Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

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Arbogaste e l’usurpazione di Eugenio (392-394)

Dopo la misteriosa morte dell’imperatore Valentiniano II (15 maggio 392), il magister militum Flavio Arbogaste si trattenne sulla frontiera renana (cfr. CIL XIII 8262; PLRE¹ 95-97): i pericoli e le minacce provenienti dalle popolazioni stanziate al di là del fiume esigevano unità di comando, energia e rapidità. D’altra parte, sospettato di aver eliminato il sovrano e in ragione delle sue origini franche, Arbogaste non aveva alcuna intenzione di sostituirsi al defunto Valentiniano, assumendo il titolo di Augustus. Al contrario, il magister chiese ufficialmente di mantenere la propria posizione di difensore del limes renano, giurando fedeltà agli Augusti Teodosio e Arcadio. Ma Teodosio rifiutò l’offerta di Arbogaste, rispettando le ultime volontà di Valentiniano II che lo aveva destituito (Ioh. Antioch. F 187 Müller). Anzi, come prima misura colpì l’aristocrazia pagana di Roma, togliendo a Virio Nicomaco Flaviano l’incarico di praefectus praetorio per Italiam (PLRE¹ 348): a Teodosio e al suo entourage era ben evidente la manovra di avvicinamento tra diversi gruppi di potere che stava avvenendo in Occidente, al punto che, con il favore della comune fede negli antichi dèi, la nobiltà italica aveva avviato ottime relazioni con il condottiero franco. Nei mesi successivi, quindi, Arbogaste ideò una strategia diversa, alternativa a ogni possibile intesa con Teodosio: rotto ogni indugio, il 22 agosto 392 il magister proclamò Augusto il magister scrinii Flavio Eugenio, in precedenza docente di grammatica e retorica (Socr. HE. V 25, 1; Soz. HE. VII 22, 4; Zos. IV 54; Oros. VII 35, 11; PLRE¹ 293). Si trattava di un personaggio di medio rango che tuttavia, nelle intenzioni di Arbogaste, poteva diventare il mediatore tra il suo potere militare sul Reno e l’aristocrazia tradizionale, che al nuovo imperatore doveva fornire i vertici dell’amministrazione. Eugenio, facendo sua la politica del suo generale, cercò dapprima un accordo con Teodosio e, senza muoversi dalla capitale Treviri, inviò ambascerie chiedendo il riconoscimento del proprio potere (Zos. IV 56, 3; Ambr. Epist. 57). Ricevuta una netta condanna dall’imperatore, nel 393 Eugenio decise di invadere l’Italia (Soz. HE. VII 22; Oros. VII 35, 13). A questo punto l’intesa tra Arbogaste, Eugenio, e l’élite imperiale si rivelò chiaramente: una strana alleanza tra militari romano-germanici e senatori romani tradizionalisti, destinata a ripetersi nel corso del secolo successivo. Il caso aveva riposto nelle mani di un comandante di origine barbarica la difesa del mos maiorum e della tradizione religiosa di Roma antica (cfr. Philost. HE. XI 1-2). Trasferitosi a Milano, tra la primavera del 393 e la tarda estate del 394, Eugenio restaurò il culto pagano e ordinò il ricollocamento dell’altare della Vittoria nella Curia a Roma (Paul. Mil. VAmbr. 26); Flaviano riebbe il suo posto di prefetto d’Italia e suo figlio fu elevato a praefectus Urbi (CIL VI 1782). Soprattutto, per la singolare alleanza con il franco Arbogaste, il Senato di Roma recuperò parte del proprio prestigio politico: fu l’ultimo tentativo di uscire da un’umiliante marginalità politica e religiosa, l’ultima chance per rimediare ai colpi inferti al venerando consesso dal regime imperiale fin dal III secolo.

Flavio Eugenio. Tremissis, Treveri, 392-394. AV 1,48 g. Dritto: D(ominus) N(oster) Eugeni-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra.

La notizia dell’usurpazione e dell’occupazione dell’Italia colse Teodosio a Costantinopoli. L’imperatore aveva fatto ritorno in Oriente accompagnato da un seguito di nobili gallici. Dal 391 al 394, in virtù della sua politica di unità ed ecumenicità dell’Impero, Teodosio si fece promotore di importanti avvicendamenti nelle più alte cariche civili e militari della pars Orientis, nonostante le resistenze del prefetto del pretorio locale, Flavio Eutolmio Taziano, e delle aristocrazie municipali (Zos. IV 52; Eunap. F 59 Blockley; Claud. in Ruf. 1, 244 ss.; PLRE¹ 746-747; CTh. XI 1, 23; XII 1, 131; XIV 17, 12). Alla notizia della rivolta di Arbogaste e dell’alleanza con l’élite pagana, Teodosio ribadì il proprio disconoscimento nei confronti della politica di tolleranza adottata dagli usurpatori, proibendo qualsiasi manifestazione dei culti tradizionali e criminalizzando perfino le forme simboliche e domestiche dei rituali (CTh. XVI 10, 12). Negò a Eugenio la dignità consolare, carica che spettava di diritto agli imperatori, riservandone un posto a sé e uno a un suo generale. Infine, decise di elevare alla porpora anche il proprio secondogenito, Onorio, che si trovava così a essere, virtualmente, l’erede della pars Occidentis.

