Ate (Ἄτη) nell’Iliade

Eric Robertson Dodds analizza il concetto di ate, definendola «tentazione o infatuazione divina»; a causa dell’ate mandatagli da Zeus, Agamennone si rifece della perdita di Criseide, portando via ad Achille Briseide. Ate designa la sventura che si abbatte sull’uomo, ma anche l’accecamento che induce l’individuo in errore. Per gli antichi Greci l’uomo è infatti sotto l’influenza di forze superiori, che oscurano il suo giudizio tanto da spingerlo a commettere azioni che in condizioni normali condannerebbe. Pertanto, egli è per un certo verso colpevole ma per un altro vittima di uno sventurato destino.

Pittore di Dario. I funerali di Patroclo. Dettaglio: la libagione di Agamennone sulla pira funebre. Pittura vascolare a figure rosse su un cratere apulo, c. 330 a.C.

“Cominciamo con il considerare la tentazione o infatuazione divina (ἄτη) che indusse Agamennone a rifarsi della perdita della propria concubina, portando via ad Achille la sua. «Ma il colpevole non sono io – dichiarava più tardi –, bensì Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nelle tenebre, che cieca follia (ἄτη) m’ispirarono nell’assemblea, quel giorno in cui strappai ad Achille il suo premio, arbitrariamente. Ma che potevo fare? È un dio che manda a effetto tutte le cose!» (Il. XIX 86-90). Dall’impaziente lettore moderno queste parole di Agamennone sono state talvolta troppo frettolosamente liquidate come debole pretesto per sottrarsi alle proprie responsabilità; non però, credo, da chi legga con attenzione. Evasione di responsabilità, in senso giuridico, sicuramente non c’è, poiché alla fine del suo discorso Agamennone offre un indennizzo così motivato: «Non potevo scordarmi di Ate, che all’inizio m’aveva accecato! Ma dato che fui accecato e il senno mi tolse Zeus, in cambio voglio placarti e darti compensi infiniti» (Il. XIX 136-138). Se avesse agito di volontà propria, non avrebbe tanto facilmente riconosciuto il suo torto; così come stanno le cose, pagherà per le sue azioni. Dal punto di vista giuridico, la sua posizione sarebbe stata la stessa nell’un caso e nell’altro, perché la giustizia greca primitiva non tiene conto dell’intenzione: solo dell’azione importa. Né Agamennone inventa, poco onestamente, un alibi morale; infatti, la vittima stessa della sua azione vede le cose allo stesso modo: «Padre Zeus, tu ispiri agli uomini grandi follie (ἄται): altrimenti mai l’Atride m’avrebbe sconvolto del tutto il cuore nel petto, né avrebbe preso implacabile contro la mia volontà la ragazza» (Il. XIX 270-273). Credete forse che Achille, con molto tatto, accetti una finzione allo scopo di salvare la faccia al Gran Re? Non è così: già nel libro I, spiegando il caso a Teti, Achille parlava della condotta di Agamennone come della sua ἄτη (Il. I 412), e nel libro IX esclamava: «Ma se ne vada tranquillo in malora: infatti, il prudente Zeus gli ha tolto il senno!» (Il. IX 376-377). Come si vede, questo è il punto di vista di Achille, non meno che di Agamennone, e le famose parole che preludono il racconto dell’ira, «compiendosi il volere di Zeus» (Il. I 5), lasciano chiaramente intendere che il poeta era della stessa opinione. Se questo fosse il solo episodio così singolarmente interpretato dai personaggi di Omero, potremmo avere dei dubbi circa le intenzioni del poeta: sospettarlo, per esempio, di voler conservare ad Agamennone, almeno in parte, le simpatie degli ascoltatori, o di voler conferire un senso più profondo della lite poco dignitosa dei due capi, presentandola come una mossa nell’attuazione di un disegno divino. Queste spiegazioni non valgono però per altri passi, dov’è detto che «gli dèi» o «qualche dio», o Zeus, hanno momentaneamente «portato via» o «distrutto» o «ammaliato» il senno di un essere umano”.

da E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Firenze 1959, 3-5.

L’eroe dell’Odissea

di A. HEUBECK, Interpretazione dell’Odissea, in Odissea, I (libri I-IV), a cura di S. WEST, trad. it. di G.A. PRIVITERA, Milano 1981, pp. XXXI ss.

