Iʙʏᴄ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S151 = fr. 1 P., 1-44 (P. Oxy. 1790+2081f) – L’Ode a Policrate

“… e quelli che[1] di Priamo Dardanide[2] la grande cittadella illustrissima opulenta distrussero, scagliandosi da Argo[3], secondo il volere del grande Zeus[4], per l’aspetto di Elena bionda, con lotta da molti cantata[5], nella lacrimevole guerra[6]. Salì la martoriata Pergamo la rovina[7], per via di Cipride dai capelli d’oro.

Ora, io però né Paride traditore degli ospiti desidero cantare e nemmeno Cassandra dalle lunghe caviglie e gli altri figliuoli di Priamo, e di Troia dagli alti portali il dì predace a cui non si dà nome[8], … il valore superbo degli eroi, e coloro che le concave, ben chiodate navi condussero a Troia, sventura, eroi prodi; ne era il signore Agamennone Plistenide al comando, re condottiero d’uomini[9], figlio della famiglia di Atreo prode. Son cose che le Muse istruite saprebbero ben passare in racconto, le figlie di Elicone[10]; ma non può dire un uomo mortale, pur vivo (…) i dettagli, quanto grande fu il numero di navi che da Aulide[11] per il mar Egeo, a partire da Argo, arrivarono a Troia che nutre i cavalli, coi forti figli degli Achei, dal bronzeo scudo; tra loro il migliore di lancia… il piè veloce Achille e il grande Telamonio[12] Aiace ardimentoso…; … il più bello da Argo… Cianippo verso Ilio… intrecciata d’oro Illide[13] generò, al quale, invero, Troilo, come l’oro tre volte bollito all’oricalco, ormai i Troiani e i Danai per forma amabile rassomigliavano. Con loro per sempre anche tu di bellezza, o Policrate, fama immortale avrai, come anche la mia fama, per il canto”.

𝐾𝑜𝑢𝑟𝑜𝑠 di Reggio (o Efebo di Reggio). Statua, marmo pario, VI sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico della Magna Grecia

Un papiro scoperto nel 1922 e redatto nel 130 a.C. (𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 1790 + 2081f) da uno scriba competente – capace di riconoscere i 𝑐𝑜𝑙𝑎 metrici già individuati per i lirici da Aristofane di Bisanzio (III-II secolo a.C.) e le forme doriche, e di precisare l’accentuazione e la prosodia dei termini meno conosciuti – ha restituito i 48 versi finali (lo attesta con certezza un segno posto in margine all’ultimo verso), articolati in tre triadi (strofe, antistrofe ed epodo) e mezza (forse l’intero componimento, privo della strofe iniziale, o al più di una triade e una strofe) e caratterizzati da un ritmo dattilico (per lo più pentametri dattilici, ℎ𝑒𝑚𝑖𝑒𝑝𝑒, enopli), dell’encomio che Ibico dedicò alla straordinaria bellezza di un giovane Policrate: che si trattasse del futuro tiranno (che regnò su Samo fra il 533 e il 522 a.C.), quando ancora apparteneva alla 𝑗𝑒𝑢𝑛𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑒́𝑒 dell’isola, ovvero del suo omonimo figlio, di cui fu poi precettore Anacreonte (cfr. 𝑃𝑀𝐺 491), dipende in definitiva dalla controversa cronologia di Ibico (𝑃𝑀𝐺𝐹 TA 1-2) e non può essere stabilito con sicurezza; certa è invece l’eroizzazione del giovane sottesa all’encomio, che unisce il passo mitico (vv. 1-45) e realtà presente (vv. 46-48) in un unico tempo, signoreggiato da Afrodite (v. 9) e dalla bellezza (v. 46), ed eternato dal potere del canto poetico (vv. 47 s.).

Come anche altrove (per es., 𝑃𝑀𝐺𝐹 289a, dove il giovane Gorgia è paragonato a Ganimede e a Titonoo, rapiti per la loro bellezza da Zeus e da Aurora), Ibico costruisce su illustri 𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑎 mitici le basi del proprio encomio. E come Saffo era ricorsa al tradimento di Elena e alla guerra di Troia per cantare congiuntamente la potenza di Afrodite e la bellezza di Anattoria (fr. 16 V.), così anche Ibico si richiama al più celebre dei miti greci per celebrare la forza irresistibile di Cipride e l’immortale fascino di Policrate. Dopo una probabile invocazione proemiale (contenuta nella strofe o nella triade + strofe perduta), il poeta passava a narrare come gli Achei, «slanciandosi da Argo» (v. 3; cfr. 𝐼𝑙. II 559; il verbo è omerico e l’integrazione di Hunt assai verosimile), distrussero «la grande cittadella illustrissima opulenta» (vv. 1-2; il cumulo di aggettivi a incorniciare il sostantivo è tipico dello stile ibiceo: cfr. vv. 14-15, 16-17, 34, 44-45, 𝑃𝑀𝐺𝐹 286, 5-6, 11, 287, 6) di Priamo, figlio di Dardano (v. 1; anche l’uso di patronimici è frequente in Ibico; cfr. vv. 21, 34; 𝑃𝑀𝐺𝐹 S166, 15): furono la volontà di Zeus (v. 4, con la probabile integrazione di Hunt), secondo il dettato dei 𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖 (fr. 1, 7 West), e l’aspetto della bionda Elena (v. 5 ξα]ν̣θᾶς Ἑλένας περὶ εἴδει: Elena è bionda anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 23, 5 V. e in Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S103, 5) a causare quella lotta che ispirò tanti canti (v. 6 πολύυμνον: l’aggettivo è in 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 26, 7, detto di Dioniso, e in Pɪɴᴅ. 𝑁. 2, 5, detto del «bosco di Zeus»), quella guerra lacrimevole (v. 7 πό]λ̣εμον̣ κ̣ατὰ δ̣ακρυ̣[ό]εντα: per la clausola, cfr. 𝐼𝑙. XVII 512), quando la «rovina» (v. 8 [ἄ]τ̣α) salì la «martoriata» (ταλαπείριο̣[ν: cfr. 𝑂𝑑. VI 193, XIV 511, XVII 84) Pergamo per colpa di un’altra, ancor più potente «bionda» (l’epiteto χρυσοέθειρ era già in Aʀᴄʜɪʟ. fr. 323 W.²): Cipride (v. 9).