Si era ormai alla resa dei conti. Mentre Eugenio, tramite Arbogaste, stipulava un foedus con i Franchi e gli Alamanni (Greg. Tur. HF II 9; Paul. Mil. VAmbr. 30), Teodosio si stava preoccupando di allestire un’armata, al cui comando supremo intendeva porre Ricomere, lo zio dell’artefice del “colpo di Stato”. Ma l’improvvisa morte del prestigioso comandante obbligò l’imperatore a rivedere i suoi piani (Zos. IV 55, 3). Soltanto nell’estate del 394, radunato un forte esercito e lasciato Arcadio (Augustus dal 383) al governo dell’Oriente, Teodosio riuscì a partire da Costantinopoli alla volta dell’Italia per ristabilire la legittimità della porzione d’Impero che intendeva lasciare a Onorio (Zos. IV 57, 4). La sua politica dell’hospitalitas nei riguardi dei Goti, accolti in Tracia dal 382, consentì all’imperatore di arruolarne circa 20.000 agli ordini di Gainas, condottiero che insieme all’alano Saulo condivideva il comando sui βάρβαρα τάγματα (i foederati); tra questi si trovava anche il giovane Alarico, forse scontento di dovere, lui che era di nobile lignaggio, dipendere da un Goto di rango inferiore. Altro comandante dell’esercito imperiale era l’iberico Bacurio, un fervente cristiano di origine caucasica, scampato alla disastrosa disfatta di Adrianopoli (378), «onesto e addestrato alla guerra» (ἔξω δὲ πάσης κακοηθείας ἀνὴρ μετὰ τοῦ καὶ τὰ πολεμικὰ πεπαιδεῦσθαι). Magister utriusque militiae fu nominato Flavio Timasio (PLRE¹ 914-915) e suo luogotenente fu il vandalo Flavio Stilicone (PLRE¹ 853-858). «Questa – conclude Zosimo – fu la selezione dei comandanti» (IV 57, 2-4, ἡ μὲν οὖν ἀρχαιρεσία τοῦτον αὐτῷ διετέθη τὸν τρόπον).

Teodosio guida il suo esercito verso l’Italia (Chaillet 2002).

L’imperatore d’Oriente, preso con sé il secondogenito, marciò lungo la Sava, valendosi della strada imperiale che collegava Sirmium all’Italia nordorientale, come aveva già fatto nel 388 per sconfiggere ad Aquileia l’usurpatore Magno Massimo; in quell’occasione Arbogaste era stato uno dei suoi più alti ufficiali, e anche allora nell’armata spiccavano cospicui contingenti barbarici. Memore di quell’esperienza, dal canto suo, il Franco aveva rinunciato a disperdere le proprie forze in avamposti lungo la via del settore illirico e, non disponendo di ingenti risorse militari, aveva preferito sbarrare il passo al nemico a ridosso delle Alpi Giulie. La scelta del percorso dovette consentire alle truppe imperiali di aggirare le montagne o di valicarle laddove i passi erano meno impervi, come l’altopiano boscoso Ad Pirum (Selva di Piro), nei pressi dell’odierna Gorizia. Subito a ovest dell’altura, si apriva una ridente pianura attraversata dal fiume Frigidus (Vipacco), affluente dell’Isonzo, delimitata a nord dallo scosceso crinale della Selva di Tarnova (Trnovski gozd), a sud da morbide colline e a sud-est dall’estrema propaggine delle Alpi, il monte Nanos.

Le difese approntate da Flaviano, che aveva provveduto a proteggere i valichi con statue di Giove, che tenevano in mano saette dorate, furono facilmente sbaragliate da Teodosio, che si batteva per l’affermazione del Cristianesimo. Tutto questo, nonostante l’ex prefetto urbano, rivestito il ruolo di augure, avesse predetto una sicura vittoria per la sua fazione, proponendosi di arruolare tutti i clerici e di tramutare in stalla la basilica della comunità di Milano (Paul. Mil. VAmbr. 31, 2). Ad Arbogaste non rimasero che i contingenti barbarici e alcuni reparti di Romani, sovrastati da labari recanti l’immagine di Ercole Vittorioso (August. De civ. D. 5, 26).

È difficile per i moderni stabilire dove le due compagini armate si fossero scontrate, il 5 e il 6 settembre 394: senz’altro sul fiume, ma a quale altezza non si può dire (Socr. HE. V 25). L’esercito teodosiano doveva essersi appostato su un’altura a nord-est del Frigidus e, nel primo pomeriggio della prima giornata, l’imperatore aveva scagliato all’assalto i 20.000 Goti, condotti da Bacurio, i quali piombarono sull’accampamento nemico, situato a valle. L’asperità del terreno mise fuori uso i carri che accompagnavano i foederati, e ben 10.000 di loro rimasero sul campo con lo stesso comandante, dimostrando la propria incrollabile fedeltà all’imperatore; il resto dell’esercito, fallito l’attacco, si ritirò in buon ordine (Zos. IV 58, 3; Rufin. HE. II 33; cfr. Oros. VII 35, 19).