Certo è che la figura dell’eroe, quale appare nell’Odissea, è ampiamente caratterizzata da tratti che l’aedo ha mutuato dall’Iliade, dove già si trovano. Lì Odisseo è uno dei re, che con i loro uomini prendono parte alla spedizione punitiva degli Atridi: come gli altri, anch’egli dispone di un considerevole regno, che gli consente di unirsi all’armata degli Achei con una flotta di dodici navi. Il poeta colloca l’eroe tra i più grandi. Quanto a coraggio e a forza in combattimento, Odisseo non è superato quasi da nessuno, se si prescinde da Achille e da Aiace; per astuzia politica e intelligenza strategica egli batte tutti: è l’immagine ideale di un uomo in cui sono unite in splendida armonia tutte le virtù dell’eroismo aristocratico. Ci si può spingere ancora oltre e affermare che questa immagine dell’eroe, nei suoi tratti essenziali, reca l’impronta dell’epica preomerica. Esiste una serie di indizi che fanno capire come Odisseo avesse un posto fisso nell’epos troiano già da tempo: il suo stesso soprannome, già iliadico, di «distruttore di città» (πτολίπορθος) trova una sensata spiegazione solo se si presuppone che già nell’epos preomerico Odisseo fosse colui che con l’astuzia del cavallo di legno aveva reso possibile e realizzato la conquista di Ilio.

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

Questo pone un problema. Come si spiega che quest’eroe regale, al quale l’epos omerico e perfino quello precedente avevano assegnato un posto fisso nella galassia degli eroi, agisca poi nell’Odissea, per larghi tratti della storia, in un modo che è separato da quello degli eroi stessi da un profondo e autentico abisso, e sembri possedere lineamenti che lo accostano più a Sindbad il marinaio che non ai suoi nobili compagni di casta e d’armi? Forse l’aedo conosceva e utilizzava una tradizione, parallela a quella epica e indipendente da essa, che aveva preservato un’immagine più antica e originaria? Ma forse è più plausibile un’altra ipotesi.

Alfred Heubeck ritiene possibile che sia stato per primo il poeta dell’Odissea a spedire l’eroe dell’epos troiano, con il suo viaggio avventuroso, nel regno delle favole; ad attribuirgli esperienze che originariamente erano legate ad altre figure, sia a quelle anonime della favola popolare e marinaresca, sia a quelle della poesia preomerica. Che alcuni personaggi e alcune vicende, ora connessi con Odisseo, originariamente fossero propri della saga e della poesia argonautica, è un’ipotesi che la ricerca ha reso quanto mai plausibile.

In tal caso, l’arricchimento della tradizionale immagine dell’eroe con elementi nuovi, che in origine non gli appartenevano, sarebbe opera del cantore odissiaco, e ciò che può averlo indotto a questo passo ardito, forse si potrebbe persino indovinare. A fondamento del poema sta il fatto che a Odisseo sia consentito di rivedere la patria solo molto tardi, anzi quasi troppo tardi: ma solo se Odisseo durante il viaggio verso casa si smarrisce in un mondo dal quale non esiste ritorno tra gli uomini senza l’aiuto divino, diventa comprensibile come la navigazione da Troia a Itaca si dovesse trasformare in una decennale peregrinazione in terre sconosciute e remotissime.

Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.

Ma le dimensioni con cui con questo viaggio si colloca l’eroe non si estendono soltanto nello spazio e nel tempo. A lui tocca affrontare pericoli che prima nessuno aveva dovuto superare. In questo ritorno gli viene sottratto, a poco a poco, tutto ciò che un tempo gli era appartenuto e gli era caro: così, un lungo cammino lo conduce dalla lotta contro i Ciconi, dov’egli è ancora interamente eroe iliadico, per una dolorosa via fin dove anche l’ultimo relitto dell’antico splendore svanisce, nell’umiliazione e nello scoramento più profondi, fino al punto in cui nemmeno uno dei suoi amici è sopravvissuto, e della flotta una volta così superba non è rimasta che una trave della chiglia della nave ammiraglia.

Ma forse la perdita dello splendore e della forza, del potere e della ricchezza, non è ancora l’esperienza più amara. Un destino inesorabile lo trascina in un mondo in cui le virtù dell’eroismo aristocratico rivelano le loro fragilità, e dove hanno perduto dignità e valore, dove la volontà nobile ed eroica si riduce a vuoto atteggiamento e a ridicolo gesto: il mondo in cui Odisseo si sente protetto è scivolato in una lontananza irraggiungibile ed esiste soltanto nel suo ricordo nostalgico.

Attraverso la rappresentazione epica si scorge la spiritualità del poeta, che è divenuto cosciente della problematicità, della validità limitata, del valore relativo delle norme di vita aristocratica, che erano state per la precedente poesia eroica l’impalcatura di una concezione ideale del mondo, i pilastri di un mondo sacro. È lo spirito di un uomo che alle ardue questioni della vita e dell’esistenza umana ha anche da dare una risposta diversa da quella dei suoi predecessori: mentre questi nella loro poesia avevano contrapposto alla realtà di una vita spesso amara, faticosa e colma di dolore, l’immagine ideale di un mondo fittizio, nel quale valeva la pena di vivere, di combattere e anche di morire; e mentre essi trasportavano gli ascoltatori, per mezzo della parola poetica, dalle difficoltà quotidiane in un irreale mondo di splendore, l’aedo odissiaco smaschera questa immagine ideale in tutta la sua limitatezza, unilateralità e relatività. Certo anch’egli trascina il suo pubblico in un mitico mondo di sogno, ma questo diviene contemporaneamente l’immagine speculare del mondo reale dove l’umanità vive, nel quale dominano bisogno e angoscia, terrore e dolore, e nel quale l’individuo è immerso senza scampo. Tuttavia, il poeta non si arresta a questo amaro riconoscimento e al suo messaggio: vale la pena di vivere in questo mondo reale e di dominare la vita, rispondendo alle sue sfide e costrizioni con l’atteggiamento e con il contegno giusti.

Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Non che le virtù aristocratiche del coraggio, del valore, del senso dell’onore, della saggezza, della prudenza, in una mutata visione dell’uomo e della sua esistenza, abbiano perduto la loro validità: al contrario. Hanno però bisogno di un’integrazione: la saggezza da sola vale poco, quando non le si unisca un’intelligenza astuta e calcolatrice, e vi sono nella vita minacce e pericoli da cui non ci si può salvare soltanto con il coraggio e il valore, situazioni in cui una rigida adesione alle ideali norme aristocratiche sarebbe stolida e folle, avvenimenti che si possono e si debbono soltanto sopportare con pazienza se non ci si vuole arrendere. Se è tanto bello e attraente indugiare con lo sguardo su una splendida immagine ideale, altrettanto necessario è vedere le cose come sono. Odisseo è l’«eroe» che ha imparato – forse contro voglia, stringendo i denti – a far sua questa nuova concezione e ad affrontare tutto il dolore e la miseria che la vita riserva all’uomo. a ciò lo abilitano virtù che, avendo ancora le radici nel modello aristocratico ma insieme superandolo, includono nuove attitudini, e cioè appunto questa capacità di progettare e di calcolare astutamente, di mascherarsi e di nascondersi, ma anche una capacità, ammirevole e inimmaginabile, di sopportare pazientemente. L’idea così spesso ribadita di Odisseo come modello del navigatore ardito e temerario, dell’avventuriero senza pace che sfida pericoli, dello scopritore curioso per il quale il proprio mondo è diventato troppo piccolo e al quale non bastano mai le esperienze di cose nuove e sconosciute, trova ben poco spazio nell’immagine dell’eroe quale si crede di dover delineare, né coglie in ogni modo l’essenziale.

Non è certo un caso se, accanto alla visione davvero fosca, priva di illusioni, e anzi pessimistica dell’uomo e della sua condizione – primo accordo di una Stimmung che in seguito guadagnerà peso e significato nella lirica greca arcaica –, non manca neppure un elemento di conciliazione e di consolazione. Tutte le fatiche, i dolori e le sventure giungono nell’Odissea a un lieto fine: reduce dal più profondo avvilimento, Odisseo ritrova presso i Feaci sé stesso; chi ha minacciato e distrutto un antico e venerabile ordine riceve in patria la meritata punizione, chi è fedele e timorato degli dèi ha il premio che gli spetta. L’εὐνομία, lo stato in cui ciascuno ha il posto dovuto e può perseguire la propria attività quotidiana in pace e senza pericoli, sparge tutto il suo splendore sopra una terra benedetta. In questa prospettiva conciliatrice, con cui il poeta lascia il suo pubblico, appare sotto una nuova luce anche la movimentata successione di eventi, con tutti i suoi pericoli e le sue umiliazioni, le paure e le atrocità: tale prospettiva è basata sulla fede del poeta, il quale – anche se ha visto con più chiarezza e meno illusioni di altri a quale minaccia l’umanità sia esposta in un mondo crudele – è in grado di inquadrare questa constatazione in una visione più profonda e più comprensiva, fondata su concezioni tradizionali non meno che su uno spirito autonomo e indipendente.

Darwin combatteva a Troia

 

di Modeo S., in «La Lettura – Corriere della Sera» n°378, 24 febbraio 2019, pp. 3-5.

 

 

Visioni Le scienze naturali allargano la prospettiva degli studi tradizionali sul mondo omerico.

 

Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.

Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.

Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno trequattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).

Gustave Boulanger, Ulisse riconosciuto da Euriclea. Olio su tela, 1849. Paris, Musée des Beaux-Arts.

È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.

Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.

 

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

 

La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).

L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.

 

Guerrieri in marcia. Pittura vascolare da un cratere miceneo, Periodo Elladico recente IIIC (XII secolo a.C.), dalla ‘Casa del cratere dei guerrieri’ (Micene). Museo Archeologico Nazionale di Atene.

 

Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.

In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).

La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.

Gorytós con scene di Ilioupérsis. Oro, fine IV secolo a.C. dalla Tomba di Filippo II, Verghina.

Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).

Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.

 

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure, anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.

 

Pittore di Briseide. Priamo entra nella tenda di Achille. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

Il mercante che divenne archeologo

di G.M. Della Fina (dir.), I segreti dell’Archeologia, vol. I, Novara 2001, pp. 20; 40; 60; 80.

