Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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C. Giulio Cesare

Tra politica, guerra e letteratura

Cesare, oltre a essere stato uno dei più importanti uomini politici e comandanti militari della storia di Roma, fu anche un autore di notevole importanza sul piano letterario: il suo nome è legato, in particolare, a due celebri opere a carattere storico, i Commentarii de bello Gallico e i Commentarii de bello civili, che ci sono giunti per intero. Tuttavia, i suoi interessi culturali furono molto ampi, come dimostrano i titoli di altre sue opere oggi perdute, tra cui spiccano alcune orazioni e un trattato sulla lingua latina.

 

C. Giulio Cesare. Testa, marmo, II sec. d.C., dal Foro di Traiano (Collezione Farnese). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La vita: un’ascesa inarrestabile

Gaio Giulio Cesare nacque a Roma il 12 o il 13 luglio del 100 a.C. da una famiglia patrizia di antichissima nobiltà. Il padre era Gaio Giulio Cesare, la madre era Aurelia, cugina, probabilmente, di Lucio Aurelio Cotta, console nell’85 a.C. Poiché tuttavia era imparentato con Gaio Mario e con Lucio Cornelio Cinna (avversari di Lucio Cornelio Silla), in gioventù fu perseguitato dai fautori del dictator. Dopo la morte di questi (78 a.C.), Cesare tornò a Roma dall’Asia, dove aveva servito nell’esercito, e incominciò la carriera forense e politica, percorrendo le diverse tappe del cursus honorum: fu questore nel 68, edile nel 65, pontefice massimo nel 63, pretore nel 62, propretore nella Hispania Ulterior nel 61. Nel 60 a.C. stipulò con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso Dives l’accordo segreto noto come “Primo Triumvirato”, in vista della spartizione del potere. Cesare rivestì per la prima volta il consolato nel 59, carica che esercitò con energia e prevaricazione sul collega Marco Calpurnio Bibulo.

A partire dall’anno seguente Cesare ottenne il proconsolato dell’Illyria, della Gallia Cisalpina e Narbonensis. Prendendo a pretesto presunte provocazioni o sconfinamenti, da parte di tribù impegnate in vasti movimenti migratori, nel territorio gallico posto sotto la sua giurisdizione, il proconsole intraprese l’opera di sottomissione dell’intero mondo celtico, presentandola come un’operazione soprattutto difensiva e preventiva. La conquista della Gallia si protrasse per sette anni. Con tale impresa Cesare si procurò la base di un vastissimo potere personale. Ostacolato con cavilli giuridici dai suoi avversari, che cercavano di impedirgli il passaggio diretto dal proconsolato in Gallia al secondo consolato, Cesare invase l’Italia alla testa delle sue legioni, dando in tal modo inizio a una guerra civile (10 gennaio 49 a.C.).

Nell’agosto dell’anno successivo egli sconfisse a Farsàlo, in Tessaglia, l’esercito senatorio guidato da Pompeo; successivamente soffocò altri focolai di resistenza pompeiana in Africa (battaglia di Tapso, 46 a.C.) e in Hispania (battaglia di Munda, 45 a.C.). Intanto, divenuto padrone assoluto di Roma, aveva ricoperto, talora contemporaneamente, la dittatura e il consolato a partire dal 49. Il 15 marzo 44 a.C., poco dopo la sua proclamazione a dictator perpetuus, Cesare fu assassinato da un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana, preoccupati per le tendenze autocratiche e le inclinazioni alla regalità che egli andava dimostrando.

Cesare in battaglia. Illustrazione di G. Rava.

 

Le opere: una molteplicità di interessi

Di Cesare sono conservati i Commentarii de bello Gallico, in sette libri, più un ottavo composto probabilmente da un suo luogotenente, Aulo Irzio, per completare il resoconto della campagna gallica; i Commentarii de bello civili, in tre libri; un epigramma in versi su Terenzio (è il fr. 91 dei Fragmenta Poetarum Latinorum, editi da Morel).

Sono andati perduti, oltre a diverse orazioni (in una di queste, l’elogium della zia Giulia, si affermava la discendenza della gens Iulia da Iulo-Ascanio e, quindi, da Enea e Venere), un trattato su problemi di lingua e di stile (De analògia), terminato nell’estate del 54 a.C.; vari componimenti poetici giovanili: un poema, Laudes Herculis, e una tragedia, Oedipus; inoltre, una raccolta di detti memorabili (Dicta collectanea); un poema (Iter) sulla spedizione in Hispania del 45; un pamphlet in due libri contro la memoria di Catone Uticense (Antìcato), scritto in polemica con l’elogio che del personaggio aveva intessuto Cicerone.

Sicuramente spurie, oltre al libro ottavo del De bello Gallico, sono le ultime tre opere del cosiddetto Corpus Caesarianum, e cioè il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, che, come alludono i titoli, sono i resoconti degli ultimi avvenimenti della guerra civile, composti, probabilmente, da ignoti ufficiali di Cesare.

 

 

La narrazione della Guerra gallica

L’opera che comunemente si indica come De bello Gallico recava probabilmente il titolo C. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum; il sottotitolo con il riferimento alla campagna gallica dev’essere stato aggiunto in seguito, successivamente alla scomparsa dell’autore, per meglio distinguere questi commentarii da quelli sulla guerra civile e dagli altri confluiti nel Corpus Caesarianum.

Mappa dei popoli della Gallia.

 

I sette libri dell’opera coprono il periodo dal 58 al 52 a.C., in cui Cesare procedette alla sistematica sottomissione della Gallia. La conquista si svolse secondo fasi alterne, registrando anche pesanti battute d’arresto che il racconto di Cesare attenua o giustifica, ma non nasconde.

Il I libro, relativo agli avvenimenti del 58, tratta della campagna contro gli Elvezi, che con i loro movimenti migratori avevano offerto al proconsole il pretesto per imbarcarsi nella guerra, e contro il capo germanico Ariovisto; il II libro racconta la rivolta delle tribù galliche, il III la campagna contro le popolazioni situate sulla costa atlantica; il IV libro registra le operazioni contro le infiltrazioni dei popoli germanici, che avevano passato il Reno (Usipeti e Tencteri, massacrati spietatamente) e contro i capi gallici ribelli, Induziomaro e Ambiorige. Sempre nel IV libro, e poi nel V, l’autore fornisce un resoconto sulle sue due spedizioni contro i Britanni (nel 55 e nel 54), accusati di fornire aiuti ai Galli ribelli. La conquista della Gallia non è del tutto salda: soprattutto le popolazioni della Gallia Belgica oppongono una strenua resistenza, che Cesare riesce a stroncare solo con una campagna di sterminio e di devastazione, narrata nei libri V e VI. Appena soffocata questa rivolta, esplode tuttavia nel 52 un’insurrezione generale, capeggiata dal re degli Arverni, Vercingetorige. Dopo una nuova spedizione punitiva, con devastazioni e massacri da parte dei Romani, la resistenza gallica ha termine con l’espugnazione di Alesia, dove Vercingetorige si arrende e viene catturato (libro VII).

