Asinio Pollione o come, in altro campo, le relazioni scritte di testimoni oculari, per esempio di ufficiali che parteciparono alle guerre partiche di Crasso e poi di Antonio;
  3. le tecniche usate da Plutarco, che hanno reso accessibile un modo di procedere assai frequente negli autori antichi (manipolazioni, semplificazioni, contaminazioni, spostamenti, connessioni di avvenimenti non collegati nella fonte o non collegabili, aggiunte, puntigliose spiegazioni dei fatti);
  4. il ruolo particolare dei paragrafi finali (synkriseis) e i criteri di accoppiamento. I contributi riguardano perciò l’esame dei fattori che differenziano due eroi e di ciò che li unisce, le coppie a cui manca la synkrisis, quelle in cui il partner romano precede quello greco, il livello letterario delle synkriseis, giudicato modesto e prevalentemente moralistico[18]; inoltre le discrepanze tra il materiale della synkrisis e quello delle Vite;
  5. la fortuna di Plutarco, sia nei Moralia, sia nelle biografie, nelle diverse epoche.

I contributi sui primi quattro punti sono di solito elaborati nelle varie introduzioni e nelle note alle singole biografie pubblicate in questa collana; qualche informazione in più diamo sull’ultimo.

Timoleonte si appresta a salpare per la Sicilia. Illustrazione da W.H. WESTON – W. RAINEY (eds.), Plutarch’s Lives for Boys and Girls, New York 1900, 102.

Pochi autori hanno conosciuto, nel corso della tradizione storica, periodi di fama incontrastata e quasi mitica come il Plutarco delle Vite parallele, l’unico forse, fra i classici, che in certe età abbia eguagliato la fortuna di Orazio o di Virgilio.

Plutarco fu conosciuto e ammirato dai contemporanei (vir doctissimus ac prudentissimus lo qualificava, a trent’anni dalla morte, Aulo Gellio nelle sue Notti Attiche I 26, 4) e il suo culto continuò in età bizantina, sia fra i pagani sia fra i cristiani, che nei suoi scritti trovavano consonanza di principi etici e umanitari.

Nel Medioevo di lui si predilesse la raccolta dei Moralia, un insieme di opuscoli di vera erudizione, in cui il gusto della curiosità enciclopedica si unisce all’interesse per problematiche filosofiche e morali, esteso alle sfere più intime e quotidiane della vita (l’educazione dei figli, i rapporti coniugali, la gestione del patrimonio).

Con l’Umanesimo e il Rinascimento, l’insorgere di un nuovo senso dell’individualità, volto a cercare nei classici il proprio modello, riportò l’attenzione sulle biografie, che i dotti greci, affluiti in Italia dopo la caduta di Costantinopoli, contribuirono a divulgare, e di cui furono fatte traduzioni in latino[19], epitomi[20], imitazioni[21]. I grandi personaggi di Plutarco cominciarono ad alimentare l’immaginario poetico, offrendo materiale d’ispirazione in campo letterario, teatrale e anche figurativo[22]. «Al ritratto degli altri – scrive H. Barrow – Plutarco aggiunse il proprio autoritratto, inconsciamente disegnato nelle Vite e nei Moralia: il ritratto dell’uomo buono, che viveva umilmente in accordo con i più alti modelli della classicità, sereno con se stesso, di aiuto per gli amici; l’ideale di un “veramente perfetto” gentiluomo, che la nuova Europa stava cercando. Forse nessun esplicito programma di scrittore raggiunse mai una più alta misura di successo»[23].

Fra i secoli XVI e XVIII la fama di Plutarco tocca il suo apogeo, come attesta il moltiplicarsi di edizioni e traduzioni. Escono in Francia l’edizione completa dello Stephanus (Paris 1572) e la famosissima traduzione di J. Amyot (Les Vies des Hommes Illustres, Paris 1559; Les Oeuvres Morales, Paris 1572)[24]; in Inghilterra la traduzione di Th. North (1579, con dedica alla regina Elisabetta) cui attinse Shakespeare, e più tardi quella intrapresa da quarantun studiosi sotto la guida di J. Dryden (1683-1686). Sono inoltre da ricordare l’edizione tedesca delle Vite curata da J.J. Reiske (1716-1774), che procedette a una nuova collazione dei manoscritti, e l’edizione olandese dei Moralia pubblicata da D. Wyttenbach (Oxford 1795-1830), al quale si deve anche il lessico plutarcheo (Leipzig 1830, rist. 1962) tuttora indispensabile. Personaggi prediletti delle Vite furono, di volta in volta, gli eroi della guerra, come Alessandro e Cesare, o gli eroi del dovere, come Coriolano, o quelli delle virtù repubblicane, come Catone Uticense e Bruto, idoleggiati nell’età della Rivoluzione francese. In Francia, dove la traduzione di Amyot divenne patrimonio diffuso, ne furono entusiasti estimatori Montaigne («è un filosofo che ci insegna la virtù», Essais, II, p. XXXII), Corneille, che dalle Vite trasse materia per i drammi Sertorio e Agesilao, Racine, che se ne ispirò per il Mitridate, Pascal, Molière[25]; in Inghilterra Shakespeare, cui la lettura di Plutarco offrì la traccia per le tragedie Coriolano, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra[26]; in Italia D’Azeglio, Leopardi, Alfieri, che allo spirito plutarcheo informò la sua stessa autobiografia[27]; in Germania Goethe, Schiller, Lichtenberg, Jean Paul[28] e molti altri[29]. Alla suggestione di Plutarco non si sottrassero neppure gli uomini di potere, principi assoluti come Enrico IV di Francia e Giacomo I d’Inghilterra, e «illuminati» come Federico II di Prussia; rivoluzionari e repubblicani come Franklin e Washington fino a Robespierre e a Napoleone[30]; del suo influsso risentirono anche gli antesignani del moderno pensiero educativo, Rousseau e Pestalozzi.

London, British Library. The Lives of the Noble Greeks and Romans. Traduzione inglese di T. North. London 1579 [link].
Nella seconda metà dell’Ottocento tuttavia la scena cambia: il lavoro erudito si restringe nell’ambito degli specialisti (anche se molti artisti, come Wagner e D’Annunzio, continueranno ad amare Plutarco). Vengono allora alla luce edizioni critiche di scritti singoli, sia dei Moralia sia delle Vite, talora provvisti di commento minuzioso. Si interviene drasticamente sul corpus dei Moralia, negando l’autenticità di alcuni opuscoli tramandati nel cosiddetto catalogo di Lamprias (III-IV sec. d.C.).

Dopo i moltissimi contributi dell’inizio del Novecento, spesso intesi a illustrare aspetti particolari delle Vite[31] o a studiare le fonti plutarchee o lo schema biografico; dopo le ricerche volte a individuare la provenienza di questo tipo di biografie (peripatetica, alessandrina, di ispirazione stoica), o a far distinzione tra categorie moralistiche e narrazione storica, corrispondente all’alternativa tra passi «eidologici» e passi «cronografici» (secondo la terminologia di Weizsäcker), oggi si sta dando, sembra con frutto, nuovo impulso all’interpretazione delle biografie per opera non tanto di studiosi tedeschi (il cui interesse attuale è senz’altro diminuito rispetto ai lavori delle generazioni di un Wilamowitz, di Weizsäcker e Ziegler), quanto soprattutto di anglo-americani (Stadter, Jones, Wardman, Russel, Pelling, Swain e altri), di un grande studioso francese (R. Flacelière) e della scuola, di italiani (Valgiglio, Piccirilli, Manfredini, Desideri, Guerrini e altri), ma anche di studiosi di altri Paesi.

 

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Note:

[1] Cfr. Russell (1968), 132 ss.; Donini (1986), 97 ss.

[2] Si vd. per es., Barrow (1967), cap. V: “Plutarch Abroad”; Jones (1971), cap. 6 ss. con Geiger (1974), 141.

[3] Wardman (1974), 37 s. Su Romani importanti con i quali Plutarco fece conoscenza si vd., per es., Philipps (1957), 102 ss.; Jones (1971), 48 ss.; Simms (1974), cap. I; Geiger (1988), 245 ss.; e Swain (1990), 128 ss.

[4] Cfr. Ingenkamp H.G., Plutarch’s Two Aims in His Lives of Aemilius Paulus and Timoleon, Convegno Oxford cit.

[5] Epaminondas-Scipio (Africanus maior?): cfr. Herbert (1957), 83 ss. Forse conteneva un’introduzione generale al corpus, cfr. Gossage (1967), 48; e Geiger (1981), 87. Scettico Desideri (1992), 4472 s. Sull’Epaminonda adesso, si vd. Tuplin (1984), 346 ss.

[6] Si vd., per es., Wilamowitz (1967), 258 n. 1.

[7] Secondo Wilamowitz (1967), 260, era l’Emiliano; e così per Herbert (1957), 83 ss. Secondo Ziegler (1951), 895-896 si trattava, invece, di Scipione Africano.

[8] Wardman (1974), 37. Si vd. per es. il Pelopida e diversi passi analoghi in scritti etici; cfr. Buckler (1978), 36 ss.; corrispondenze tra passi delle Vite di Romolo, Publicola e Alessandro col De mul. virt., l’Amatorius e altri in Stadter (1965), 30 ss.; 80 ss.; 103 ss.; 112 ss.; su passi nelle Vite di Licurgo, Numa, Solone, Dione e Bruto e nei Moralia: Goessler (1962) passim; l’importanza della retorica sia per le Vite sia per i Moralia in Russell (1972), 21 ss.; Harrison (1987), 271 ss.; Stadter (1987), 251 ss. e Stadter (1989), XXXVIII ss. In generale, si vd. Valgiglio (1987), 1738, 1740 ss.

[9] Cfr. il programma simile di Dionigi di Alicarnasso (vd. però n. 11). Su Plutarco, per es., Wilamowitz (1967), 259 s.; Weber (1959), 78; Gomme (1945), 55; Jones (1971), 103 s.; Barrow (1967), 56 ss.; Simms (1974), 238 ss; Boulogne (1990), 473 ss.

[10] Diversa la situazione per gli storici di formazione greca nell’Impero romano dopo Plutarco (Appiano, Arriano, Dione Cassio), poiché essi partecipavano attivamente alla vita politica di Roma (cfr. Pelling [1988a], 9).

[11] Un compito simile, in qualità di storico, si assumeva Dionigi «per mostrare ai Greci che i Romani non erano barbari, bensì ben disposti verso la cultura greca e, di fatto, di origine greca essi stessi». Il programma di Dionigi – a differenza di quello di Plutarco – era ben precisato fin dall’inizio e perseguiva precisi intenti propagandistici: cfr. Babut (1975), 208 ss.

[12] Wilamowitz (1967), 258 ss.

[13] Pelling (1988a), 8; Wardman (1974), 37 ss.; naturalmente contava anche su un pubblico romano: cfr. Wilamowitz (1967), 258.

[14] Cfr. Russell (1972), 31.

[15] Cfr. Pelling (1989), 200 ss. e (1988b), 266 ss.; Desideri (1992), 4486, che opportunamente parla di una «sorta di divisione funzionale delle rispettive competenze nell’ambito di una complementarietà globale: alla Grecia l’elaborazione e la diffusione dei valori culturali, a Roma la realizzazione dei grandi progetti politici».

[16] Cfr. Swain (1990b), 192 ss. e (1990a), 131 ss. Su Cicerone, si vd. però Pelling (1989), 218 ss.

[17] Cfr. Wardman (1974), 234 ss.; Geiger (1981), 104; Pelling (1986), 83 ss.

[18] Cfr. anche van der Valk (1982), 301 ss. e Latmour (1988), 374 ss. e (1992), 4157 ss.

[19] Cfr. Weiss (1953), 339 ss.; Giustiniani (1961), 3 ss. e (1979), 45 ss.; Criniti (1979), 190 ss.; Aulotte (1968), 549 ss. Un breve sommario di traduzioni latine in Garzetti (1954), LXI ss. Cfr. anche Gabba (1961).

[20] Cfr. Resta (1926).

[21] Per es., Donato Acciaiuoli scrisse una Vita di Annibale e una di Scipione Africano, precedute da una prefazione in cui ringrazia Pietro dei Medici dei benefici ricevuti da lui e suo padre Cosimo e spiega di aver inserito fra le biografie plutarchee quelle di Annibale e Scipione, quae ex varis auctoribus tum graecis, tum latinis collegeram… La coppia è conservata in tutte le ristampe e nelle prime traduzioni, dove però, soppressa la prefazione, spesso viene attribuita allo stesso Plutarco.

[22] Per es., Guerrini (1985a), 87 ss. (1985b), 83 ss. e (1985c), 179 ss.

[23] Barrow (1967), 176.

[24] Cfr. Aulotte (1971). Cfr. anche Gerhard (1977).

[25] Cfr., per es., Lamotte (1980).

[26] Per es., Altkamp (1933); Hale Shackford (1974); Green (1979).

[27] Hirzel (1912), 179; Momigliano (1949), 560.

[28] Hirzel (1912), 170 ss.

[29] Si vd. anche Howard (1970) e Meyer (1975).

[30] Cfr. Frost (1980), 41: «Le sue censure contro la disumanità e l’abuso del privilegio hanno infiammato spiriti liberali a un grado sensibilmente inferiore al punto di combustione, mentre la sua evidente predilezione per un potere illuminato gli ha procurato una favorevole collocazione nelle biblioteche dei più illuminati despoti».