Battaglia del Frigido (Amelianus 2012).

Dopo questo scacco Teodosio, consigliato dai suoi, fu tentato di battere in ritirata e di rinviare la guerra alla primavera successiva, ma infine decise di provare una nuova riscossa la mattina seguente. Durante la notte, Arbogaste aveva ordinato ad Arbizio di guidare i suoi guerrieri in una manovra che gli aveva consentito di portarsi alle spalle dei teodosiani; al campo di Eugenio, invece, il resto dell’armata dell’usurpatore, certa del successo della giornata e della vittoria ormai in pugno, aveva trascorso il tempo in una festosa gozzoviglia nel corso della quale furono distribuiti lauti donativi (Zos. IV 58, 4). Escluso da ciò, probabilmente il condottiero in avanscoperta pensò bene di defezionare e mettersi al servizio dell’imperatore. All’alba, poco dopo che Teodosio ebbe dato il segnale convenuto – il segno della croce –, una violentissima bora (magnus… et ineffabilis turbo ventorum) sollevò un’immensa nube di polvere tale da accecare i soldati di Arbogaste, impedendo loro di reggere addirittura lo scudo e di scagliare dardi senza che tornassero indietro (Oros. VII 35, 17-18). Un’altra versione vuole che si fosse verificata un’eclissi solare di tale entità che per molto tempo si pensò che fosse calata la notte (Zos. IV 58, 3). La libellistica teodosiana, naturalmente, imprime all’eccezionalità del fenomeno un significato religioso: l’Augustus aveva trascorso la notte in raccoglimento (Oros. VII 35, 14-16).

I soldati superstiti di Eugenio, una volta arresisi, consegnarono il proprio imperatore, che fu subito giustiziato, e la sua testa, «conficcata su una lunghissima asta», fu portata «in giro per tutto il campo, mostrando a quelli che gli erano ancora favorevoli che a essi conveniva – in quanto Romani – riappacificarsi con l’imperatore, essendo stato definitivamente eliminato l’usurpatore» (Zos. IV 58, 5, ἀφελόμενοι κοντῷ… μακροτάτῳ πᾶν περιέφερον τὸ στρατόπεδον, δεικνύντες τοῖς ἔτι τἀκείνου φρονοῦσιν ὡς προσήκει Ῥωμαίους ὄντας ὡς τὸν βασιλέα ταῖς γνώμαις ἐπανελθεῖν, ἐκποδὼν μάλιστα τοῦ τυράννου γεγενημένου).

Dal canto suo, Arbogaste, non ritenendo opportuno cercare la clemenza del vincitore, si diede alla macchia fra le montagne; accortosi di essere braccato, due giorni dopo la battaglia, si diede la morte gettandosi sulla spada (cfr. Claud. III cons. Hon. 102 ss.).

La rivolta era stata stroncata, la guerra civile era stata risolta. La battaglia del Frigidus assunse un potente valore simbolico nel confronto tra pagani e cristiani nell’ultimo scorcio del IV secolo. Da tutti, anche dai tradizionalisti, quello scontro fu avvertito come una sorta di ordalia, un giudizio divino che si era espresso al di sopra della volontà degli uomini. Le fonti, come si è detto, concordano sul verificarsi di eventi prodigiosi, che consentirono l’irresistibile vittoria di Teodosio: il “miracolo” decise il trionfo dei Cristiani sui culti antichi.

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24 agosto 410. Il sacco di Roma

L’episodio più famoso del complesso fenomeno delle migrazioni di popoli (Völkerwanderungen) fu il sacco di Roma a opera dei Visigoti nel 410 (Prosp. epit. Chron. 1240 a. 410, Roma a Gothis Alarico duce capta [VIIII kl. Septemb.]; Cassiod. Chron. 1185 a. 410, Roma a Gothis Halarico duce capta est, ubi clementer usi victoria sunt; Exc. Sangal. 541, Roma fracta est a Gothis Alarici VIIII kl. Septembres). Era la prima volta in ottocento anni che la città cadeva in mano ai barbari, ma, in concreto, l’avvenimento non ebbe molta importanza dal punto di vista strategico. Il saccheggio dell’Urbe suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’Impero: il valore simbolico dell’evento fu superiore alla sua portata effettiva al punto da risultare più traumatico della deposizione dell’ultimo Augustus d’Occidente (476).

