La peste di Atene (Lucr. VI 1145-1196; 1230-1286)

Cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, 513-520; CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 586-589; BALESTRA A. et alii, In partes tres. 1. Dalle origini all’età di Cicerone, Bologna 2016, 316-319.

 

Nel VI libro del De rerum natura, alla luce della fisica epicurea, Lucrezio spiega svariati fenomeni naturali di fronte ai quali l’uomo si sente talmente impotente da provare una profonda angoscia: terremoti, fulmini, eruzioni vulcaniche ed epidemie. Da qui prende le mosse l’excursus finale contenente l’agghiacciante e macabra descrizione della peste di Atene (430 a.C.), mediata dal racconto di Tucidide, che ne fu diretto testimone e vittima.

Per il poeta latino la peste è certo un’orribile realtà, ma è anche un fenomeno prodotto da cause naturali (l’alterazione dell’aria dovuta a turbamenti dell’equilibrio atmosferico). Perciò, la descrizione dell’epidemia che colpì Atene rientra perfettamente nell’argomento del VI libro, che fornisce spiegazioni razionali di calamità, che altrimenti creerebbero terrore e religio nell’animo del lettore-discepolo.

Per spiegare perché il poema della ragione e della voluptas termini con immagini di morte e di desolazione si è supposta l’incompiutezza dell’opera, cui sarebbe mancata l’ultima revisione. E poiché Lucrezio, nel libro precedente, aveva annunciato la descrizione delle sedi beate degli dèi, senza però tener fede alla promessa, si è pensato che quella rappresentazione di suprema atarassia fosse la chiusa originariamente progettata.

Non sono mancati, fra i critici, coloro che, sempre preoccupati di accertare l’ortodossia epicurea del poeta, hanno cercato in questa pagina la conferma estrema di un presunto «pessimismo lucreziano», di una «tragica antinomia […] tra la dottrina e il carattere del poeta» (Giussani), applicando all’episodio le categorie rigide e forzatamente attualizzanti del “pessimista” (in senso leopardiano), dell’“antiepicureo”, dell’“esistenzialista”, talora invocando seducenti, ma poco pertinenti, ermeneutiche psicanalitiche[1].

C’è stato, poi, chi ha addotto ragioni d’ordine strutturale: negli antichi trattati di Fisica le malattie vengono all’ultimo posto nella rassegna dei fenomeni naturali. E c’è stato anche chi ha visto questo «trionfo della Morte» in un rapporto di contrapposizione isonomica con il «trionfo della Vita», rappresentato dall’Inno a Venere dell’ouverture. La contrapposizione di queste due parti, programmaticamente «forti», sarebbe l’esito strutturale più vistoso di una polarità che attraversa l’intero poema, opponendo ansia e ragione, ignoranza e sapienza, religione e filosofia, schiavitù e liberazione, ecc. «All’interno di tale sistema oppositivo […] in particolare il primo proemio e l’ultimo finale sembrano fissare definitivamente questo carico di tensione in un ideale e meraviglioso duello tra le forze della vita e quelle della morte» (Dionigi).

Secondo Commager, il quadro tucidideo di un popolo malato, arso dalla sete insaziabile e autodistruttiva, assurge nel finale lucreziano a simbolo dello stato di malattia mentale dei tempi di Cesare, e, in genere, dei mali cronici dello spirito umano[2].

C’è stato, infine, chi ha ravvisato nella chiusa espressionistica sulla peste l’ultima e più compiuta manifestazione del lepos, che è alla base della poetica del De rerum natura. Lucrezio – con la parafrasi erudita della scrittura tucididea, impreziosita da contaminazioni con altri autori e tesa all’effetto patetico conforme ai modi del vertere latino – intenderebbe fornire al suo pubblico colto l’estrema prova di consumata perizia tecnica. Così l’episodio avrebbe il valore di un preciso «segno culturale», nell’ambito di una concezione allusiva dell’arte fondata sull’aemulatio con il modello illustre, che nel caso specifico era un autore assai in voga a Roma (come dimostra l’opera di Sallustio)[3].

Pedro Atanasio Bocanegra, Alegoría de la Peste. Olio su tela, XVII sec.

 

Metro: esametri

 

1145 Principio caput incensum feruore gerebant

et duplices oculos suffusa luce rubentis.

Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae

sanguine et ulceribus uocis uia saepta coibat

atque animi interpres manabat lingua cruore

1150 debilitata malis, motu grauis, aspera tactu.

Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum

morbida uis in cor maestum confluxerat aegris,

omnia tum uero uitai claustra lababant.

Spiritus ore foras taetrum uoluebat odorem,

1155 rancida quo perolent proiecta cadauera ritu.

Atque animi prorsum uires totius ‹et› omne

languebat corpus leti iam limine in ipso.

Intolerabilibusque malis erat anxius angor

assidue comes et gemitu commixta querela.

1160 Singultusque frequens noctem per saepe diemque

corripere assidue neruos et membra coactans

dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.

Nec nimio cuiquam posses ardore tueri

corporis in summo summam feruescere partem,

1165 sed potius tepidum manibus proponere tactum

et simul ulceribus quasi inustis omne rubere

corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.

Intima pars hominum uero flagrabat ad ossa,

flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.

1170 Nil adeo posses cuiquam leue tenueque membris

uertere in utilitatem, at uentum et frigora semper.

In fluuios partim gelidos ardentia morbo

membra dabant nudum iacientes corpus in undas.

Multi praecipites lymphis putealibus alte

1175 inciderunt ipso uenientes ore patente:

insedabiliter sitis arida, corpora mersans,

aequabat multum paruis umoribus imbrem.

Nec requies erat ulla mali: defessa iacebant

corpora. Mussabat tacito medicina timore,

1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis

lumina uersarent oculorum expertia somno.

Multaque praeterea mortis tum signa dabantur,

perturbata animi mens in maerore metuque,

triste supercilium, furiosus uultus et acer,

1185 sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,

creber spiritus aut ingens raroque coortus,

sudorisque madens per collum splendidus umor,

tenuia sputa minuta, croci contacta colore

salsaque, per fauces rauca uix edita tussi.

1190 In manibus uero nerui trahere et tremere artus

a pedibusque minutatim succedere frigus

non dubitabat. Item ad supremum denique tempus

compressae nares, nasi primoris acumen

tenue, cauati oculi, caua tempora, frigida pellis

1195 duraque, in ore truci rictum, frons tenta tumebat.

Nec nimio rigida post artus morte iacebant. […]

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

1145 Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infuocato,

gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.

E dentro le livide fauci sudavano sangue,

si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,

e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,

1150 fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.

Quando poi il violento contagio attraverso le fauci

invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,

tutte davvero le barriere della vita vacillavano.

L’alito effondeva dalla bocca un orribile olezzo

1155 come quello che emanano le marce carogne insepolte.

Le forze dell’animo intero e tutta la fibra

del corpo languivano sulle soglie stesse della morte.

Agli atroci dolori era assidua compagna un’ansiosa

angoscia, e un pianto mischiato a continui lamenti.

1160 E spesso un singulto incessante di giorno e di notte,

costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,

tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.

Né avresti potuto notare sulla superficie del corpo

la parte esteriore avvampare di ardore eccessivo,

1165 ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto

e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,

come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.

Ma l’intima parte dell’uomo ardeva fino al fondo delle ossa,

una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.

1170 Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra

inferme, ma vento e frescura sempre.

Alcuni, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo

ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.

Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,

1175 protesi verso di essi con bocca anelante:

un’arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,

uguagliava gran copia di liquido a povere stille.

Né vi era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.

In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,

1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo

dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.

Allora apparivano numerosi presagi di morte:

la mente sconvolta e in preda al terrore e all’affanno,

il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,

1185 e, inoltre, l’udito assillato da una folla di suoni,

il respiro affrettato, oppure lento e profondo,

il collo madido di sudore e lucente umore,

rari ed esili gli sputi, amari, d’un giallo rossastro,

espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.

1190 I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti

a tremare, e man mano a succedere un gelo alla pianta

dei piedi. E, infine, nell’ora suprema, le nari sottili,

la punta del naso affilata, gli occhi infossati,

le concave tempie, la gelida pelle indurita,

1195 sul volto un’immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.

Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. […]

[trad. Canali]

 

Scheletro coppiere. Mosaico, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

1230 Illud in his rebus miserandum magnopere unum

aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat

implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

deficiens animo maesto cum corde iacebat,

funera respectans animam amittebat ibidem.

1235 Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

ex aliis alios auidi contagia morbi,

lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.

Idque uel in primis cumulabat funere funus.

Nam quicumque suos fugitabat uisere ad aegros,

1240 uitai nimium cupidos mortisque timentis

poenibat paulo post turpi morte malaque,

desertos, opis expertis, incuria mactans.

Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

atque labore, pudor quem tum cogebat obire

1245 blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

***

Inque aliis alium, populum sepelire suorum

certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

1250 Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus

nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

et robustus item curui moderator aratri

languebat, penitusque casa contrusa iacebant

1255 corpora paupertate et morbo dedita morti.

Exanimis pueris super exanimata parentum

corpora nonnumquam posses retroque uidere

matribus et patribus natos super edere uitam.

Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem

1260 confluxit, languens quem contulit agricolarum

copia conueniens ex omni morbida parte.

Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu

confertos ita aceruatim mors accumulabat.

Multa siti prostrata uiam per proque uoluta

1265 corpora silanos ad aquarum strata iacebant

interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

multaque per populi passim loca prompta uiasque

languida semanimo cum corpore membra uideres

horrida paedore et pannis cooperta perire

1270 corporis inluuie, pelli super ossibus una,

ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Omnia denique sancta deum delubra replerat

corporibus mors exanimis onerataque passim

cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,

1275 hospitibus loca quae complerant aedituentes.

Nec iam religio diuum nec numina magni

pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

quo prius hic populus semper consuerat humari;

1280 perturbatus enim totus trepidabat, et unus

quisque suum pro re ‹compostum› maestus humabat.