[31] Russell (1966), 139: «La fama e l’influenza di cui Plutarco godette nei giorni della riscoperta dell’antichità non poteva sopravvivere alla rivoluzione negli orientamenti storici e accademici che segnarono il XIX secolo. Invece di essere considerato come uno specchio dell’antichità e della natura umana egli divenne “un’autorità secondaria”, da usarsi là dove le “fonti primarie” venivano a mancare, ed egli stesso finì per essere lapidato dagli studiosi della Quellenforschung (ricerca delle fonti) e abbandonato come un rudere. Conseguenza di ciò è l’abbandono delle Vite nei programmi dell’educazione. Dovrebbe inoltre essere evidente che, proprio in considerazione degli obiettivi storici per i quali l’opera viene prevalentemente studiata, è del tutto ingannevole e pericoloso considerare quello che è proprio uno dei più sofisticati prodotti dell’antica storiografia senza una costante attenzione ai piani e agli scopi del suo autore. Fortunatamente molto è stato scritto, soprattutto negli ultimi vent’anni, per ristabilire l’equilibrio».

Plutarco di Cheronea

di BIONDI I., Plutarco, in Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 665-667.

La maggior parte delle notizie riguardanti la vita di Plutarco, a eccezione di qualche scarna indicazione proveniente dal lessico Suda, deriva da riferimenti autobiografici presenti nelle sue stesse opere. Egli nacque verso il 45-50 a Cheronea, piccolo centro della Beozia, che, nel 338 a.C., era stato reso celebre dalla vittoria di Filippo il Macedone sui Greci; da una notizia contenuta in Moralia 391b, è noto infatti che Plutarco aveva circa vent’anni quando l’imperatore Nerone si recò in visita in Grecia nel 66/7. Discendente di una famiglia agiata e colta, il futuro storico trascorse la giovinezza viaggiando e frequentando le migliori scuole del tempo; durante un soggiorno ad Atene, dove rimase per alcuni anni, ascoltò presso l’Accademia le lezioni del platonico Ammonio (Moralia 385b). Riprendendo a viaggiare, si recò ad Alessandria, a Corinto e a Sardi; venne poi in Italia e a Roma, presso la corte imperiale, con incarichi politici che gli erano stati conferiti dai suoi concittadini. Durante questo soggiorno, Plutarco ottenne la civitas Romana, assumendo il nomen Mestrio, in onore dell’amico Mestrio Floro. Successivamente, ricevette da Traiano la dignità consolare; in seguito, Adriano gli conferì la carica di legatus Augusti in Grecia. A Roma, Plutarco conobbe il filosofo e retore Favorino di Arelate; il suo rammarico più grande (Vita di Demostene 2, 2) rimase quello di non aver potuto imparare bene il latino, a causa dei suoi numerosi impegni. Passata la quarantina, egli ritornò definitivamente a Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente dell’edilizia pubblica e telearco: una carica, quest’ultima, che gli imponeva mansioni di funzionario di polizia. In riconoscimento della sua integerrima onestà e del suo profondo spirito religioso, verso il 90 Plutarco fu ordinato sacerdote di Apollo Delfico, ministero che esercitò per circa un ventennio, insieme a un altro collega. La data di morte è incerta, ma è possibile collocarla fra il 119 e il 127.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

Plutarco ha lasciato un vasto corpus di opere, i cui titoli sono pervenuti in massima parte attraverso il cosiddetto Catalogo di Lamprias, erroneamente attribuito a un figlio dello scrittore e che contiene duecentoventisette titoli, ai quali bisogna aggiungerne altri trentatré, di opere note, ma omesse dal compilatore del catalogo. I testi vengono di soliti suddivisi in due grandi categorie: quella storica, la più nota, che comprende le celeberrime Vite parallele, e quella di carattere filosofico, antiquario e scientifico: un’ottantina di opuscoli in forma di dialogo o di dissertazione, raccolti in piccoli gruppi durante il Medioevo sotto il titolo di Moralia. Tale titolo, che appare piuttosto riduttivo, rispetto alla grande varietà di argomenti compresi nella raccolta, deriva forse dal fatto che gli opuscoli di carattere morale furono quelli più letti e apprezzati; secondo un’altra ipotesi, invece, la raccolta attuale sarebbe l’ampliamento di un primitivo nucleo di scritti di argomento etico, al quale se ne aggiunsero altri di vario genere, senza però modificare il titolo, ormai entrato nella tradizione.

Sotto il titolo di Vite parallele (Βίοι παράλληλοι) sono state raccolte cinquanta biografie di illustri personaggi del mondo greco e latino; l’unica eccezione è rappresentata dalla vita di un persiano, Artaserse, figlio di Dario e Parisatide e fratello di Ciro il Giovane, ricordato nell’Anabasi di Senofonte. Le biografie sono state tramandate dai manoscritti unite in ventitré coppie, secondo il seguente ordine: Teseo e Romolo; Solone e Publicola; Temistocle e Camillo; Aristide e Catone il Vecchio; Cimone e Lucullo; Pericle e Fabio Massimo; Nicia e Crasso; Alcibiade e Coriolano; Demostene e Cicerone; Focione e Catone il Giovane; Dione e Bruto; Emilio Paolo e Temistocle; Sertorio ed Eumene; Filopemene e T. Quinzio Flaminino; Pelopida e Marcello; Alessandro e Cesare; Demetrio Poliorcete e Marco Antonio; Pirro e Gaio Mario; Agide e Cleomene; Tiberio e Gaio Gracco; Licurgo e Numa Pompilio; Lisandro e Silla; Agesilao e Pompeo. A queste vanno aggiunte le biografie isolate di Arato, Artaserse, Galba e Otone. Il Catalogo di Lamprias riporta anche i titolo di altre vite andate perdute, come quelle di Epaminonda e Scipione, trattate parallelamente, e quelle isolate degli imperatori romani e dei poeti greci.

Leeds, University Library. Udalricus Gallus (ed.), Plutarci Vitae illustrium virorum, Roma 1470. La Praefatio della Vita Thesei in traduzione latina.

L’eterogeneo insieme dei Moralia, che comprende circa ottanta opere (delle quali alcune sono spurie), non può certo essere trattato completamente in questa sede; ci si limiterà, perciò, a raggrupparle in base ai loro contenuti, citandone di volta in volta qualcuno dei più significativi.

Fra gli scritti di argomento retorico ed epidittico, appartenenti alla giovinezza di Plutarco, il più interessante è il De fortuna, che analizza in forma teorica, ma suffragata da qualche esempio pratico, l’influenza della sorte sugli eventi umani.

Dei numerosi testi che parlano di questioni filosofiche, seguendo le dottrine platoniche della nuova Accademia, si può menzionare il De Stoicorum repugnantiis, in cui l’autore fornisce numerose e interessanti notizie sulla dottrina stoica, allo scopo di metterne in evidenza le contraddizioni.

Fra le trattazioni di problemi etici, merita qualche parola il De cohibenda ira, un dialogo fra due amici romani sul modo di tenere a freno i violenti impulsi dell’ira; esso, in effetti, può essere confrontato con il De ira di Seneca. Inoltre, rivestono particolare interesse per l’importanza attribuita alla figura femminile, ormai assurta a un grado di dignità pari a quello dell’uomo, i Coniugalia praecepta. Fra gli scritti di argomento filosofico-pedagogico si distingue per la novità delle idee e per le numerose citazioni dalla lirica classica, il De audiendis poetis, che analizza l’effetto della poesia sull’animo dei giovani.

Una scuola. Bassorilievo da un sarcofago romano. 150 d.C., marmo. Treviri

Gli opuscoli che riflettono le idee politiche dell’autore, ormai giunto alla tarda maturità, contengono insegnamenti tesi soprattutto a inculcare nei giovani greci l’opportunità di dedicarsi all’attività pubblica, anche se in incarichi-chiave ormai occupati prevalentemente dai Romani. Si possono ricordare, a questo proposito, i Praecepta gerenda reipublicae, un vero e proprio manuale dello statista, e l’Ad principem ineruditum, che mira a dimostrare l’importanza della cultura classica per chi sta al potere.

Fra le opere di contenuto teologico, che risalgono probabilmente al periodo del sacerdozio a Delfi, sono degni di menzione il De Iside et Osiride, ricco di preziose informazioni sulla religione egizia, e il De sera numinis vindicta, nel quale, per rafforzare la fede nella giustizia divina, si narra il mito di Tespesio di Soli, che, morto e resuscitato dopo tre giorni, raccontò le terribili punizioni che aveva visto infliggere nell’oltretomba ai malvagi e ai tiranni.

Nel gruppo degli opuscoli di carattere scientifico, si ricordano quelli che riguardano il comportamento degli animali e la loro intelligenza, come il De sollertia animalium e il Bruta animalia ratione uti, un dialogo in cui la maga Circe, dopo aver trasformato in porci i compagni di Odisseo, concede a Grillo, uno di loro, di sostenere la tesi secondo cui la condizione degli animali sarebbe migliore di quella degli uomini. Nel De esu carnium sono contenute invece due dissertazioni sulle cause che indussero Pitagora a evitare di mangiar carne, mentre il De facie in orbe lunae è un’interessante raccolta di miti lunari.

Fra gli scritti di argomento antiquario-letterario, molti dei quali sono andati dispersi, gli Apophthegmata Laconica illustrano gli usi di Sparta attraverso un’ampia raccolta di detti sentenziosi; nel De Herodoti malignitate, Plutarco difende il comportamento delle truppe beotiche durante le Guerre persiane, contro le critiche mosse loro da Erodoto; la Comparatio Aristophanis et Menandri contiene un interessante raffronto fra i due maggiori esponenti del teatro comico antico.

A conclusione di questa brevissima rassegna, si possono ricordare un esempio del genere letterario della “consolazione”, la Consolatio ad Apollonium, e il trattatello De exilio, che appartiene alla vecchiaia dello storico e che sviluppa, con toni ricchi di umana saggezza, un argomento assai spesso affrontato dagli Stoici.

Milano, Biblioteca europea di informazione e cultura. Gulielmi Budaei interpretatio latina del Περὶ τῶν ἀρεσκόντων φιλοσόφοις φυσικῶν δογμάτων (De placitis philosophorum) dello Pseudo-Plutarco, Basileae, ex officina Ioan. Heruagij, 1531: frontespizio [link].
Il gran numero e la diversità degli argomenti trattati nei Moralia, se da un lato testimoniano l’ampiezza degli interessi di Plutarco e il suo vivo entusiasmo per ogni manifestazione dello spirito e della cultura umani, dall’altro costituiscono un innegabile limite alla possibilità di approfondimento e all’esattezza nello sviluppo dei singoli temi. D’altra parte, più che un ricercatore attento e minuzioso, Plutarco appare uno spirito aperto e pronto ad analizzare in termini di umanità e di moralità i valori più significativi del mondo greco, quelli che suscitarono vivissimo in lui il senso della “filantropia”. Questo termine, inteso come attenzione e rispetto per la persona in quanto tale, considerata non nell’astrazione di un sistema filosofico, ma nella realtà del suo intelletto e delle sue azioni, rispecchiava perfettamente il modo con cui Plutarco visse la propria esperienza di intellettuale e di scrittore. Ciò è sufficiente a fare di lui il personaggio più interessante, non solo del suo tempo, ma anche di tutta la tarda grecità, come dimostra il successo che fu tributato alla sua opera, e che non venne mai meno nel tempo.

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonici Graec. 93 (XIV sec.), Vita Romuli di Plutarco nella versione trascritta da Manuel Tzycandyles, f.13r.

La quantità delle opere di Plutarco pervenute, d’altronde, permette anche una visione approfondita e completa dei suoi mezzi espressivi. Allo stile degli anni giovanili, influenzato dalle regole dell’atticismo e ancora un po’ immaturo, subentrò più tardi un linguaggio più personale, in cui comparivano, accanto alle forme attiche, anche parole della koinè. Il periodare, soprattutto nelle Vite, si fece più complesso, divenne più vario e articolato nella struttura, adatto a evidenziare stati d’animo inclini alla drammaticità e al pathos, ora espressi con asciutta brevità, ora con toni più alti e solenni, ai quali non erano estranee reminiscenze o citazioni tragiche, degne di un’umanità eroica, in cui si incarnavano, nel bene e nel male, le più potenti passioni umane.

La fortuna di Plutarco, a partire dai suoi contemporanei fino a oggi, è stata immensa, tanto da rappresentare, di per sé, un aspetto particolarissimo della cultura europea. Il Cristianesimo intravide in lui uno degli intellettuali naturaliter Christiani, anche se non ufficialmente convertiti, e ne apprezzò la filantropia e la purezza morale. Gli Umanisti esaltarono Plutarco per il valore etico della sua opera, tanto che Erasmo da Rotterdam ne raccomandava caldamente la lettura. Ma l’epoca d’oro dello storico fu soprattutto l’età dei Lumi, quando si tributarono onori a Dione, Timoleonte e Bruto, esaltandoli come nemici dichiarati del dispotismo, e quando gli ideali della Rivoluzione francese videro in Plutarco il profeta della libertà, in un’ottica che certo non teneva conto di indagini storico-filologiche. L’influsso dell’autore è stato grande anche nell’ambito della letteratura, soprattutto teatrale, come dimostrano le tragedie di Shakespeare, di Corneille, di Racine, drammaturghi che hanno attinto ispirazione dalle Vite; nella letteratura italiana, queste opere esercitarono un notevole fascino su alcuni dei più grandi poeti, come Alfieri, Foscolo e Leopardi.