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

Il sacco di Roma del 410 fu il risultato del secondo tentativo da parte del comandante visigoto Alarico di strappare all’imperatore Onorio l’autorizzazione a insediare i suoi nei territori danubiani. L’eliminazione, il 22 agosto 408, del potentissimo Stilicone aveva creato un vuoto politico e militare, di cui il Goto aveva saputo approfittato, trovandosi spianata la strada per Roma. Tra l’altro, nello stesso anno, l’armata alariciana era stata ingrossata dagli uomini dei reparti ausiliari germanici – circa 30.000 soldati, secondo Zosimo di Panopoli (V 35, 5-6) – che avevano prestato servizio sotto il defunto Stilicone, furibondi per il massacro di donne e bambini perpetrato dalle truppe imperiali a seguito dell’assassinio del “generalissimo”. Per parte sua, Alarico, che non aveva certo ambizioni di conquista in Italia, «ricordando dei patti stipulati a suo tempo con Stilicone» e la promessa di 4.000 libbre d’oro, mirava a ottenere che l’imperatore onorasse tali accordi. Così, aveva tentato di negoziare, mandando un’ambasceria a Ravenna per chiedere la pace in cambio di una modesta somma di denaro per i suoi uomini e uno scambio di ostaggi, ma Onorio aveva respinto le sue richieste (Zos. V 36, 1; cfr. Iord. Get. 30, 152). Continuando a gravare sulla Penisola la minaccia alariciana, l’imperatore, consigliato dal magister officiorum Olimpio, si era limitato a porre a capo dell’esercito uomini inetti e «adatti solo a suscitare il disprezzo dei nemici» (καταφρόνησιν ἐμποιῆσαι τοῖς πολεμίοις ἀρκοῦντας): Turpilione, Varane e Vigilanzio.

Flavio Onorio. Solidus, Ravenna post 408. AV 4,47 g. Recto: D(ominus) N(oster) Honori-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto elmato, perlato-diademato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Alarico, invece, «poiché aveva intenzione di intraprendere un’impresa tanto importante in condizioni di netta superiorità e non di semplice parità» (ἐπεὶ δὲ μεγίστοις οὕτως πράγμασιν οὐκ ἐκ τοῦ ἴσου μόνον ἀλλὰ καὶ ἐκ μείζονος ὑπεροχῆς ἐγχειρῆσαι διενοεῖτο), aveva richiamato dalla Pannonia superior suo cognato Ataulfo perché gli portasse dei rincalzi gotici e unni e quello, durante la marcia verso Roma, aveva devastato la Penisola senza incontrare resistenza (Zos. V 37, 1-3).

L’Urbe, stretta d’assedio, fu flagellata dalla carestia, poiché il blocco dell’accesso al Tevere impediva la fornitura dei viveri attraverso il porto, e dalle epidemie, perché i cadaveri non potevano essere seppelliti fuori dalle mura a causa delle truppe di Alarico che stazionavano presso le porte. Gli abitanti della città decisero di resistere nella speranza che da Ravenna giungessero aiuti (Zos. V 39, 2-3). Alla fine, i Romani decisero di mandare al nemico un’ambasceria composta dall’ex praefectus urbi Basilio e da Giovanni, già primicerius notariorum, per dichiarare che sarebbero stati disposti a combattere all’ultimo sangue. Quando Alarico, ricevuti i delegati, ascoltò le loro parole, si mise a ridere per quell’atteggiamento un po’ fanfarone – vista la situazione; allora, parlando di pace, il condottiero «diceva che non avrebbe desistito dall’assedio, se non avesse ottenuto tutto l’oro e l’argento della città e, inoltre, tutte le suppellettili che trovasse e i servi di origine barbara» (ἔλεγε γὰρ οὐκ ἄλλως ἀποστήσεσθαι τῆς πολιορκίας, εἰ μὴ τὸν χρυσὸν ἅπαντα, ὅσον ἡ πόλις ἔχει, καὶ τὸν ἄργυρον λάβοι, καὶ πρὸς τούτοις ὅσα ἐν ἐπίπλοις εὕροι κατὰ τὴν πόλιν καὶ ἔτι τοὺς βαρβάρους οἰκέτας). A uno degli ambasciatori che gli chiedeva che cosa sarebbe rimasto alla città, se mai avesse ottenuto tutto ciò, Alarico avrebbe risposto: «Le vite umane» (Zos. V 40). La popolazione di Roma, in preda alla disperazione, si rivolse allora alle divinità antiche e il prefetto della città Pompeiano, consultati alcuni Etruschi, raccomandò al vescovo Innocenzo I di non tenere conto delle cerimonie pagane fintanto che fossero celebrate in forma privata. Ma se ciò tranquillizzò in parte quei Romani che provavano ancora nostalgia verso la tradizione antica, la mossa successiva ebbe l’effetto opposto: infatti, per poter pagare quanto Alarico chiedeva, le statue d’oro e d’argento delle divinità vennero portate via dai templi. Secondo il pagano Zosimo, questo episodio rappresentò l’inizio della fine di Roma: «I Romani persero il coraggio e il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali» (ὅσα τῆς ἀνδρείας ἦν καὶ ἀρετῆς παρὰ Ῥωμαίοις ἀπέσβη, τοῦτο τῶν περὶ τὰ θεῖα καὶ τὰς πατρίους ἁγιστείας ἐσχολακότων ἐξ ἐκείνου τοῦ χρόνου προφητευσάντων, Zos. V 41, 7). Ad Alarico furono promesse «5.000 libbre d’oro, 30.000 libbre d’argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 pelli scarlatte e 3.000 libbre di pepe» (πεντακισχιλίας μὲν χρυσοῦ λίτρας, τρισμυρίας τε πρὸς ταύταις ἀργύρου, σηρικοὺς δὲ τετρακισχιλίους χιτῶνας, ἔτι δὲ κοκκοβαφῆ τρισχίλια δέρματα καὶ πέπερι σταθμὸν ἕλκον τρισχιλίων λιτρῶν, Zos. V 41, 4); dopo aver ricevuto un parte di quanto gli era dovuto, il comandante goto fece aprire le porte della città per consentire agli abitanti di rifornirsi di viveri, concedendo loro tre giorni di mercato: questa fu l’occasione per i suoi soldati di vendere alimenti a prezzi altissimi (Zos. V 42).