Multaque ‹res› subita et paupertas horrida suasit.

Namque suos consanguineos aliena rogorum

insuper exstructa ingenti clamore locabant

1285 subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

rixantes potius quam corpora desererentur.

 

1230 Ma in tal frangente, questo era più miserabile

e doloroso, che, quando ciascuno vedeva se stesso

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con il cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

1235 Infatti, davvero non cessavano mai di raccogliere

gli uni dagli altri il contagio dell’avido morbo,

come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.

Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.

Quanti, infatti, rifuggivano dal visitare i parenti infermi,

1240 troppo cupidi della vita e timorosi della morte,

poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,

derelitti e privi d’aiuto, con una morte vergognosa e infame.

Chi, invece, era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio

e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,

1245 tra le fievoli voci dei malati, miste a lamenti.

Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.

***

gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei propri defunti,

e, infine, tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;

e gran parte di loro cadeva affranta sui letti.

1250 Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente

non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.

Inoltre, già il pastore e il guardiano di armenti

e il robusto guidatore dell’aratro ricurvo

languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi

1255 i corpi dati alla morte dalla miseria e dal morbo.

Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi

dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,

e, al contrario, spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.

Il contagio in gran parte si diffuse dai campi

1260 nella grande città, portato da una folla sfinita

di bifolchi, affluita da tutte le zone già infette.

Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte

più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.

Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano

1265 riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,

il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,

e molti ne avresti veduti qua e là per la strada

e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,

e squallidi e lerci perire, coperti di cenci

1270 e lordure sul corpo; sulle ossa soltanto la pelle

quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.

La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi

di corpi inerti, e tutti i tempi dei celesti

restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,

1275 luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.

Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino

e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.

Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti

che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;

1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,

e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.

La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.

Con alto clamore ponevano i loro congiunti

sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,

1285 appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro

in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.

[trad. Canali]

Scheletro (γνῶθι σαυτόν). Mosaico pavimentale. Roma, Museo Nazionale Romano P.zzo Massimo alle Terme.

 

Una chiusa inadeguata? | Un poema che si apre con il trionfo della vita (l’inno a Venere, premio al I libro) e si chiude con quello della morte: l’accanita esposizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., nel finale del VI (e ultimo) libro ha sempre turbato lettori e critici. Si è pensato che il finale sia incompiuto, che il poema dovesse concludersi con la descrizione delle sede dei beati degli dèi.

Si è detto anche che la peste, con le sue scene di morte, è una manifestazione del pessimismo lucreziano: ma la morte, in tutte le sue forme, è per Lucrezio (e per Epicuro) l’altra faccia della vita, un aspetto, terribile ma necessario, della natura. E, in effetti, la dialettica tra vita e morte non resta isolata ai “margini” del poema, all’inizio e alla fine, ma prosegue al suo interno, ripetuta in mille contesti più limitati, fino a creare nel lettore l’impressione che tale alternativa sia una regola fondamentale dell’universo, in cui creazione e distruzione si susseguono senza pause. D’altra parte, questo grandioso affresco finale di morte sembra davvero contenere in sé l’ultima lezione moral del poema: giunto al termine del viaggio verso la sapientia, il lettore-discepolo deve saper guardare senza sgomento anche agli aspetti più scabrosi della natura; conquistare le vette dei sapientum templa serena (II 8), riscattato dall’asservimento ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, è ormai in grado di contemplare dall’alto, senza vertigini d’orrore, l’abisso delle profondità cosmiche.

I signa della peste | Nella sua opera storica Tucidide decise di descrivere l’epidemia di peste che colpì Atene a memoria dei posteri, affinché potesse essere riconosciuta fin da suoi prodromi, se si fosse ripresentata (II 48, 3), e la descrisse in modo affidabile, essendone rimasto contagiato anche lui, anche se in modo guaribile. Nei confronti del brano tucidideo Lucrezio esegue una vera e propria opera di riscrittura, operando scarti significativi che danno un senso nuovo all’evento.

I primi sintomi | Riguardo ai prodromi della malattia Tucidide scrisse: «Dapprima erano colti da forti calori alla testa e da arrossamenti e bruciori agli occhi: e gli organi interni, cioè la gola e la lingua, subito erano di colore sanguigno ed emanavano un alito strano e fetido» (II 49, 2). Lucrezio, significativamente, inserisce qui la descrizione della voce soffocata e della lingua inerte (vv. 1148-1150): in polemica con gli stoici, che consideravano la gola come via vocis per dimostrare il mirabile funzionamento del corpo umano, opera della divina provvidenza, Lucrezio la applica alla degenerazione patologica di quell’organismo, attaccato dal male, per mostrare l’assenza di ogni tipo di disegno divino.

L’avanzare della malattia | Nel descrivere la progressione della peste, Tucidide (II 49, 3) procede dalla testa alla gola, dalla gola al petto e dal petto allo stomaco, dove la malattia provoca dolorosi travasi di bile. Lucrezio (vv. 1151-1159) sostituisce allo stomaco il cuore, che per gli epicurei era la sede dell’intelletto, perché nella sua descrizione la degenerazione fisica è strettamente correlata alla degenerazione delle facoltà intellettuali (si noti anche l’aggettivo maestum, indicante un’emozione, v. 1152). Nel testo lucreziano, dunque, l’epidemia viene vista da vicino, nei suoi dettagli più brutali, e, per raggiungere un tono il più possibile macabro, il poeta fa ricorso al registro dell’orrido: volvebat, «riversava (l’odore)», v. 1154; cadavera e il raro composto perolent (v. 1155, marcato dall’allitterazione con proiecta).

La fase acuta | Nel descrivere gli effetti del calore interno (Thuc. II 49, 5: «Ma gli organi interni bruciavano a tal punto che non sopportavano di essere coperti né da vesti assolutamente leggere o da lini, né da altro che non fosse l’essere nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda»), Lucrezio dà rilievo al rovesciamento dell’ordine naturale nei bisogni sentiti dall’uomo e rimanda il lettore al proemio del II libro (vv. 34 ss.), in cui aveva già descritto l’inquietudine dei febbricitanti come esempio emblematico dell’angoscia esistenziale che opprima l’umanità stolta.

L’ultimo stadio | Il fitto dialogo con Tucidide si interrompe nel quarto stadio della malattia (i segni di morte imminente, vv. 1182-1196): l’argomento non era stato affrontato dallo storico greco e Lucrezio utilizza come fonte il corpus delle opere ippocratiche, in cui, tuttavia, la trattazione non aveva riferimento specifico alla peste. I materiali della scienza medica – un sapere fondato, al pari della fisiologia epicurea, sull’osservazione dei signa – permettono di seguire fino in fondo lo stravolgimento operato dalla peste nella psiche e nel corpo.

La morte in Epicuro e in Lucrezio | Negli scritti di Epicuro pervenuti, la morte è un argomento trattato con astrattezza intellettuale: essa è vista come la dispersione degli atomi che prima erano aggregati tra loro. Lucrezio, invece, nell’ambito della rievocazione della peste di Atene, si sofferma sugli aspetti più concreti e materiali del fenomeno, facendo appello a diverse percezioni sensoriali: l’olfatto (per il puzzo della decomposizione dei cadaveri), la vista (per il rossore delle pustole nelle quali il sangue si coagula), l’udito (per il lamento dei malati), il tatto (per le insopportabili sensazioni di caldo e di freddo connesse al decorso della malattia).

***

Note

[1] Perelli L., Lucrezio, in La Penna A. (ed.), Cultura latina, 3, Firenze 1986, 222: «Il confronto [con Thuc. II 47-53] è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte, Lucrezio sostituisce all’esattezza scientifica e positivistica di Tucidide una visione surrealistica e magica, e le variazioni al testo tucidideo si svolgono lungo tre linee direttrici: l’esasperazione dei particolari orripilanti e ripugnanti, la sottolineatura delle ripercussioni del male fisico sugli animi e dell’angoscia di fronte alla morte, e l’ingigantire delle proporzioni e della violenza del morbo, che condanna gli uomini ad universale e inarrestabile rovina. Inoltre, Tucidide non lascia trasparire alcuna emozione, mentre Lucrezio qui più che altrove partecipa alle sofferenze dell’umanità e cede alla voce della pietà e della compassione. Il sentimento di pietà per la sofferenza umana, che nel corso del poema affiora solo episodicamente, dominato, o almeno mascherato, dall’opposto atteggiamento di sdegno e di condanna, investe diffusamente la pagina della peste. Di fronte all’estrema miseria dell’uomo oppresso dalla natura crudele il poeta svela una commozione dolente e pietosa per la sorte dell’umanità, in una tacita e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana della Ginestra. […] Nella descrizione della peste si assommano gli aspetti, per così dire, antiepicurei della poesia lucreziana: il senso attonito del mistero, l’orrore della vita come sofferenza, tormento e degradazione, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele. La scienza si rivela inutile e incapace a strappare alla natura il suo segreto, a lenire la sofferenza dell’uomo; la natura ostile non distingue nella sua furia devastatrice il malvagio dall’onesto, l’ignorante dal saggio, e anche gli animali sono coinvolti nell’universale rovina.