I mutevoli confini della conoscenza

di A. LO MONACO, in AA.VV., I giorni di Roma. L’età della conquista, Ginevra-Milano 2010, 35-43 [link].

In poco più di ottant’anni il Senato di Roma si trovò in una situazione a dir poco singolare. Era il 229 a.C. quando i due consoli dell’anno, Cn. Fulvio Centumalo e L. Postumio Albino, furono inviati in Illiria a capo di un impressionante corpo militare (duecento vascelli, ventimila fanti e duemila cavalieri), incaricati della risoluzione di una questione spinosa, che venne poi festeggiata come un vero e proprio trionfo (ex Illurieis), sebbene non vi fossero state reali battaglie cruente e copioso spargimento di sangue, come prescritto dalla legge. Era questa la prima «traversata in armi» di Roma verso Est, come la definirà con tono solenne Polibio (II 2, 4). E già nel 146 a.C., a seguito della risoluzione del conflitto acheo con l’epocale vittoria di Lucio Mummio, Roma non aveva più alcun rivale, era ormai realmente l’unica vera potenza egemone.

Mappa con i popoli della futura provincia romana di Dalmazia.

Guerrieri illirici (III sec. a.C.) [link].
Il fenomeno della simultanea espansione romana su tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna alle coste dell’Asia Minore, è stato oggetto di una moltitudine di studi. Furono quelli decenni di repentini cambiamenti, destinati, com’è noto, a influire profondamente sulla stessa formazione di un’identità «romana», e sulla nascita di un gusto e di uno stile artistico che solo d’ora in avanti saranno compiutamente «romani». Eppure, anche negli studi recenti, pressoché inevitabilmente, l’accento cade su termini quali «imperialismo» (nell’ottica romana) o «filoellenismo» (nell’ottica greca).

Nelle pagine che seguono vorrei soffermarmi piuttosto su altri interrogativi, legati al cambiamento che in questi decenni si produsse sulla «conoscenza dell’altro»: i presupposti culturali, gli stereotipi pregressi, il confronto, e, infine, l’acquisizione di una reale conoscenza reciproca.

Quale Grecia?

Per prima cosa occorre interrogarsi su «quale Grecia» fosse quella cui si riferiva immediatamente la nozione stessa di «grecità» agli occhi dei Romani, a partire dai secoli precedenti alla conquista vera e propria.

I primi rapporti diretti sembrano correlare il Senato di Roma a due specifici centri della Grecia: Delfi e Atene.

Il locus religiosus per eccellenza è naturalmente Delfi: a più riprese ambascerie viaggiano alla volta del venerando santuario nella speranza che le parole dell’oracolo possano contribuire alla risoluzione di gravi crisi o al debellamento delle frequente pestilenze. La prassi, frequente in età repubblicana, è riferita addirittura da Cicerone all’età dei Tarquini in due passaggi del De re publica, nei quali egli insiste sulla decisiva influenza greca che si sarebbe avuta a Roma già ai tempi di Tarquinio Prisco e sull’invio di dona a Delfi da parte di Tarquinio il Superbo. La reale frequentazione dei Tarquini a Delfi è tuttavia argomento spinoso, unicamente basato sul ricordo, narrato a molti secoli di distanza da Dionigi di Alicarnasso (IV 69) e Livio (I 56, 4-13), della consultazione dell’oracolo da parte dei figli del re, Lucio e Arrunte, accompagnati da L. Giunio Bruto, figlio della sorella di Tarquinio. Qualche incertezza permane anche sulla storicità del ricorso all’oracolo di Delfi in occasione della conquista di Veio: prima dell’inizio della guerra, un’ambasceria sarebbe stata inviata a consultare la Pizia, mentre nelle fasi convulse dell’assedio, Furio Camillo avrebbe promesso all’Apollo delfico la decima del bottino, poi effettivamente inviata nelle forme di un cratere d’oro, scortato da tre ambasciatori (L. Valerio, L. Sergio e A. Manlio) (Livio, V 21, 2; V 28; Diodoro Siculo, 14, 93; Valerio Massimo, I 1, 4). In effetti, la base bronzea del cratere era conservata all’interno del Thesauròs dei Romani e dei Massalioti ancora nel II secolo d.C., stando almeno alla testimonianza di Appiano (Sulle cose italiche, 8). In ogni modo, sembra che relazioni precise tra Roma e Delfi siano soltanto episodiche prima del 216 a.C.: in quell’occasione, dopo l’inattesa sconfitta di Canne, è lo storico Q. Fabio Pittore a ricevere dal Senato l’incarico di interrogare la Pizia su quali preci e suppliche (quibus precibus suppliciisque) avessero potuto contribuire a risolvere la più grave crisi della storia di Roma (Livio, XXII 57, 4-5): al suo ritorno in città, sarà sua cura tradurre in latino il responso in esametri, e riferirne accuratamente in Senato. Con Fabio Pittore arriva dunque per la prima volta a Roma quello che Gagè definì acutamente un parfum delphique authentique: la corona d’alloro indossata a Delfi è deposta all’ingresso in città sull’altare di Apollo (Livio, XXIII 11, 4-6), mentre in città risuonano sia le parole stesse della Pizia, sia, per la prima volta, ordini da adempiere per sancire il ritorno alla normalità.

Testa di marmo da una statua di Tito Quinzio Flaminino. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Delfi.

In materia di competenza giuridica si ricorre invece ad Atene. Non si può trascurare al riguardo la notizia, riferita ancora da Livio (III 31), dell’invio ad Atene nel corso del V secolo a.C. dei consoli Sp. Postumio Albo, A. Manlio e P. Sulpicio Camerino, incaricati di copiare le leggi di Solone. La notizia permette di osservare una dicotomia che diverrà abituale nella mentalità dell’epoca: se a Delfi si fa ricorso in materia di religione, il sapere giuridico è esclusiva di Atene, ove le inclitae leggi di Solone a distanza di secoli vengono ancora lette, discusse e copiate. Nel passo di Livio i consoli romani sembrerebbero addirittura lavorare con moderno metodo comparativo: copiato Solone, essi muovono tra aliarum Graeciae civitates (quali non è dato sapere) al fine di conoscere i singoli ordinamenti giuridici.

In città, frattanto, si iniziava addirittura a «vedere» alla greca. Il primo caso, che segnò una vera rivoluzione di gusto nella Roma alto-repubblicana, fu quello della decorazione fittile del tempio della triade aventina (Cerere, Libero e Libera), dedicato secondo la tradizione nel 493 alle pendici del colle, affidata a due artisti greci laudatissimi, come dirà più tardi Plinio (Naturalis Historia, XXXV 154). Pochi anni dopo, nel 484, fu eretto al centro del Foro Romano un edificio sacro in onore dei due fratelli gemelli di ascendenza spartana, i Dioscuri (o i Castori per dirlo alla romana), quale segno di gratitudine per il prezioso aiuto da essi offerto in occasione della violentissima battaglia al Lago Regillo. Cinquant’anni più tardi, a seguito di una pestilenza, sarà la volta di un tempio all’Apollo Alexìkakos («Stornatore dei mali»), dedicato solo due anni dopo, nel 431, dal console Gneo Giulio (Livio, IV 29, 7). Si tratta ancora di dediche isolate, legate ad episodi singoli, non valutabili all’interno di un più generale impatto sull’urbanistica e sull’aspetto della città a quei tempi: sono però i primi casi in cui fanno la loro comparsa templi legati al culto di divinità greche, fino a quel momento «straniere».

Frattanto, almeno dal V secolo a.C., in Grecia s’iniziava a riflettere compiutamente su Roma, giungendo persino all’elaborazione dell’origine troiana della città come conseguenza ultima della fuga di Enea da Ilio in fiamme e del suo arrivo sulle coste italiche: pare che questa idea, destinata a un successo di enorme portata e già presente probabilmente nei versi di Stesicoro, fosse poi più compiutamente elaborata negli scritti di Ellanico e di Damaste di Sigeo. Il tema è molto complesso, e non si vuole in questa sede entrare nel merito del dibattito.

Nel corso del IV e del III secolo a.C. le riflessioni su Roma si moltiplicano: è un Eraclide forse allievo di Aristotele, a noi noto nelle citazioni di Plinio (III 31) e Plutarco (Vita di Camillo, 27), a ricordare a proposito delle vicende del sacco gallico una «città greca, chiamata Roma, sita lì da qualche parte, presso il mare»: nozione in verità ancora geograficamente confusa, che sembra focalizzare l’interesse, piuttosto che sulla precisione della localizzazione nello spazio, sulla comune matrice culturale. Continuano le riflessioni sulle origini mitiche di Roma (Callia, in Dionigi, I 72, 5), sui tristi avvenimenti relativi al sacco gallico della città (Teopompo, Aristotele, Eraclide), e, addirittura, sulla Rōmaikḗ archaiología (Ieronimo di Cardi). Sarà Timeo di Tauromenio, cui si deve la «scoperta di Roma» secondo una felice definizione di Momigliano, a esercitare una duratura influenza sull’élite romana e sugli stessi annalisti di età repubblicana: le sue opere, forse alla base del lavoro di Fabio Pittore, erano ancora lette da Cicerone (Ad Atticum, VI 1, 18) e da Varrone (De re rustica, II 5, 3).

A fronte di questa pluralità di riflessioni su Roma, bisogna sottolineare come nessuna fonte letteraria latina a noi nota nomini invece direttamente la Grecia in generale o alcune sue città prima della metà del III secolo a.C. Si deve certo considerare quanto la nostra visione sia distorta dal numero esiguo di opere a noi pervenute: eppure, risalta l’assenza di qualsiasi accenno diretto a località della Grecia nelle fabulae di Livio Andronico, pure di soggetto greco, nei ridottissimi frammenti degli Annales di Fabio Pittore o di Cincio Alimento, e nemmeno (ma qui probabilmente non è frutto del caso) nelle fabulae di Gneo Nevio.

Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.

Le prime testimonianze dirette sono contenute nelle fabulae di Plauto, in scena tra la seconda metà del III secolo e le due prime decadi del II secolo a.C. Poco importa in quest’ottica quanto i testi in questione siano una fedele traduzione delle commedie della Nea, o una versione più libera adattata alla cultura e alla mentalità romana: ciò che conta è che con le fabulae plautinae recitate in occasione dei ludi scaenici si inizi ad offrire alla folla di spettatori frammenti di una Grecia fino a quel momento ancora lontana e ideale. I riferimenti nei dialoghi delle fabulae sono così numerosi che si è addirittura parlato di una sorta di iper-ellenizzazione. Nella finzione della narrazione, i personaggi si muovono in uno spazio caratterizzato come greco: greci sono i nomi delle suppellettili potorie (kantharoi, kyathoi) e del mobilio, greche sono le città dove essi vivono e viaggiano, greci i loro stessi costumi di scena. Eppure è ancora una Grecia del tutto astratta: i luoghi citati non hanno mai una vera connotazione in senso geografico, utili ad ancorare le città al territorio, mentre appare sufficiente evocarne i nomi dal suono “straniero”: non è uno scenario descritto, ma semplicemente evocato alla memoria. Il procedimento è ben evidente in un passo del Mercator. Per ambientare un proprio viaggio immaginario, il protagonista Charinus finge di spostarsi da Cipro a Calcide, fino a giungere ad Atene, dove riesce infine a ritrovare la donna amata: le città sono nominate in una sequenza artificiosa, che chiaramente non è quella che avrebbe avuto un viaggio “reale”. Certo, a quest’operazione non dovette essere estranea la natura stessa dei testi, commedie che avevano bisogno solo di una cornice in cui svolgere l’azione, senza la necessità di dilungarsi in descrizioni particolareggiate. È stato osservato come si debba proprio a Plauto con ogni probabilità la coniazione di neologismi quali graecissare e, con note forse in senso peggiorativo, pergraecari e congraecari: termini che raggiungono il loro effetto comico solo a patto che il pubblico abbia giù un quadro di riferimento mentale che lo possa guidare intuitivamente alla comprensione di cosa comporti «fare il Greco». Nelle fabulae è naturalmente Atene, la nutrices Graeciae (Stico, 649), a essere capace di richiamare con il suo solo nome la “concezione” stessa di grecità (Rudens, 737). Essa è insomma «la più greca delle città greche», caratteristica che conserverà fino al tardo Impero (basti pensare alla definizione di Ateneo, che chiamava Atene «Mouseîon tēs Helládos» (Deipnosofisti, V 12, 7). E anzi, Plauto ci informa dell’esistenza della regola non scritta, quasi una consuetudine per gli autori, di piazzare la scena ad Atene, cosicché l’ambiente potesse sembrare “più greco” (Menecmi, prologo, 7). In tal senso si comprende l’intento, enunciato a chiare lettere dall’autore nel prologo del Truculentus, di «trasferire Atene a Roma, senza architetti». È forse utile richiamare che il luogo fisico in cui tali performances avevano luogo, in assenza di veri e propri teatri stabili, erano strutture effimere. Una commedia molto riuscita di Plauto, lo Pseudolus, fu messa in scena sul Palatino, dinanzi al tempio della Magna Mater, nel 191, in occasione della dedica dell’edificio sacro. Il pubblico, assiepato sulle gradinate del tempio e forse negli spazi laterali, non doveva essere però eterogeneo: in queste sue prime fasi, pare che il culto della dea, piuttosto “serrato”, fosse ancora prerogativa esclusiva della nobilitas senatoria. È certo curioso immaginare tali grecismi e richiami alla vita ateniese risuonare in cima al Palatino, in uno scenario che è stato di recente definito «l’Acropoli palatina», una delle aree più sacre dell’Urbe, ricco di memorie connesse alle stesse origini della città. Ogni anno, in occasione dei ludi scaenici previsti durante le feste in onore della dea, si svolgevano qui rappresentazioni teatrali (tra le quali numerose commedie di Terenzio), che consigliarono nel tempo la realizzazione di impianti scenici provvisori, verosimilmente su un margine della platea.