Alarico allora si ritirò da Roma e pose l’accampamento in Etruria, continuando comunque a inviare richieste a Ravenna: chiese tributi annuali in denaro e grano e alloggi per la sua gente in entrambe le Venetiae, in Noricum e in Dalmatia (Zos. V 48, 3). Giovio, praefectus praetorio, mandato come ambasciatore da Onorio presso Alarico per i negoziati, riferì all’imperatore che il Visigoto si sarebbe con tutta probabilità accontentato anche di meno si gli fosse stato concesso il titolo di magister utriusque militiae, già appartenuto a Stilicone, ma Onorio acconsentì ai versamenti di denaro e grano, rifiutando di concedere quella dignità. Il divieto dell’imperatore di conferire ai Goti cariche o comandi romani, sentito come un affronto, mandò Alarico su tutte le furie: egli prontamente diede ordine alla sua armata di dirigersi nuovamente su Roma (Zos. V 49). Secondo Zosimo, pur continuando a negoziare, il condottiero goto mandò «i vescovi di ciascuna città come ambasciatori, perché esortassero nel contempo l’imperatore a non permettere che la città, che regnava su gran parte della Terra da più di mille anni, fosse abbandonata alla devastazione dei barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico; accettasse piuttosto di concludere le trattative a condizioni molto moderate» (τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδεδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις, Zos. V 50, 2). Alarico, dunque, rinunciava alla sua richiesta delle regioni adriatiche in cui insediare la sua gente, accontentandosi delle due province danubiane del Noricum, territorio che – come veniva fatto notare all’imperatore – non rappresentava una grave perdita poiché era «devastato da continue incursioni e dava un modesto contributo alle casse dello Stato» (συνεχεῖς τε ὑφισταμένους ἐφόδους καὶ εὐτελῆ φόρον τῷ δημοσίῳ εἰσφέροντας, Zos. V 50, 3).

Flavio Valente o Flavio Onorio. Busto, marmo, fine IV secolo-inizi V secolo. Roma, Musei Capitolini

Quanto accadde in seguito dimostra, comunque, che Alarico continuò a manovrare politicamente anziché guidare l’esercito a Roma: minacciando di prendere la città con la forza, il condottiero goto impose ai Romani di passare dalla sua parte contro Onorio e pretese che il Senato dichiarasse il Teodoside decaduto e insediasse Prisco Attalo. Per parte sua, costui, eminente membro del venerando consiglio e già comes sacrarum largitionum, si dimostrò disponibile a collaborare con i Visigoti, convertendosi all’Arianesimo e facendosi battezzare dal vescovo Sigesaro (Zos. VI 6-7; Sozom. HE. IX 9). Tuttavia, le trattative diplomatiche si conclusero con un nulla di fatto: Onorio, alla fine, temendo di perdere la porpora, offrì di condividere con Attalo la carica imperiale, ma Attalo non accettò; allora, l’Augustus rispose dando ordine a Eracliano, comes Africae, di bloccare le forniture di grano all’Italia; quando poi l’usurpatore, sollecitato da Alarico a inviare contingenti in Africa, oppose il proprio rifiuto, i Goti lo deposero (Zos. VI 11-12). Alarico tentò ancora di negoziare con Onorio ma, attaccato dalle truppe imperiali, decise infine di tornare indietro e di completare il sacco di Roma. Lo storico Zosimo, che era pagano, attribuisce a Onorio e ai suoi consiglieri tutte le colpe di quanto accadde in seguito: «A tal punto era cieca la mente di coloro che amministravano lo Stato, privati della provvidenza divina» (τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων, Zos. V 51, 2).

Prisco Attalo. Siliqua, Roma, 409-410. AR 2,32 g. Recto: Priscus Attalus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra

Il 24 agosto 410, dopo una pressione esercitata per almeno un paio d’anni, ebbe inizio il vero e proprio sacco di Roma, che si protrasse per tre giorni. Secondo alcuni storici, Alarico sarebbe riuscito a entrare a Roma con l’aiuto di certi servi goti che si trovavano in città (cfr. Procop. Vand. I 2, 13-23). L’eco delle devastazioni e delle atrocità commesse in quella circostanza dai soldati alariciani si diffuse immediatamente per ogni dove, trasmessa e amplificata nei toni più drammatici da quanti, superstiti e in fuga, avevano assistito allo scempio. Un secolo più tardi Procopio di Cesarea raccontò che quando Onorio, al sicuro nel suo palazzo, fu informato della morte di Roma sarebbe scoppiato in lacrime e lamenti, ma si sarebbe tranquillizzato allorché gli fu spiegato che si trattava della città di Roma e non di Roma, il suo gallo prediletto:

«Si narra che, a Ravenna, fu un eunuco – a quanto pare un guardiano del pollaio – ad annunciare all’imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: “Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!”. Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L’eunuco, capito l’equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cedere per opera di Alarico, e allora l’imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: “Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!”. Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore».