[2] Commager H.S., Lucretius’ Interpretation of the Plague, HSCPh 62 (1957), 115-118 [trad. it. Perelli] [Jstor]: «Per Tucidide, due sono le cose più terribili (II 51, 4): da un lato l’apatia, dall’altro il pericolo di contagio. Lucrezio vede solo una cosa come miserandum magnopere (VI 1230). Egli attribuisce massima importanza all’apatia (deficiens animo, 1233), mentre il diffondersi del contagio acquista una posizione subordinata (quippe etenim, 1235). La disposizione mentale o psicologica, che deriva dalla mancanza di ogni certa ratio, appare a Lucrezio come l’aspetto principale. L’aspetto fisico è relegato in una posizione dipendente, con un notevole disordine sintattico. Implicitum morbo (v. 1232) sembra indicare la via in cui si muove il pensiero di Lucrezio. Il termine compare solo una volta altrove. L’uomo può sfuggire dalle reti d’amore, implicitus, a meno che egli da sé non si ostacoli nel suo cammino (nisi tute tibi obuius obstes, IV 1150). Le forze esterne non sono più di pari importanza, come erano per Tucidide. La disperazione dell’uomo davanti al suo stato incurabile è assai significativa: egli si ostacola nel suo stesso cammino. […] Io avanzo solo l’ipotesi che il quadro tucidideo di un popolo malato, ardente di una sete insaziabile e autodistruttiva, spossato e incerto, può oscuramente aver richiamato a Lucrezio la sua personale immagine dell’umanità. Per questo motivo egli fa proprio il racconto di Tucidide. Esso diventa non la mera climax fisica dei fenomeni fisici del VI libro, ma il culmine morale dell’intero poema. Mentre Tucidide menziona la peste come un esempio utile per le future generazioni (II 48, 3), Lucrezio la assume come un simbolo del presente stato di malattia mentale».

[3] Salemme C., Strutture semiologiche nel De rerum natura di Lucrezio, Napoli 1980, 86-87: «A motivare l’episodio della peste di Atene e nell’espressione poetica e nella struttura generale del libro e del poema è stato proprio quel lepos, col quale è così apparentemente in contrasto. Nel brano finale Lucrezio ha dato un quadro poetico di finissima fattura: lo spunto gli veniva direttamente dall’argomento trattato prima, i morbi, prodotti dalla vis, in relazione con la summa rerum; ma i “modi” della resa del brano dovevano conferire all’episodio un tono particolarmente sostenuto e dotto, un tono attraverso il quale il lepos e la consumata perizia poetica dello scrittore dovevano celebrare la loro ultima, più scaltrita manifestazione. E, in realtà, il brano non è altro che una serie di dotte, allusive parafrasi del testo tucidideo, di accurate inserzioni, di contaminazioni da altri autori, di precise intensificazioni patetiche sulla scia della vetusta tradizione del vertere latino. Il pubblico colto, al quale il poema era in particolare destinato, non poteva non affermare la consumata perizia poetica dell’autore: in tal senso, l’intero episodio della peste d’Atene s’atteggia a preciso segno culturale e, proprio per il carattere composito e inconfondibile della sua “scrittura”, mostra le interrelazioni tra autore e destinatario dell’opera».

***

Riferimenti bibliografici

Andreoni Fontecedro E., Natur di voler matrigna. Saggio su Leopardi e su natura noverca, Roma 1993.

Büchner K., Die Pest. Ihre Darstellung bei Thukydides, Lukrez, Montaigne, Camus, Heidelberg 1957, 64-79.

Cunha B.A., The Cause of the Plague of Athens: Plague, Typhoid, Typhus, Smallpox, or Measles?, IDCNA 18 (2004), 29-43 [academia.dk].

Forster E., The Rhetoric of Materials: Thucydides and Lucretius, AJPh 130 (2009), 367-399 [espace.library.uq.edu.au].

Grimm J., Die literarische Darstellung der Pest in der Antike und in der Romania, München 1965.

Littman R.J., The Plague of Athens: Epidemiology and Paleopathology, MSJM 76 (2009), 456-467 [academia.edu].

van Mal-Maeder D., La peste, les dieux et les hommes : cheminements d’une tradition, EdL 1 (2010), 39-60 [journals.openedition.org].

Salemme C., Lucrezio e la conclusione dell’opera, BSL 46 (2016), 10-25 [academia.edu].

Segal G., Lucretius on Death and Anxiety: Poetry and Philosophy in De rerum natura, Princeton 1990.

Stock F., Peste e letteratura, in Medicina e letteratura, Atti del Convegno svoltosi a Salerno il 25 ottobre 2012, Salerno 2013, 55-75 [academia.edu].

West D., Virgil, Georgics 3.478–566 and Lucretius 6.1090–1286, in West D. – Woodman T. (eds.), Creative Imitation and Latin Literature, Cambridge 1979, 71-88 [cambridge.org].

Uno spaventoso flagello e le sue conseguenze morali (Thuc. II 47,2-53)

da BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. 2B. La prosa e forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 112-118.

 

All’invasione dell’Attica da parte spartana, Pericle aveva reagito con una strategia che puntava sulla possibilità di Atene di rifornirsi via mare: aveva fatto raccogliere tutta la popolazione attica entro le mura cittadine (decisione che era stata poco gradita ai contadini), abbandonando le campagne alle devastazioni del nemico. Senonché, a breve distanza dall’inizio delle ostilità, intervenne un fatto nuovo che sconvolse i piani strategici dello statista ateniese.

Nel corso del 430 a.C., infatti, dall’Etiopia, attraverso l’Egitto, la Libia e Lemno giunse ad Atene una spaventosa epidemia di peste polmonare, malattia fino ad allora sconosciuta (e ancor oggi imprecisata); il malanno, favorito dall’eccezionale calura estiva e dalle precarie condizioni igieniche della città, si diffuse rapidamente in tutta Atene, sovraffollata di profughi provenienti da ogni angolo dell’Attica.

Tucidide, che ne fu contagiato e sopravvisse, lasciò un’accurata e particolareggiata descrizione dei sintomi della malattia, certo di fare opera utile se essa fosse ricomparsa in seguito, visto che la mortalità fu indubbiamente accresciuta dall’ignoranza della tipologia del male e delle cure necessarie, se non per guarirlo, quantomeno per limitarne la diffusione.

 

Michael Sweerts, La pestilenza in un’antica città. Olio su tela, 1652-54.

 

[47, 2] τοῦ δὲ θέρους εὐθὺς ἀρχομένου Πελοποννήσιοι καὶ οἱ ξύμμαχοι τὰ δύο μέρη ὥσπερ καὶ τὸ πρῶτον ἐσέβαλον ἐς τὴν Ἀττικήν (ἡγεῖτο δὲ Ἀρχίδαμος ὁ Ζευξιδάμου Λακεδαιμονίων [3] βασιλεύς), καὶ καθεζόμενοι ἐδῄουν τὴν γῆν. καὶ ὄντων αὐτῶν οὐ πολλάς πω ἡμέρας ἐν τῇ Ἀττικῇ ἡ νόσος πρῶτον ἤρξατο γενέσθαι τοῖς Ἀθηναίοις, λεγόμενον μὲν καὶ πρότερον πολλαχόσε ἐγκατασκῆψαι καὶ περὶ Λῆμνον καὶ ἐν ἄλλοις χωρίοις, οὐ μέντοι τοσοῦτός γε λοιμὸς οὐδὲ φθορὰ [4] οὕτως ἀνθρώπων οὐδαμοῦ ἐμνημονεύετο γενέσθαι. οὔτε γὰρ ἰατροὶ ἤρκουν τὸ πρῶτον θεραπεύοντες ἀγνοίᾳ, ἀλλ’ αὐτοὶ μάλιστα ἔθνῃσκον ὅσῳ καὶ μάλιστα προσῇσαν, οὔτε ἄλλη ἀνθρωπεία τέχνη οὐδεμία· ὅσα τε πρὸς ἱεροῖς ἱκέτευσαν ἢ μαντείοις καὶ τοῖς τοιούτοις ἐχρήσαντο, πάντα ἀνωφελῆ ἦν, τελευτῶντές τε αὐτῶν ἀπέστησαν ὑπὸ τοῦ κακοῦ νικώμενοι. [48, 1] ἤρξατο δὲ τὸ μὲν πρῶτον, ὡς λέγεται, ἐξ Αἰθιοπίας τῆς ὑπὲρ Αἰγύπτου, ἔπειτα δὲ καὶ ἐς Αἴγυπτον καὶ Λιβύην [2] κατέβη καὶ ἐς τὴν βασιλέως γῆν τὴν πολλήν. ἐς δὲ τὴν Ἀθηναίων πόλιν ἐξαπιναίως ἐσέπεσε, καὶ τὸ πρῶτον ἐν τῷ Πειραιεῖ ἥψατο τῶν ἀνθρώπων, ὥστε καὶ ἐλέχθη ὑπ’ αὐτῶν ὡς οἱ Πελοποννήσιοι φάρμακα ἐσβεβλήκοιεν ἐς τὰ φρέατα· κρῆναι γὰρ οὔπω ἦσαν αὐτόθι. ὕστερον δὲ καὶ ἐς τὴν ἄνω [3] πόλιν ἀφίκετο, καὶ ἔθνῃσκον πολλῷ μᾶλλον ἤδη. λεγέτω μὲν οὖν περὶ αὐτοῦ ὡς ἕκαστος γιγνώσκει καὶ ἰατρὸς καὶ ἰδιώτης, ἀφ’ ὅτου εἰκὸς ἦν γενέσθαι αὐτό, καὶ τὰς αἰτίας ἅστινας νομίζει τοσαύτης μεταβολῆς ἱκανὰς εἶναι δύναμιν ἐς τὸ μεταστῆσαι σχεῖν· ἐγὼ δὲ οἷόν τε ἐγίγνετο λέξω, καὶ ἀφ’ ὧν ἄν τις σκοπῶν, εἴ ποτε καὶ αὖθις ἐπιπέσοι, μάλιστ’ ἂν ἔχοι τι προειδὼς μὴ ἀγνοεῖν, ταῦτα δηλώσω αὐτός τε νοσήσας καὶ αὐτὸς ἰδὼν ἄλλους πάσχοντας.