 

Heinrich Schliemann nacque a Neubuchow, in Germania, il 6 gennaio del 1822. Compì studi da autodidatta e riuscì ad impadronirsi di diverse lingue antiche e moderne. Sempre in anni giovanili lesse Omero: una lettura destinata ad avere una grande influenza sul suo futuro.

Sydney Hodges, Ritratto di H. Schliemann. Olio su tela, 1877.

 

La vita sembrava portare Schliemann lontano dagli studi: fu prima garzone di bottega, poi mozzo su un brigantino diretto in Venezuela, quindi fattorino di una ditta commerciale e contabile di un’impresa. Nel 1846 si trasferì a San Pietroburgo e dette avvio a una fiorente attività commerciale. Riuscì anzi, in breve tempo, ad arricchirsi attraverso abili speculazioni, in particolare nel corso della Guerra di Crimea (1854-1856).

Durante l’intenso e felice soggiorno pietroburghese compì un lungo viaggio negli Stati Uniti, riuscendo addirittura a prendere la cittadinanza statunitense che, in seguito, gli sarebbe tornata utile. Nel 1852 aveva sposato Katerina Lyscin.
Heinrich Schliemann era dunque un mercante affermato e stimato quando, nel 1863, liquidò la ditta e iniziò una nuova vita. Aveva 41 anni, che all’epoca non erano considerati – né erano – pochi. Gli interessi giovanili erano riaffiorati e i personaggi di Omero riempivano di nuovo le sue giornate. Decise di riportare alla luce i luoghi cantati dal poeta prestando una fede cieca ai suoi versi: sembrava un’impresa impossibile. Non lo scoraggiarono né lo scetticismo degli “addetti ai lavori”, né le perplessità dei suoi stessi amici: non si poteva abbandonare una posizione di prestigio nella vivace società pietroburghese per inseguire miraggi da adolescente. Fece tutto con la consueta caparbietà: letture intense, viaggi, anche una laurea in filosofia all’Università di Rostock. Dopo anni di ricerche, pensò di aver individuato il sito giusto. A quel punto si dette da fare per ottenere un permesso di scavo, che riuscì ad acquistare dal governo turco: nel 1871 iniziò finalmente gli scavi sulla collinetta di Hissarlik. Aveva visto giusto o era ancora lontano da quello che stava cercando? Gli sarebbero apparse le mura di Troia oppure stava cercando in un luogo sbagliato? Sarebbe riuscito a riportarle alla luce? A convincere gli altri che Troia era esistita davvero?

***

Arrivò il momento delle scoperte entusiasmanti e subito dopo l’ora delle polemiche con la scienza ufficiale. Allora Schliemann comprese, da uomo concreto quale era, che da solo non sarebbe stato in grado di continuare le indagini.

Planimetria del sito di Hissarlik (Troia), con indicazione delle varie fasi della città.

 

Gli scavi iniziarono e furono portati avanti a ritmi frenetici: Schliemann aveva al suo fianco la seconda moglie Sofia, tre collaboratori e circa 150 operai alle sue dipendenze. Il mercante divenuto archeologo voleva far presto, arrivare velocemente a una conferma – o anche a una smentita – della sua tesi. Dopo tre anni di campagne di scavo poté dare la notizia al mondo scientifico: la città di Troia era stata localizzata e quindi era esistita realmente. Il suo sogno di ragazzo, inseguito da adulto, era coronato.
Sulle ali del successo volle andare alla ricerca dei luoghi da cui erano partiti gli eroi cantati da Omero per giungere sotto le mura di Troia. Lasciò la Turchia e raggiunse la Grecia. Nel 1847 era già al lavoro a Micene. I risultati delle indagini furono subito di grande interesse: rinvenne infatti alcune tombe caratterizzate da corredi straordinariamente ricchi, in particolare di ori, nelle quali volle riconoscere le ultime dimore degli Atridi. Stava riscrivendo la sua personale Iliade.
Era ormai al centro di un interesse amplissimo, alimentato con un uso sapiente dei mezzi di comunicazione dell’epoca. Presto divenne protagonista anche del dibattito scientifico: i suoi metodi di scavo e soprattutto le sue conclusioni iniziarono ad essere criticati.
Certe sue interpretazioni, senza nulla togliere all’importanza della documentazione riportata alla luce, non potevano passare al vaglio della scienza ufficiale. Lui stesso ammise errori di valutazione: in una lettera all’archeologo italiano Giuseppe Fiorelli riconobbe con sincero rammarico di avere distrutto «tutte le costruzioni troiane che si trovano a una profondità compresa tra i 7 e i 10 metri».
I mesi esaltanti delle scoperte furono seguiti da quelli roventi delle polemiche, degli scontri, delle grane giudiziarie. Soltanto nel 1878 Heinrich Schliemann poté riprendere gli scavi sulla collinetta di Hissarlik: ripartiva da dove aveva iniziato, ma adesso era una persona più avveduta a cauta. L’entusiasmo iniziale non era venuto meno, me aveva compreso che non poteva proseguire le ricerche facendo affidamento soltanto sulle sue conoscenze e sul suo intuito: ciò che aveva riportato alla luce era troppo importante per non cercare collaborazioni e aiuto nel mondo della scienza ufficiale.