τότε λέγουσιν ἐν Ῥαβέννῃ Ὁνωρίῳ τῷ βασιλεῖ τῶν τινα εὐνούχων δηλονότι ὀρνιθοκόμον ἀγγεῖλαι ὅτι δὴ Ῥώμη ἀπόλωλε. καὶ τὸν ἀναβοήσαντα φάναι “Καίτοι ἔναγχος ἐδήδοκεν ἐκ χειρῶν τῶν ἐμῶν”. εἶναι γάρ οἱ ἀλεκτρυόνα ὑπερμεγέθη, Ῥώμην ὄνομα, καὶ τὸν μὲν εὐνοῦχον ξυνέντα τοῦ λόγου εἰπεῖν Ῥώμην τὴν πόλιν πρὸς Ἀλαρίχου ἀπολωλέναι, ἀνενεγκόντα δὲ τὸν βασιλέα ὑπολαβεῖν “Ἀλλ’ ἔγωγε, ὦ ἑταῖρε, Ῥώμην μοι ἀπολωλέναι τὴν ὄρνιν ᾠήθην”. τοσαύτῃ ἀμαθίᾳ τὸν βασιλέα τοῦτον ἔχεσθαι λέγουσι.

(Procop. Vand. I 2, 25-26)

John William Waterhouse, I favoriti dell’imperatore Onorio. Olio su tela, 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Una reazione più normale ebbe invece Sofronio Eusebio Girolamo, il quale si trovava a Betlemme, quando, nella lettera alla sua discepola Principia (Hier. Ep. VI 127, 12), le riferì di una terribile notizia giunta da Occidente. Si venne a sapere che Roma era assediata e che i suoi abitanti stavano comprando la propria salvezza con l’oro:

«Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. “La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata”: anzi, cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. “Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura”. “O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca”.

“Come ridire la strage, i lutti di quella notte? / Chi può la rovina adeguare col pianto? / Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo: / un gran numero di cadaveri erano sparsi / per le strade e anche nelle case. /Era l’immagine moltiplicata della morte”».

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius [Is. 15, 1]. Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret [Psalm. 79, 1-3].

Quis cladem illius noctis, quis funera fando / explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem? / Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos; / plurima, perque uias sparguntur inertia passim / corpora, perque domos, et plurima mortis imago” [Verg. Aen. II 361-365].

Il fatto che Roma, in quel frangente, fosse stata violata e fosse rimasta inerme alla mercé di un’orda barbarica per più giorni scatenò una violenta polemica tra i cristiani e i pagani: questi ultimi non mancarono di far notare come la Roma della tradizione, protetta dagli dèi, avesse saputo non solo preservarsi per secoli dalla violenza delle externae gentes, ma anche espandersi fino a creare un impero di straordinarie dimensioni e vigore, mentre ora i sepolcri degli apostoli di Cristo non avevano saputo tutelarla dalle spade di Alarico e dei suoi.

Evariste-Vital Luminais, Il sacco di Roma.

Il De civitate Dei, che Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, iniziò nel 413, fu un’altra risposta diretta tanto a quell’evento traumatico quanto alla polemica degli intellettuali: egli doveva dimostrare ai pagani che la devastazione della città non era una conseguenza dell’abbandono degli dèi, ma allo stesso tempo doveva anche rassicurare i cristiani incapaci di comprendere perché le sofferenze ricadessero pure su di loro. L’opera del prelato africano è pressoché contemporanea agli eventi narrati e non minimizza le violenze perpetrate: le donne furono violentate; così tanta gente fu ammazzata che i cadaveri giacevano dappertutto senza sepoltura; moltissimi furono fatti prigionieri (August. De civ. D. I 12, 1; 16). In Agostino, come in altri pensatori cristiani, il commento dei fatti del 410 trascendeva però i termini della polemica spicciola con i pagani circa l’«efficacia difensiva» delle rispettive divinità, per aprirsi a una riflessione più ampia sulla Storia e sulla ragione stessa dell’Impero cristiano. La sua grande opera era tesa a ricondurre tutto entro una visione provvidenzialistica della Storia, diretta all’avvento della «città di Dio», estranea a quella terrena; in questa chiave ogni accadimento storico, compreso il saccheggio alariciano, trovava una giustificazione negli imperscrutabili disegni celesti.

Raffaello Sanzio, Incendio di Borgo. Dettaglio con il quadriportico con dietro la facciata dell’antica basilica di San Pietro. Affresco, 1514. Città del Vaticano, Stanze Vaticane.