Lionel-Noël Royer, La resa di Vercingetorige. Olio su tela, 1899. Puy-en-Velay, Musée Crozatier.

 

Sui tempi di composizione del De bello Gallico manca un accordo unanime fra gli studiosi: secondo alcuni sarebbe stato scritto di getto nell’inverno 52-51; altri preferiscono pensare a una composizione anno per anno, durante gli inverni, nei periodi in cui erano sospese le operazioni militari. Questa seconda ipotesi ha a suo favore l’esistenza di alcune contraddizioni interne all’opera, che in parte sono state esagerate, ma che restano comunque difficilmente spiegabili se si ammette un lasso di tempo breve per la redazione.

L’ipotesi di una stesura dilatata nel tempo, a differenza dell’altra, potrebbe dare ragione anche della sensibile evoluzione stilistica che si è creduto di poter riscontrare nei Commentarii. Tale evoluzione sembra procedere dallo stile scarno e disadorno del commentarius vero e proprio in direzione di concessioni progressivamente sempre maggiori a certi ornamenti tipici della historia. Così, per esempio, nella seconda parte dell’opera si fa più frequente l’inserimento di discorsi diretti e si nota anche il ricorso a una maggiore varietà di sinonimi. Tali caratteristiche determinano, con il succedersi dei libri, un certo ampliamento del patrimonio lessicale; nella prima parte del De bello Gallico Cesare si mostra invece indifferente al ricorrere delle stesse parole, ripetute anche più di una volta e anche a breve distanza (alcuni hanno spiegato il fenomeno con l’adesione di Cesare linguista alle teorie analogiste, che l’avrebbero portato verso una rigorosa proprietà terminologica: ogni cosa doveva essere designata con un solo nome).

Non è tuttavia facile, né metodologicamente opportuno, sbarazzarsi dell’esplicita testimonianza di Aulo Irzio (sempre nella prefazione al libro VIII) sulla rapidità con la quale il comandante aveva composto i suoi Commentarii. Resta comunque possibile che Cesare, per comodità compositiva, abbia redatto separatamente, magari in forma più o meno abbozzata, i resoconti delle varie campagne e li abbia riordinati e coordinati in un secondo momento: la testimonianza di Irzio potrebbe riferirsi proprio a questa seconda fase della redazione.

Prigioniero gallico. Statuetta, bronzo, fine I sec. a.C., da Arles.

 

 

Il resoconto della guerra civile

Il De bello civili si divide in tre libri: i primi due narrano le vicende del 49 e il terzo, pur senza coprirne per intero gli avvenimenti, quelle del 48 a.C. I tempi della composizione e della pubblicazione sono ancora più incerti che per il De bello Gallico e si è addirittura supposto che il racconto della guerra civile non sia stato pubblicato dall’autore, ma da qualcun altro dopo la sua morte. Una delle ragioni che avvalorano questa ipotesi consiste nel fatto che l’opera appare incompiuta, lasciando in sospeso l’esito della guerra di Alessandria. Tuttavia, nonostante questa e altre difficoltà di minor rilievo, i più sono oggi inclini a pensare che il De bello civili sia stato composto fra la seconda metà del 47 e il 46 e poi pubblicato nello stesso 46.

Dall’opera affiorano naturalmente le convinzioni e le tendenze politiche dell’autore, che non si lascia sfuggire le occasioni per colpire la vecchia classe dirigente, rappresentata come una consorteria di corrotti. Cesare ricorre all’arma di una satira sobria – una novità retorico-stilistica rispetto al De bello Gallico – per svelare le basse ambizioni e i meschini intrighi dei suoi avversari. Se il suo bersaglio ovvio è il rivale Pompeo, le cui intenzioni meschine e il carattere imbelle sono sottolineati in varie occasione, egli non rinuncia tuttavia a tratteggiare un quadro fortemente negativo dell’intero ordo senatorius del tempo. È così posta in evidenza l’ipocrisia di uomini come Catone o Lentulo Crure, che si riempiono la bocca di parole come giustizia, onestà e libertà, mentre sono mossi da rancori personali o avidità di guadagno. La rappresentazione satirica culmina nel quadro del campo pompeiano prima della battaglia di Farsàlo: sicuri della prossima disfatta di Cesare, gli oppositori stabiliscono le pene da infliggere ai prigionieri, si aggiudicano i beni di coloro che stanno per proscrivere, si contendono le cariche pubbliche, talora arrivando ad accapigliarsi.

M. Porcio Catone Uticense. Busto, bronzo, I secolo a.C. dalla Domus di Venere a Volubilis (Marocco), Rabat, Musée archéologique.

 

Non si riscontrano, tuttavia, nel De bello civili, i punti precisi di un programma di rinnovamento politico della res publica: il generale aspira soprattutto a dissolvere di fronte all’opinione pubblica l’immagine di lui che dava la propaganda aristocratica, presentandolo come un rivoluzionario, un continuatore dei Gracchi o, peggio ancora, di Catilina. Egli vuole dimostrare di essersi sempre mantenuto nell’ambito delle leggi e di averle difese contro gli arbitri dei suoi nemici. Il destinatario della sua propaganda è lo strato “medio” e “benpensante” dell’opinione pubblica romana e italica (lo stesso a cui si sarebbe rivolto Cicerone nel De officiis), che vede nei pompeiani i difensori della costituzione repubblicana e della legalità, e che teme i sovvertimenti sociali. Si tratta di uno strato sociale sul quale la propaganda ottimate aveva sempre avuto molta influenza e che Cesare tenta appunto di attrarre a sé.

Ciò spiega, in più di un passo, la tendenza a rassicurare i ceti possidenti, per esempio, a proposito di una questione scottante come quella dei debiti che gravavano tanto sulla plebe quanto su membri dissoluti della nobilitas. Cesare dà ragione di alcuni suoi provvedimenti di emergenza, ma contemporaneamente mette in rilievo come da parte sua non ci si debbano attendere tabulae novae, cioè provvedimenti di cancellazione dei debiti del tipo di quelli proposti a suo tempo da Catilina (De bello civili III 1).