[49, 1] Τὸ μὲν γὰρ ἔτος, ὡς ὡμολογεῖτο, ἐκ πάντων μάλιστα δὴ ἐκεῖνο ἄνοσον ἐς τὰς ἄλλας ἀσθενείας ἐτύγχανεν ὄν· εἰ δέ [2] τις καὶ προύκαμνέ τι, ἐς τοῦτο πάντα ἀπεκρίθη. τοὺς δὲ ἄλλους ἀπ’ οὐδεμιᾶς προφάσεως, ἀλλ’ ἐξαίφνης ὑγιεῖς ὄντας πρῶτον μὲν τῆς κεφαλῆς θέρμαι ἰσχυραὶ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν ἐρυθήματα καὶ φλόγωσις ἐλάμβανε, καὶ τὰ ἐντός, ἥ τε φάρυγξ καὶ ἡ γλῶσσα, εὐθὺς αἱματώδη ἦν καὶ πνεῦμα [3] ἄτοπον καὶ δυσῶδες ἠφίει· ἔπειτα ἐξ αὐτῶν πταρμὸς καὶ βράγχος ἐπεγίγνετο, καὶ ἐν οὐ πολλῷ χρόνῳ κατέβαινεν ἐς τὰ στήθη ὁ πόνος μετὰ βηχὸς ἰσχυροῦ· καὶ ὁπότε ἐς τὴν καρδίαν στηρίξειεν, ἀνέστρεφέ τε αὐτὴν καὶ ἀποκαθάρσεις χολῆς πᾶσαι ὅσαι ὑπὸ ἰατρῶν ὠνομασμέναι εἰσὶν ἐπῇσαν, [4] καὶ αὗται μετὰ ταλαιπωρίας μεγάλης. λύγξ τε τοῖς πλέοσιν ἐνέπιπτε κενή, σπασμὸν ἐνδιδοῦσα ἰσχυρόν, τοῖς μὲν [5] μετὰ ταῦτα λωφήσαντα, τοῖς δὲ καὶ πολλῷ ὕστερον. καὶ τὸ μὲν ἔξωθεν ἁπτομένῳ σῶμα οὔτ’ ἄγαν θερμὸν ἦν οὔτε χλωρόν, ἀλλ’ ὑπέρυθρον, πελιτνόν, φλυκταίναις μικραῖς καὶ ἕλκεσιν ἐξηνθηκός· τὰ δὲ ἐντὸς οὕτως ἐκάετο ὥστε μήτε τῶν πάνυ λεπτῶν ἱματίων καὶ σινδόνων τὰς ἐπιβολὰς μηδ’ ἄλλο τι ἢ γυμνοὶ ἀνέχεσθαι, ἥδιστά τε ἂν ἐς ὕδωρ ψυχρὸν σφᾶς αὐτοὺς ῥίπτειν. καὶ πολλοὶ τοῦτο τῶν ἠμελημένων ἀνθρώπων καὶ ἔδρασαν ἐς φρέατα, τῇ δίψῃ ἀπαύστῳ ξυνεχόμενοι· καὶ ἐν τῷ ὁμοίῳ καθειστήκει τό τε πλέον καὶ [6] ἔλασσον ποτόν. καὶ ἡ ἀπορία τοῦ μὴ ἡσυχάζειν καὶ ἡ ἀγρυπνία ἐπέκειτο διὰ παντός. καὶ τὸ σῶμα, ὅσονπερ χρόνον καὶ ἡ νόσος ἀκμάζοι, οὐκ ἐμαραίνετο, ἀλλ’ ἀντεῖχε παρὰ δόξαν τῇ ταλαιπωρίᾳ, ὥστε ἢ διεφθείροντο οἱ πλεῖστοι ἐναταῖοι καὶ ἑβδομαῖοι ὑπὸ τοῦ ἐντὸς καύματος, ἔτι ἔχοντές τι δυνάμεως, ἢ εἰ διαφύγοιεν, ἐπικατιόντος τοῦ νοσήματος ἐς τὴν κοιλίαν καὶ ἑλκώσεώς τε αὐτῇ ἰσχυρᾶς ἐγγιγνομένης καὶ διαρροίας ἅμα ἀκράτου ἐπιπιπτούσης οἱ πολλοὶ ὕστερον [7] δι’ αὐτὴν ἀσθενείᾳ διεφθείροντο. διεξῄει γὰρ διὰ παντὸς τοῦ σώματος ἄνωθεν ἀρξάμενον τὸ ἐν τῇ κεφαλῇ πρῶτον ἱδρυθὲν κακόν, καὶ εἴ τις ἐκ τῶν μεγίστων περιγένοιτο, τῶν [8] γε ἀκρωτηρίων ἀντίληψις αὐτοῦ ἐπεσήμαινεν. κατέσκηπτε γὰρ ἐς αἰδοῖα καὶ ἐς ἄκρας χεῖρας καὶ πόδας, καὶ πολλοὶ στερισκόμενοι τούτων διέφευγον, εἰσὶ δ’ οἳ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν. τοὺς δὲ καὶ λήθη ἐλάμβανε παραυτίκα ἀναστάντας τῶν πάντων ὁμοίως, καὶ ἠγνόησαν σφᾶς τε αὐτοὺς καὶ τοὺς [50, 1] ἐπιτηδείους. γενόμενον γὰρ κρεῖσσον λόγου τὸ εἶδος τῆς νόσου τά τε ἄλλα χαλεπωτέρως ἢ κατὰ τὴν ἀνθρωπείαν φύσιν προσέπιπτεν ἑκάστῳ καὶ ἐν τῷδε ἐδήλωσε μάλιστα ἄλλο τι ὂν ἢ τῶν ξυντρόφων τι· τὰ γὰρ ὄρνεα καὶ τετράποδα ὅσα ἀνθρώπων ἅπτεται, πολλῶν ἀτάφων γιγνομένων ἢ οὐ [2] προσῄει ἢ γευσάμενα διεφθείρετο. τεκμήριον δέ· τῶν μὲν τοιούτων ὀρνίθων ἐπίλειψις σαφὴς ἐγένετο, καὶ οὐχ ἑωρῶντο οὔτε ἄλλως οὔτε περὶ τοιοῦτον οὐδέν· οἱ δὲ κύνες μᾶλλον αἴσθησιν παρεῖχον τοῦ ἀποβαίνοντος διὰ τὸ ξυνδιαιτᾶσθαι.

Tucidide. Busto, calco da copia romana del I sec. a.C. da originale greco del IV sec. a.C. Moskow, Pushkin Museum.

[47, 2] Subito all’inizio dell’estate [del 430] i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con due terzi delle loro forze, come avevano fatto in precedenza (li guidava Archidamo, figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni), e, dopo essersi accampati, cominciarono a devastare il territorio. [3] Non erano in Attica ancora da molti giorni, quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi: si diceva che fosse scoppiata anche prima, sia dalle parti di Lemno sia in altre località; tuttavia, non si ricordava che ci fosse mai stata da alcuna parte una pestilenza talmente estesa né una tale strage di persone. [4] Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra conoscenza umana. Tutte le suppliche che facevano nei templi o l’uso che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e, alla fine, essi se ne astennero, sgominati dal male. [48, 1] Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l’Etiopia, nella parte al di là dell’Egitto[1], poi scese anche in Egitto, in Libia e nella maggior parte del territorio del Re. [2] Nella città di Atene piombò all’improvviso, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; così da parte loro fu detto che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là, infatti, non c’erano ancora fontane. Successivamente giunse anche nella parte alta della città, e da quel momento i decessi aumentarono di molto. [3] Ora, sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le proprie conoscenze, dicendo da che cosa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare capaci di provocare il mutamento di salute; quanto a me, invece, io dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in anticipo qualcosa[2]: io stesso ho contratto la malattia e io stesso ho visto altri che ne hanno sofferto.

[49, 1] Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato eccezionalmente immune da altre malattie: ma se qualcuno aveva già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa. [2] Gli altri, invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani, improvvisamente erano colti da violente vampate di calore alla testa e da arrossamento e infiammazione agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. [3] Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva e ne derivavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza. [4] Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito a vuoto, ma producevano violente convulsioni: per alcuni ciò si verificò dopo che era trascorso molto tempo. [5] Esternamente il corpo non era troppo caldo al tatto, né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di ulcere. L’interno, invece, bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di essere coperti da vesti o tele di lino leggerissime, né sopportavano altro che l’esser nudi; e ciò che avrebbero fatto con il più grande piacere sarebbe stato gettarsi nell’acqua fredda: questo, in realtà, lo fecero molti dei degenti trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete inestinguibile; eppure, bere di più o di meno non faceva alcuna differenza. [6] E la difficoltà di riposare e l’insonnia li affliggevano costantemente. Il corpo per tutto il tempo in cui la malattia era nella fase acuta non deperiva, ma resisteva inaspettatamente alla sofferenza; e così la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno a causa del calore interno, sebbene avesse ancora un po’ di forza; oppure, se si salvavano, la malattia scendeva ancora nell’intestino, si produceva in esso un’ulcerazione violenta e insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea completamente liquida; e, in seguito, a causa della debolezza che essa provocava, i più decedevano. [7] Infatti, il male percorreva tutto il corpo partendo dall’alto, stabilendosi prima nella testa; e se uno si salvava dal pericolo più grave, l’ammalarsi delle estremità era un sintomo del malanno. [8] Colpiva infatti anche gli organi sessuali e le punte di mani e piedi; e molti sopravvivevano con la perdita di queste parti, alcuni anche rimettendoci gli occhi. Alcuni, quando si ristabilivano, sul momento furono colti da amnesia per tutte le cose, senza distinzioni, e perdettero la conoscenza di se stessi e dei propri familiari. [50, 1] La natura della malattia era inspiegabile, e furono vari i modi in cui essa si abbatté sui singoli individui con troppa violenza perché la natura umana potesse sopportarla: ma questo fu l’aspetto in cui più chiaramente si manifestò come un male diverso dalle solite malattie; infatti, gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, benché ci fossero molti cadaveri insepolti, non li toccavano, o se ne assaggiavano, morivano. [2] Questa ne è la prova: la sparizione di tali uccelli divenne chiara e non se ne vedevano vicino a un cadavere né altrove. I cani, però, offrivano una più evidente possibilità di osservazione di quanto stava accadendo, dacché vivono insieme all’uomo.