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Festoni con maschere, foglie e frutta. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Precisi riferimenti alla praeclara Atene si colgono anche nelle opere, pure molto diverse, di Ennio, Lucio Accio e Lucrezio. Se in Ennio il riferimento è puntuale ma troppo stringato per trarne considerazioni più generali, in Accio e in misura ancora più evidente in Lucrezio la città è ricordata in riferimento a un’aetas mitica. E anzi, Lucrezio sembra avere dinanzi agli occhi un’Atene “reale”, con l’Acropoli che svetta sul paesaggio urbano, e, visibile su di essa, il tempio di Atena e gli altari fumanti di offerte. Un riferimento reale a una Grecia conosciuta sembrerebbe adombrato nello stesso libro anche dal verso che narra dell’oracolo di Delfi. Nec res ulla magis quam Phoebi Delphica laurus terribili sonitu flamma crepitante crematur (6, 153): visione potente e completa, che non abbisogna, come nel caso ateniese, di precise notazioni descrittive. L’evocazione suggestiva di suono e fiamme è di per sé sufficiente a ricreare nella mente, per astratto il paesaggio delfico. In effetti il santuario di Delfi, pure oggetto di una frequentazione ormai da lunga data, non è mai descritto nelle fonti latine del periodo con reali notazioni in senso paesistico o accenni topografici: al più, si fa riferimento alla caratterizzazione delfica del dio, ma nulla di più. Analogo discorso per il santuario di Olimpia, presente solo in verso di Ennio con stringato riferimento a una vittoria negli agoni (citato in Cicerone, De senectute, 14). Qualche dettaglio maggiore si ottiene nel caso della città di Cnosso, che si dice (dicitur) di fondazione attribuibile alla stessa Vesta (citato in Lattanzio, Institutiones divinae, I 11, 45-46): lì, il sepolcro di Zeus è reso riconoscibile per mezzo dell’apposizione di un’iscrizione in un font greco ormai in disuso (antiquis litteris Graecis), che lo stesso Ennio si premura di tradurre in latino (ZAN KPONOI id est Latine Ippiter Saturni). In questo caso la descrizione sembrerebbe derivare da una conoscenza “reale” del monumento, anche considerato lo scarto nella modalità narrativa tra il dicitur della frase precedente e dell’uso verbale (est… est inscriptum) in questa.

Più in generale, la Grecia ricordata nelle opere di questi secoli è una Grecia ammantata dalla clara fama del suo passato o di alcuni avvenimenti esemplari: basi pensare al richiamo a Leonida pronunciato da Catone (citato in Aulo Gellio, Noctes Atticae, III 7, 19) , o alla Grecia ideale ricordata in un’orazione di Gaio Gracco (Orationes, 44, 17). Gli altri scritti sono purtroppo troppo frammentari per poterne trarre conclusioni di carattere generale: la voce Graecia ricorre solo nelle tragedie di Lucio Accio (Tragedie, 464, 560) e in locuzione aggettivale nelle Satire di Lucilio (9, 335; 27, 709; 29, 915), in cui si tenta di ottenere un effetto comico mediante l’impiego di suoni che dovevano risultare al pubblico sgraziati e “stranieri”.

La lingua dell’altro.

La traduzione di Livio Andronico dell’Odissea di Omero, intorno alla metà del III secolo a.C., fu una vera e propria rivoluzione culturale. Non si trattava di una mera trasposizione lessicale (tanto che non vi compaiono mai prestiti linguistici), quanto di una traduzione “artistica”: risultarono determinanti la scelta della resa degli eleganti esametri omerici in saturni, il metro dell’antica poesia oracolare latina, e una certa predilezione per l’utilizzo di espedienti retorici al fine di accentuare il páthos del modello originario. Il lavoro di Livio divenne così un vero e proprio libro di testo, utilizzato per più generazioni, e ancora letto da Cicerone e Orazio. È curioso ricordare come, alle orecchie di Cicerone, raffinato grecista, la traduzione di Livio avesse ormai l’aspetto, vetusto e un po’ rigido c’è da pensare, degli xóana dedalici (Brutus, 18, 17).

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

La conoscenza del greco doveva essere a Roma a quel tempo già di lunga durata, forse diffusa anche grazie all’elevato numero di schiavi provenienti dalla Magna Grecia. Nel 282, a ridosso dell’arrivo di Pirro in Italia, Postumio Megello era stato oggetto dei sarcasmi dei Tarantini per il suo modo, considerato “barbaro”, di rivolgersi in greco alla folla riunita a teatro per ascoltarlo: notazione che riflette, in ogni modo, come il console non solo fosse già in grado di esprimersi in quella lingua, ma che scegliesse intenzionalmente di farlo (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5,1; Appiano, Sanniti, VII 2). In questi decenni nell’Urbe si poteva leggere, scrivere, far di conto, imparare il greco, la giurisprudenza e la politica (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5). Pare che la prima scuola pubblica, un grammatodidaskaleîon, sia stato aperto a Roma nel 235, e che vi abbia insegnato il liberto Spurio Carvilio (Plutarco, Quaestiones Romanae, 59); sappiamo inoltre che Livio ed Ennio (entrambi peraltro semi-graeci come li definì Svetonio) si dedicarono all’insegnamento anche del greco sia in privato sia in pubblico, in una scuola sull’Aventino, il collegium scribarium histrionumque annesso al tempio di Minerva (Svetonio, Grammatici retoresque, 1). Si leggevano in greco, ed erano evidentemente comprensibili, i titoli di alcune opere di Livio Andronico (Aiax mastigophorus), Nevio (Akontizomenos, Agrypnuntes, Astiologa, Colax) ed Ennio (Hedyphagetica). Non solo: gli intrecci di molte di queste tragedie sono legate ai miti del ciclo troiano (Achille, Aiace, Andromeda) con il quale il pubblico iniziava a familiarizzare.

Ma non è tutto. Gli incerti eventi del III secolo a.C. avevano consigliato l’introduzione, in città, di riti secondo il costume greco (Graeci riti): i ludi tarentini in onore di Dis Pater e Proserpina nel 249 (con un inno composto da Livio Andronico e cantato da un coro di ventisette fanciulle); i ludi apollinares nel 212, e un secondo inno, composto da un ormai anziano Livio Andronico nel 207 in onore di Giunone Regina. Talora, un cerimoniale “alla greca” fu prescritto entro le maglie di culti antichi: lo dimostra, in modo eclatante, il caso del culto di Cerere sull’Aventino, che vide l’introduzione di due sacerdotesse pubbliche di origine greca (o, per meglio dire magno-greca, considerata la loro provenienza da Velia e Napoli). Sappiamo molto poco di come questi riti dovessero essere integrati all’interno della religione romana e cosa essi comportassero nella realtà delle cose: in talune occasioni festive, certi settori della città, chiusi al normale traffico cittadino, potevano forse risuonare di processioni, danze o gare “alla maniera greca”. In ogni modo i vari rituali finirono ben presto con l’essere integrati e con il costituire, mescolati alla tradizione, un’unità inscindibile sentita come autenticamente “romana”.

Frattanto, si scrivevano in greco le prime storie di Roma: le Storie di Fabio Pittore, di Cincio Alimento, di Acilio Glabrione, di Postumio Albino. In una curiosa premessa, quest’ultimo giungerà persino a scusarsi della sua non perfetta padronanza della lingua greca, ammissione che scatenò la pungente ironia di Catone (Polibio, 39, 1; Plutarco, Vita di Catone, 12, 6). Nel tempo il greco divenne parte integrante della formazione scolastica dei fanciulli: Quintiliano (Institutio oratoria, I 1, 12) e Tacito (Annales, 29, 1) ci informano come ai loro tempi (e certo anche prima) fosse addirittura invalsa la consuetudine di far precedere l’apprendimento del greco rispetto al latino nell’età prescolare.

T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.

Ma il greco non era una lingua esclusivamente “letteraria”. Pare che negli uffici della questura fosse possibile far eseguire per conto del Senato tradizione di documenti ufficiali contenenti decisioni sulla Grecia. dovevano essere redatti in greco, ad esempio, scritti destinati alla comunicazione con i sovrani ellenistici: sembrerebbe questo il caso della lettera, scritta da Roma e indirizzata a un Seleuco intorno alla metà del III secolo a.C., con la quale si prometteva al re l’amicizia e l’alleanza del Senato, in cambio dell’immunità fiscale a vantaggio degli Iliei. Risalgono a questi anni accesi dibattiti che animavano la vita culturale cittadina sulla modalità delle più corrette traduzione dal greco al latino, e le prime tradizioni dei titoli delle cariche ufficiali, che portarono all’equiparazione di anthýpatos e proconsul, presbeutḕs e legatus, tamías e quaestor. Va infine ricordato come il primo “ambulatorio” medico, installato in una taberna acquistata con fondi pubblici presso il compitum Acilii (Plinio, XXIX 12), fosse stato aperto nel 219 a.C.: competenza che richiese, verosimilmente, l’impiego di personale specializzato, ovviamente di lingua greca.

La conoscenza del greco era dunque abbastanza radicata nella Roma del III secolo a.C. Come notò acutamente Momigliano, essa divenne ben presto un impareggiabile strumento di dominio: «Né Polibio né Posidonio si resero conto di quale superiorità i leader romani avevano acquisito grazie al semplice fatto di saper parlare e pensare in greco, mentre quelli greci avevano bisogno di interpreti per capire il latino». Alcuni dei consoli inviati a Taranto o in Grecia erano in effetti già in grado di sfoggiare un’ottima conoscenza del greco: Flaminino (Plutarco, Vita di Flaminino, 6), Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei Gracchi (Cicerone, Brutus, 20, 79), Lutazio Catulo (Cicerone, De oratore, II 7, 28), o P. Licinio Crasso Dives, console nel 131 a.C., capace di rispondere in cinque diversi dialetti greci ai supplici che si erano rivolti a lui (Valerio Massimo, VIII 7, 6; Quintiliano, XI 2, 50). La loro fu, comunque, sempre una scelta “politica” e consapevole. Emilio Paolo, capace di passare senza problemi da una lingua all’altra (Livio, XLV 8, 8; XXIX 3), si rivolge in greco a un Perseo prigioniero e sconfitto, ma ricorre al latino (e ai servizi di tradizione del suo pretore Gneo Ottavio) nel comunicare, da vincitore, le decisioni del Senato alla folla riunita ad Anfipoli. Che si trattasse di scelte intenzionali è chiaro dall’episodio di Catone, intento ad Atene a parlare in latino (!) a una folla riunita per l’occasione, nonostante egli fosse perfettamente in grado di esprimersi in greco (Plutarco, Vita di Catone, 12, 5).

Busto di Carneade. Marmo, I secolo d.C. Museo dei Marmi di Firenze.

È di un qualche interesse sottolineare come, per parte loro, i Greci non abbiano mai utilizzato la lingua latina. Per l’intero corso dell’età repubblicana non è dato il caso di nessun greco incaricato di una missione diplomatica capace di esprimersi fluentemente in latino. Gli ambasciatori greci inviati al Senato ricorsero di norma ai servizi di traduttori. È forse il caso di Cinea, ambasciatore di Pirro nel 280 a.C. (Plutarco, Vita di Pirro, 18); lo è con certezza in quello dei tre filosofi del 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao, i cui interventi furono tradotti in latino per merito del senatore Gaio Acilio, versato nella conoscenza della lingua straniera, tanto da scrivere, in greco, una storia di Roma che doveva giungere al 184 a.C. (Aulo Gellio, Noctes Atticae, VI 14, 9; Macrobio, Saturnalia, I 5, 16). Per una concessione forse di Silla, sarà solo Molone di Rodi, maestro di Cicerone e di Cesare, il primo straniero ad avere il permesso di poter parlare in Senato senza avvalersi dell’uso di interpreti (Valerio Massimo, II 2, 3): ma i tempi erano ormai mutati, e la conoscenza della lingua greca a Roma doveva essere sentita ormai come basilare nella formazione letteraria della nobilitas senatoria.