Sottolineando di essersi sempre mantenuto nei limiti della legalità repubblicana, Cesare trova modo anche di insistere sulla propria costante volontà di pace: lo scatenarsi della guerra si deve solo al rifiuto, più volte ripetuto, di trattative serie da parte dei pompeiani. Un altro fondamentale motivo dell’opera è la clementia Caesaris verso i vinti, contrapposta alla crudeltà degli avversari; dopo Mario e Silla, molti si aspettavano nuove proscrizioni, nuovi bagni di sangue. Cesare, dunque, si preoccupa di rassicurare i Romani e insieme di spegnere quei focolai d’odio a cui i suoi nemici avrebbero potuto facilmente attingere.

Non si può, infine, dimenticare il vero e proprio monumento che in questi Commentarii, come già in quelli sulla Guerra gallica, Cesare eleva alla fedeltà e al valore dei propri soldati, dei quali contraccambia l’attaccamento con affezione sincera. Probabilmente l’elogio che Cesare fa dei componenti del suo esercito non può essere staccato dal processo di promozione sociale, fino all’ammissione nei ranghi del Senato degli homines novi di provenienza militare. Tuttavia, è anche pensando ai posteri che Cesare tramanda nella sua opera i nomi di centurioni o di soldati semplici, distintisi in atti di particolare eroismo.

 

C. Giulio Cesare. Busto, marmo bianco lunense, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

Tra oggettività e deformazione storica

Lo stile scarno dei Commentarii cesariani, il rifiuto formale degli abbellimenti retorici tipici della historia vera e propria, la forte riduzione del linguaggio valutativo contribuiscono moltissimo al tono apparentemente oggettivo e impassibile della narrazione. Sotto questa impassibilità la critica moderna ha tuttavia creduto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni degli avvenimenti a fini di propaganda politica.

Sebbene spesso tale elemento sia stato eccessivamente rimarcato, è comunque indubbia la connessione dei Commentarii cesariani con la lotta politica. Questo rapporto è di certo più evidente nel caso del De bello civili – in cui l’urgenza delle tematiche scottanti del presente è particolarmente viva e operante – che non nel caso del De bello Gallico, scritto e divulgato al fine di appoggiare la candidatura di Cesare al secondo consolato.

In entrambe le opere la presenza di procedimenti di deformazione è comunque innegabile: non si tratta mai di falsificazioni vistose, ma di omissioni più o meno rilevanti, di un certo modo di presentare i rapporti tra i fatti. Cesare fa ricorso ad artifici abilissimi, dissimulati quasi perfettamente: attenua, insinua, ricorre a lievi anticipazioni o posticipazioni, dispone le argomentazioni in modo da giustificare i propri insuccessi.

Il trionfo di Cesare. Illustrazione di P. Connolly.

 

Coerentemente con queste tendenze della narrazione cesariana, il De bello Gallico, nel suo complesso, non può essere letto come un’esaltazione della conquista: l’autore mette in rilievo, piuttosto, le esigenze difensive che lo hanno spinto a intraprendere una guerra. Era, del resto, consuetudine consolidata dei Romani presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere la res publica e i suoi alleati da pericoli provenienti dall’esterno. Oltre che ai propri concittadini, Cesare si rivolge all’aristocrazia gallica per assicurarle la sua protezione contro i facinorosi che, sotto gli sbandierati ideali di indipendenza, celano l’aspirazione alla tirannide.

Ad analoghe esigenze di propaganda politica va ricondotto l’atteggiamento precedentemente individuato nel De bello civili, in cui Cesare tiene a presentarsi come un moderato, un uomo rispettoso delle leggi, un politico non incline a processi di tipo rivoluzionario.

In entrambe le opere l’autore tende, inoltre, a evidenziare le proprie capacità militari e politiche, rinunciando tuttavia ad alimentare quell’alone carismatico che aleggiava intorno alla sua figura (diversamente, forse, da quanto faceva nelle forme di propaganda non scritta, che si rivolgevano a un pubblico popolare, meno colto e smaliziato).

Se le straordinarie capacità del comandante spiegano i suoi successi, non manca comunque nella narrazione un elemento estraneo alle logiche strettamente umane: la fortuna. Nel resoconto, anzi, essa è largamente presente, ma non viene rappresentata come una divinità protettrice; è piuttosto un concetto che serve a spiegare cambiamenti repentini di situazione, un fattore imponderabile che talora aiuta anche i nemici di Cesare. La fortuna è soprattutto ciò che sfugge alle capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo. L’imperator, infatti, cerca di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali, di coglierne lucidamente la logica interna, e non fa praticamente mai ricorso all’intervento divino.

C. Giulio Cesare. Africa, Denarius 47-46 a.C. Ar 3, 84 gr. Dritto: Enea stante, verso sinistra, recante nella destra il palladium e il padre Anchise sulle spalle. Legenda: Caesar.

 

I continuatori di Cesare e le altre opere del corpus cesariano

Come si è detto, il corpus cesariano comprende, oltre alle opere autentiche dell’autore, anche dei testi spuri. Si tratta di scritti dovuti quasi certamente a dei legati di Cesare, con l’intenzione di completare la narrazione degli eventi raccontati nel De bello Gallico e nel De bello civili.

Il luogotenente Aulo Irzio, infatti, compose il libro VIII del De bello Gallico, per congiungere la narrazione di quest’ultimo con quella del De bello civili tramite il resoconto degli avvenimenti degli anni 51 e 50 a.C. Sempre a Irzio si deve probabilmente il Bellum Alexandrinum, sulla guerra in Egitto del 48/7. Si può presumere che queste opere dall’andamento sobrio e scarno rispettino la tradizione stilistica del commentario in modo più aderente di quella del Cesare autentico: la maniera di scrivere cesariana, come si è visto, spingeva talora il commentarius verso la historia, senza tuttavia rinunciare in niente all’esigenza della sobrietà, e attingendo livelli di lapidaria eleganza e suggestione che restarono ignoti a Irzio e ad altri continuatori.

Nel corpus cesariano figurano, inoltre, due opere relative alle altre campagne combattute contro i pompeiani in Africa e in Hispania, il Bellum Africum (sui fatti del 46) e il Bellum Hispaniense (su quelli del 45). Si tratta di testi che mostrano quanto instabile fosse il genere del commentarius, capace di aprirsi a diverse possibilità narrative e stilistiche: il primo si riveste così, con una certa frequenza, di una patina arcaizzante, mentre il secondo manifesta sporadiche ricercatezze di stile all’interno di un tessuto linguistico fondamentalmente popolareggiante e colloquiale, a cui non mancano persino tratti decisamente volgari. Si viene così a produrre, nel complesso, un forte squilibrio stilistico, i cui contrasti di tono hanno giustamente fatto pensare che l’anonimo autore dell’opera fosse un homo militaris non privo di un rudimentale tirocinio retorico che ne alimentava le vane velleità letterarie.