Le lacrime, come le guerre, non si addicono all’εὐφροσύνη del simposio. Per questo Ibico inizia una lunga 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 (vv. 10-45), che gli consente di sorvolare (vv. 10-11 νῦ]ν̣ δέ μοι οὔτε … /..] ἐπιθύμιον, «ora, io però né […] desidero»: per la movenza cfr. Aʟᴄ. fr. 308, 1-2 V., in un contesto innodico) – pur protraendo la narrazione per altre due triadi e mezza – sulle nefandezze di Paride «traditore degli ospiti» (v. 10 ξειναπάτ̣α̣ν: cfr. Aʟᴄ. fr. 283, 5 V.), su Cassandra dalle caviglie lunghe e sottili (v. 11 τανί[σ]φ̣υρ[ον: cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 364, delle Oceanine, τανύσφυροι Ὠκεανῖναι, e Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 15 V. παρθενίκα[ν] τ..[..].σφύρων), e ancora sul «dì predace e a cui non si dà nome di Troia dagli alti portali» (la fiorita formula contamina Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S89, 11, Τρο‹ΐ›ας ἁλώσι̣[μον ἆμαρ «il dì predace di Troia dagli ampi spazi», con l’aggettivo omerico ὑψίπυλος, riferito a Troia in 𝐼𝑙. XVI 698, XXI 544; quanto «a cui non si dà nome», cfr. Pɪɴᴅ. 𝑃. 1, 82), sul «valore superbo» (ὑπ]εράφανον: cfr. 𝐼𝑙. XI 694, Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 149, Sᴏʟ. fr. 4, 36 W.²) degli eroi e sulle «concave ben chiodate navi» (vv. 17-18 κοίλα̣[ι / νᾶες] πολυγόμφοι̣: ancora un nesso plurideterminato, che contamina 𝐼𝑙. I 20 «presso le concave navi», e Hᴇs. 𝑂𝑝. 660, νηῶν … πολυγόμφων, «di navi ben chiodate») che li condussero come una sventura a Troia (v. 19). E qui, il poeta si concede un erudito 𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 di ben due versi (e di sapore quasi pre-alessandrino) sulla complessa e discussa genealogia del capo di quel manipolo di «eroi prodi» (v. 19): «il signore Agamennone Plistenide, re condottiero d’uomini, figlio della famiglia d’Atreo prode» (vv. 20-22), con la sua sovrabbondanza, tipicamente ibicea, di determinazioni, rappresenta una sorta di sfumato compromesso tra l’albero genealogico omerico (per cui Agamennone e Menelao erano figli di Atreo, a sua volta figlio di Plistene: cfr. 𝐼𝑙. II 576-577, su cui sono chiaramente rifatti i vv. 20-22) e quello dorico-occidentale (per cui Plistene era figlio di Atreo e padre di Agamennone: cfr. per es. Hᴇs. frr. 194-195 M.-W. = 137-138 Most, Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 219).

L’𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 richiede una nuova giustificazione, che puntualmente arriva ai vv. 23-26, e offre il destro per altri 20 versi di 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜. Le Muse, «esperte» (v. 23 σεσοφ̣ι̣[σ]μ̣έναι: il participio era già in Hᴇs. 𝑂𝑝. 649), «Eliconidi», saprebbero «ben passare in racconto» (v. 24 εὖ… ἐμβαίεν λόγῳ, ma il testo è incerto metricamente) queste vicende, a differenza di un «uomo mortale» (v. 25 θνατ[ὸ]ς… ἀνὴρ, a incorniciare il verso) che, per quanto «vivo» (v. 26 διερός, il cui senso è quello di «sveglio», «abile», ma il termine riprende ironicamente il precedente «mortale»), non potrebbe registrare ogni dettaglio (v. 26): per esempio – e la narrazione può continuare – quante navi, attraverso il mar Egeo, «da Aulide» (v. 27), anzi «da Argo» (la clausola del v. 28 corregge quella del verso precedente e riprende probabilmente l’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 del v. 3 Ἄργ]ο̣θεν), giunsero a Troia «che nutre i cavalli» (v. 30 ἱπποτρόφο̣[ν: in Hᴇs. 𝑂𝑝. 507 l’epiteto qualifica la Tracia, διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου, in Pɪɴᴅ. 𝑁. 10, 41-42 Corinto), piene di «forti» (φώτ̣ες, qui con l’accento dorico, è sostanzialmente sinonimo di «eroi»), «figli di Achei» (v. 31: 40 volte in clausola nei poemi omerici) «dal bronzeo scudo» (χ]αλκάσπι̣[δες: l’epiteto parrebbe una neoformazione, e piacerà a Pindaro, che lo riuserà almeno tre volte), il migliore dei quali, almeno quanto alla lancia, fu «il piè veloce Achille» (30 volte in clausola nell’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒), topicamente seguito a ruota dal «grande Telamonio Aiace ardimentoso» (v. 34: nuova ipertrofica contaminazione delle formule omeriche «grande Aiace Telamonio» [per es., 𝐼𝑙. V 610] e «Telamonio Aiace ardimentoso» [cfr. 𝐼𝑙. XII 349 e 362]).