***

Bassorilievo sull’architrave della ‘Porta dei Leoni’ (dettaglio), Palazzo di Micene.

Alla stagione frenetica e gioiosa dello scavo, doveva seguire quella più fredda ma altrettanto necessaria della documentazione, dello studio e dell’interpretazione dei dati. Schliemann volle al suo fianco prima il professore berlinese Rudolf Virchow, poi l’archeologo e architetto Wilhelm Dörpfeld, direttore fino al 1912 del prestigioso Istituto Archeologico Germanico di Atene. Quest’ultimo, in particolare, noto per gli scavi magistrali condotti a Olimpia e a Tirinto, riuscì a dare un’impronta più rigorosa alle indagini.
La fama di Schliemann nella società dell’epoca non era stata intaccata dalle polemiche: nel 1881 venne nominato cittadino onorario di Berlino. Nello stesso anno diede alle stampe il volume Ilios, ricco di pagine autobiografiche nelle quali l’archeologo, ormai celebre, si lasciava andare a considerazioni e ricordi, alcuni dei quali risalenti all’infanzia. È così che conosciamo figure poco note che ebbero però un peso determinate nella vita di Schliemann, come Minna Meincke. Era figlia di un agricoltore di un villaggio vicino a quello dove viveva, da ragazzo, il futuro archeologo. Fu la sua compagna di giochi, la persona a cui di preferenza parlava di Troia e delle vicende degli eroi omerici. Ancora nel 1881, quando aveva già individuato Troia, Schliemann ricorda: «Ero destinato a realizzare i nostri progetti infantili di cinquant’anni fa soltanto nell’autunno della mia vita e senza Minna: lontano, molto lontano da lei».
I suoi interessi si estendevano ormai all’intero mondo greco e le campagne di scavo a Troia si alternavano con quelle in Grecia, dove non mancarono nuovi successi: il rinvenimento di una grande tomba a cupola, nota come Tesoro di Minia, a Orcomeno in Beozia (1880-81) e la scoperta del palazzo di Tirinto (1884). Fu anche a Creta nel 1886, compiendovi un sopralluogo approfondito, e nel 1890 era di nuovo a Troia.
La morte lo colse a Napoli, in attesa di tornare ad Atene e mentre aveva in animo di iniziare nuove ricerche.

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Maschera di Agamennone. Lamina d’oro, XVI sec. a.C., dalla Tomba V, Micene.

Quale giudizio va dato, a più di cent’anni dalla morte, sull’opera di Heinrich Schliemann? La scienza ufficiale, o almeno una parte di essa, non accettò i suoi metodi d’indagine e il peso di questa valutazione ha influenzato il giudizio successivo.
Motivo per il quale ne sono stati messi in evidenza i limiti culturali dovuti a una preparazione da autodidatta, le speculazioni, gli atteggiamenti spregiudicati, gli scavi non accurati e finalizzati solo a riportare alla luce in breve tempo strutture e reperti di particolare valore storico-artistico trascurando altri meno spettacolari, ma altrettanto significativi sul piano storico.
In queste critiche, non possiamo negarlo, vi è una parte di verità: lo stesso Schliemann mostra di esserne stato consapevole. Ed è vero – come ha notato Antonio Giuliano – che in lui: «L’antichità classica non divenne mai cultura operante, non condizionò la ricerca di una maturità morale, fu solo curiosità, mondanità, spesso spunto di arrivismo».
Ma non dobbiamo dimenticare gli anni in cui egli operò, quando scelte per noi assolutamente non condivisibili erano considerate “normali”: quanti fra gli archeologi ufficiali dell’epoca scavavano secondo i metodi oggi seguiti, o che almeno vi si avvicinavano?
Quanti studiosi furono esenti da compromessi con il mondo politico coloniale, o lontani dalle speculazioni del mercato dell’arte che stava divenendo sempre più ampio e aggressivo? Schliemann fu un archeologo sul campo, che studiò le antichità non solo fra le pareti di un museo o di una biblioteca, ma vicino ai monumenti stessi e in diretto contatto con i materiali, e in questo è più attuale di tanti suoi illustri contemporanei. Un altro elemento di modernità della sua figura può essere riscontrato nella grande attenzione prestata alla divulgazione delle proprie scoperte, nell’alta considerazione che dimostrò per i media dell’epoca, nelle spiccate capacità manageriali: tutte doti che oggi vengono richieste in maniera sempre più pressante a un archeologo. Si tratta di considerazioni che vanno tenute presenti nel giudizio complessivo, ma occorre ricordare che per Schliemann fu sufficiente, con ogni probabilità, realizzare il suo sogno di ragazzo: riportare alla luce i luoghi che avevano visto le gesta degli eroi omerici.