Gli scrittori cristiani posteriori sentirono l’esigenza di ridimensionare la barbarie dei Visigoti, e ne sottolinearono invece la pietas: sebbene fossero ariani, essi avevano dimostrato maggiore rispetto verso Dio e i luoghi consacrati di quanto non avessero fatto gli stessi Romani, sia cattolici sia pagani (cfr. Iord. Get. 30, 156). Anzi, negli Historiarum adversus paganos libri VII di Paolo Orosio Alarico diventava un mero strumento dell’indignazione divina per castigare i Romani dei loro comportamenti superbi, lascivi e blasfemi. Il condottiero barbaro, per esempio, avrebbe dato ordine ai suoi uomini di non violare i sacrari delle basiliche di San Pietro e di San Paolo, dove molti cittadini avevano cercato rifugio (Oros. VII 39, 1); una donna aveva lottato contro un guerriero che la voleva stuprare e lo aveva provocato fino quasi al punto di farsi uccidere, ma il violentatore avrebbe ceduto alla compassione e l’avrebbe accompagnata al sicuro nella basilica di San Pietro (Sozom. HE. IX 10); un altro soldato sarebbe entrato nella casa di pie donne esigendo oro e argento, gli sarebbero stati mostrati dei vasi liturgici appartenenti a San Pietro ed egli li avrebbe consegnati ad Alarico; questi, poi, li avrebbe fatti rispettosamente riportare nella basilica (Oros. VII 39, 3-7). Se si deve credere a Orosio, infine, Alarico avrebbe addirittura organizzato una stupenda cerimonia per simboleggiare l’unione dei popoli in Cristo: la pia processione si sarebbe svolta tra due file di spade sguainate e gli abitanti della città e gli invasori, insieme, avrebbero elevato un inno a Dio (Oros. VII 39, 8-9). L’interpretazione del presbitero spagnolo si preoccupava non tanto di ridimensionare l’accaduto, quanto di inserirlo in una visione complessiva, capace di spiegare gli eventi storici attribuendoli comunque alla volontà divina, ricomponendo il trauma e superando quindi l’immediato sconforto.

Alarico. Illustrazione di P. Kruklidis.

Questa visione del sacco di Roma è probabilmente frutto più della retorica sul nobile barbaro che della realtà storica. Un esempio analogo di retorica lo ritroviamo nel V secolo, negli scritti di Salviano di Marsiglia (Salvian. De gubern. D. VII). In base alle tante prove conservate possiamo affermare che i tre giorni di saccheggio non ebbero un impatto meramente psicologico. Anche Orosio ammette che nel 417 a Roma si potevano ancora vedere edifici distrutti dall’incendio, sebbene si affretti ad aggiungere che i fulmini (segno evidente della disapprovazione divina) avevano appiccato più incendi di quanto non avessero fatto i Goti. La casa dello storico Sallustio era ancora mezza distrutta alla metà del VI secolo, stando a quanto ci riferisce Procopio (Procop. Vand. I 2, 24). Fra il 430 e il 440 l’imperatore Valentiniano III finanziò il ripristino di un fastigium d’argento (una struttura a forma di baldacchino a coronamento di un altare) – che si dice pesasse 1.610 libbre –, che i barbari avevano sottratto dalla basilica costantiniana del Laterano (Lib. pont. 46, fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat, qui habet pens. libras ĪDCX).

Non ci furono soltanto danni materiali, ma anche forti ripercussioni sociali. Molti vennero fatti prigionieri dai Goti, inclusi uomini di Chiesa e la stessa Galla Placidia, sorellastra di Onorio. In tanti abbandonarono le loro proprietà e fuggirono da Roma e, quando i Goti si spostarono a sud dell’Urbe, lasciarono addirittura l’Italia. Lo studioso biblico Tirannio Rufino di Aquileia, con l’egocentrismo e la monomaniacalità tipica del vero erudito, nel Prologus alle Omelie sui Numeri di Origene, protestò seccato: «E infatti alla nostra vista, come infatti tu stesso puoi vedere, il barbaro, che appiccava fiamme alla città di Reggio, era tenuto lontano da noi dal solo brevissimo stretto, dove il suolo d’Italia si divide da quello di Sicilia. Ebbene, in queste condizioni, come posso trovare la tranquillità di mente necessaria per scrivere e soprattutto per tradurre?» (In conspectu etenim, ut videbas etiam ipse, nostro Barbarus, qui Regino oppido miscebat incendia, angustissimo a nobis freto, ubi Italiae solum Siculo dirimitur, arcebatur. In his ergo posito, quae esse ad scribendum securitas potuit, et praecipue ad interpretandum, ubi non ita proprios expedire sensus, ut alienos aptare proponitur?, Ruf. prol. ad Orig. in num. Homil., PG XII, pp. 583-586).