[trad. G. Donini]

 

 

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La peste e la forza dell’imprevedibile

Il brano considerato si colloca subito dopo la conclusione del λόγος ἐπιτάφιος («discorso funebre») pronunciato da Pericle in onore dei caduti dell’anno 431/0 a.C., così che la drammaticità e l’orrore di queste pagine assumono un risalto ancora maggiore dal confronto con le immagini di splendore e di grandiosità evocate dall’oratore con il suo elogio di Atene. All’inizio dell’estate del 430 a.C., dunque, dopo che l’esercito di Archidamo aveva invaso l’Attica, in Atene cominciarono a manifestarsi i sintomi della «malattia» (ἡ νόσος). Secondo una vaga indicazione cronologica di Tucidide, essa era apparsa «anche prima» nell’isola di Lemno, nell’Egeo settentrionale, e prima ancora, in Etiopia, in Egitto, in Libia e in Persia; perciò, anche se queste localizzazioni appaiono piuttosto imprecise, sembrerebbe contraddittoria la successiva affermazione dello storico, secondo la quale i medici non erano in grado di curare la malattia «per ignoranza» (ἀγνοίᾳ), perché si trovavano di fronte a essa per la prima volta. I progressi della medicina come scienza, al tempo di Tucidide, erano stati notevoli, tanto che i medici erano in grado di formulare diagnosi e di consigliare terapie in base all’osservazione dei sintomi e del decorso di una malattia; perché, dunque, essi apparvero così impotenti di fronte al λοιμὸς (alla «peste»)?

I testi medici del tempo non fanno parola del morbo e la prima descrizione dei sintomi e del decorso della malattia è proprio quella fornita da Tucidide; ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’epidemia sollevava un problema epistemologico che le teorie della medicina antica e l’eziologia abitualmente applicata per scoprire l’origine dei mali non erano in grado di risolvere. Si trattava, infatti, di spiegare un duplice fenomeno: da un lato, che uno stesso male potesse colpire un popolo nella quasi totalità, nello stesso tempo e nello stesso luogo; dall’altro, che questo male avesse origini geografiche lontane e diverse. La principale difficoltà consisteva nel trovare una spiegazione identica per i due fenomeni; infatti, se il primo poteva essere affrontato sulla base delle dottrine ippocratiche (anamnesi, prognosi e diagnosi), pur rimanendo insoluto il problema dell’efficacia saltuaria delle terapie, il secondo era destinato a rimanere inspiegato. Infatti, le teorie ippocratiche non fornivano alcuna informazione circa i concetti di veicolo, diffusione e meccanismo del contagio, e nemmeno una giustificazione agli spostamenti geografici della malattia. Inoltre, essa sembrava sottrarsi anche alle più comuni spiegazioni di carattere eziologico, visto che il contagio si estendeva senza tener conto dell’età, del sesso, della maggiore o minore robustezza della costituzione fisica degli individui.

La sola spiegazione che la medicina antica poteva fornire era quella di indicare l’aria come possibile veicolo di infezione, ma ciò non bastava a chiarire come il male potesse essersi sviluppato in regioni tanto lontane e attecchire, poi, con tanta virulenza in ambiti geografici del tutto diversi, visto che si era convinti che ogni luogo avesse una propria fisionomia ben differenziata da quella di altre zone.

Anche la medicina «clinica», cioè quella che si fondava sull’assistenza presso il «letto» (κλίνη) degli ammalati, era resa impossibile dalla rapidità con la quale il contagio si estendeva, impedendo l’utilizzazione delle indicazioni che essa forniva abitualmente per mezzo dell’analisi delle cause, dell’interpretazione dei sintomi e dell’osservazione del decorso del male. Tali deduzioni, infatti, si basavano sull’attenta analisi di casi individuali, mentre in presenza di un’epidemia, come quella descritta da Tucidide, l’individuo scompariva nella massa e non aveva più alcun significato in quanto singolo.

Pertanto, l’evidente inadeguatezza della scienza medica, dovuto i motivi che abbiamo appena accennato (oggi possiamo affermare che essa dipese dall’ignoranza della microbiologia), contribuì a creare in Atene quel clima di assoluta precarietà del vivere che fu, secondo Tucidide, la causa prima dello sfacelo morale che coinvolse i cittadini, in preda al terrore irrazionale della morte considerata ormai da ciascuno come un flagello imminente e inevitabile. In ultima analisi, ciò che accadde fu, per dirla in termini tucididei, una vittoria dell’ἀγνοίᾳ («ignoranza»), del παράλογον («imprevisto») e della τύχη («sorte»), sulla γνώμη («decisione») di chi aveva voluto la guerra senza poter umanamente prevedere quanto sarebbe accaduto, e anche di tutti coloro che rimasero vittime del contagio prima di potersi rendere conto di quale fosse la natura del male che li stava sterminando.

Robert Thom, La cura dei malati nel tempio di Asclepio.

 

Nella descrizione della peste di Atene, l’opera di Tucidide rivela, accanto all’accuratezza dello storico, una venatura di amaro pessimismo di fronte alle conseguenze morali suscitate nei singoli e nella collettività dalla presenza costante della morte e dal senso di totale impotenza e precarietà esistenziale che ne scaturisce. Secondo l’ottica dell’autore, la catastrofe ha contribuito, insieme ai disagi della guerra, a rivelare non solo la fragilità della natura umana, abbastanza prevedibile per chi, come il nostro storico, sia per carattere incline al pessimismo, ma ha messo anche in luce (e questo appare molto più grave) come un evento del genere possa, in un tempo relativamente breve, mettere in crisi regole di vita e istituzioni, ritenute saldissime per la loro stessa natura e perché sostenute da una lunghissima e rispettata tradizione.

 

[51, 1] Τὸ μὲν οὖν νόσημα, πολλὰ καὶ ἄλλα παραλιπόντι ἀτοπίας, ὡς ἑκάστῳ ἐτύγχανέ τι διαφερόντως ἑτέρῳ πρὸς ἕτερον γιγνόμενον, τοιοῦτον ἦν ἐπὶ πᾶν τὴν ἰδέαν. καὶ ἄλλο παρελύπει κατ’ ἐκεῖνον τὸν χρόνον οὐδὲν τῶν εἰωθότων· ὃ [2] δὲ καὶ γένοιτο, ἐς τοῦτο ἐτελεύτα. ἔθνῃσκον δὲ οἱ μὲν ἀμελείᾳ, οἱ δὲ καὶ πάνυ θεραπευόμενοι. ἕν τε οὐδὲ ἓν κατέστη ἴαμα ὡς εἰπεῖν ὅτι χρῆν προσφέροντας ὠφελεῖν· [3] τὸ γάρ τῳ ξυνενεγκὸν ἄλλον τοῦτο ἔβλαπτεν. σῶμά τε αὔταρκες ὂν οὐδὲν διεφάνη πρὸς αὐτὸ ἰσχύος πέρι ἢ ἀσθενείας, ἀλλὰ πάντα ξυνῄρει καὶ τὰ πάσῃ διαίτῃ θεραπευόμενα. [4] δεινότατον δὲ παντὸς ἦν τοῦ κακοῦ ἥ τε ἀθυμία ὁπότε τις αἴσθοιτο κάμνων (πρὸς γὰρ τὸ ἀνέλπιστον εὐθὺς τραπόμενοι τῇ γνώμῃ πολλῷ μᾶλλον προΐεντο σφᾶς αὐτοὺς καὶ οὐκ ἀντεῖχον), καὶ ὅτι ἕτερος ἀφ’ ἑτέρου θεραπείας ἀναπιμπλάμενοι ὥσπερ τὰ πρόβατα ἔθνῃσκον· καὶ τὸν πλεῖστον [5] φθόρον τοῦτο ἐνεποίει. εἴτε γὰρ μὴ ‘θέλοιεν δεδιότες ἀλλήλοις προσιέναι, ἀπώλλυντο ἐρῆμοι, καὶ οἰκίαι πολλαὶ ἐκενώθησαν ἀπορίᾳ τοῦ θεραπεύσοντος· εἴτε προσίοιεν, διεφθείροντο, καὶ μάλιστα οἱ ἀρετῆς τι μεταποιούμενοι· αἰσχύνῃ γὰρ ἠφείδουν σφῶν αὐτῶν ἐσιόντες παρὰ τοὺς φίλους, ἐπεὶ καὶ τὰς ὀλοφύρσεις τῶν ἀπογιγνομένων τελευτῶντες καὶ οἱ οἰκεῖοι ἐξέκαμνον ὑπὸ τοῦ πολλοῦ κακοῦ [6] νικώμενοι. ἐπὶ πλέον δ’ ὅμως οἱ διαπεφευγότες τόν τε θνῄσκοντα καὶ τὸν πονούμενον ᾠκτίζοντο διὰ τὸ προειδέναι τε καὶ αὐτοὶ ἤδη ἐν τῷ θαρσαλέῳ εἶναι· δὶς γὰρ τὸν αὐτόν, ὥστε καὶ κτείνειν, οὐκ ἐπελάμβανεν. καὶ ἐμακαρίζοντό τε ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ αὐτοὶ τῷ παραχρῆμα περιχαρεῖ καὶ ἐς τὸν ἔπειτα χρόνον ἐλπίδος τι εἶχον κούφης μηδ’ ἂν ὑπ’ ἄλλου νοσήματός ποτε ἔτι διαφθαρῆναι.