Insomma, l’ode appare come un esempio estremo di una tendenza caratteristica della lirica arcaica, quella a costruire interi componimenti tramite l’espansione di un determinato modulo compositivo: qui si tratta dello schema della 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑠𝑎𝑡𝑖𝑜, per cui il rifiuto a cantare un determinato tema viene sfruttato come elemento compositivo (secondo la terminologia inaugurata dall’americano Elroy Bundy, come 𝑓𝑜𝑖𝑙, che è la “foglia” o lamina di metallo posta sotto una pietra preziosa al fine di valorizzarla) per far risaltare ciò che invece sta a cuore al poeta. Egli dichiara che solo le Muse, nella loro venerabile onniscienza, sarebbero in grado di affrontare per intero l’immenso e ponderoso tema delle lodi degli eroi; un mortale non ci riuscirebbe mai in modo adeguato, a causai dei limiti stessi della propria natura. E poiché il poeta è ben consapevole di ciò, preferisce abbreviare la trattazione del tema eroico, per passare subito a ciò che gli è più congeniale e che più vivamente lo ispira: la lode di Policrate.

Così, ai vv. 35-40, assai lacunosi, il racconto mitico tornava circolarmente alla bellezza: stando a un commento marginale sul papiro, era qui nominato il bellissimo giovinetto argivo Cianippo (figlio o nipote di Adrasto), ignoto all’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 (dove il più bello dopo Achille è Nireo di Sime: cfr. II 673-674), ma conosciuto a fonti posteriori (cfr., per es., Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. I 9, 13, Pᴀᴜs. II 18, 4-5; 30, 10), subito seguito (ai vv. 40-41) dal figlio della ninfa Illide, Zeuxippo (cfr., per es., Pᴀᴜs. II 6, 7), che gli eserciti contrapposti dei Troiani e dei Danai (v. 44) paragonavano concordemente a Troilo, il 𝑏𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑖𝑛 di Priamo ed Ecuba (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S224, 4, 9, 16, e già 𝐼𝑙. XXIV 257, 𝐶𝑦𝑝𝑟. fr. 25 West), come l’oro «tre volte bollito» (vv. 42-43) all’oricalco (una lega di rame e di zinco, accostata all’oro sin da 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 6, 9, in cui gli orecchini di Afrodite sono detti ἄνθεμ’ ὀρειχάλκου χρυσοῖό τε τιμήεντος, «fiori d’oricalco e d’oro prezioso»).

L’elogio del giovinetto Policrate, che concludeva il carme, si saldava naturalmente alla celebrazione degli affascinanti παῖδες καλοί dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠: snodo logico del passaggio dal mito all’attualità, la «bellezza» (v. 46 κάλλος) include di diritto Policrate – verosimilmente presente all’esecuzione materiale del canto, di cui pure si ignorano tutte le modalità, a cominciare dalla dubbia presenza di un amplificante Coro – nella nobile schiera (v. 46 τοῖς μὲν πέδα), e gli conferisce «gloria perenne e immortale» (vv. 46-47 αἰὲν / … κλέος ἄφθιτον: cfr. per es. 𝐼𝑙. IX 413, Hᴇs. fr. 70, 5 M.-W. = 41, 5 Most, ma anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 4 V., e in 𝐶𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑢𝑚 𝐺𝑟𝑎𝑒𝑐𝑢𝑚 [Hansen] 344, 2), come immortale (ma il poeta dice soltanto un più pudico «come», al v. 48), proprio in virtù del canto (κατ’ ἀοιδὰν), sarà anche la fama del cantore che dice «io» (ἐμὸν κλέος). Un concetto che, con Sᴀᴘᴘʜ. fr. 55 V., Tʜᴇᴏɢɴ. 237-254, e Bᴀᴄᴄʜ. 3, 90-98, rappresenta una delle più vivide formulazioni del potere che la parola ha di dare «fama sonora» (κλέος appunto) e di eternare l’eccellenza che lo merita: 𝑛𝑜𝑛 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑠 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑟… (Hᴏʀ. 𝐶𝑎𝑟𝑚. III 30, 6). Di conseguenza, Policrate potrà essere accomunato ai grandi eroi, e soprattutto agli eroi più belli, della guerra troiana.

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[1] Al principio è andata perduta la prima strofe oppure una triade più una strofe.

[2] Dardano, figlio di Zeus e nativo – a seconda delle varie tradizioni – di Samotracia odell’Arcadia o di Creta, aveva fondato alle falde dell’Ida il primo nucleo della futura Troia.