In Grecia invece persino gli spazi pubblici, le agoraí, i santuari continuavano a essere affollati da donari le cui dediche rimanevano, senza eccezioni, in greco. Le rare dediche bilingui sono esclusivamente opera di consoli romani, che indirizzano agli dèi locali le loro dediche in latino, premurandosi di fornire in greco appropriate traduzioni. A Olimpia, la prima iscrizione in latino sarà opera soltanto di Agrippa, che fece ricorso alla “sua” lingua (forse addirittura non leggibile per i Greci dell’epoca!) per commemorare, in lettere bronzee dorate, i propri interventi di restauro nel pronao del tempio di Zeus.

Che la scelta e la gestione della lingua siano stati nel corso della conquista del Mediterraneo autentici strumenti di dominio lo dimostrano le riflessioni di Valerio Massimo (II 2), ormai agli inizi dell’età imperiale: «I Romani forzarono i Greci a parlare con loro mediante l’ausilio di un interprete, non solo nella nostra città, ma persino in Grecia e in Asia, cosicché il rispetto e la reverenza verso la lingua latina si diffusero attraverso i vari popoli».

La percezione dell’altro.

La reale conoscenza degli altri è talvolta anticipata, a livello di coscienza collettiva, dalla creazione di stereotipi o di astratti valori generici di riferimento.

Dal punto di vista dei Greci, i Romani furono inseriti, già intorno alla metà del IV secolo a.C., all’interno della categoria dei «barbari», classificazione che aveva origine in una visione binaria del mondo che risaliva già a Tucidide e che riuniva entro tale concetto ogni popolazione che non fosse di lingua o cultura ellenica: era un mondo di «altre genti» opposte agli Elleni. Non era una distinzione in chiave etnica, quanto legata a differenze “culturali” e a un lessico che alle orecchie dei Greci doveva risultare come il prodotto di suoni incomprensibili (bar-bar). Probabilmente Aristotele, nei suoi nómima barbariká, parlava già di Roma come di una città «barbara».

Filippo V. Didramma, Anfipoli 180 a.C. Ar. 8,46 gr. Dritto: Testa diademata verso destra.

Il ricorso a questo concetto, che diventerà un vero e proprio artificio retorico, è frequente nella gestione politica di conflitti e alleanze: è esemplare il caso dell’acarnano Licisco, che ricorre al concetto di «barbarie» opposto alla comune matrice «ellenica» nel tentativo di impedire l’alleanza di Sparta con l’Etolia (e quindi con Roma) nel corso del conflitto del 210 con Filippo V (Polibio, IX 37, 7-39; 44) e ancora, forse nel corso del medesimo scontro, l’analogo discorso pronunciato dal rodio Trasicrate (Polibio, XI 4-5), nel quale viene riservato ai pur antichi “soci in affari” l’epiteto di bárbaroi. A esso possono essere affiancati i termini, di nuova coniazione e piuttosto significativi, di allóphyloi («gente con un altro modo di sentire») o allogenḕs («gente nata altrove»): tra i numerosi casi, si segnala quello del concilio panetolico di Naupatto (primavera del 199), in cui sono gli ambasciatori di Filippo (Livio, XXXI 29) ad avvertire come siano un pericolo «quegli stranieri, separati da noi più che per la lingua, gli usi e le leggi, che non da distanza di mare o di terra». Il cliché della barbarie e dell’ignoranza dei Romani sarà molto difficile da sradicare, tanto che, ormai in età augustea, Dionigi di Alicarnasso a premessa della sua opera storica scriverà: «Tutti i Greci [dei suoi tempi] ignorano la storia di Roma, e immaginano che i primi abitanti di Roma fossero errabondi, barbari, e non uomini liberi».

Si tratta certo di giudizi sempre manipolati in chiave politica. prova ne sia il fatto che, già nel 200 a.C. nel corso della II Guerra macedonica, lamentando le pesante devastazioni cui Filippo V aveva sottoposto il territorio dell’Attica, Atene invoca i Romani come «secondi agli dèi» (Livio, XXXI 30, 4). E, pochi anni dopo, l’entusiasmo suscitato dall’atteggiamento di Flaminino, vincitore su Filippo V a nome dei Greci, porterà ad accostare al suo nome l’epiteto di sōtḗr («salvatore») e addirittura alla creazione di festival legati al suo nome: a partire da questa fase il ritornello della “barbarie” sembra perdere di smalto, a deciso vantaggio di un atteggiamento più ossequioso, che diviene ancora più smaccato subito dopo la vittoria di Emilio Paolo su Perseo e lo smembramento della Macedonia in quattro “distretti” non autonomi. L’assetto geopolitico è ormai mutato, e i Romani sono con ogni evidenza l’unica potenza egemone del Mediterraneo: abbandonata ogni remora, essi stessi sembrano in questa fase più inclini ad atteggiamenti arroganti e spavaldi, allontanandosi dal delicato sistema di equilibri cui si erano attenuti sinora (valga, tra tutti, l’episodio del “cerchio” di Popilio Lenate ad Antioco IV, su cui cfr. Polibio XXIX 27, e Livio, XLIV 19; XLV 12).

Pavel Glodek, Battaglia di Cinoscefale.

Parallelamente anche l’atteggiamento dei Greci subisce una virata: istruttiva al riguardo la visita di Prusia II di Bitinia a Roma, il quale, col capo rasato e abbigliato come un liberto, fermo sulla porta della Curia si sarebbe rivolto ai senatori riuniti all’interno invocandoli «dèi salvatori». È evidente come un simile atteggiamento di smaccata sottomissione suonasse eccessivo agli occhi di un Greco: e infatti Polibio descrive la visita del re con una nota di biasimo malcelato, in chiave quasi caricaturale (Polibio, XXX 18, 1-4). Può essere utile, a contrasto, confrontare la versione dello stesso avvenimento fornita da Livio, decisamente più sobrio (XLV 44, 4-20).

È un dato di fatto che la pressoché integrale scomparsa delle fonti di parte greca ci privi della possibilità di comprendere quali fossero gli elementi dello Stato o della società romana percepiti come “strani” o “sgraziati” agli occhi dei Greci. Riusciamo a recuperare appena qualche isolato frammento.

«Il Senato gli era apparso come un’assemblea di molti re»: con queste parole Plutarco racconta le impressioni del tessalo Cinea, ambasciatore nel 280 a.C. di Pirro, inviato al Senato per trattare la pace e il rilascio dei prigionieri (Plutarco, Vita di Pirro, 19, 6). Era costui un abile oratore, allievo di Demostene, di ottima memoria. E la sua in verità non dovette essere un’impressione superficiale, legata semplicemente alla sensazione di trovarsi al cospetto di una moltitudine di senes, abbigliati nelle candide toghe e riuniti in assemblea plenaria, anche se l’effetto scenografico della seduta dovette certo avere la sua parte. Pare piuttosto di essere alle prese con il resoconto di un’analisi attenta sulla qualità della forma di governo dei Romani, lucidamente esaminata, e sentita come “contrastante” rispetto alla forma di governo monarchico, incentrata sulla figura del basileús unico al quale erano demandati tutti i poteri (affari interni, affari esteri), al più affiancato da una commissione di consiglieri.

Pirro dell’Epiro. Busto, marmo, da un originale del 290 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Si tratta evidentemente dello stesso atteggiamento di curiosità “scientifica” che, qualche tempo più in là, si legge nell’elogium di Roma contenuto in 1 Maccabei. Siamo nel 161 a.C., nelle fasi centrali della rivolta giudaica contro il re di Siria Antioco IV. L’aiuto di Roma viene invocato da Giuda Maccabeo con una lettera che è a tutti gli effetti una valutazione del sistema di governo romano, considerato superiore a quello degli Stati ellenistici: «Nessuno fra loro ha assunto il potere regio, con i simboli del diadema e della porpora per dominare. Esiste invece presso di loro un’assemblea di trecentoventi membri che si riunisce ogni giorno per deliberare nell’interesse del popolo e per mantenere l’ordine nello Stato. Essi conferiscono ogni anno il potere del comando su tutto il loro territorio a un solo personaggio al quale tutti obbediscono senza invidia e gelosia». Il complesso apparato cerimoniale e il fasto delle corti ellenistiche dovette fungere da vivido contrasto agli occhi degli ambasciatori orientali ammessi dinanzi ai senatori: e tuttavia, subito dopo la lode per il rifiuto di diadema e porpora (tipico dei re), anche in questo caso l’attenzione si sposta su aspetti più legati all’analisi costituzionale, sebbene con qualche imprecisione.

Basti ricordare, a contrasto, come l’accusa di ricercare regnum in Senatu, rivolta agli inizi del secolo (ma già dopo i successi contro Antioco III) a Scipione Africano e al fratello, avesse stigmatizzato il tentativo di ricercare una qualsiasi posizione di preminenza all’interno della compagine del sistema, non tollerabile e perciò sprezzantemente qualificata.

Qualche decennio più in là, la riflessione sugli ordinamenti e sulla costituzione romana occuperà un intero libro (il sesto) delle Storie scritte a Roma da uno storico greco, Polibio. E anche in questo caso, non mancano pagine di comparazione tra le forme di governo greche e quelle dei Romani, ormai signori del Nuovo Mondo: sono esaminati potere monarchico e forme dell’ordinamento costituzionale, con la proibizione dell’accentramento del potere nelle mani di un singolo e l’esaltazione dei pregi della divisione di poteri nella gestione collettiva della cosa pubblica (consoli, Senato e plebe).

Antioco IV. Tetradramma, Akko-Ptolemais 175-164 a.C. Ar. 17,0 gr. D – Testa diademata di Antioco verso destra.

Agli occhi dei Greci di quei tempi, tuttavia, la coralità della gestione collettiva dello Stato romano doveva risultare ancora non del tutto comprensibile: «Se per caso uno soggiorna a Roma quando il console non è presente, il regime politico gli appare senz’altro aristocratico. È per questo che molti Greci, anche dei re, finiscono per convincersi che quasi tutti gli affari sono di competenza del Senato» (Polibio, VI 13, 8-9).

Ma gli aspetti legati alle istituzioni politiche non erano i soli capaci di suscitare la curiosità e animare il dibattito.

Nella quarta decade di Livio è il racconto della rivalità tra i due figli di Filippo V (Livio, XL 5): Perseo, convinto assertore della possibilità di una qualche forma di indipendenza del regno macedone da Roma, e Demetrio, che, ostaggio per qualche anno nell’Urbe dopo la sconfitta di Cinoscefale, era adesso fautore di una linea politica più vicina ai Romani. Nel tentativo di indurre Filippo V a uno scontro con Roma e di rendere Demetrio inviso al padre, i cortigiani intavolarono allora una discussione su Roma, schernendone gli usi, le istituzioni, le imprese, persino alcuni dei più illustri cittadini. Poi, e qui si entra nel vivo della questione, essi giunsero a schernire l’aspetto della città, ai loro occhi “rea” di non essere ancora adorna di edifici pubblici e privati ([…] speciem ipsius urbis nondum exornatae neque publici neque privatis locis). La scena è ambientata nel 182 a.C., la pace di Apamea ha da qualche anno segnato la fine dei conflitti con Antioco III e sancito l’estensione del dominio di Roma al Mediterraneo orientale. Che senso ha dunque il biasimo agli occhi di un Greco di una città che si appresta a divenire la capitale del Mediterraneo? Bisogna considerare, ed è stato ripetuto molte volte, come in quegli anni Roma fosse ancora una città di legno e terracotta: il primo edificio templare in marmo, opera dell’architetto Ermodoro di Salamina, sarà dedicato solo dopo il 146 a.C. La moda dell’uso del marmo, anche policromo, nella costruzione degli edifici o nel loro arredo scultoreo sembra esplodere come conseguenza dell’espansione romana nel Mediterraneo proprio intorno alla metà del II secolo a.C.: arrivano allora a Roma gli splendidi marmi africani (giallo antico dalla Numidia, o porfido e basalto dall’Egitto), i rinomati marmi bianchi dalla Grecia (pentelico, imezio, pario, nassio, tasio), il pavonazzetto dalla Frigia. È impossibile dunque che all’inizio del secolo l’aspetto della città, a confronto con quello delle altre grandi capitali, fosse percepito ancora come misero.

Ma non dovette essere unicamente questione di materiali da costruzione. Sebbene aduse all’impiego del marmo ormai da secoli, alcune città greche in questa fase non dovevano infatti essere splendide né risplendenti ai dettami della moderna architettura ellenistica, almeno non come noi siamo indotti a ritenere. Il periegeta Eraclide critico, autore nel III secolo a.C. di un trattatello Sulle città dell’Ellade a noi pervenuto in frammenti, così descrive l’Atene dei suoi tempi: «[…] a causa della sua antichità, è mal distribuita in strade e quartieri; le strade sono strette e tortuose; la maggior parte delle case è a buon mercato, ma poche sono comode. Se uno straniero visitasse solo queste, ben difficilmente crederebbe che si tratti della famosa città degli Ateniesi» (FrGrHist. II, 264). Dunque, anche ad Atene nessuna regolare e ordinata pianificazione urbanistica, ma isolati e quartieri che si sovrappongono l’un l’altro tanto da suscitare una sorta di sgomento all’idea di trovarsi dinanzi alla “famosa” città di Pericle, di Platone e dei tragediografi. Neanche in questo caso la città ideale sembra riflettersi nella realtà dello spazio urbano a disposizione. Ma ecco che, imbattendosi negli edifici pubblici, lo straniero in visita ha modo di ricredersi: sono enumerati, in rapida sequenza, «un teatro degno di essere menzionato, grande e ammirevole, un magnifico santuario di Atena, visibile da lontano con il suo tempio […] che fa una grande impressione su chi lo contempli. Tre ginnasi: l’Accademia, il Liceo e il Cinosarge, tutti piantati ad alberi e con prati». Dunque, non è questione di “gusto”, né di assetto urbanistico, quanto dell’individuazione di alcuni elementi sentiti come imprescindibili nel delineare la fisionomia greca di una città: teatro, santuario, ginnasi. In tale prospettiva, sono perfettamente comprensibili le parole di scherno dei cortigiani di Filippo. Nella Roma degli inizi del II secolo a.C. non vi era infatti ancora alcuno di questi edifici: non un teatro né un ginnasio, gli stessi templi avevano ancora enormi tetti in terracotta, né vi era alcun edificio nel quale potere passeggiare al riparo dal sole o ammirare qualche bella opera d’arte, come tra i portici di un’agorà di qualsiasi cittadina greca.