C. Giulio Cesare. Busto, marmo. Wien, Kunsthistorisches Museum.

 

Le opere perdute

La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei danni più gravi subiti dalla letteratura latina, a giudicare dai commenti entusiastici di chi, nell’antichità, poteva ancora leggerle, come Quintiliano o Tacito. In Brutus 262 Cicerone sembra voler contrapporre lo stile del Cesare dei Commentarii a quello delle sue orazioni, cui non avrebbero fatto difetto gli ornamenti retorici. È un giudizio sul quale tuttavia non si può giurare, poiché Cicerone, non potendo negarne l’efficacia, era probabilmente intenzionato a ricondurre lo stile oratorio di Cesare a matrici diverse da quelle atticistiche. A questo scopo l’Arpinate insiste sugli espedienti retorici e minimizza sulla elegantia come fonte del successo di fronte all’uditorio. Probabilmente le orazioni cesariane avranno evitato i tumores («gonfiori») e i colori eccessivi, ma l’uso accorto degli ornamenta lo avrà salvato dagli estremismi dello stile scarno e «digiuno» caro agli atticisti più spinti.

Lo stesso Cicerone, comunque, fu pronto ad ammettere che Cesare agì da “purificatore” della lingua latina, correggendo «l’uso scorretto e guasto con l’uso corretto e puro». Le teorie linguistiche di Cesare erano esposte nei tre libri De analògia (composti nel 54 a.C.), dedicati proprio all’avvocato arpinate, che certo non ne condivideva i fondamenti. Nel loro complesso, le teorie linguistiche assunte non potevano certo incontrare il favore di Cicerone e il fatto che proprio a lui Cesare avesse dedicato il suo trattato può essere messo a confronto con la decisione, da parte dell’Arpinate, di dedicare all’atticista Bruto opere come il Brutus o l’Orator: in entrambi i casi si tratta affatto dell’attestazione di una comunanza di convinzioni letterarie.

Dal De analògia emergeva, a quanto pare, l’opzione per un trattamento razionale e “ascetico” del latino. I pochi frammenti conservati mostrano come l’autore ponesse alla base dell’eloquenza l’accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è appunto l’analogia (la selezione razionale e sistematica), contrapposta all’anomalia (l’accettazione di ciò che diviene man mano consueto nel sermo cotidianus). La selezione deve limitarsi alle parole già nell’uso (i verba usitata), mentre, al contrario, si consiglia di fuggire, come il nocchiero fa con uno scoglio, le parole strane e inusitate. È evidente la coerenza di queste prescrizioni con lo stile asciutto e preciso dei Commentarii: l’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine e soprattutto della chiarezza, alla quale talora egli sacrificava anche la grazia.

 

 

Aureliano: una riforma graduale

di F. CERATO, Aureliano: una riforma graduale.

L’acclamazione di Lucio Domizio Aureliano[1], magister equitum di Claudio[2], al soglio imperiale, avvenuta nel 270 d.C. a Sirmium, in Pannonia, nell’attuale Serbia[3], ristabiliva una prassi ormai consolidata: già da tempo, infatti, erano le gerarchie militari a scegliere l’imperator e l’avallo del Senato di Roma era una pura formalità. Inoltre, Aureliano apparteneva – tanto come il suo predecessore, Claudio il Gotico, quanto il suo successore, Probo – a quella covata di generali che dovevano la propria fortuna a Gallieno. Per la tradizione storiografica superstite, ancor più di Claudio II, il cui regno fu anche fin troppo breve, Aureliano rappresenta l’anti-Gallieno; e, in effetti, il nuovo Augustus dovette affrontare il difficile problema di rimarginare le ferite territoriali che l’Impero aveva subito proprio sotto Gallieno (253-268). Austerità, disciplina, rigore furono le virtutes che marcarono la figura di Aureliano nella tradizione, appunto, e probabilmente anche nei fatti, in contrapposizione all’“effemminato” Gallieno.

L. Domizio Aureliano. Busto, bronzo, III sec. d.C. ca. Brescia, Museo di S. Giulia.

Il tentativo da parte del Senato di eleggere imperator Quintillo, fratello del defunto Cesare, non poteva che scontrarsi con lo strapotere dell’esercito[4]. Alla notizia della morte del fratello, infatti, lo stesso Quintilio, che presidiava Aquileia con una parte dell’esercito, fu abbandonato dai soldati e si tolse la vita[5]. Quanto ad Aureliano, anche lui di origini illirica[6], era stato vicinissimo a Claudio II e la sua designazione fu fatta accompagnare dalla voce, con ogni probabilità inventata ad arte, che lo stesso Claudio lo avesse scelto suo successore. Aureliano, inoltre, non fu certamente estraneo all’eliminazione di Manlio Acilio Aureolo, un ex generale di Gallieno, che avrebbe potuto essere un potenziale rivale nell’ascesa al potere[7].

Finalmente, senza più ostacoli, la prima decisione del nuovo imperator fu quella di recarsi immediatamente a Roma per ottenere la ratifica del Senato nella sua nuova dignitas: da qui, forse, un atteggiamento di reciproca diffidenza, se non ostilità, tra imperatore e Senato nel corso del suo regno. Volitivo e deciso rappresentante di quei quadri dell’esercito il cui potere si era ormai accresciuto a dismisura, il nuovo Cesare si trovò subito a confrontarsi con una serie di scorrerie organizzate dalle più diverse tribù germaniche: gli Juthungi, che tornavano in Raetia dopo essere penetrati in Italia, i Vandali, che avevano invaso la Pannonia, e gli ormai noti e sempre irrequieti Alamanni e Marcomanni[8].

Soldati romani ausiliari dell’età di Aureliano (III sec.). Illustrazione di G. Sumner.

Pertanto, prima di scendere a Roma a certificare la propria posizione, Aureliano si rendeva perfettamente conto che il problema degli sconfinamenti barbarici era della massima urgenza. Riprendendo la strategia del predecessore, l’imperator lasciò i propri presidi pannonici per dirigersi verso la Pianura padana per tagliare la via del ritorno al nemico: le orde juthungiche, infatti, dilagate in Italia settentrionale per fare bottino, venute a conoscenza dell’arrivo di un nuovo imperatore, tentarono di ritirarsi, ma furono intercettate dai Romani nei pressi del Danubio e sbaragliate. Non distrutti completamente, i barbari furono costretti a scendere a patti, ma le loro istanze di rinnovo dei precedenti trattati e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutate da Aureliano con estrema fermezza. In compenso, in quell’occasione, pare che egli abbia compiuto un gesto emblematico della sua personalità: davanti a tutto l’esercito schierato, ricevette gli emissari juthungici, accordò loro la pace, ma rifiutò il foedus (che avrebbe reso l’Impero tributario dei barbari), avvertendo così la controparte di un netto cambiamento di rotta nella politica imperiale[9].