[3] Qui Argo, in origine nomecomune con il valore di «pianura», designa verosimilmente, come già in 𝑂𝑑. I 344, IV 726, l’intero Peloponneso; dalla città di Argo provenivaspecificamente Diomede, mentre Agamennone era di Micene.

[4] Forse con riferimento, come si raccontava nei𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖, al progetto di Zeus di alleggerire la terra dal peso eccessivo degli uomini, ma il nesso Διὸς βουλή è omerico, cfr. 𝐼𝑙. I 5.

[5] Allusione al successo rapsodico della saga troiana.

[6] Calco di 𝐼𝑙. XVII 512 πόλεμον κάτα δακρυόεντα.

[7] Per l’immagine, cfr. Sᴏᴘʜ. 𝑂𝐵 876, dove si dice della ℎ𝑦𝑏𝑟𝑖𝑠 ἀκ ἀκρότατα γεῖσ’ ἀναβᾶσα, «salita al sommo dei cornicioni»

[8] Per l’estensione di senso, cfr. Pɪɴᴅ. 𝑂. I, 82-83 ἀνώνυμον / γῆρας.

[9] Cfr. 𝐼𝑙. XIII, 304 ἀγοὶ ἀνδρῶν.

[10] cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 1 Mουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ᾽ ἀείδειν, 𝑂𝑝. 658; l’Elicone è il monte della Beozia, dove il culto delle Muse sarebbe stato portato dai Traci che abitavano intorno all’Olimpo.

[11] La località sullo stretto dell’Euripo, fra Beozia ed Eubea, ove, secondo la tradizione, si radunò il contingente greco diretto a Troia.

[12] Nato da Eaco e da Endeide e fratello di Peleo, Telamone si era stabilito a Salamina dopo l’assassinio del fratellastro Foco e aveva partecipato alla spedizione a Troia contro Laomedonte.

[13] Sedotta da Apollo, Illide generò Zeuxippo, ribattezzato in seguito Cianippo per la sua bellezza, che regnava a Sicione al momento della partenza della spedizione achea.

Cineto di Chio alle Delie

di A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998, pp. 65-76.

 

Nel 523 (o 522) a.C., nell’isola di Delo, il rapsodo Cineto di Chio si esibì in una particolarissima performance, in occasione di una festa altrettanto particolare, organizzata dal tiranno Policrate di Samo per onorare Apollo. La particolarità della festa consisteva nel fatto che essa intendeva celebrare, nell’isola cicladica, non solo la locale epiclesi di Apollo, ma anche quella delfica. In questa occasione Cineto, a partire da due diverse composizioni tradizionali, «combinò insieme» (così ritiene Burkert) oppure compose (a mio avviso) un proemio epico di struttura affatto peculiare, in cui le parti celebranti Apollo Delio e Apollo Pizio risultano fuse in un’unica composizione – l’Inno omerico ad Apollo – attraverso una sezione specificamente rivolta a descrivere e celebrare la festa in atto; sezione tanto precisa e puntuale nei contenuti, che di essa si servì in seguito Tucidide (III, 104) per il suo excursus sulla storia più antica delle Delie.
Le fonti che ci tramandano il ricordo dell’iniziativa policratea non dicono assolutamente nulla a proposito della struttura della festa; solo in Zenobio l’evento viene definito agōn. Questo indizio, unito a quanto si dice nell’Inno stesso (soprattutto ai vv. 149-150) e alla descrizione tucididea, ci permette di affermare che la festa composita comprendeva una parte musico-corale, di carattere probabilmente competitivo.
È questo il quadro generale in cui va inserito l’Inno. Sulla funzione pratica degli Inni omerici nel contesto della poesia greca arcaica vi è fra gli studiosi un accordo sostanzialmente unanime, anche se non molto esplicito e talvolta silenzioso. La funzione proemiale dell’Inno ad Apollo sembra assicurata anche dalla coincidenza strutturale e tematica di fondo che esso mostra con gli altri Inni della silloge: come è stato anche recentemente notato, l’Inno non si differenzia che per una particolare elaborazione, e una notevole espansione di talune fra le parti che tradizionalmente compongono un proemio rapsodico.
L’unico elemento anomalo rispetto alla forma tradizionale dei proemi omerici è costituito dai vv. 146-176; l’anomalia, anzi la rottura, è evidente sotto molti punti di vista: dopo una serie di appellazioni dirette al dio, il poeta passa a descrivere i caratteri generali della festa in atto, per appuntare infine la sua attenzione su un gruppo di fanciulle (v. 157); queste formano un coro destinato a cantare, dopo aver celebrato Apollo, Leto e Artemide, le vicende degli uomini e delle donne dei tempi antichi. A questo coro il poeta si raccomanda e gli affida il compito di conservare nel tempo il suo ricordo.
All’inserimento già eccezionale della seconda persona divina, segue l’irrompere in scena dell’”io” del poeta medesimo, e del “voi” del coro, in un’apostrofe in cui sono contemporaneamente presenti valenze descrittive e iussive. Se tutto ciò è eccezionale, addirittura stravagante nel caso dell’innodia epica, la menzione di elementi pragmatici relativi alla performance in atto, almeno per quanto riguarda l’entrata in scena del coro e il rapporto coro-corifeo è invece quasi normale nella lirica, soprattutto nella lirica corale. Tuttavia testimonianze esplicite sia della compresenza, a livello enunciativo nel canto, delle diverse persone del corifeo (= poeta = “io”) e del coro (= “tu”), sia soprattutto di un rapporto pragmatico e iussivo fra i due non sono frequenti neppure nella lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale cerimoniale e religiosa; è questo il genere dove lo stretto legame tra esecuzione corale e rito apriva le maggiori possibilità di un’esplicita interazione fra i partecipanti all’azione rituale. Le eccezioni non mancano, ma sono relativamente poche, rintracciabili per la lirica arcaica appunto negli sparuti resti della lirica ieratico-cerimoniale, mentre frequenti richieste del poeta – o comunque di un “io” identificabile con il corifeo – nei riguardi di un coro sono presenti solo in alcuni peani epigrafici posteriori all’epoca classica, ma di impianto sicuramente tradizionale. Un rapporto complessivo tra un poeta-corifeo e un coro, paragonabile a quello che compare nei vv. 146-176 dell’Inno ad Apollo, ricorre infine nei due Inni “dorici” di Callimaco (V-VI).

Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

L’esistenza di un rapporto pragmatico assai simile fra “io” del poeta e “voi” del coro in composizioni tanto diverse da loro e tanto distanti nel tempo e nello spazio non deve indurre a tracciare un’improbabile linea genetica che le colleghi, essa sarà piuttosto un indizio dell’esistenza di uno schema formale diffuso già in epoca arcaica, e collegato a talune caratteristiche e necessariamente devono essersi mantenute identiche nel tempo. In altre parole nulla vieta che uno schema formale permanga nel tempo, pur modificandosi o annullandosi la sua funzione originaria.
In questo quadro, le somiglianze tra il rapporto pragmatico sotteso alla sezione centrale dell’Inno ad Apollo e quello presente nei due Inni callimachei assumono un particolare significato, mettendo ancora in maggiore evidenza l’anomalia che caratterizza l’Inno omerico. Infatti il poeta ellenistico, fino dalla scelta dialettale, intende privilegiare come suo modello non già l’innodia di tipo omerico, bensì – nel quadro, vero o fittizio che sia, di un evento festivo e rituale – la tradizione del canto cerimoniale che, per quanto è dato sapere, si espresse in dorico in tutta l’epoca arcaica e classica, fino all’attico Sofocle.
Se torniamo all’Inno ad Apollo, si pone il problema di una migliore definizione delle performances poetiche inserite nelle feste delie, o meglio ancora delle particolari performances che caratterizzavano la festa istituita da Policrate; questa infatti costituì una rottura del quadro tradizionale, ed è probabile che molte delle innovazioni introdotte dal tiranno non sopravvissero alla sua fine.
A proposito delle Delie in generale, non vi è unanimità fra gli studiosi circa la collocazione temporale della festa e del suo rapporto con le Apollonie. L’opinione più recente, e anche la più diffusa, colloca la festa nel mese di Hieros (all’inizio della primavera) e sostiene l’identità, per il periodo arcaico, fra le due feste.
L’identificazione fra le due feste consente di ascrivere alle Delie anche le notizie, letterarie e soprattutto documentarie, relative alle Apollonie, ampliando così un poco l’insieme di una documentazione assai ristretta. Sulla struttura delle Delie arcaiche le fonti rischiano pericolosamente di ridursi al passo tucidideo più volte citato (essenzialmente basato sull’Inno ad Apollo) e all’Inno medesimo, il testo peraltro del quale si vorrebbe illuminare le valenze pragmatiche e performative. Al fine di evitare, almeno in parte, il rischio della circolarità possiamo per il momento trascurare Tucidide e l’Inno; le altre fonti concordano tutte su un punto: le performances delie sono di tipo corale, e vedono coinvolti cori di entrambi i sessi. Erodoto (IV, 35), Callimaco (Del., 304-305) e Pausania (VIII, 21, 3; I, 18, 5) affermano che nel contesto delle feste di Delo venivano cantate le composizioni dell’antico poeta Olen; questi canti vengono in generale definiti “inni”. In Callimaco ricorre la definizione di nómos: in questo caso però non è certissimo che il canto vada inquadrato nel contesto delle Delie piuttosto che in quello delle Afrodisie. La partecipazione di cori di adolescenti alla festa e la sua prevalente funzione iniziatica vengono più o meno esplicitamente dichiarate da Erodoto (IV, 34), Ateneo (X, 424f), Plutarco (Thes., 21), Pausania (I, 43, 4) e Luciano (de salt., 16). Quest’ultimo chiama “iporchemi” i canti che venivano eseguiti da cori di paîdes con l’accompagnamento della lira e del flauto. Similmente le fonti epigrafiche menzionano costantemente la presenza, alla feste di Delo, di coreghi e di cori, mentre affatto sporadica è la menzione dei rapsodi.