Angus Mcbride, Antioco IV e Popilio Lenate.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Il dibattito sugli ornamenta urbis è a Roma di grande attualità nella seconda metà del I secolo a.C., fase in cui, ormai archiviata la questione della supremazia romana nel bacino del Mediterraneo, si discute di quanto fosse cambiata la città a seguito di quelle conquiste. I due termini ricorrono infatti nelle opere di Cicerone sempre in riferimento allo spoglio di città sconfitte da parte dei generali vincitori, il cui prezioso bottino giungerà di lì a poco nell’Urbe, trasformandone l’aspetto per sempre: Marcello a Siracusa (In Verrem, II 4, 121, 6), L. Calpurnio Pisone a Bisanzio (De provinciis consolaribus, IV 7), Emilio Lepido (Filippiche, XIII 4, 8). Di lì a breve, tale background porterà alle considerazioni di Strabone (un Greco!), sulla noncuranza dei “vecchi” Romani per la bellezza della città, cura alla quale, a suo giudizio, i Romani dei suoi tempi si dedicarono con grande dispendio di mezzi, riempiendo la città di molte e belle opere (Strabone, V 3, 7). È la stessa linea del famoso manifesto di Augusto, che si gloriava di aver «trovato una città di mattoni e averne lasciata una di marmo». Non si può del tutto escludere, dunque, che la ricostruzione di Livio e gli argomenti da lui attribuiti ai cortigiani di Filippo abbiano risentito in qualche misura di questo dibattito sulla trasformazione e l’abbellimento della città, di grande attualità ai suoi tempi.

Per parte romana, è di un qualche interesse rilevare come la visione del mondo non sia mai stata binaria (Romani/resto del mondo), e che anzi gli stereotipi coniati in “favore” di Greci e della Grecia siano molto più numerosi e dettagliati rispetto a quanto non sia avvenuto per gli altri paesi di recente conquista. Se per gli Africani è sufficiente ricordare la vanitas, per gli Iberi la feritas, per i Germani la fluxa fides o per i Parti la perfidia, per i Numidi una stupefacente attitudine al sesso (in venerem incredibile effusi), per i Greci ci si sbizzarrisce, con l’invenzione di nozioni come levitas, arrogantia, ineptia, volubilitas linguae e molti altri ancora, il cui ambito semantico è in genere connesso con una loro maggiore dimestichezza nell’uso linguistico, parallela a una minore attitudine sul versante pragmatico o militare. Eppure, tali concetti, che ricorrono con una certa frequenza negli scritti di Sallustio, Cicerone, Livio, Orazio e Ovidio, sembrerebbero attestati solo a partire dalla metà del I secolo a.C.: non riflettono dunque una fase di esplorazione e primi contatti, ma un orizzonte in cui la Grecia si conosce ed è stata ormai ben integrata […].

Roma e la Grecia

di F. GUALDONI, in Arte classica, Milano 2007, pp. 125 sgg.

«Gli antichi Romani non si curavano della bellezza, tutti presi da cose più grandi e più necessarie». In questo passo di Strabone è sintetizzato il rapporto complesso che la cultura romana dei primi secoli intrattiene con l’ellenistica, così come con quelle italiche più evolute – in specie l’etrusca – sino alla seconda metà del II secolo a.C.
La sofisticatezza dei modelli greci, l’apprezzamento puramente estetico del bello, il fasto decorativo non solo non appartengono alla cultura romana ma vengono avvertiti come ostili, come elementi tali da erodere un senso di appartenenza fondato su valori altrimenti concreti e funzionali di civitas.
L’origine e i costumi delle genti romane sono rurali, e a fronte del vitalissimo espansionismo militare ed economico che contraddistingue i primi secoli il modo di vita fa valore della semplicità, della frugalità, dell’utilità. Rispetto al mondo greco la cultura urbana matura in modo affatto differente: Roma è già di per se stessa la città, non una città, e il suo potere per lungo tempo non ha bisogno di ratifiche e manifestazioni sul piano simbolico. Il suo confine e perimetro è una linea sacra non difensiva, il pomerium – la città verrà dotata di mura munite solo dopo l’invasione gallica del 390 a.C. – secondo un concetto che permarrà anche in età imperiale, e il suo interno è concepito come una macchina funzionale, in cui è prevalente la risposta alle esigenze pratiche di vita di un agglomerato complesso di abitanti. La copertura della Cloaca Massima, l’antica condotta fognaria, i due acquedotti costruiti nel 312 e nel 272 a.C., l’avvio di una pratica rete viaria lastricata, sono nei primi secoli di vita della città opere di utilità pubblica avvertite come prioritarie rispetto alla stessa edificazione di templi, le cui proporzioni rimarranno, sino all’età imperiale, modeste.
Del resto la stessa struttura della società presenta, sul piano simbolico per eccellenza, quello religioso, forti tipicità. La comunità è strutturata sulla coesione di forti nuclei familiari, i quali rappresentano il primo inderogabile fattore di identità. Il ruolo centrale è attribuito al pater familias, il patriarca, responsabile a un tempo del partecipare della famiglia alla vita collettiva e della religione privata, non secondaria rispetto alla pubblica, in cui gran luogo hanno i sacrifici alle icone dei Lari e dei Penati, divinità protettrici private della terra e della dispensa, e ai Mani, gli antenati la cui presenza era garantita e al tempo stesso esorcizzata da immagini all’interno della casa, che contrassegnavano la continuità della stirpe e il complesso dei suoi valori sociali e morali. La pietas, amore verso i genitori, è lo stesso sentimento con cui ci si rivolge agli dèi.
Il passaggio da questa religiosità privata, che fa dell’interno della casa un luogo a sua volta sacrato, tipica del retaggio rurale e con evidenti residui animistici, a una religione comunitaria di tipo uranico, in cui progressivamente si opera il sincretismo con gli dèi olimpici greci avviato con l’identificazione della triade celeste Giove, Giunone, Minerva (gli etruschi Tinia, Uni, Menrva) con Zeus, Hera e Atena, e delle divinità ctonie Cerere e Proserpina con Demetra e Persefone, non intacca il ruolo della religiosità domestica, e contribuisce a spiegare la non particolare rilevanza, a quel tempo, degli edifici pubblici di culto.

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

Altro elemento di forte tipicità è il prevalere dei riti sui dogmi. La religiosità romana pone al centro l’uomo e le sue azioni, cui il rituale mira a rendere favorevoli, quasi contrattualmente (tale è il senso del votum) le forze soprannaturali, e non le divinità stesse, le quali peraltro non agiscono di propria iniziativa nella vita degli uomini: l’assenza di una cultura mitica, così sviluppata invece nel mondo greco, ne è testimonianza evidente.
Da ciò discende un elemento cruciale riguardante la cultura artistica, l’assenza di una vera discontinuità concettuale tra immagine del divino e immagine umana, tra figura sacrata e figura individuale, entrambe appartenendo a un sistema unico di onori che la società e i suoi nuclei fondanti attribuiscono a chi incarni i valori condivisi cui far riferimento.
Plinio testimonia, peraltro, l’uso antico della terracotta per le statue delle divinità (in uno strato ancor più arcaico esse erano lignee), e il bronzo per quelle degli uomini; marmo, oro, avorio essendo materiali lussuosi non appartenenti alla tradizione. Quando, nel 396 a.C., Camillo saccheggia Veio, ne riporta le statue sacre in quanto sacre, così come accadde alla statua di Giove condotta a Roma da Preneste nel 380 a.C., e a quella di Giano quadrifronte presa a Falerii nel 241 a.C., secondo la ben conosciuta tendenza ad appropriarsi dell’altro impossessandosi dei suoi segni identitari di culto.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia in marmo di III sec. da un originale ellenistica di Lisippo del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quando, nel 212 a.C., dalle vinte Capua e Siracusa vengono a Roma come bottino statue marmoree e bronzee, ori, argenti, decori lussuosi, e poi nel 210 a.C. da Taranto altre ricchezze tra cui l’Eracle di Lisippo, e in seguito centinaia di quadri e statue dalle prime vittorie greche dopo quella nel 194 a.C. su Filippo V di Macedonia, l’atteggiamento è palesemente mutato. Quelle statue, quei quadri, non valgono in quanto signa delle altrui religioni, ma in quanto opera d’arte, indicatori d’una tutta umana qualità della vita contrassegnata da simboli ormai squisitamente culturali. È ben vero, d’altronde, che sino al II secolo a.C. anche l’attività edilizia e architettonica, la più tipica romana, non mostra ambizioni qualitative particolari. Il tempio Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva nel 509 a.C., così come quello eretto in onore della triade «plebea» e tutta ctonia Cerere, Libero e Libera nel 493 a.C., vedono all’opera nel primo caso maestranze etrusche, come testimonia il nome tramandateci dalle fonti del veiente Vulca, e nell’altro magno-greche. Le decorazioni fittili, vivamente dipinte, adornavano edifici di concezione originale, debitrice dell’architettura templare etrusca, dalla quale derivavano i concetti strutturali fondamentali.

Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino, a Roma.

L’edificio, di non grandi dimensioni, si ergeva su un alto podio ed era accessibile grazie a una gradinata che saliva verso l’unica facciata, colonnata, oltre la quale si schiudeva la cella tripartita, dedicata alla triade divina, chiusa dalla parete posteriore del tempio.
Dal III secolo a.C. è documentato con sicurezza l’uso di materiali litici come tufo, travertino, peperino, e soprattutto della tecnica dell’opus caementicium, un conglomerato fluido di calce e sabbia mescolato a ghiaia o a frammenti di tufo il quale, asciugandosi, acquisisce una straordinaria solidità e consente di legare stabilmente tra loro altri materiali costruttivi, schiudendo soluzioni assai diverse dall’elementare sistema trilitico in uso nel mondo greco, limitato dal modesto rapporto tra peso intrinseco e capacità statica degli elementi impiegati.
Nel II secolo a.C. fanno la loro apparizione altri tipi architettonici. Gli archi commemorativi e onorari, sovrastati da statue, celebrativi di campagne militari vittoriose, sfruttano la tecnica nuova dell’opus caementicium per creare ampie strutture a fornice di valore monumentale; analogamente, la struttura ad arco consente realizzazioni complesse come i corsi degli acquedotti e i ponti in muratura sul Tevere, e nei secoli successivi darà vita a costruzioni grandiose, come teatri e anfiteatri.
Le basiliche, strutture coperte a pianta rettangolare e sviluppo longitudinale divise in tre navate, destinate a scopi civili, sono tra gli edifici che qualificano il foro, spazio aperto di commercio e vita pubblica sul quale affacciano gli edifici pubblici. In esse è testimoniato l’uso dei mattoni d’argilla corti (opus latericium), di largo impiego in tutta l’edilizia imperiale per la flessibilità d’uso.
È con la stagione del potere di Silla, colui che nell’86 a.C. saccheggia Atene e che dopo aver vinto Mario esercita la dittatura, ovvero il potere supremo e non condizionato tipico delle situazioni di emergenza, tra l’82 e il 79 a.C., che ha inizio il processo di rinnovamento architettonico di Roma in senso monumentale. Esso prosegue con Giulio Cesare per trovare compimento in età augustea, allo scorcio dell’età repubblicana e all’avvio di quella imperiale.
L’influenza della cultura ellenistica, si avverte nell’introduzione del modello della tholos nei tempietti a pianta circolare, nell’adozione del marmo e delle sue policromie come elemento decorativo, nell’impiego degli ordini greci. Essi, tuttavia, vengono in certo senso sovrapposti al concetto costruttivo romano, la cui tecnica consente ben altri ardimenti, testimoniati ad esempio dal terrazzamento del tempio di Giove a Terracina, per cui vengono ridotti a semplici partiture decorative, con predominio del corinzio, in un gioco di pieni e vuoti in cui colonne e semi-colonne dialogano con la nuova cadenza visiva degli archi. Ciò accade nella scena architettonica e nell’architettura stessa dei teatri, che contraddicendo l’antica morigeratezza di costumi, che stabiliva che fossero solo strutture provvisorie in legno, si fanno in quest’epoca stabili: il Teatro di Marcello in Roma, avviato da Cesare e compiuto sotto Augusto, mostra la possibilità di reggere la grande cavea senza sfruttare un pendio naturale, ma con un sistema di ampie arcate, ritmate pittoricamente negli ordini sovrapposti dalle semi-colonne tuscaniche, ioniche e corinzie. Allo stesso principio risale la concezione degli anfiteatri, edifici circolari nei quali si svolgevano ludi gladiatori e circensi.