Mappa dell’invasione della Raetia e dell’Italia settentrionale negli anni 268-271.

Compiute tali imprese, discese quindi a Roma per pretendere l’ufficializzazione della sua posizione imperatoria dalle mani del Senato. Assumendo la carica governativa, Aureliano ricevette un Impero diviso in tre parti: l’Imperium Galliarum, costituito dalle province più occidentali (Hispaniae, Galliae, Britannia), retto da Gaio Pio Esuvio Tetrico, in piena crisi interna ed esposto a continui sconfinamenti di incursori d’oltre Reno; in Oriente, Syria, Asia ed Aegyptus avevano defezionato a favore del Regno di Palmira, fondato da Settimio Odenato, e allora governato da Zenobia e dal figlio Settimio Vaballato[10].

Zenobia, Antoniniano, Antiochia apud Oronten, 272 d.C. AR 2,52 gr. Recto: S(eptimia) Zenobia Aug(usta). Busto drappeggiato, voltato a destra, con stephané e luna crescente.

Pur deciso a adempiere al suo compito, Aureliano doveva temporeggiare a causa delle insufficienti risorse militari: per quanto temprate da anni di esperienza sul campo, poteva contare solo su quattordici legioni, tutte schierate sul limes danubiano, ma sarebbe stato rischioso disimpegnarle da là e trasferirle su altri fronti. Quanto all’Imperium Galliarum, l’usurpatore Tetrico versava in una situazione forse più grave di quella di Roma, vessato dalle tribù germaniche e non in grado di perseguire alcuna politica di espansione[11]. Ben diversa era la condotta da tenere verso il Regnum Palmyrense, ormai all’apogeo: Aureliano dovette ricorrere a concessioni, riconoscendo al principe Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di vir consularis, rex, imperator e dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la propria effigie sul diritto (purché sul rovescio apparisse quella di Aureliano): in questo modo l’imperatore poté garantirsi, almeno formalmente, l’unità dell’Impero.

Aqmat, figlia di Hagagu, di Zebida con iscrizione. Busto a rilievo, pietra locale, fine II sec. d.C. da Palmira. London, British Museum.

Mentre si trovava ancora nell’Urbe, nel novembre del 270, Aureliano fu raggiunto dalla notizia di una nuova invasione che stava diffondendo il panico in Pannonia, rimasta sguarnita dopo l’impresa contro gli Juthungi[12]. Questa fu la volta dei Vandali Asdingi, al cui seguito militavano alcune bande di Sarmati Iazigi[13]. Il rapido intervento dell’imperator in persona costrinse l’orda a capitolare e a chiedere la pace. Aureliano, dopo essersi consultato con i suoi uomini,  concesse l’armistizio, ma a patto che i capi barbari consegnassero in ostaggio molti dei loro figli e fornissero un contingente di cavalleria ausiliaria da 2.000 uomini; non potendo rifiutare, i razziatori accordarono quanto richiesto e poterono far rientro nei loro territori oltre Danubio[14]. Per questi successi l’imperatore ottenne l’appellativo di Sarmaticus maximus[15].

Scena di battaglia fra Romani e Sarmati. Bassorilievo, marmo, 113 d.C. ca. Dettaglio dalla Colonna Traiana (attribuito ad Apollodoro di Damasco).

Non era trascorso molto tempo che già una nuova minaccia si profilava all’orizzonte: stavolta si trattava di una cospicua invasione congiunta di Alamanni, Marcomanni e alcune bande juthungiche. Ancora una volta, Aureliano fu costretto ad accorrere verso l’Italia, ora che gli invasori avevano ormai superato i passi alpini. Raggiunto il cuore della Pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, nei pressi di Piacenza l’imperatore stesso fu colto da un’imboscata tesagli dalla coalizione nemica[16]. Se, da una parte, la pesante sconfitta inflisse un duro colpo all’immagine pubblica dell’imperatore, dall’altra, è vero che i vincitori non seppero coglierne i frutti, perché, spinti da un’irrefrenabile smania di bottino, si divisero in orde più piccole, sparpagliandosi in tutta l’area padana. Ciò permise all’imperatore di radunare nuovamente le forze e di dare la caccia ai razziatori. Con due scontri campali, uno a Fanum e uno a Ticinum, Aureliano riuscì a stornare la minaccia barbarica e a ricacciare i nemici al di là del limes danubiano[17].

Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.

Insomma, fin da subito l’attività dell’imperatore non si limitò alla semplice azione di contenimento: grazie all’esperienza delle campagne condotte vittoriosamente nel primo anno di regno, Aureliano concepì e attuò una radicale riforma territoriale e amministrativa dell’area del basso Danubio, finalizzata a facilitare il controllo di quell’area sulla lunga durata. Punto cardine dell’operazione fu una decisione sofferta, ma inevitabile: l’abbandono del territorio occupato a nord del fiume, divenuto ormai del tutto incontrollabile[18]. L’area dacica sulla sponda destra, invece, fu suddivisa in due province: la Dacia Ripensis, in cui si attestarono le due legioni che prima tenevano il territorio transdanubiano, e la Dacia Mediterranea, più a sud[19]. Quanto all’ex provincia di Dacia, Aureliano concesse ai Goti di stanziarvisi liberamente, attestando il limes romano sul Danubio[20].

Monumento funebre a un argentarius (P. Curtilius P.L. Agat. Faber Argentarius). Marmo, I sec. d.C. dall’Italia.

Nel 271, preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l’antica auctoritas, il nuovo imperatore, per conservare il potere, prese a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio in cui versava l’apparato amministrativo dell’Impero, zecca inclusa, promuovendo una riforma fiscale. E proprio mentre si apprestava a indagare e punire i reati commessi, in relazione alla coniazione delle monete d’argento, si scatenò una ribellione dei monetarii, gli addetti alla zecca di Roma: proprio quegli operai erano stati accusati di appropriazione indebita di metallo prezioso. Ben presto, tuttavia, la ribellione a tal punto da coinvolgere anche parte della popolazione urbana, alcuni membri del Senato, il praefectus Urbi e i funzionari dell’Aerarium: pare, inoltre, che a capo della sedizione si fosse posto Felicissimo il procurator fisci[21]. L’intervento dell’Augustus fu spietato e la sommossa fu repressa in modo estremamente cruento: tutti i magistrati e i maggiorenti coinvolti furono epurati. Per alcuni anni le attività della zecca furono sospese[22].

L. Domizio Aureliano, Antoniniano, Sciscia, 273 d.C. AR 4,26 gr. Recto: Imp(erator) C(aesar) Aurelianus Aug(ustus). Busto corazzato e radiato dell’imperatore, voltato a destra.