«Apollo Chatsworth», Testa, bronzo, 460 a.C. ca. da Tamasso (Cipro). London, British Museum

Tutto ciò induce a ritenere che gli agoni poetici di Delo si incentrassero su performances di tipo corale; questo potrebbe essere tanto più vero per le Delie, qualora se ne consideri la partecipazione internazionale e il carattere marcatamente spettacolare. Ricorda Plutarco (Nic., 3) che il ricchissimo Nicia, in occasione di una sua coregia a Delo, volle dare particolare splendore alla theōría ateniese: fece sbarcare a Renea uomini e attrezzature il giorno prima della festa, durante la notte fece gettare fra le due isole un ponte di barche attraverso il quale il coro magnificamente abbigliato fece il suo ingresso a Delo cantando. È difficile che qualcuno abbia potuto, anche in seguito, emulare lo sfarzo di Nicia; l’episodio resta tuttavia significativo dell’investimento che le città facevano al momento della loro partecipazione alle Delie.
Anche i testi letterari che in qualche modo possono collegarsi alle Delie sembrano ricondursi a due generi corali: il peana e il ditirambo. Fra i peani di Pindaro il IV (fr. 52 d S.-M.), il V (fr. 52 e S.-M.), e il VIIb (fr. 52 h S.-M.) furono composti per le feste di Delo, il IV sicuramente per una theōría dell’isola di Ceo; dubbi sono invece i committenti degli altri, anche se è probabile una connessione del V con Atene. Fra i ditirambi delii rientrano sia il carme 17 di Bacchilide, anch’esso per i Cei, sia il Memnone di Simonide (PMG 389); quest’ultimo era compreso in una raccolta di ditirambi detta Dēliaká. A proposito della raccolta, sono egualmente possibili due spiegazioni: o essa riuniva i ditirambi composti da Simonide per le feste di Delo, ed era quindi una sottosezione di una – peraltro non attestata – raccolta dei ditirambi di Simonide, oppure era una silloge particolare di provenienza delia, dove il Memnone era inserito insieme ad altri ditirambi di altri poeti. In entrambi i casi è comunque evidente come i ditirambi occupassero un posto di rilievo all’interno delle Delie.
Distinguere i peani dai ditirambi era difficile anche per gli antichi: neppure la presenza o l’assenza del ritornello iḕ paián serve a individuare con certezza un peana. Ancora più difficile appare una distinzione dal punto di vista pragmatico: soprattutto quando, come nel caso di Delo, ditirambi e peani sono inseriti all’interno di feste apollinee.

Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art
Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.

Tali caratteristiche delle feste delie non sono senza conseguenze per la definizione delle linee complessive della performance di Cineto: restando fisso il carattere proemiale, introduttivo dell’Inno ad Apollo, occorre interrogarsi sulla natura di quanto all’Inno doveva seguire. Una regolare successione di altri canti epici, di argomento eroico e di forma esametrica, pare improbabile per molte ragioni. Infatti, non vi è quasi traccia di un agone rapsodico nella documentazione relativa alla festa, mentre con esso contrastano alcune peculiarità dell’Inno medesimo. Questo infatti si conclude nel modo più stereotipo con due versi che esprimono il saluto del dio e l’intenzione generica di ricordarsi ancora del dio e di un altro canto. Manca qualsiasi accenno di preghiera personale al dio. Questa preghiera contiene sovente – in forma più o meno esplicita – una richiesta di vittoria agonale, che può essere introdotta o addirittura riassunta in un hílēthi (1, 17; 23, 4; cfr. 19, 48), o avere espressione più ampia come nell’Inno a Demetra (v. 494) e negli Inni 30, 18 e 31, 17, dove il poeta chiede la «prosperità che rallegra il cuore», o come negli Inni 11, 5; 15, 9 e 20, 8 contrassegnati da una forma imperativa di dídōmi cui corrispondono predicati diversi: týchē, eudaimonía, aretḗ, ólbos. La richiesta di vittoria è poi affatto esplicita nell’Inno 26 (a Dioniso 12-13), in cui si chiede di tornare felicemente ogni anno alla festa del dio e nell’Inno VI (ad Afrodite, vv. 19-20).
Il fatto che il poeta non accenni ad alcuna richiesta di vittoria non avrebbe in sé molto peso, come ogni altro argomento e silentio: anche l’Inno ad Ermes, fra i maggiori, si conclude con un identico stringatissimo finale. È significativo però che i tre motivi tipici della conclusione abbiano già avuto un’ampia e peculiare trattazione in precedenza, e occupino buona parte della sezione centrale relativa alla festa in atto. Dopo la menzione del coro delle Deliadi (v. 156 sgg.) assistiamo a una sorta di trasferimento al coro delle funzioni proprie del rapsodo o dei rapsodi all’interno degli agoni: dopo aver cantato Apollo, Leto e Artemide esse canteranno le vicende degli uomini e delle donne antichi. La terminologia è generica, ma proprio per questo significativa; ricorrono infatti i temi chiave delle conclusioni: il canto del coro è definito (v. 161) hýmnos e aoidḗ, mentre la produzione poetica è allusa mediante l’azione di “ricordare” (v. 160).
In pratica, i vv. 158-159 riprendono i temi propri del saluto al dio, mentre i vv. 160-161 si riferiscono alla transizione dalle lodi del dio a un altro canto di diverso argomento. La parte relativa alla preghiera e alla richiesta di vittoria riceve infine una trattazione assolutamente straordinaria ai vv. 165-173, che è opportuno esaminare da vicino.