Teatro di Marcello, Roma. Particolare della facciata con i due ordini di arcate. I resti sono inglobati nel palazzo dei Savelli (XVI secolo).

Proprio l’accezione decorativa e ostentatoria dell’arte greca tutta fa sì che essa trovi spazio, nel ricco ed ellenizzante I secolo a.C., soprattutto nel consumo privato, declinandosi in spazi come ville e giardini dalle articolazioni complesse ed esuberanti, in cui le statue – originali, copie, reinvenzioni – perdono ogni altra accezione che non sia l’estetica, e in cui persino tipi architettonici cultuali come il ninfeo, nel mondo greco semi-sotterraneo e dedicato al culto delle Ninfe, divengono puro accidente scenografico: è tuttavia dalla forma absidata del ninfeo, unita all’assialità longitudinale a tre navate della basilica, che deriverà di lì a qualche secolo il modello basilicale cristiano.
Degli ornamenti della vita privata nelle ville patrizie, e del grado di penetrazione della voga ellenistica, è testimonianza il tesoro di Boscoreale, corredo di vasellame da tavola in argento trovato in una villa dell’area pompeiana nel 1895 insieme ad altri oggetti aurei meno interessanti sul piano artistico, ma denotanti l’immensa ricchezza del proprietario. I decori esterni delle coppe, che presentano talora rilievi anche all’interno, sono a motivi vegetali alternati con pittoresche immagini allegoriche, e indicano il grado di enfasi fastosa con cui il gusto ellenistico viene declinato e fruito in ambiente romano nel I secolo a.C. Analoga qualità decorativa traspare dal coevo tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868, in cui a decorazioni complesse si alternano raffigurazioni divine di gusto sofisticatissimo.
Il caso della scultura è assai più complesso. Una destinazione pubblica della statuaria si radica nell’uso di collocare nella città effigi bronzee celebrative e commemorative dei cittadini illustri, in molti casi secondo la tipologia originale della statua posta su una colonna. Sono ritratti spesso eseguiti dopo la morte del personaggio, quindi tipizzati, come avviene nella Grecia del IV secolo a.C., ma dotati di una caratterizzazione realistica che appartiene al portato originale dell’arte etrusca prima e poi romana, in cui hanno un gran peso la ritrattistica funeraria e il culto degli antenati: ne è tipico il modello delle imagines clipeatae, ritratti realizzati a rilievo di individui collocati al centro di uno scudo o medaglione circolare. Già nei canopi e nei sarcofagi etruschi è evidente l’intento ritrattistico che presiede alla realizzazione dei volti, dei quali è concettualmente e culturalmente fondamentale l’identificazione. Tale tradizione, fondandosi su una pratica concepita peraltro come artigianale, quindi senza particolari implicazioni colte, trasferisce all’arte romana dei primi secoli un linguaggio immediatamente verista, crudo e diretto, lontano dall’idea stessa di stile e di elaborazione ideale. Essa permane anche quando, tra il III e il II secolo a.C., i rapporti con l’arte ellenistica si fanno più stretti, e la ritrattistica ideale greca consente a tale atteggiamento di evolversi dal punto di vista tecnico e formale, pur senza tradire la propria natura originaria.
Popolaresco e tendenzialmente ignaro sul piano stilistico, tale strato artigianale permane a lungo come humus dell’ambiente artistico romano. Se la cultura tradizionalista legata alla virtus romana concepisce la scultura meramente in funzione civica e religiosa, dunque utilitaria e scevra da implicazioni estetiche, non riconoscendo ai suoi artefici altro statuto che l’artigianale, quella affascinata dalla luxuria ellenistica è xenofila e snobistica, apprezza e onora i maestri stranieri (ecletticamente neoattici oppure baroccamente ellenistici, da Pasitele a Arcesilao, da Stephanos a Cleomene, largamente omaggiati dalle fonti) ma in quanto stranieri, verso i quali esercitare un mecenatismo a sua volta imitativo, perpetrando un sostanziale disconoscimento della figura dell’artista come intellettualmente degna e autorevole in seno alla comunità.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini

Il ritratto verista, di stringata sintesi fisionomica, e un’arte del rilievo fatta di diretta, fresca descrittività e narratività, attenta all’evidenza iconografica quanto schietta sul piano esecutivo, sono dunque caratteristiche che transitano dal III-II secolo a.C. sino all’età imperiale, riemergendo come nutrimento primario dell’arte imperiale stessa da Traiano in poi. Esemplare è da questo punto di vista, naturalmente, proprio la ritrattistica funebre. Una statua di personaggio togato che regge nelle mani i busti del padre e del nonno è perfettamente esplicativa di questo filone. Il personaggio, ben connotato, fa delle fisionomie degli antenati i signa stessi della propria gens. Tale fedeltà descrittiva è robusta e sintetica, ed è riscontrabile in una serie di busti e di rilievi funerari che dal I secolo a.C. si inoltrano alla prima età imperiale, indicando differenti livelli di fattura, da un maturo realismo che supera i limiti del semplice verismo a espressioni di ingenuo piglio popolare.
Dal III-II secolo a.C. sino all’età cesariana si dipana una serie di testi e busti ritrattistici che ben indicano l’intrecciarsi della vigorosa sintesi etrusco-italica con elementi più popolareschi e con accentuazioni veristiche di sapore addirittura espressionista; ma anche con il fertile influsso della ritrattistica greca del IV secolo a.C., che agisce nella tensione vitale e nell’intensità psicologica, oltre che nell’equilibrio formale, di alcune di queste opere. La testa del Bruto Capitolino, scandita su piani netti con il fitto lavorio di capigliatura e barba, seccamente chiaroscurati, a evidenziare gli elementi identificativi maggiori, le labbra sottili, il forte naso e le orbite che ombreggiano lo sguardo intensificandone il protagonismo, è sicuramente uno dei raggiungimenti più alti del periodo più antico. Alla stessa epoca, III-II secolo a.C., appartiene una testa di fanciullo la cui stereometria è addolcita dal luminismo dolce delle superfici, non lontano dalle coeve teste fittili etrusche.
Anche la ritrattistica del I secolo a.C., dalla quale ci si attenderebbe una eroizzazione del personaggio all’uso greco, che ne amplifichi l’eccezionalità rispetto all’uomo comune, presenta piuttosto un’attenzione alla misura spirituale dell’individuo che ne definisce la sostanza psichica, non una retorica grandeur. Ritratti di personaggi illustri come Cicerone, dai lineamenti maturi e intensi, e Cesare, effigiato con sobrio realismo e modi di austera semplicità, ne indicano il concreto valore individuale, senza spinte eroizzanti o divinizzanti. È quanto emerge anche da una delle opere maggiori a noi giunte, il cosiddetto Arringatore. Al maturo realismo del volto si affianca, qui, anche una descrittività sobria e diretta che riguarda il corpo tutto, non risentendo di alcun modello sculturale ideale che faccia da paradigma.
Dei rari rilievi dell’epoca sopravvissuti, l’Ara di Domizio Enobarbo, diversamente datata dagli studiosi tra la fine del II secolo e gli ultimi decenni del I a.C., mostra un caso di convivenza complessa tra elementi ellenistici, prevalenti nella scena mitologica raffigurante le nozze tra Nettuno e Anfitrite, con Tritoni e Nereidi, e autoctoni, tipici della scena di sacrificio rituale per la purificazione dell’esercito. Le sensuose movenze curvilinee, il luminismo chiaroscurale della scena mitologica, di chiara ispirazione pergamena, sono in evidente contrasto con la sobrietà della scena storica, scandita come una theoria classica ed eseguita con pesantezza accademica non priva di abbreviazioni popolareggianti.
Una prima sintesi tra cultura romana e modelli greci si attua sotto il principato di Ottaviano, il vincitore nel 31 a.C. della battaglia di Azio contro Cleopatra e Marco Antonio, al quale nel 27 a.C. vengono riconosciuti dal Senato il titolo di Augusto e l’imperium militare, e che concentrando progressivamente su di sé tutti i poteri repubblicani, sino alla carica di pontefice massimo, la più alta autorità religiosa conferitagli nel 12 a.C., avvia la gestione monocratica dello Stato.
Dall’ellenismo Augusto deriva in primo luogo la consapevolezza dell’importanza della cultura come valore di appartenenza, come reagente e collante in grado di agire nella formazione di un’identità romana precisata e autorevole. L’azione letteraria di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, favorita e orientata dal principe, mira ad accreditare la rinascita di un’età aurea pacificata e florida, in cui la virtus romana rifulga come modello per il mondo tutto, nonché a vestire di mito la figura di Augusto, discendente, per il tramite di Enea, da Venere.
Il programma di trasformazione monumentale di Roma, già concepito e avviato da Silla e da Cesare, è parte integrante della strategia culturale di Augusto, che ricerca forme e modi che assommino il potere romano, la sua sagace concretezza, e il carisma colto dell’antica Atene: in questo ambito alla scultura viene attribuito parimenti il ruolo di fissare e diffondere un’iconografia insieme nobile e propagandisticamente persuasiva.
Documento per eccellenza di questo programma è l’Ara Pacis, inaugurata nel 9 a.C., un altare decorato a rilievi poggiante su un podio con gradinata e circondato da un recinto marmoreo. Accessibile da due porte che si aprivano – nella collocazione originale – sulla via Flaminia e sul Campo Marzio, il recinto è decorato all’esterno da uno straordinario complesso di rilievi su due ordini separati da un meandro continuo. L’ordine inferiore è decorato da volute correnti di acanto, il superiore da scene figurate rispondenti a un preciso programma iconografico. All’interno, la fascia alta è scandita da una serie di festoni vegetali retti da bucrani. Il fregio vegetale esterno ha un valore insieme decorativo e allegorico. L’acanto, dal cui cespo si diparte la serie fastosa di motivi curvilinei, simboleggia la forza prorompente della natura che genera e si rigenera: tra le sue volute si colloca una varietà infinita e minuziosa di motivi come palmette, fiori, viticci, foglie d’edera e di vite, abitata da piccoli animali, dalla lucertola alla rana allo scorpione. Di estrema eleganza, nascente dal gioco sottile delle linee curve e del ritmo scandito tra ripetizioni e varianti, il fregio è, nel suo trionfo del naturale, il pendant concettuale dell’ordine superiore: là è l’effetto storico della pax deorum guadagnata da Augusto, qui è la manifestazione nella natura, fiorente e rigenerata: l’ordine cosmico, l’armonia tra divino e umano e naturale, è pienamente ristabilito. I due pannelli superiori che affiancano la porta occidentale, la principale, aperta su Campo Marzio, raffigurano l’uno Enea, in veste sacerdotale, sacrificante ai Penati, l’altro, di cui restano pochi frammenti, Marte con Faustolo che guardano Romolo e Remo allattati dalla Lupa.