Fu in quella circostanza – pare – che l’imperator decise la fortificazione dell’Urbe con poderose mura merlate, intervallate ogni 30 metri da 381 torri a pianta rettangolare, e da 17 o 18 porte principali, per una circonferenza totale di dodici miglia[23]. Questa importantissima opera pubblica, ancora oggi nota come mura Aureliane, era sintomo di come ormai non fosse nemmeno sicuro il cuore dell’Impero[24].

Mura Aureliane, Roma.

Al di là delle pur pressanti questioni interne, il nodo da affrontare per Aureliano era, però, un altro: si trattava di tentare di ristabilire l’unità statale, minacciata dall’Imperium Galliarum e dall’incredibile espansione di Palmira in Oriente.

Il Regno palmireno, sotto la guida della geniale regina Zenobia, che agiva come reggente del giovane figlio Vaballato, aveva accresciuto enormemente la propria sfera d’influenza grazie a una serie di fortunate campagne militari, approfittando del momento di incertezza, seguito alla morte di Claudio II: dietro il paravento dell’incarico di corrector totius Orientis, affidato al defunto re Odenato dagli stessi Romani, Zenobia mirava ormai all’impero personale per sé e per il figlio[25]. Dopo un iniziale accordo con il potere centrale, si era avuta a livello ufficiale la ratifica di quella che già da tempo era una vera e propria usurpazione: dalla monetazione palmirena, infatti, era scomparsa l’effigie di Aureliano, sostituita da quella di Zenobia e di Vaballato, i quali si fregiavano del titolo di Augusti; era una vera e propria proclamazione di indipendenza da Roma e un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti dell’imperatore[26].

Tempio di Beelshamên. 131. Palmira.

In breve tempo le truppe di Zenobia si erano impadronite delle limitrofe province romane di Arabia, Aegyptus, Syria e parte dell’Asia Minore. Nell’ottobre 270 un corpo d’armata palmireno di 70.000 uomini, guidato dal generale Settimio Zabdas, aveva approfittato del fatto che il praefectus Aegypti, Teagino Probo, fosse impegnato con la flotta per combattere i pirati, e aveva occupato la provincia nilotica. L’ingresso dei Palmireni ad Alessandria fu salutato come un trionfo e una liberazione dai fautori della regina[27]. Zenobia aveva rivelato passo a passo i propri piani di conquista del potere: all’inizio, infatti, aveva presentato se stessa e il figlio come paladini degli interessi di Roma in Oriente; poi nel 271 si era autoproclamata Augusta e imperatrix Romanorum, reggente per conto di Vaballato. Inoltre, la regina non solo aveva stretto un accordo segreto con i Sasanidi, ma aveva persino cercato il consenso in certi ambienti cristiani, giudaici e intellettuali: ella diede il suo appoggio al vescovo eretico Paolo di Samosata perché si insediasse ad Antiochia e si servì dei consigli di importanti intellettuali del tempo, lo storico Nicostrato di Trapezunte, il sofista Callinico di Petra e il retore neoplatonico Cassio Longino[28].

Iscrizione in onore di Giulio Aurelio Zenobio, padre di Zenobia. Colonna, arenaria, III sec. d.C. Palmira.

Nel 272 Aureliano decise di passare ai fatti, inviando in Aegyptus la sua flotta, guidata da Marco Aurelio Probo, che recuperò la provincia senza colpo ferire, e congiuntamente occupando senza trovare resistenza la provincia di Bithynia[29]; poi conquistò le città di Ancyra[30] e Tyana (quest’ultima per tradimento), riservando nei confronti dei civili un trattamento mite al fine di sgretolare il consenso verso Zenobia[31]. Tale condotta fu tenuta dall’imperatore ogni volta che si trovò ad assediare una città orientale per tutto il corso della campagna.

Soldati palmireni. Illustrazione di A. McBride.

Perduto il controllo sull’Asia Minore e sull’Egitto, Zenobia ordinò a Zabdas di radunare l’esercito nel cuore del suo dominio e di attendere il nemico. Le truppe palmirene, composte da due legioni, arcieri e cavalleria pesante (i clibanarii), assembrate fuori dalla capitale siriaca, Antiochia sull’Oronte, mossero allora incontro all’imperatore, che fu intercettato sulle sponde del fiume, nella località di Immae. Aureliano, memore della sua esperienza di magister equitum, al primo assalto dei cavalieri palmireni, fiduciosi delle loro corazzature, ordinò alla fanteria di attestarsi al di là dell’Oronte e diede istruzione ai suoi cavalieri, più leggeri e veloci, di non contrattaccare il nemico, ma di andargli incontro e di simulare una ritirata tattica. Raccomandò loro di insistere in questo senso finché i clibanarii nemici, appesantiti dalle corazze e sfiancati dalla corsa, non avessero desistito dall’inseguimento. Solo in quel momento, gli equites avrebbero contrattaccato e distrutto gli avversari, mentre la fanteria e il grosso dell’esercito imperiale, varcato il fiume avrebbero attaccato sul fianco di Zabdas. Il Palmireno subì una pesantissima sconfitta[32].

Ritiratosi in fretta e furia entro le mura della città vicina, dove si era insediata anche la corte di Zenobia per meglio seguire gli eventi, nottetempo i Palmireni decisero di abbandonare la piazzaforte nelle mani di Aureliano.

Esempio di eques clibanarius. Illustrazione di S. James.

Significativa allo scopo di fiaccare gli avversari fu la decisione assunta dall’imperatore in merito alla comunità cristiana di Antiochia, quando conquistò la città: nel 264 un concilio di vescovi, tenutosi nella città sull’Oronte, aveva condannato la condotta e la dottrina di Paolo di Samosata e lo aveva sostituito con Donno[33]. Durante la spedizione di Aureliano contro Zenobia, il vescovo eretico aveva rivendicato il possesso della casa episcopale e aveva preteso la propria reintegrazione a capo della comunità dei fedeli. La diatriba, all’avviso di questi ultimi, aveva richiesto l’attenzione dell’imperator vittorioso, il quale stabilì una volta per tutte che l’ufficio pastorale spettasse al vescovo che fosse stato in comunione con quello romano e quelli d’Italia. In forza di questa sentenza, Paolo di Samosata fu bandito dalla città[34].

Statua di Tyche-Fortuna di Antiochia. Marmo, copia romana del I secolo d.C. da originale di Eutichide del III secolo a.C. Musei Vaticani.