ἀλλ᾽ ἄγεθ᾽ ἱλήκοι μὲν Ἀπόλλων Ἀρτέμιδιξύν,
χαίρετε δ᾽ ὑμεῖς πᾶσαι· ἐμεῖο δὲ καὶ μετόπισθεν
μνήσασθ᾽, ὁππότε κέν τις ἐπιχθονίων ἀνθρώπων
ἐθάδ᾽ ἁνείρηται ξεῖνος ταλαπείριος ἐλθών·
ὦ κοῦραι, τίς δ᾽ ὔμμιν ἀνὴρ ἥδιστος ἀοιδῶν
ἐνθάδε πωλεῖται, καὶ τέῳ τέρπεσθε μάλιστα;
ὑμεῖς δ᾽ εὖ μάλα πᾶσαι ὑποκρίνασθαι ἀφήμως·
τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ
τοῦ μᾶσαι μετόπισθεν ἀριστεύσουσιν ἀοιδαί.

Ordunque siate benigni, Apollo con Artemide,
e voi tutti siate felici, e di me anche in futuro
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
uno straniero, che qui giunga dopo aver molto sofferto, vi chieda:
«O fanciulle, chi è per voi il più dolce fra gli aedi
che qui sono soliti venire, e chi vi è più gradito?»
E voi tutte, concordi, rispondete con parole di lode:
«È un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio:
e tutti i suoi canti saranno sempre i più belli».

(trad. it. di F. Càssola)

 

Vi è un inizio favorevole (v. 165, «siate benigni») in cui si chiede il favore di Apollo e Artemide e dove il verbo sembra aprire la strada al tema della richiesta di protezione e di vittoria; a questo punto invece segue un’improvvisa reduplicazione del tema del saluto, rivolto però alle ragazze del coro (v. 166, «e voi tutte siate felici»); su questa s’innesta una ripresa del tema “ricordare”. Qui lo spostamento dei referenti è completo, oggetto del ricordo non sono altri canti, ma il poeta stesso: si realizza così una forma di preghiera del tutto senza paralleli. L’eccellenza del poeta e del suo canto non fa parte di una richiesta di vittoria, ma è un dato incontestabilmente affermato, e offerto alle Deliadi perché lo proclamino nel futuro (vv. 169-173).
All’interno di questa trama manca insomma ogni accenno alla situazione agonale, e al desiderio del rapsodo di prevalere su altri poeti, pur in presenza di tutti i temi che tradizionalmente vengono impiegati per esprimere questi concetti. Vi è invece in positivo la coscienza della propria eccellenza e della superiorità della tradizione (cioè Omero) che il poeta rinnova nel suo canto. Da cosa può derivare questa coscienza? Tentativamente possiamo pensare che la competizione, se esiste, non riguarda il poeta bensì i cori che succederanno alla sua performance. Se Cineto fu incaricato da Policrate di comporre ed eseguire un inno sostanzialmente nuovo, è chiaro che una scelta di eccellenza doveva essere già stata fatta, e di questo il poeta non poteva non essere cosciente. Il rapsodo epico – in sé il poeta meno occasione, ripetitore fedele delle parole eterne delle Muse e della tradizione – si trova coinvolto in un evento di tipo, per così dire, lirico, condizionato da una committenza esigente, non diversa da quella che dava incarico a Ibico o a Simonide di comporre ditirambi o peani per le occasioni festive dei tiranni e delle città.
Siamo così giunti a una prima definizione del contesto della performance delia di Cineto; l’elemento più interessante, e anomalo, è certamente l’associazione organica dell’esibizione solistica per eccellenza – quella del rapsodo – e di quella corale; al coro delle Deliadi infatti, e non a un rapsodo, spetta il compito di proseguire la performance iniziata dall’aedo. Sembrano cadere a livello delle performance le linee di demarcazione tra forme poetiche epiche e liriche. La cosa è solo in parte eccezionale, basti pensare alla posizione ambigua della citarodia stesicorea, a proposito della quale gli studiosi sono incerti fra esecuzione solistica o corale, e a quanto abbiamo detto a proposito del proemio.

Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.
Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.