[52, 1] Ἐπίεσε δ’ αὐτοὺς μᾶλλον πρὸς τῷ ὑπάρχοντι πόνῳ καὶ ἡ ξυγκομιδὴ ἐκ τῶν ἀγρῶν ἐς τὸ ἄστυ, καὶ οὐχ ἧσσον τοὺς [2] ἐπελθόντας. οἰκιῶν γὰρ οὐχ ὑπαρχουσῶν, ἀλλ’ ἐν καλύβαις πνιγηραῖς ὥρᾳ ἔτους διαιτωμένων ὁ φθόρος ἐγίγνετο οὐδενὶ κόσμῳ, ἀλλὰ καὶ νεκροὶ ἐπ’ ἀλλήλοις ἀποθνῄσκοντες ἔκειντο καὶ ἐν ταῖς ὁδοῖς ἐκαλινδοῦντο καὶ περὶ τὰς κρήνας ἁπάσας [3] ἡμιθνῆτες τοῦ ὕδατος ἐπιθυμίᾳ. τά τε ἱερὰ ἐν οἷς ἐσκήνηντο νεκρῶν πλέα ἦν, αὐτοῦ ἐναποθνῃσκόντων· ὑπερβιαζομένου γὰρ τοῦ κακοῦ οἱ ἄνθρωποι, οὐκ ἔχοντες ὅτι γένωνται, ἐς [4] ὀλιγωρίαν ἐτράποντο καὶ ἱερῶν καὶ ὁσίων ὁμοίως. νόμοι τε πάντες ξυνεταράχθησαν οἷς ἐχρῶντο πρότερον περὶ τὰς ταφάς, ἔθαπτον δὲ ὡς ἕκαστος ἐδύνατο. καὶ πολλοὶ ἐς ἀναισχύντους θήκας ἐτράποντο σπάνει τῶν ἐπιτηδείων διὰ τὸ συχνοὺς ἤδη προτεθνάναι σφίσιν· ἐπὶ πυρὰς γὰρ ἀλλοτρίας φθάσαντες τοὺς νήσαντας οἱ μὲν ἐπιθέντες τὸν ἑαυτῶν νεκρὸν ὑφῆπτον, οἱ δὲ καιομένου ἄλλου ἐπιβαλόντες ἄνωθεν ὃν φέροιεν ἀπῇσαν.

[53, 1] Πρῶτόν τε ἦρξε καὶ ἐς τἆλλα τῇ πόλει ἐπὶ πλέον ἀνομίας τὸ νόσημα. ῥᾷον γὰρ ἐτόλμα τις ἃ πρότερον ἀπεκρύπτετο μὴ καθ’ ἡδονὴν ποιεῖν, ἀγχίστροφον τὴν μεταβολὴν ὁρῶντες τῶν τε εὐδαιμόνων καὶ αἰφνιδίως θνῃσκόντων καὶ τῶν οὐδὲν [2] πρότερον κεκτημένων, εὐθὺς δὲ τἀκείνων ἐχόντων. ὥστε ταχείας τὰς ἐπαυρέσεις καὶ πρὸς τὸ τερπνὸν ἠξίουν ποιεῖσθαι, ἐφήμερα τά τε σώματα καὶ τὰ χρήματα ὁμοίως ἡγούμενοι. [3] καὶ τὸ μὲν προσταλαιπωρεῖν τῷ δόξαντι καλῷ οὐδεὶς πρόθυμος ἦν, ἄδηλον νομίζων εἰ πρὶν ἐπ’ αὐτὸ ἐλθεῖν διαφθαρήσεται· ὅτι δὲ ἤδη τε ἡδὺ πανταχόθεν τε ἐς αὐτὸ κερδαλέον, [4] τοῦτο καὶ καλὸν καὶ χρήσιμον κατέστη. θεῶν δὲ φόβος ἢ ἀνθρώπων νόμος οὐδεὶς ἀπεῖργε, τὸ μὲν κρίνοντες ἐν ὁμοίῳ καὶ σέβειν καὶ μὴ ἐκ τοῦ πάντας ὁρᾶν ἐν ἴσῳ ἀπολλυμένους, τῶν δὲ ἁμαρτημάτων οὐδεὶς ἐλπίζων μέχρι τοῦ δίκην γενέσθαι βιοὺς ἂν τὴν τιμωρίαν ἀντιδοῦναι, πολὺ δὲ μείζω τὴν ἤδη κατεψηφισμένην σφῶν ἐπικρεμασθῆναι, ἣν πρὶν ἐμπεσεῖν εἰκὸς εἶναι τοῦ βίου τι ἀπολαῦσαι.

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

[51, 1] Tale era dunque, in generale, l’aspetto della malattia, se si tralasciano molti altri fenomeni straordinari, secondo il modo in cui essa si manifestava in ciascuno, diversamente da una persona all’altra. In quel periodo, nessuna delle solite malattie le affliggeva contemporaneamente a questa; e se anche c’era, si sommava a questa. [2] Alcuni morivano per mancanza di cure, altri anche accuditi con estrema attenzione. Non si affermò nemmeno un solo rimedio, per così dire, che si dovesse applicare per portare a un miglioramento: infatti, proprio quello che giovava a uno era dannoso ad altri. [3] Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al morbo, che fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. [4] Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoramento quando uno si accorgeva di essersi ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver contratto la malattia uno dall’altro, mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero dei decessi. [5] Da una parte, se non erano disposti a far visita gli uni agli altri, per paura, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di qualcuno che potesse venire a curare i malati che vi abitavano; d’altra parte, quelli che si recavano dagli afflitti perivano, soprattutto coloro che cercavano di praticare la bontà. Grazie al loro senso dell’onore non si risparmiavano nell’entrare nelle case degli amici, dato che, alla fine, addirittura i familiari interrompevano per stanchezza anche i lamenti per quelli che non ce la facevano, sopraffatti com’erano dall’immensità del male. [6] Tuttavia, più degli altri coloro che erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era ammalato, perché avevano già avuto l’esperienza della malattia e perché loro ormai erano in uno stato d’animo tranquillo. Il morbo, infatti, non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro; ed essi stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po’ di vana speranza che anche in futuro nessuna malattia li avrebbe mai più potuti annientare.

[52, 1] Oltre al male già esistente li opprimeva anche l’afflusso di gente dalla campagna alla città: ciò affliggeva maggiormente coloro che erano arrivati da fuori. [2] Poiché non c’erano alloggi disponibili, ma essi abitavano in capanne soffocanti per la stagione dell’anno, la strage avveniva con grande confusione: corpi di moribondi giacevano uno sopra l’altro, e persone mezze morte si muovevano barcollando per le strade e intorno a tutte le fontane per desiderio di abbeverarsi. [3] I templi, nei quali si erano sistemati, erano stracolmi di cadaveri, dato che la gente vi moriva: infatti, poiché il male imperversava, le persone, non sapendo che cosa ne sarebbe stato di loro, si volgevano al disprezzo tanto delle cose sacre quanto di quelle profane. [4

] Tutte le consuetudini che avevano seguito in precedenza per le sepolture furono sconvolte; e seppellivano i cadaveri, ciascuno come poteva. E molti ricorrevano a modi vergognosi di sepoltura, per mancanza delle attrezzature necessarie, poiché avevano già avuto parecchi morti in famiglia: mettevano il cadavere del proprio defunto su una pira altrui, anticipando quelli che l’avevano costruita, e poi vi appiccavano il fuoco. Altri gettavano la salma che stavano portando sopra un’altra che già bruciava, e poi se ne andavano.

[53, 1] Anche per altri aspetti la malattia segnò nella città l’inizio di un periodo in cui il disprezzo per le leggi era più diffuso. Infatti, più facilmente si osava fare cose che prima di allora si sarebbero fatte di nascosto, senza mostrare che si seguiva il proprio piacere: vedevano che era rapido il mutamento di sorte dei ricchi, che morivano improvvisamente e di coloro che prima non possedevano nulla, ma che subito divenivano padroni dei beni dei morti. [2] Così pensavano di dover godere rapidamente di ciò che avevano e di servirsene a loro capriccio, considerando le proprie vite e le proprie ricchezze egualmente effimere. [3] E nessuno era pronto a sopportare fatiche per ciò che era considerato onesto, poiché pensava che non vi era certezza di non perire prima: ciò che al momento presente era piacevole, e che in qualunque modo era vantaggioso ai fini del piacere, questo divenne onesto e utile. [4] Nessun timore degli dèi e nessuna legge umana li tratteneva: da una parte, giudicavano che fosse la stessa cosa essere religiosi o meno, dal momento che vedevano tutti morire egualmente, e, dall’altra, nessuno si aspettava di vivere fino a quando ci sarebbe stato un giudizio sulle proprie colpe e di scontarne la pena: pensavano che molto maggiore fosse l’incombente punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse ragionevole godersi un po’ la vita.

[trad. G. Donini]

The physician Hippocrates tries to save the locals during the plague of Athens
The physician Hippocrates tries to save the locals during the plague of Athens (alamy.com)

Sofferenza fisica e degradazione morale

Il brano esaminato, uno dei più noti di Tucidide, è unanimemente considerato l’archetipo di tutte le descrizioni delle epidemie che compaiono nella letteratura classica e moderna, da Lucrezio a Virgilio, da Giovanni Boccaccio ad Alessandro Manzoni, da Edgar Allan Poe a Albert Camus. In esso, lo storico affronta il tema del «cambiamento» (μεταβολή) che alcune circostanze provocano nel comportamento umano.

Secondo l’ottica di Tucidide, prima responsabile dello sconvolgimento delle abitudini di vita è la guerra, che, portando con sé disagi, privazioni e sofferenze, causa anche la perdita dei valori morali e un progressivo imbarbarimento. A tutto ciò si sovrappongono i disastrosi  effetti dell’epidemia scoppiata nell’estate del 430 a.C., durante l’invasione dell’Attica da parte delle truppe peloponnesiache, guidate da Archidamo. Ciò che particolarmente colpisce, nell’attenta analisi di Tucidide, è l’importanza attribuita al senso di precarietà dell’esistenza come causa scatenante di un processo di profonda e inarrestabile degradazione morale.