La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 64-72.

 

È dalla fine del XIII secolo, fino alla metà circa del secolo successivo, che il mondo miceneo (quello che è preferibile considerare l’insieme dei regni micenei piuttosto che un impero unitario) conosce innegabili segni di declino. I fatti archeologicamente più evidenti sono le distruzioni dei palazzi di Micene, di Tirinto, di Pilo alla fine del Miceneo IIIB (1300-1200 a.C.). Già il fatto che esista un periodo Miceneo IIIC (1200-1050 a.C.) significa comunque che a queste distruzioni non si accompagna una scomparsa repentina della civiltà (e perciò verosimilmente della popolazione) micenea: la ceramica, e il livello di vita del IIIC, si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente o esclusivamente ad un cambiamento di popolazione.

Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometricco, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico. Musée du Louvre.
Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometrico, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico (Atene). Paris, Musée du Louvre.

Le distruzioni dei palazzi, prese per sé, possono avere le cause più diverse. Cause naturali (terremoti disastrosi, accompagnati da incendi) sono da chiamare in causa certamente per Tirinto e forse anche per Pilo e Micene. Ma in quest’ultimo caso gli incendi potrebbero essere anche opera umana, cioè di invasori o/e distruttori. Distruzioni conseguenti a ribellioni interne non sono da escludere, benché questo presupponga una vasta diffusione del moto di ribellione, una sua lata sincronicità, una sua radicale efficacia nel produrre rivolgimenti socio-politici, che non è facile ammettere nelle condizioni del mondo antico, e che difficilmente avrebbe mancato di lasciare una qualche traccia nella stessa tradizione greca.

La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: sono i Dori nel Peloponneso, sono i Tessali in Tessaglia, e fra questi popoli sono anche talora ammessi stretti rapporti[1]. E tuttavia è facile osservare come, nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (in Argolide, in Messenia e nella stessa Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione con i popoli precedenti.

A questa tradizione gli storici in prima istanza e poi, sulla loro scorta, gli archeologi, hanno contrapposto la difficoltà di dare l’attributo “dorico” a specifici oggetti o monumenti, appartenenti all’epoca in cui l’invasione dorica del Peloponneso dovrebbe aver avuto luogo (nella tradizione cronografica ellenistica, il 1104 a.C., ottant’anni dopo la fine della guerra di Troia)[2].

Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.
Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.

Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. La verità è che la stessa tradizione greca stenta a ricollegare determinate distruzioni del II millennio con il nome dei Dori: fatta la tara delle azioni violente inevitabilmente legate ai processi della conquista, si può dire che i Dori non appaiano (e a ben ragione) nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori (le mura antichissime di città doriche vengono attribuite ai Ciclopi, non ai Dori!). La penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente (il mito del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso è un segno del voler accompagnare la memoria di una penetrazione di popolazioni dai distretti montuosi della Grecia centrale nel Peloponneso con il mito della riacquisizione da parte dei discendenti di Eracle, gli Eraclidi, di una regione che apparteneva al loro trisavolo).

Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un'anfora attica a figure nere (Lato A), dall'Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), dall’Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Ma non soltanto i Dori non appaiono nella tradizione come autori di spietate e radicali distruzioni e di stermini indiscriminati; c’è anche, positivamente, traccia di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea già alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide. Del palazzo di Pilo sarebbe stato distruttore Eracle, trisavolo dei mitici capi della conquista dorica (Temeno, Cresfonte e i figli del loro fratello Aristodemo, cioè Euristene e Procle). Nella generazione successiva ad Eracle avrebbe luogo la guerra di Troia (1194-1184 per Eratostene e per Apollodoro: ma la tradizione conosce date più alte, fino al 1340 circa per Duride e Timeo, un millennio prima della nuova spedizione “greca” contro l’Asia, quella di Alessandro Magno contro i Persiani; altri autori assumono date intermedie). Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei principi achei reduci da Troia. Sarà forse la proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come semplice fatto naturale e necessario, un dato di semplice routine dell’esistenza): sta di fatto che quella dei Greci sui Troiani è una strana vittoria, e l’épos che la celebra, e il complesso dei riecheggiamenti letterari, non hanno nulla di una trionfalistica celebrazione. Al racconto epico della guerra di Troia si accompagna tutta una memoria di fatti di contorno, che parla di nóstoi, di ritorni degli eroi, accompagnati da lutti, seguiti da dissidi, da esili, da profonde convulsioni del mondo dei regni micenei, di cui è primo e validissimo interprete proprio lo storico Tucidide (I, 10 ss.): e tutto questo è di circa tre generazioni anteriore all’epoca della presunta invasione dorica del Peloponneso.