La festa policratea si caratterizza però in modo peculiare: un’unica performance che comprende esibizioni sia di un poeta epico solista sia di uno o più cori lirici: il punto di contatto consiste nella materia del canto che è per entrambi la narrazione di vicende divine o eroiche.
Diventa così più chiaro il senso dei particolari tratti pragmatici che caratterizzano l’Inno; le frequenti appellazioni al dio, la presenza massiccia di elementi deittico-iussivi nella parte centrale accomunano l’Inno a composizioni proprie della lirica ieratico-rituale. Ciò accade non per scelta soggettiva del poeta, ma proprio perché l’Inno si inquadra in una performance dove essa funge da proemio a una o più composizioni corali, connesse con i riti della duplice festa di Apollo.
Potremmo ancora chiederci che tipo di composizione lirica corale seguisse – parliamo sempre della festa delia del 523 o 522 – il canto rapsodico di Cineto. Naturalmente qualsiasi definizione comporta notevoli margini di dubbio legati all’applicazione all’epoca arcaica di classificazioni operanti solo in epoca successiva, e perciò incongruenti rispetto alle circostanze concrete che presiedevano alle esecuzioni arcaiche. Proprio questa sfasatura fra tassonomia e performances rende poco significativo il testo che con maggiore chiarezza parrebbe definire il canto delle Deliadi. Nell’Eracle euripideo (v. 687 sgg.) il coro dei vecchi si chiede se dovrà cantare un peana, come le Dēliádes che danzano in cerchio. Da un lato non è esplicito il riferimento alle Delie, dall’altro l’attribuzione di un peana a un coro femminile appare in contrasto con il fatto che esso è di norma affidato a un coro maschile. In questo caso penso che, stante il fatto che le due performances sono dal punto di vista funzionale (occasione e destinazione) ampiamente sovrapponibili, il peana venga assegnato alle Deliadi soprattutto per rafforzare l’analogia con il canto che i vecchi (maschi) vorrebbero eseguire. Non è infine da dimenticare che nel V secolo il ditirambo ha ad Atene una precisa caratterizzazione – negli anni Venti i ditirambografi sono già nel mirino di Aristofane – e il suo inserimento nel contesto della tragedia sarebbe probabilmente apparso fuori luogo.
Nel quadro di una festa pensata e voluta, con chiari intenti politici, da un tiranno come Policrate, strettamente collegato con i tiranni ateniesi, l’ipotesi più probabile è che i cori eseguissero dei ditirambi. Una festa caratterizzata da performances ditirambiche verrebbero anche a colmare una sorta di lacuna letteraria e storico religiosa. Delle quattro grandi tirannidi dell’epoca arcaica (Corinto, Sicione, Atene, Samo), quella samia era finora l’unica a non mostrare alcun interesse alle performances ditirambiche, se si eccettua una notizia contenuta in uno scolio all’Andromaca di Euripide, secondo cui l’incontro tra Elena e Menelao durante la presa di Troia era narrato anche da Ibico in un ditirambo.
Questa conclusione non contrasta né con le notizie relative alle performances delle Delie che abbiamo prima esaminato né con quanto si può desumere dall’Inno a proposito del canto del coro. La presenza di esecuzioni e competizioni ditirambiche è ampiamente attestata per le Delie, mentre lo svolgimento di una tematica narrativa eroica coincide con quanto sappiamo a proposito del ditirambo.
Più difficile da spiegare appare il collegamento fra un proemio rapsodico, esametrico e recitato, e un ditirambo. Difficile, tuttavia non impossibile; innanzitutto non si può dubitare dell’esistenza di proemi monodici a performances lirico-corali, caratterizzati da un forte rapporto pragmatico fra “io” del poeta o del corego e “tu”-“voi” del coro: le fonti ne attestano l’esistenza già per Terpandro, benché ne restino imprecise le caratteristiche formali e di contenuto, in assenza di testi esplicitamente ascritti al genere stesso. Inoltre, in un articolo recente, J.L. Malena ha ampiamente argomentato circa l’esistenza di proemi ai ditirambi, cioè di monodie liriche o citarodiche finalizzate a introdurre o avviare il successivo canto del coro. Il proemio ditirambico, che risalirebbe a una fase assai antica della storia del genere, si caratterizzerebbe dal punto di vista dei contenuti come un’invocazione al dio seguita da una serie di ordini al coro; formalmente esso avrebbe andamento metrico prevalentemente dattilico e dizione assai prossima a quella dell’epos, come mostrerebbe un frammento di Terpandro (697 PMG: 4 da): secondo i commentatori antichi il verso, probabilmente il primo di una composizione, riprende modalità tipiche della poesia ditirambica. Analoga funzione proemiale, anche se non collegabile a un ditirambo, avrebbe il fr.84 Calame di Alcmane, dove, ancora in tetrametri dattilici, la Musa è invocata perché dia inizio agli eratá épea.
Ulteriormente significativo è il fr.90 Calame di Alcmane: i quattro esametri del “frammento del cerilo” sono parte di un proemio eseguito dal poeta, o da un corego, a introduzione di una performance corale, probabilmente da parteni.
Altri indizi aiutano a definire meglio il quadro in cui inserire il rapporto fra proemio e ditirambo.
L’unico frammento di Laso di Ermione tramandatoci consiste nell’inizio di un hýmnos in onore di Demetra, Core e Climeno (Athen. 14, 624ef = fr.1 Privitera). Il metro è dattilico e la struttura del primo verso ricorda quella tipica degli Inni omerici. Da Ateneo il frammento è tramandato come parte di un «inno a Demetra ad Ermione»: una definizione in cui si sottolinea la località destinataria del canto e che potrebbe perciò essere connessa con la funzione proemiale del canto, finalizzato a contestualizzare un’intera performance (per esempio i ditirambi) all’interno della festa di Demetra ad Ermione. […]
Il proemio di tipo epico appare dunque una prassi consolidata in relazione alle più antiche performances di ditirambi; da queste la performance delia aperta da Cineto si distingue solamente per il fatto di usare un proemio di tipo non lirico ma rapsodico, non cantato ma recitato. Le ragioni di questa scelta ci sfuggono, e probabilmente nessuna fonte antica sarà mai in grado di illuminarci su essa. Lo impediscono soprattutto le profonde incisioni operate dal corpus della poesia arcaica dalla classificazione alessandrina: opposizioni quali cantato vs recitato, monodico vs corale, utili e sensate da un punto di vista tassonomico e bibliotecario, appaiono sempre più non avere alcuna corrispondenza con le concrete e originarie condizioni di esecuzione.

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