L’uomo dell’antichità ha sempre considerato la propria esistenza come qualcosa di estremamente breve e incerto di per sé; carestie, guerre, miseria, malattie, mortalità altissima in età infantile e giovanile la rendevano un bene tanto prezioso quanto poco duraturo, mentre la presenza della morte acquisiva, per questi stessi motivi, qualcosa di quotidiano e di familiare. Tuttavia, dalla fine delle Guerre persiane al secondo anno della Guerra del Peloponneso, e soprattutto nel quindicennio dal 445 al 430 a.C., Atene aveva goduto di un periodo di pace e di benessere economico mai prima visto – contesto, che aveva contribuito, almeno in parte, a diminuire quel senso di incertezza esistenziale di cui si è appena accennato. Di conseguenza, all’inizio della guerra, il peggioramento delle condizioni di vita individuali che aveva coinvolto, anche se in misura ben diversa, ricchi e poveri, e che era stato anche causa della diminuzione del favore popolare nei confronti di Pericle, si sommò improvvisamente, all’inizio dell’epidemia, a tutti gli errori derivanti dal dilagare inarrestabile di un flagello fino ad allora sconosciuto.

Di fronte al morbo che travolgeva in una strage indiscriminata che era amorevolmente assistito e chi organizzava abbandonato nei rifugi di fortuna, che uccideva o lasciava in vita senza un motivo apparente, chi dimostrava a ogni momento l’impotenza dei medici inaffidabilità dei rimedi, l’istinto di sopravvivenza assunse le forme dell’indifferenza verso uomini e dèi e della trasgressione più totale di ogni norma civica e religiosa. Infatti, abbandonati dei canoni di comportamento che si fondavano su ben consolidate tradizioni educative, di colpo divenute inutili di fronte alla presenza continua della morte che distruggeva ogni possibile idea di stabilità e di durata, le persone si abbandonarono il modo più semplice e istintuale per sentirsi vive: la ricerca del piacere, in ogni sua manifestazione e con ogni mezzo.

La legge divina non garantiva ai pii una vita più lunga, mentre alla legge umana mancava il tempo per essere applicata o per incutere l’antico, salutare, timore a chi era consapevole che forse, di lì a qualche ora, la morte avrebbe colto anche lui. Se è vero che Sofocle, componendo l’Edipo re, si ricordò della peste di Atene per descrivere quella di Tebe (cosa non impossibile, se la tragedia fu scritta fra il 425 e il 410 a.C., e non, come sostengono alcuni studiosi, nel 433), è interessante confrontare la sua ottica con quella di Tucidide. Per il poeta tragico, animato da una profonda religiosità, la pestilenza è dovuta all’ira di un dio, e basta un intervento di purificazione per farla cessare, anche se a prezzo delle terribili sofferenze di Edipo, che, da sovrano di Tebe, si trasforma nel φαρμακός («capro espiatorio»); per lo storico, che guarda gli eventi umani con un’ottica assolutamente immanente, al posto della collera divina si pone il παράλογον («l’imprevedibile»), che agisce nelle vicende umane e nella Storia senza possibilità di controllo. In questa situazione, caratterizzata da una tragicità ben diversa da quella sofoclea, non c’è spazio per un eroe liberatore; c’è invece una massa che, perduta ogni consapevolezza di umanità – se non quella, spaventosa, della propria mortalità –, si aggrappa istintivamente alla vita, a ogni mezzo, lecito o illecito, che possa far dimenticare che ogni attimo potrebbe essere l’ultimo, mostrandosi in tutta la sua miseria materiale e morale all’occhio distaccato, ma non impietoso, dello storico.

***

 

Note:

[1] In realtà, le zone africane chiamate “Etiopia” dai Greci erano tutte a sud dell’Egitto, ma, a quanto pare, Tucidide distingue l’Etiopia propriamente detta da altre zone di quello che per i Greci era l’estremo meridione della Terra, come l’India, che si ritenevano abitate da Etiopi. Etimologicamente, infatti, gli Etiopi erano la “gente dalla faccia bruciata”.

[2] In realtà, non c’è accordo fra gli studiosi sulla natura di quell’epidemia: ha maggiore fondatezza l’opinione che si sia trattata di una forma di tifo.

***

Sitografia:

Solving the Mystery of an Ancient Epidemic [theatlantic.com]

The Athenian Plague [wordpress.com]

The Plague at Athens430-427 BCE [ancient.eu]

The Plague of Athens and the Cult of Asclepius [brewminate.com]

Thucydides and the plague of Athens – what it can teach us now [theconversation.com]

Tucidide, Historiae II [poesialatina.it]

Tucidide, da Bibliothéke (2011) [academia.edu]

La “beffa” di Sfacteria

da P. de Souza, Atene e Sparta, trad. it. C. Cetorelli, Milano 2010, 37-42.

Nella primavera del 425 l’esercito del Peloponneso, guidato dal giovane re spartano Agide, invase di nuovo l’Attica. Durante l’estate, i Lacedemoni devastarono quanto più possibile del territorio nemico cercando, ancora una volta, di costringere gli Ateniesi a un confronto per terra. Nel frattempo, gli strateghi ateniesi Eurimedonte e Sofocle, che stavano trasferendo in Sicilia una quarantina di navi, facendo tappa a Corcira, fecero una deviazione nella zona di Pilo, sulla costa occidentale del Peloponneso, per testare uno schema escogitato dal generale Demostene, che stava viaggiando con loro. Il piano di Demostene era quello di trasformare Pilo in una base fortificata per gli esuli messeni provenienti da Naupatto, da usarsi come base per incursioni in territorio peloponnesiaco. Da Pilo, infatti, i fuoriusciti potevano facilmente penetrare in Messenia e, con la loro conoscenza del dialetto locale e della regione, potevano procurare guai agli Spartani direttamente a casa loro. Sembra che Demostene avesse avuto qualche difficoltà a convincere i due colleghi a portare avanti il suo piano, ma, alla fine, furono costruite alcune fortificazioni: Demostene fu lasciato lì con cinque navi, mentre il resto della flotta proseguì la rotta per Corcira.

Pilo e Sfacteria, da Storia del mondo antico, Cambridge University, IV [in Frediani 2005, 193].

Sulle prime i Lacedemoni non si sentirono particolarmente minacciati da questo avamposto ateniese nel loro territorio, ma quando re Agide e i suoi consiglieri seppero della sua esistenza, abbandonarono l’invasione dell’Attica e si precipitarono a Pilo, radunando forze per un attacco contro Demostene. Fu chiamata in aiuto la flotta peloponnesiaca che si stava dirigendo a Corcira. Anche Demostene chiese aiuto e la flotta ateniese girò intorno all’isola di Zacinto e tornò a Pilo.

Gli Spartani erano determinati a eliminare il nemico prima dell’arrivo dei rinforzi. Attaccarono per due giorni il presidio ateniese sia per mare sia per terra. Fecero sbarcare un piccolo gruppo di opliti sull’isola di Sfacteria al fine di accerchiare il forte nemico su ogni lato. Gli Spartani erano consapevoli del vantaggio che gli Ateniesi avevano su di loro negli scontri navali e sembrava avessero deciso che, occupando l’isola, avrebbero limitato l’accesso nemico alla baia retrostante e impedito loro di installare forze dietro la posizione da loro occupata. Demostene fece trascinare sulla spiaggia le poche navi che gli erano rimaste, le protesse con una palizzata e dislocò i suoi equipaggi come fanteria improvvisata. Lui e i suoi uomini tennero duro contro i continui attacchi avversari.

Gli sforzi dei Lacedemoni presero un andamento frenetico con Brasida, uno dei loro comandanti di triremi, il quale mise a rischio il proprio equipaggio e la propria vita facendo arenare la sua nave all’interno dell’area fortificata dagli Ateniesi e cercando di farsi strada via terra. Fu gravemente ferito e perse il suo scudo, ma il suo coraggio gli fruttò molti elogi. Il giorno seguente rientrò la flotta ateniese, composta ora da cinquanta navi, con l’aggiunta di quelle provenienti da Naupatto e quattro triremi alleate venute da Chio.

Peter Dennis, Pilo e Sfacteria (425 a.C.). Battaglia nel porto
La battaglia nella baia di Pilo. Illustrazione di P. Dennis.

Il carattere dell’intero conflitto venne a modificarsi una volta che gli Ateniesi ebbero a disposizione una grande forza navale. Riuscirono facilmente a far allontanare le quarantatré navi peloponnesiache dal promontorio di Pilo e dalle spiagge della baia, mettendone alcune fuori uso e catturandone altre. Il blocco del forte fu rimosso e gli Spartani dovettero accamparsi sulla terraferma, osservando impotenti gli Ateniesi navigare incontrastati intorno a Sfacteria. La situazione era cambiata e il risultato peggiore per i Peloponnesiaci fu che i loro 420 opliti e i loro attendenti iloti furono abbandonati sull’isola.

La Gherusia e gli Efori di Sparta inviarono immediatamente una delegazione per valutare la situazione. Le stime riferite dagli osservatori furono tutt’altro che ottimistiche: la posizione di Sfacteria era insostenibile. Gli uomini non potevano essere liberati senza che ciò procurasse perdite maggiori; d’altro canto, gli Ateniesi li avrebbero facilmente fiaccati con la fame oppure decimati, se avessero voluto. La delegazione si recò, quindi, al comando ateniese per negoziare una tregua, che avrebbe permesso loro di far arrivare approvvigionamenti ai propri uomini e di fermare gli attacchi. Come contropartita, offrirono ciò che rimaneva della flotta spartana, nonché tutte le triremi che possedevano in Laconia (per un totale di sessanta vascelli), e mandarono un’ambasceria ad Atene per considerare un reale trattato di pace.  Il negoziato avrebbe potuto mettere fine alla guerra, ma non portò a nulla. Gli inviati spartani erano pronti a fare grandi concessioni pur di recuperare i propri uomini, ma si rifiutarono di farlo davanti all’intera sessione dell’Ecclesia ateniese, che era ciò che invece gli Ateniesi chiedevano. Una dimostrazione pubblica di debolezza e umiltà era davvero troppo per gli orgogliosi Spartiati, le cui decisioni più importanti erano di solito prese da un ristretto gruppo di cittadini anziani in riunioni private. Dal lato ateniese, c’era un cospicuo numero di cittadini favorevoli ad accettare subito tali condizioni; ma, alla fine, ebbe la meglio la fazione bellicista di Cleone. Quando il demagogo accusò i delegati spartani di falsità, costoro rinunciarono ai loro propositi e se ne tornarono in patria.