Dettaglio dal fregio dell’Ara Pacis: Enea che sacrifica ai Penati. 9 a.C. ca. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Enea, dunque la discendenza da Venere proveniente da Troia, nell’atto di compiere un rito tipico del pontefice massimo; Romolo e Remo, dunque la discendenza autoctona da Marte, accolti e cresciuti dal pastore Faustolo, esponente delle popolazioni italiche precedenti Roma: il programma iconografico è esplicito. Simmetrici, sul lato opposto sono i due pannelli raffiguranti Roma vincitrice e pacificatrice, del quale quasi nulla ci è pervenuto, e la Tellus, la Terra madre, tra piante e animali, ambiguamente ritratta un po’ come Venere un po’ come Cerere, che regge sulle ginocchia due fanciulli ed è affiancata da due figure femminili sedute rispettivamente su un cigno e su un drago marino, raffiguranti gli spiriti fecondatori della terra e dell’acqua. I lati nord e sud del recinto esterno raffigurano una processione sacra cui prende parte lo stesso Augusto con littori, sacerdoti, la famiglia imperiale, in una vera e propria teoria nella quale l’evocazione classica greca si salda con un preciso intento ritrattistico. Il fregio dell’ara vera e propria, ridotto a pochi frammenti, non consente ipotesi iconografiche solide. Dal punto di vista stilistico il gioco delle pose e dei panneggi, svolti con abile effetto chiaroscurale tra cadenze verticali e fluenze diagonali, determina netti rapporti narrativi ed emotivi tra figura e figura, ricorrendo anche all’incrociarsi degli sguardi reciproci, che intensificano l’esplicito valore ideologico dell’immagine dovuto alla riconoscibilità dei personaggi. Il clima ellenistico, trasparente dalla spettacolarità dell’insieme, del suo senso fastosamente decorativo e naturalistico, si stempera in una deliberata ripresa del classico che già può essere detto, a queste date, classicismo: il richiamo alla grande arte attica della seconda metà del V secolo a.C. non è, qui, pura questione di gusto, ma scelta da leggere nel quadro del programma politico-culturale di Augusto.
Un peso fondamentale, e per certi versi nuovo, assume in questo momento la ritrattistica. Il ritratto ufficiale del princeps diviene l’elemento iconografico che anche nei domini più lontani impone il carisma del monarca: esso dunque deve possedere una sorta di riconoscibilità “ufficiale”, un misto tra realismo e idealizzazione, in grado di eroizzare il personaggio attraverso l’interpretazione psicologica più che attraverso la tipizzazione divinizzante.
La varietà di teste giunte a noi, scalate negli anni dalla presa e dell’esercizio di potere di Augusto, mostra una certa oscillazione tra l’ispirazione più esplicitamente realistica e quella idealizzante, per far posto in seguito a un’iconografia ufficiale e ripetuta.
Le opere più rappresentative di questa fase sono la statua eroica proveniente dalla villa di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, a Prima Porta, e quella in veste di pontefice massimo da via Labicana. La prima rappresenta il principe in armi, secondo uno schema iconografico ispirato al Doriforo di Policleto ma aperta a un ritmo più mosso grazie al braccio destro teso, bilanciato dal panneggio sul sinistro. Il volto è reso con accuratezza fisionomica, ma è privo delle crudezze italiche, sintetizzato in un’espressione intensa che conferisce al personaggio un’aura di umanità e intelligenza, dunque di eroismo esercitato responsabilmente nel mondo, non al di sopra di esso in virtù di un potere autocratico. A tale definizione della sua autorità Augusto è programmaticamente attento. Egli si presenta come il restauratore della centralità dell’idea di Roma e della sua storia repubblicana, non come colui che l’ha dissolta: il suo potere non è personale, ma esercitato con dignità in nome di Roma. Sulla corazza, scolpita a rilievo alto, scene allegoriche si alternano a figure storiche in cui un generale romano, forse Tiberio, è circondato da figure di vinti. La statua velata si sottrae a maggior ragione a ogni suggestione eroica per fare di Augusto una sorta di pater, di capo spirituale, come fosse il pater familias di Roma tutta, nel segno di più compiuta appartenenza all’identità civica.
Impressionante è l’attività architettonica che dall’età augustea caratterizza tutto il periodo della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) e flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano), cioè il I secolo d.C.
Svetonio attribuisce ad Augusto il merito di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. In realtà, è proprio nel I secolo d.C. che l’uso dei laterizi cotti si diffonde e consente, a Roma come nelle province, imprese imponenti di cui il Pont du Gard, presso Nimes, e la Porta Palatina di Torino, accesso munito alla città fondata nel 28 a.C., sono testimonianze eloquenti. È peraltro vero che un impiego diffuso del marmo e delle sue possibilità decorative risale a questo momento, realizzandosi in un’amplissima diffusione dello stile corinzio, come testimoniano esemplarmente il comportamento del Teatro di Marcello, dedicato nell’11 a.C. e ispiratore dell’Anfiteatro Flavio (noto più tardi come Colosseo) eretto da Vespasiano, e il tempio augusteo detto la Maison Carrée di Nimes.

Iscrizione epigrafica di M. Vipsanio Agrippa sulla facciata del Pantheon (27-25 a.C.), fatta riposizionare da P. Elio Adriano durante la sua ricostruzione dell’edificio nel decennio 118-128 d.C.

Più complesso è il caso del capolavoro dell’architettura augustea, il Pantheon, tempio di tutti gli dèi. Dedicato nel 27 a.C. da Marco Agrippa, generale e genero di Augusto, era a pianta rettangolare, rivestito di marmo, con capitelli bronzei, Cariatidi e frontone figurato. Il suo aspetto si deve alla ricostruzione di età adrianea, nel terzo decennio del II secolo d.C., con il grande pronao a colonne corinzie che si apre su una cella a pianta circolare, con esedre e colonne corinzie, coperta da una cupola semisferica, la cui concezione è stata per secoli oggetto di studio e ammirazione, e sarà modello per l’architettura rinascimentale. Delle originali decorazioni bronzee nulla è sopravvissuto.
Nel I secolo d.C. si diffonde anche l’uso di rendere monumentali le porte urbane a fornice con semicolonne corinzie, frontoni e rilievi, trasformandole sempre più in veri e propri archi commemorativi, che assumono ben presto fisionomia autonoma. Tale processo giunge a compimento nell’arco di Tito, eretto da Domiziano per celebrare le vittorie giudaiche del predecessore nel 70 d.C. Le semicolonne corinzie con elementi ionici su alto zoccolo, l’estradosso dell’arco e il fregio decorati, un attico con iscrizioni, perfezionato il fronte. All’interno dell’arco, l’intradosso è decorato a cassettoni e l’interno dei piloni di sostegno con rilievi figurati, che inaugurano l’uso di celebrare i fasti militari dell’impero con vere e proprie narrazioni. Sull’attico si trovava una quadriga con l’imperatore sul carro, in bronzo dorato.
Del tutto innovativa è la concezione scultorea che presiede ai rilievi narrativi. Scavate nella pietra senza levigature superficiali, e lasciando in vista ai bordi la superficie originale in modo da dar conto della profondità, le figure trascorrono dal limite del tutto tondo a rilievo pressoché disegnativo sullo sfondo. Esse, tuttavia, non sono scalate su piani paralleli convenzionali, ma variamente articolate secondo una profondità continua, che senza soluzioni trascorre dal primo piano allo sfondo. Tale caratteristica è accentuata dal raggruppamento e dalle sovrapposizioni diverse tra figure, e dall’effetto chiaroscurale dovuto all’incidenza diretta della luce naturale, che produce effetti pittorici non artificiosi. Ulteriore elemento di innovazione, certo derivato da modelli pittorici ellenistici, è la scelta di risparmiare nella parte alta una fascia dello sfondo, corrispondente al cielo sapientemente solcato dalle lance, anziché spingere l’altezza delle figure sino al bordo superiore, come avviene nel rilievo classico. L’allegorismo e il cauto classicismo del tempo di Augusto sono ormai alle spalle, e la sintesi matura tra realismo narrativo romano e illusionismo ellenistico comincia ad avvicinarsi: essa troverà pieno compimento in età traianea.

Enea e Didone. Affresco, 10 a.C.-45 d.C., dalla Casa del Citarista (I, 4, 5). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. che si attribuisce la quasi totalità delle pitture romane giunte a noi. Esse in gran parte provengono dall’area vesuviana – dove la data dell’eruzione del vulcano, 79 d.C., offre un sicuro termine cronologico – ma anche da Roma. Si tratta esclusivamente di decorazioni murali destinate all’ornamentazione di edifici privati, dunque esemplari della luxuria romana e del suo gusto ostentatorio, propenso all’enfasi e alla sovrabbondanza.
Un’arte della pittura su tavola era in realtà diffusa sin dall’età repubblicana. Essa era legata alla narrazione, tra sintetica e allegorica, dei fatti memorabili durante le celebrazioni dei trionfi, oppure collocata per ragioni affini in edifici pubblici: si trattava, con ogni probabilità, di figurazioni essenziali e di impronta stilisticamente non evoluta, di valore per lo più illustrativo. Artisti greci immigrati e locali, in genere schiavi e liberti vista la scarsa considerazione sociale attribuita alla figura dell’artista, operavano affiancati in questo come in altri campi prediletti dal mondo romano: la ritrattistica, di viventi e dei maiores defunti, le pitture votive, le raffigurazioni popolaresche di ludi. Dalla Grecia, poi, fioriva l’importazione di pinakes, di tema sia storico che decorativo, oggetto di un vero e proprio collezionismo maniacale, tipico status symbol ellenizzante.
La pittura murale ha soprattutto carattere decorativo, e sotto molti punti di vista risente dell’influenza ellenistica, in modo particolare di quella alessandrina, alla quale si devono il prevalere di elementi paesistici suggestivi e la tecnica della compendiaria, ovvero una pittura fatta di tocchi rapidi e corsivi, di sapore impressionistico, in cui peso quasi nullo ha la tradizione greca della nitida linea di contorno e protagonista è il colore, dai toni fastosi e ricchi, dall’ocra d’oro alla porpora al blu d’Armenia, il cui pregio era tale che, testimonia Vitruvio, il loro acquisto era a carico del committente.
L’abbondanza delle pitture da Pompei e da Ercolano ha consentito nel 1882 ad August Mau, nella fondamentale pubblicazione Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeij (Storia della decorazione parietale a Pompei), di suddividere le tipologie di decorazioni pittoriche in quattro stili, corrispondenti con le debite cautele a quattro fasi cronologiche scalate dal I secolo a.C. al 79 d.C. Pur precisata in molti punti e assai più articolata sulla base degli studi successivi, tale classificazione è tuttora in uso. Il primo stile, derivante da esempi ellenistici del II secolo a.C., prevede uno zoccolo sopra il quale la parete è ripartita in blocchi imitanti marmi variegati, alabastro, porfido, con coloriture intense in cui dominano nero, rosso, giallo. Semplici elementi architettonici, come porte chiuse, pilastri, metope, fregi, scandiscono e compartiscono questo tipo di pitture. Nel secondo stile la quadratura architettonica evolve sino a trasformarsi in un illusionistico chiostro colonnato, nei cui riquadri appaiono panorami urbani e architetture illusionistiche di tipo prospettico, oltre a vedute paesistiche, di sapore e ispirazione certo teatrali. In questa fase compaiono anche festoni vegetali e fregi continui ricchi di figurette dipinte in modo veloce e impressionistico, quasi bozzettistico, con freschi effetti narrativi e artifici come colpi di luce e sapidi chiaroscuri.
Alcune opere eminenti, attribuibili a esecutori di qualità superiore, appartengono a questa fase. La pompeiana Villa dei Misteri presenta partizioni architettoniche semplici che delimitano ampi riquadri a fondo rosso in cui gruppi di figure rappresentano scene d’iniziazione misterica.

Satiro danzante. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa dei Misteri a Pompei.

La villa di Livia a Prima Porta, in Roma, scavata nel 1869, si caratterizza per l’abbondanza di festoni vegetali e per la vasta descrizione ravvicinata di un giardino, motivo tipico di questa stagione del gusto, con minuzie naturalistiche e delicati accenni bucolici, in una concezione comunque eminentemente decorativa. Il miniaturismo idilliaco della pittura ellenistica si nutre qui, nelle mani di un artefice consapevole, del gusto descrittivo e diretto della tradizione romana, con un risultato di sintesi di notevole livello, confrontabile per certi versi – precisione nel differenziare le specie vegetali, attenzione descrittiva negli animali – al decorativismo naturalistico del fregio vegetale dell’Ara Pacis.
Caratteristica del terzo stile è l’abolizione della scenografia architettonica in favore di decorazioni esili e calligrafiche come candelabri culminanti in figurette, tralci, corone, e di illusioni di tessuti tesi con figurazioni centrali, emulanti le ricche decorazioni in tessuto delle case, dei quali nulla ovviamente ci è giunto, con inserzione di illusionistici pinakes. Talora, anziché essere raffigurati direttamente sulla parete, i pinakes erano eseguiti su stucco o marmo e incastonati nella parete stessa. È tra secondo e terzo stile che si diffonde la moda delle nature morte, il cui sviluppo e la cui proliferazione presuppongono un fitto e continuo scambio tra produzione di quadri veri e propri e raffigurazione degli stessi quadri nei contesti decorativi della pittura parietale.
Il quarto stile torna, dopo la finezza grafica delle grottesche del terzo, a un’accelerazione degli elementi scenografici e della sovrabbondanza decorativa. Ricco di tipologie diverse, rende protagonisti gli illusionismi architettonici collocandovi figure e scene vere e proprie, oppure larghe vedute paesistiche, dove la pittura compendiaria raggiunge effetti di autentica suggestione impressionistica, senza più la preoccupazione naturalistica tipica del secondo stile.
Rispetto ai modelli ellenistici, è proprio la tendenza a semplificare e rendere schietto il clima visivo l’elemento di innovazione che si può riferire alla cultura romana. Poco, tuttavia, si può dire in merito alla qualità specifica di queste pitture, di concezione e fattura ascrivibili all’alto artigianato, in assenza di una vera e propria cerchia di maestri riconosciuti. È nei riquadri figurati, ispirati spesso a temi ellenistici spinti verso un clima definitivamente idilliaco, che la pittura pompeiana raggiunge talora esiti di straordinaria fragranza.
Anche l’arte dei pavimenti a mosaico si diffonde secondo esempi ellenistici, sostituendo progressivamente i più semplici pavimenti in cocciopesto con incrostazioni marmoree, e quelli con decorazioni geometriche continue, incornicianti piccoli elementi figurativi riquadrati, tipici della casa romana. Se gli esempi più direttamente impliciti nell’arte ellenistica, in genere copie di pinakes, sono a tessere piccole in pasta colorata, le traduzioni romane impiegano più larghe tessere in marmo e pietre dure, e talora paste vitree colorate, con effetti più corsivamente decorativi.
Della pittura ritrattistica romana nulla è sopravvissuto. Tuttavia, la ritrattistica di età imperiale è evocata dalla produzione tipica di un’area specifica dell’Egitto, il Fayum, isola sul Basso Nilo, da cui provengono circa seicento ritratti funerari databili dall’età neroniana al IV secolo. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno che venivano fissate sull’involucro delle mummie secondo l’uso egizio, e che, nell’evolvere da un più schietto realismo a forme di idealizzazione del tipo frontale con gli occhi fissi, mostrano un rapporto continuo e diretto con l’arte romana di madrepatria.