Una teoria dei due tempi (o di più tempi) nel declino del mondo miceneo si impone dall’interno stesso della tradizione greca, ed è naturale che vi siano oggi storici ed archeologi che, più o meno consapevolmente, riproducono questo plausibile modello di svolgimento degli eventi. A una prima crisi interna al mondo miceneo succede una progressiva trasformazione, in alcune aree vitali del mondo greco (Peloponneso, Tessaglia, Creta, Sporadi meridionali e altre isole), delle condizioni di popolamento. Vi si accompagna anche un rapporto diverso col territorio, che, prima oggetto del dominio di signori dell’epoca micenea, di una società a vertice palaziale, diventa proprietà di tribù di invasori, organizzate in una forma molto meno gerarchica e verticistica. Le fertili pianure, un tempo dominate dai palazzi, diventano ora l’oggetto della spartizione delle nuove tribù. I nuovi centri politici sono più immediatamente correlati ai territori coltivabili (ciò vale per Argo in Argolide, per Steniclaro e vari centri della Messenia orientale, per Gortina rispetto a Festo, a Creta, per Larissa e altre città rispetto a Iolco in Tessaglia, ecc.). è solo un’ipotesi, che le nuove popolazioni praticassero un’economia di tipo pastorale, e che avessero un atteggiamento negativo nei confronti dell’agricoltura, che si manifesterebbe proprio nell’adozione di forme di proprietà collettiva o comunque nel rifiuto dell’esercizio dell’agricoltura, affidato al lavoro di popolazioni asservite[3]. Forse l’atteggiamento di fondo dei Dori verso l’agricoltura è più positivo di quel che questo schema consente di ammettere, e proprio il declino demografico delle ultime età micenee può aver attirato nuovi coltivatori; certamente i rapporti di proprietà della terra sono ben diversi da quelli di epoca palaziale, perché altri (cioè molti di più e in forma diversa) sono ormai i titolari della proprietà. L’adozione del modulo della servitù rurale è forse soltanto un adattamento delle possibilità di “dipendenza” che la vecchia, obliterata struttura socio-economica in se stessa portava (non tanto il frutto di un’originaria avversione per l’esercizio dell’agricoltura come attività produttiva).

Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Milano 2010, p. 68
Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, p. 68.

Ma com’è da immaginare il primo tempo del declino miceneo? Le stesse cause interne di conflitti sociali tra strati diversi della popolazione, o tra il sovrano e un’embrionale aristocrazia, potrebbero essere state accompagnate dall’irrompere di fattori distruttivi esterni, che non sarebbero però ancora i Dori, benché quei fattori possano aver preparato, anche dal punto di vista della creazione di zone di richiamo per movimenti di popoli, l’invasione dorica dei regni micenei. In generale gli storici fanno allora riferimento ai Popoli del Mare, di cui testi egiziani dalla metà del XIII agli inizi del XII secolo a.C. attestano la presenza, i movimenti, l’attività turbolenta, che appoggia tentativi d’invasione da parte libica, ma poi sconvolge soprattutto l’Oriente anatolico e siro-palestinese, per arrestarsi contro il muro della resistenza dei faraoni egiziani (Ramses II, Merneptah, Ramses III). Vero è che i Popoli del Mare, secondo alcuni, comprendono gli stessi Micenei, e quindi le egittocentriche e trionfalistiche rappresentazioni egiziane potrebbero significare movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività distruttiva.

Ma dal XIII secolo le regioni del Mediterraneo orientale conoscono modificazioni, nelle condizioni del popolamento e nella distribuzione e organizzazione del potere, che potrebbero essere in rapporto con le stesse trasformazioni interne al mondo miceneo, trasformazioni che abbiamo visto essere riflesso di crescita del mondo miceneo da un lato, ma anche espressione di inquietudini interne, di bisogni cui non corrispondono le risorse, dall’altro: un singolare intreccio di aspetti positivi e di fattori negativi e di declino. Particolarmente suggestiva, in questo senso, la coincidenza tra le tradizioni e i dati archeologici relativi alla miceneizzazione di Cipro. Frequentazioni di mercanti e artigiani risaliranno già al XIV secolo, ma è solo dall’ultimo trentennio del XIII secolo, quando cioè sta già passando il momento della fioritura dei palazzi e dei regni micenei, che a Cipro si comincia a registrare una presenza stabile e si potrà parlare di insediamenti micenei (a Enkomi, a Kition, e così via di seguito). Ne risulterà una civiltà micenea molto mescolata di elementi propri delle culture del Vicino Oriente, ma prima di quella data questi ultimi sono del tutto dominanti. Ebbene, la tradizioni concepisce la migrazione degli Achei a Cipro, con la conseguente fondazione di Salamina sulla costa orientale dell’isola (non lontano da Enkomi), come un fenomeno tardivo dell’espansione achea, un contraccolpo di fatti luttuosi che accompagnano il rientro dei due figli di Telamone, Aiace e Teucro, dalla guerra di Troia, e come opera dell’esule Teucro.