Due opliti intenti a stringersi la destra e un terzo uomo. Rilievo funerario, marmo, c. 410-400 a.C. dalla Tomba di Sosia e Cefisodoro, Atene. Berlin, Antikenmuseen
Due opliti intenti a stringersi la destra e un terzo uomo. Rilievo funerario, marmo, c. 410-400 a.C. dalla Tomba di Sosia e Cefisodoro, Atene. Berlin, Antikenmuseen.

La tregua era finita e i Lacedemoni chiesero la restituzione delle proprie navi, ma gli Ateniesi non cedettero, lamentando che gli Spartani non avessero rispettato alcuni dettagli dell’accordo. In questo modo, furono in grado di mettere fine (per ora) all’attività navale spartana e aumentare la pressione sui guerrieri isolati a Sfacteria. Altre forze ateniesi arrivarono a Pilo: poi seguì una situazione di stallo. Le condizioni per gli Ateniesi non erano facili, in quanto, malgrado fossero padroni del mare, non avevano il controllo della zona costiera. Il loro forte sulla terraferma era ancora a rischio di attacco da parte peloponnesiaca e Demostene disponeva di meno di 1000 soldati per difenderlo. Gli Spartani offrivano ricompense in denaro a chiunque, a nuoto o a bordo di piccole barche, riuscisse ad aggirare le triremi ateniesi di pattuglia intorno all’isola e a portare cibo ai prigionieri. Un certo numero di pescatori iloti e messeni si offrì di occuparsi degli approvvigionamenti. Alla fine, gli Ateniesi cominciarono a sentire il peso di rifornire i propri uomini a così grande distanza e di non poter contare su porti sicuri.

Ad Atene si diede la colpa del problema a Cleone per la sua condotta arrogante nei negoziati con gli ambasciatori di Sparta. Ma lui cercò di sottrarsi alle accuse rimbalzandole al collegio degli strateghi: sosteneva che avrebbero dovuto sferrare un decisivo attacco all’isola, uccidendo o catturando i nemici che si trovavano lì. Lui lo avrebbe già fatto, se fosse stato uno stratega. Così, uno dei generali in carica, Nicia, lo sfidò: lo prese in parola e lo invitò ad arruolare le forze armate che avesse ritenuto necessarie per mostrare a tutti le proprie doti di grande stratega. I cittadini, riuniti in assemblea, approvarono con uno scroscio di applausi quella proposta e gridarono a Cleone di accettare la sfida. Il demagogo, insomma, si era incastrato da solo: la solita retorica strappa-applausi, solitamente efficace contro gli altri, gli si era ritorta contro. Ora gli toccava esaudire le aspettative del suo pubblico.

stratego. busto, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.c. ca. museo pio clementino (musei vaticani)
Ritratto di stratego. Busto, copia romana di età adrianea da un originale greco del V secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Gli andò bene: ottenne un esercito formato da opliti addestrati ed esperti, provenienti dalle colonie di Lemno e Imbro, e una numerosa fanteria leggera, sia peltasti sia arcieri. Prima di partire, comunque, promise pomposamente che avrebbe distrutto o catturato le forze lacedemoni in soli venti giorni.

L’affermazione di Cleone di poter risolvere la situazione in così breve tempo, provenendo da un individuo che mai prima di allora aveva guidato un esercito in guerra, fu probabilmente l’ennesimo segno di pura arroganza. In ogni caso, il demagogo aveva abbastanza contezza dei fatti da scegliersi come suo consulente principale lo stesso Demostene, l’energico comandante, il cui piano aveva dato inizio all’intera operazione. I due, messisi d’accordo sul da farsi, si presentarono con un approccio clamoroso dal punto di vista tattico. All’alba sbarcarono da entrambi i versanti dell’isola con 800 opliti, cogliendo completamente di sorpresa le sfinite sentinelle spartane. Una volta assicurate le spiagge, invasero l’isola con i Messeni provenienti dal forte di Pilo e in più con arcieri, peltasti e alcune migliaia di semplici rematori, armati di fionde e pietre. Tenendo gli opliti lontani da uno scontro diretto con le superiori truppe spartane e usando il resto delle forze per assalire il nemico, Demostene obbligò gli Spartani a battere in ritirata. Se avessero potuto ingaggiare scontri corpo a corpo con gli avversari, i Lacedemoni avrebbero potuto facilmente vincerli, ma le loro pesanti armature li rallentarono notevolmente nei movimenti. Erano inoltre una protezione insufficiente contro la pioggia di frecce, giavellotti e pietre lanciati da uomini senza corazza, i quali scappavano via facilmente prima di essere raggiunti dai lenti opliti. Il comandante spartano Epitada, colpito, fu riportato in un vecchio forte su una collina all’estremo nord dell’isola, dove i sopravvissuti, molti dei quali gravemente feriti, si prepararono a opporre resistenza. I Messeni, comunque, si arrampicarono sulla scogliera e sorpresero alle spalle gli Spartani, ormai completamente circondati e sopraffatti dal numero degli assalitori.

Peter Dennis, Battaglia di Sfacteria, 425. Gli Spartani al comando di Epitada cercano di resistere all'assalto di Demostene
Gli Spartani al comando di Epitada cercano di resistere all’assalto di Demostene. Illustrazione di P. Dennis.

Prima di uccidere tutti i Lacedemoni, Cleone e Demostene decisero di offrire loro una possibilità di arrendersi. Nel frattempo, Epitada era morto e il comandante in seconda era ferito troppo gravemente per muoversi, cosi il comandante in terza, Stifone, chiese il permesso di poter consultare i propri superiori sulla terraferma. Seguì un intenso scambio di messaggi attraverso la baia. Quando arrivarono gli ordini, i 292 Spartani sopravvissuti di Sfacteria rimasero sbigottiti: «I Lacedemoni vi ordinano di fare ciò che ritenete più opportuno nel vostro interesse, purché non agiate in modo disonorevole». Questo dispaccio del tutto inutile decretò la loro fine. Dopo una breve discussione, gli uomini deposero le armi e si arresero agli Ateniesi: 120 erano Spartiati. «Il fatto più inaspettato di tutta la guerra»: così Tucidide descrisse la resa spartana a Sfacteria. Fino ad allora era stato impensabile che dei Lacedemoni, anche se in gravi difficoltà, si arrendessero tanto facilmente; ci si sarebbe aspettato un combattimento a oltranza, fino alla morte, come aveva fatto re Leonida e i suoi Trecento alle Termopili, nel 480.

I fatti di Sfacteria inflissero un durissimo colpo al prestigio militare di Sparta, ma provocò un grande effetto sul morale degli Ateniesi. Le navi ricondussero ad Atene i prigionieri. Gli emissari spartani cercarono di negoziare il loro rilascio, ma i nemici chiedevano più di quanto essi potessero dare in cambio. Il valore strategico del piano di Demostene fu dimostrato dal fatto che Pilo divenne una spina nel fianco dei Peloponnesiaci; i Messeni, incoraggiati dal successo a cui avevano contribuito, cominciarono a compiere irruzioni nella campagna circostante e a liberare molti iloti. Quanto a Cleone, fu questo il momento di massimo trionfo nella carriera politica del demagogo, che sull’onda dell’entusiasmo generale fu rieletto per l’anno 424/3.

Uno scudo spartano tolto come trofeo di guerra nella battaglia di Pilo-Sfacteria. Lamina di bronzo, V secolo a.C. da Atene, Stoà di Attalo. A
Uno scudo spartano tolto come trofeo di guerra nella battaglia di Pilo-Sfacteria (425 a.C.). L’iscrizione (SEG X 325), incisa sulla superficie esterna, recita: Ἀθεναῖοι / ἀπὸ Λακεδ-/ αιμ[ον]ίον / ἐκ [Πύ]λο («Gli Ateniesi [presero questo scudo] ai Lacedemoni a Pilo»). Lamina di bronzo, V secolo a.C. da Atene, Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Agorà.

***

Riferimenti bibliografici:

C.S. Bearzot, Il Cleone di Tucidide tra Archidamo e Pericle, in H. Herbert, T. Kurt (eds.), Ad Fontes! Festschrift Dobesch, Wien 2004, 125-135.

A. Frediani, Sfacteria, in Le grandi battaglie dell’antica Grecia, Roma 2005, 184-198.

D. Kagan, Pylos and Sphacteria, in The Archidamian War, Ithaka-London 1974 (= A New History of the Peloponnesian War, Ithaka-London 1987), 218-259.

M.H.B. Marshall, Cleon and Pericles: Sphacteria, G&R 31 (1984), 19-36.

J. Nash, Sea Power in the Peloponnesian War, NWCR 71 (2018), 119-139.

L.J. Samons, Thucydides’ Sources and the Spartan Plan at Pylos, Hesperia 75 (2006), 525-540.

R.B. Strassler, The Harbor at Pylos, 425 B.C., JHS 108 (1988), 198-203.

J. Wilson, T. Beardsworth, Pylos 425 B.C.: The Spartan Plan to Block the Entrances, CQ 20 (1970), 42-52.

I. Worthington, Aristophanes’ Knights and the Abortive Peace Proposals of 425 B.C., AntClass 56 (1987), 56-67.

G. Wylie, Demosthenes the General – Protagonist in a Greek Tragedy?, G&R 40 (1993), 20-30.