Aureliano, dunque, venuto a sapere che i nemici si erano attestati nei pressi di Emesa, fu sul punto di muovere loro incontro. Tuttavia, avvisato della presenza di un nutrito contingente di arcieri collocato sulla cima della collina di Dafne, nei sobborghi di Antiochia, ordinò alle sue truppe di prendere l’altura e di eliminare quella potenziale spina nel fianco[35]. Alla notizia della brillante vittoria romana, le città di Apamea, Larissa e Aretusa, tutte sull’Oronte, aprirono le porte al passaggio del vincitore[36]. Aureliano si diresse alla volta di Emesa, dove lo attendevano i 70.000 Palmireni guidati dal solito Zabdas: ancora una volta il generalissimo di Zenobia, che, evidentemente, non aveva imparato la lezione, puntò tutto sulla cavalleria, in effetti, in superiorità numerica rispetto a quella romana. Inaspettatamente, l’imperatore, pur volgendo la battaglia a suo svantaggio, ricevette il rinforzo di contingenti da tutta l’area circostante, anche da quelli che avevano defezionato dalla causa di Zenobia, e riportò una vittoria schiacciante[37].

Divinità palmirene. (Da sinistra a destra) il dio lunare Agli-Bol, il dio supremo Beelshamên ed il dio solare Malakbêl. Calcare, I secolo da Bir Wereb (Wadi Miyah, Siria). Paris, Musée du Louvre

Zenobia, avendo deciso di ritirarsi nella propria capitale, nella concitazione della fuga, aveva dimenticato di recuperare il tesoro reale custodito in Emesa: qui l’imperatore, salutato dalla popolazione civile come un liberatore, fu riconosciuto come il prescelto di El-Gabal, il dio Sol Invictus. Per questa ragione, Aureliano stabilì di restaurare il santuario urbano e di assumere il culto del dio nel proprio pantheon personale[38].

Scutum. Legno e pelle, III sec. d.C. da Dura Europos. Yale University.

Dopo un breve assedio[39], anche Palmira, l’ultima resistenza, capitolò e la regina ribelle fu catturata, sorpresa a fuggire verso gli alleati sasanidi[40]. L’atteggiamento dell’imperatore fu, ancora una volta, deliberatamente di estrema mitezza: solo i funzionari, i consiglieri e i generali di Zenobia furono messi a morte. Solo la sovrana fu risparmiata, per servire al vincitore come preda eccellente da esibire nel trionfo[41].

Mappa della campagna orientale di Aureliano (272).

Nel 273, mentre si apprestava a fare rientro a Roma, Aureliano fu raggiunto dalla notizia che gli abitanti di Palmira si erano nuovamente ribellati, sobillati da un certo Apseo, e avevano cercato la connivenza del praefectus Mesopotamiae e rector Orientis, Marcellino. Siccome, però, quest’ultimo esitava, avevano cercato di innalzare alla porpora un parente di Zenobia, un certo Achilleo (o Antioco)[42]. Senza alcun indugio l’imperatore tornò indietro e sedò la rivolta: stavolta si mostrò duro e spietato, comminando esecuzioni sommarie e radendo al suolo la città; agli abitanti superstiti concesse la facoltà di riedificare il centro urbano[43]. Pacificato in questo modo l’Oriente, ottenuti gli appellativi di Palmyrenicus maximus[44], Adiabenicus[45], Parthicus maximus[46], Persicus maximus[47], e soprattutto di Restitutor orbis[48], tornò nell’Urbe da trionfatore[49].

Tornato in Italia e respinti nuovamente gli Alamanni, Aureliano poté finalmente rivolgersi all’altro grande fattore di disgregazione dell’Impero: l’Imperium Galliarum. All’interno di quell’organismo statale la situazione era tutt’altro che tranquilla, anzi, probabilmente, versava in condizioni peggiori di quelle affrontate dal governo legittimo. Nel 271, infatti, l’usurpatore Marco Piavonio Vittorino era stato assassinato da uno dei suoi ufficiali e gli era succeduto Tetrico, già governatore dell’Aquitania, che aveva nominato il figlio omonimo prima Cesare e poi Augusto, associandoselo all’impero. Nel 274 Aureliano mosse guerra all’usurpatore gallico e le truppe romane affrontarono quelle nemiche in campo aperto, apud Catalaunos (Châlons-sur-Marne). La versione ufficiale vuole che Tetrico avesse contattato Aureliano prima della battaglia, chiedendogli di accoglierlo dalla sua parte e di aiutarlo per guerreggiare contro Faustino, che lo aveva spodestato nella sua capitale, Augusta Treverorum. Sta di fatto che, abbandonato dalla maggior parte dei suoi, Tetrico fu sconfitto in uno scontro sanguinoso e che accompagnò il trionfo di Aureliano insieme a Zenobia[50].

C. Pio Esuvio Tetrico, Doppio antoniniano, Colonia Agrippinensis o Augusta Treverorum, 271-274 d.C. Æ 5,62 gr. Recto: Imp(erator) Tetricus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto radiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

È curioso che sia la regina palmirena sia l’ex imperatore delle Galliae sarebbero stati risparmiati: l’una confinata a vita a Tivoli, l’altro perdonato e rivestito addirittura della carica di corrector Lucaniae et Bruttiorum, in ossequio alla sua dignità senatoria[51].

Nel 274, dunque, Aureliano aveva finalmente realizzato la restitutio imperii. Alla rinnovata unità politica egli volle far corrispondere l’unità ideologico-religiosa, promuovendo e anzi imponendo ai cittadini dell’Impero il culto del suo nume protettore, il Sol Invictus: quello tributato a questa divinità era un culto di ispirazione monoteistica e orientale, ed era tipico dell’elemento militare; stando così le cose, Aureliano, essendo il comandante in capo delle forze armate, era anche il sommo sacerdote del nuovo culto: insomma, in lui si realizzava una perfetta sintesi fra le istanze politiche e quelle spirituali (dominus et deus)[52]. Anche l’apparato e il cerimoniale di corte furono condizionati da questo monoteismo solare protettore dell’Impero e dell’Augusto al tempo stesso; l’imperatore fu il primo nella storia romana a indossare il diadema orientale e la corona radiata: queste novità dimostrano quanto la suggestione dello sconfitti Regno palmireno avesse colpito l’immaginario di Aureliano e, inoltre, celano i germi della concezione e rappresentazione dell’assolutismo e della sacralità del potere che avrebbero caratterizzato il successivo Dominatus. L’imperatore dedicò un colossale tempio al Sol Invictus, eretto presso le pendici del Quirinale, e pretese che fossero resi onori superiori a qualsiasi altra divinità[53].

L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Sol, radiato, stante, verso sinistra; regge nella mano sinistra un globo e la destra è alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi; in leggenda: Oriens Aug(usti).