Leonardo da Vinci, San Girolamo penitente. Olio su pannello, 1480. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, Gerolamo, acerrimo nemico di Rufino, dovette interrompere i suoi monumentali Commentarii in Ezechielem prophetam, distratto dall’arrivo della notizia del sacco di Roma. Il biblista non riusciva a nascondere il proprio incredulo sgomento di fronte al quadro sconsolante al quale gli toccava di assistere. Proprio nella prefazione al III libro dei Commentarii egli si chiedeva con angoscia: «Chi potrebbe credere che sarebbe crollata Roma, costruita per i conquistatori del mondo intero, che essa stessa sarebbe diventata per i suoi popoli madre e sepolcro, che un tempo fu signora di tutti quanti i lidi d’Oriente, d’Egitto e d’Africa, li avrebbe riempiti di una massa di servi e di serve, che la santa Betlemme avrebbe accolto ogni giorno mendicanti, che, un tempo nobili di entrambi i sessi e assai ricchi, giungono a fiumi?» (Quis crederet ut totius orbis exstructa victoriis Roma corrueret, ut ipsa suis populis et mater fieret et sepulcrum, ut tota Orientis, Aegypti, Africae littora olim dominatricis urbis, servorum et ancillarum numero complerentur, ut quotidie sancta Bethleem, nobiles quondam utriusque sexus, atque omnibus divitiis affluentes, susciperet mendicantes?, Hier. in Ezechiel. III praef. 2).

Agostino di Ippona. Affresco, c. VI secolo. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Agostino non si dimostrò altrettanto comprensivo quando i profughi giunsero a Cartagine, e rimarcò che, nonostante tutto il mondo fosse in lutto per il loro tragico destino, non facevano altro che andarsene a teatro e divertirsi: «Questa pestilenza accecò le anime dei miseri in modo tanto tenebroso, le macchiò in modo tanto infame, che, una volta distrutta Roma – e forse sarà incredibile per i posteri! –, quelli che ne erano posseduti e riuscirono con la fuga a raggiungere Cartagine, impazzivano a gara ogni giorno, nei teatri, dietro gli istrioni. O menti dementi! È tanto grande questo errore – o piuttosto questo furore – che, mentre i popoli d’Oriente piangono la vostra fine e le città più grandi e lontane manifestano lutto e afflizione, voi cercate, frequentate, riempite i teatri e fate pazzie maggiori di prima?» (quae [pestilentia] animos miserorum tantis obcaecavit tenebris, tanta deformitate foedavit, ut etiam modo – quod incredibile forsitan erit, si a nostris posteris audietur – Romana Urbe vastata, quos pestilentia ista possedit atque inde fugientes Carthaginem pervenire potuerunt, in theatris cotidie certatim pro histrionibus insanirent. O mentes amentes! quis est hic tantus non error, sed furor, ut exitium vestrum, sicut audivimus, plangentibus orientalibus populis et maximis civitatibus in remotissimis terris publicum luctum maeroremque ducentibus vos theatra quaereretis intraretis impleretis et multo insaniora quam fuerant antea faceretis?, August. De civ. D. I 32-33).

Per Procopio, che scriveva nel VI secolo, le gravi conseguenze del sacco perpetrato dai Goti non si fecero sentire soltanto sulla città di Roma, ma su gran parte dell’Italia: «Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l’arco di una porta o qualcosa del genere, rimasto in piedi per caso. Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia vecchi sia giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l’Italia si trova a essere scarsamente popolata». (πόλεις τε γάρ, ὅσας εἷλον, οὕτω κατειργάσαντο ὥστε οὐδὲν εἰς ἐμὲ αὐταῖς ἀπολέλειπται γνώρισμα, ἄλλως τε καὶ ἐντὸς τοῦ Ἰονίου κόλπου, πλήν γε δὴ ὅτι πύργον ἕνα ἢ πύλην μίαν ἤ τι τοιοῦτο αὐταῖς περιεῖναι ξυνέβη· τούς τε ἀνθρώπους ἅπαντας ἔκτεινον, ὅσοι ἐγένοντο ἐν ποσίν, ὁμοίως μὲν πρεσβύτας, ὁμοίως δὲ νέους, οὔτε γυναικῶν οὔτε παίδων φειδόμενοι. ὅθεν εἰς ἔτι καὶ νῦν ὀλιγάνθρωπον τὴν Ἰταλίαν ξυμβαίνει εἶναι, Procop. Vand. I 2, 11-12).

Ricostruzione di un guerriero visigoto. Illustrazione di A. Gagelmann.

Ciò sembra essere confermato da quanto Rutilio Namaziano scrive nel poema che narra il viaggio da lui intrapreso nel 416 per tornare da Roma a casa sua in Gallia. Egli fu costretto a prendere il mare in quanto il viaggio via terra, lungo l’Aurelia, non era più sicuro perché i ponti erano stati distrutti dai Goti, le stazioni di posta (cursus publicus) non erano più garantite, e lungo la strada si poteva incappare in bande di predoni e mercenari allo sbando: «Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sulle alture sono aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti: è meglio affidare le vele al mare, benché incerto» (Electum pelagus, quoniam terrena viarum / plana madent fluviis, cautibus alta rigent. / Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense vel igne manus / non silvas domibus, non flumina ponte cohercet, / incerto satius credere vela mari, Rutil. Namat. 37-42).

Hubert Robert, Acquedotto in rovina.

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