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre
Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’epoca che la tradizione letteraria connette con l’arrivo dei Dori nel Peloponneso e nelle isole dell’Egeo è dunque obiettivamente contrassegnata da trasformazioni notevoli, archeologicamente documentate. Tuttavia sarebbe indimostrabile e forse anche improbabile considerare queste novità culturali come il portato di un nuovo popolo. Ad una connessione così rigida e meccanica si potrebbero muovere molte obiezioni. Ci sono trasformazioni che investono non solo l’area dorica, ma anche, e prima che quella dorica, altre aree che, pur se toccate dal movimento dei Dori, non ne furono il principale teatro né la destinazione definitiva (ciò vale, ad esempio, per la ceramica proto-geometrica che ha la sua prima diffusione in Attica, anche se investe regioni doriche come l’Argolide e altre ancora; ciò vale anche per il rituale funerario dell’incinerazione). L’uso delle tombe a cista non appare così innovativo, come un tempo si è sostenuto, rispetto all’epoca micenea. I fatti di continuità tra miceneo, sub-miceneo e geometrico sono verificabili sia in Argolide sia a Creta. Viceversa la fine dei palazzi riguarda, oltre le aree poi dorizzate, anche la stessa Attica.

C’è un grande mutamento nell’area mediterranea, a cominciare dalle sue regioni orientali, che riguarda l’uso dei metalli, di particolare, ma non esclusiva, destinazione militare: il cambiamento segna anche, dall’Età del Bronzo a quella del Ferro. Ciò presuppone da un lato, e produce dall’altro, cambiamenti di ordine economico e di civiltà in genere, e cambiamenti di ordine socio-politico; vi sono collegate innovazioni nelle linee di comunicazione, di scambio, di traffico. Entrano così in gioco, in un più stretto rapporto col mondo greco, quelle regioni dell’Anatolia orientale e dell’entroterra siro-anatolico, ove si estrae e da cui s’importa il ferro.

La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142
La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142.

Ma la maggiore disponibilità naturale di tale metallo significa anche un ruolo diverso, nella società, dei possessori e degli artigiani di quel metallo: la scarsità stessa del rame aveva assegnato ai suoi possessori e artigiani una posizione particolare nelle società palaziali, che ci sono note attraverso le tavolette che ne registrano la contabilità. Inoltre, la stessa possibilità di un uso più ampiamente diffuso di armi nel nuovo metallo si accompagna a una nuova organizzazione militare. Furono i Dori portatori della cultura che fa uso del nuovo metallo, o di nuovi tipi di armi? Questa sembra una connessione troppo schematica, rispondente ad una positivistica equazione tra popoli e armi o oggetti, insomma tra soggetti ed oggetti storici. Certamente, nella storia dei secoli oscuri delle città che in piena luce di storia figureranno come doriche saranno da ammettere novità di ordine sociale e politico, connesse con le istituzioni che i Dori portarono, o si diedero, nella conquista; a queste novità socio-politiche si adattano innovazioni che sono della tecnica metallurgica, della organizzazione e tattica militare, del rituale funerario, delle espressioni artistiche, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori né i soli fruitori. In comune, sul piano socio-politico, c’è una diffusione di valori collettivi, di espressioni di massa, di tendenze ugualitarie, tutte cose da intendere non come momento di democrazia, che sarebbe gravissimo anacronismo, ma come riflesso di un crollo di precedenti forme di potere, più accentrato, di tipo monarchico e palaziale.

 

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Note

 

[1] Per la tradizione sulla provenienza dei Tessali dalla Tesprozia, cfr. Hdt. VII 176; Sordi M., La lega tessala fino ad Alessandro Magno, Roma 1958, 1-3; per i collegamenti con le Sporadi meridionali e in part. con Cos, v. Il. II 676 ss., e autori ellenistici (Apollodoro, Filita, Teocrito, Dosiade, Diodoro); cfr. Sordi M., op. cit., 3 ss. Sul problema, v. Musti D., Le origini dei Greci: Dori e mondo egeo, Torino 19912, 57-59.

[2] Cfr. per la cronologia della guerra di Troia e del “ritorno degli Eraclidi”, Apollod. FGrHist. 244 F 61-62.

[3] Cfr. Kirsten E., Gebirgshirtentum und Seßhaftigkeit – Die Bebeutung der Dark Ages für die griechische Staatenwelt: Doris und Sparta, in Deger-Jalkotzy S. (Hg.), Griechenland, die Ägäis und die Levante während der „Dark Ages“ vom 12. bis zum 9. Jh. v. Chr. Akten des Symposions von Stift Zwettl (NÖ) 11.-14. Oktober 1980, Wien 1983, 355-445, per la concezione qui esposta.