Sotto il suo principato, nella città di Roma si incrementarono le distribuzioni gratuite agli aventi diritto di pane, carne di maiale, olio, sale e probabilmente anche vino: per queste si rese necessario creare alcune corporazioni di mestiere, indispensabili per assicurare la continuità del servizio, come i navicularii (battellieri) del Nilo e del Tevere, oppure i fornai di Roma.

Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.

Il sostegno materiale e logistico fu cercato attraverso una importante riforma monetaria, in un tentativo di miglioramento qualitativo del denaro: nella primavera del 274, infatti, Aureliano tentò di porre rimedio alla costante svalutazione della moneta d’argento e all’instabilità dell’emissione dei tipi aurei, ormai tendenti al ribasso. Secondo Zosimo, l’imperatore adottò nuove misure che avevano il loro punto focale nell’introduzione di una nuova moneta argentea (ἀργύριον νέον), ritirando, al contempo, i coni adulterati (τὸ κίβδηλον)[54]. Segno tangibile dei provvedimenti fu l’emissione di nuovi antoniniani, chiamati aurelianiani, dal peso medio di 1/50 di libbra[55].

Aureliano. Aureo. Mediolanum, 271-272 d.C., AV 4,70 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) L(ucius) Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore voltato verso destra, laureato e corazzato.

L’opera di risistemazione e di riaggregazione dell’Impero avrebbe dovuto avere un suggello nella vendetta contro i Sasanidi per la cattura di Valeriano: nel 275 Aureliano si mise in viaggio per raggiungere l’Asia Minore e da lì guidare una campagna contro il nemico orientale[56]. Mentre l’imperatore si trovava sulla via di Bisanzio, dove lo attendeva l’esercito, il liberto Erote, uno dei suoi segretari, più volte segnalato per malversazione, temendo la punizione del padrone, ordì una congiura contro di lui. Avendo una certa familiarità con le generalità e con i documenti dell’imperatore, conoscendone perfettamente la grafia, decise di stilare una lista di ufficiali sospettati di corruzione e di lesa maestà da processare e mettere a morte, siglandola con la firma dell’Augustus. Nell’accampamento di Caenophrurium, tra Perinto e Bisanzio, gli ufficiali della guardia pretoriana intercettarono il documento e, colti dall’ira, massacrarono l’imperatore[57].

***

Note:

[1] Sulla figura di questo imperatore, essenziali sono le fonti citate già in E. Groag, s.v. Domitius(36) Aurelian, in RE V 1 (1903), coll. 1347-1419. Cfr., inoltre, J. Scarborough, Aurelian: Questions and Problems, CJ 68 (1973), pp. 334-345; S. Dmitriev, Traditions and Innovations in the Reign of Aurelian, CQ 54 (2004), pp. 568-578; U. Hartmann, Claudius Gothicus und Aurelianus, in K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser. Krise und Transformation des Römischen Reiches im 3. Jahrhundert n. Chr., I, Berlin 2008, pp. 297-323; si vd. anche la recente biografia di J.F. White, The Roman Emperor Aurelian, Barnsley 2016.

[2] Cfr. S.H.A. III Aurel. 16, 4; 18, 1.

[3] Sull’appellatio imperatoria di Aureliano, cfr. C. Scarre, Chronicle of the Roman Emperors, New York 1999, p. 184; A. Watson, Aurelian and the Third Century, London-New York 1999, p. 45.

[4] Sul rapporto conflittuale con il Senato, si vd. R. Suski, Aurelian and the Senate. A Few Remarks upon Emperor Aurelian’s Policy of Political Nominations, in T. Derda et al. (eds), Euergesias charin. Studies presented to Benedetto Bravo and Ewa Wipszycka, Warsaw 2002, 279-291.

[5] Cfr. Zonar. XII 26. Su Quintillo, si vd. D.T. Barnes, Some Persons in the Historia Augusta, Phoenix 26 (1972), pp. 168-170.

[6] Sulle origini di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 1-2; Eutr. IX 13, 1; Aur. Vict. Caes. 35, 1.

[7] Cfr. S.H.A. III Aurel. 5, 1-3; Zonar. ibid.; Zos. I 41,1; M. Grant, Gli imperatori romani: storia e segreti, Roma 1984, p. 241; Aur. Vict. Caes. 33. Su Aureolo, in part., si vd. Barnes, 1972, p. 149.

[8] Cfr. Grant, 1984, p. 245.

[9] A proposito delle imprese dell’imperatore contro gli Juthungi, si vd. R.T. Saunders, Aurelian’s “Two” Juthungian Wars, Historia 41 (1992), pp. 311-327.

[10] Sul Regno di Palmira, si vd. D. Potter, Palmyra and Rome: Odaenathus’ Titulature and the Use of the Imperium Maius, ZPE 113 (1996), pp. 271-285; R. Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia Revolt against Rome, Michigan 1994. Sull’ascesa di Zenobia, si vd. P. Southern, Empress Zenobia: Palmyra’s Rebel Queen, 2008, pp. 84-92; T. Bryce, Ancient Syria: A Three Thousand Year History, Oxford 2014, p. 299. Per una discussione intorno alle fonti, si vd. D. Burgersdijk, Zenobia’s Biography in the Historia Augusta, TALANTA 36-37 (2004-2005), pp. 139-152. Si vd. ancora P. Jones, Rewriting Power. Zenobia, Aurelian, and the Historia Augusta, CW 109 (2016), pp. 221-233.

[11] Sulla figura di Tetrico, si vd. PIR², E 99; S. Estiot, Tétricus I et II : les apports de la statistique à la numismatique de l’empire gaulois, H&M 4 (1989), pp. 243-266; R. Ziegler, Kaiser Tetricus und der senatorische Adel, Tyche 18 (2003), pp. 223-232; M. Polfer, Tetricus I (AD 271–273), in De Imperatoribus Romanis: An Online Encyclopedia of Roman Rulers and Their Families [http://www.roman-emperors.org/tetrici.htm].

[12] Cfr. Zos. I 48, 1.

[13] S.H.A. III Aurel. 18, 2; Zos. I 48, 2; Watson, 1999, p. 217. Cfr. anche M. Colombo, La presenza di Sarmati e di altri popoli nei trionfi di Gallieno, Aureliano e Probo: contributo alla storia dei Sarmati e all’esegesi della Historia Augusta, Hermes 138 (2010), pp. 470-486.

[14] Si vd. Dexip. Scyth. fr. 7; cfr. Grant, 1984, p. 246.

[15] CIL III 13715; S.H.A. III Aurel. 30, 5; Watson, 1999, p. 221.

[16] Cfr. S.H.A. III Aurel. 21, 1-3; Watson, 1999, p. 50; D.S. Potter, The Roman Empire at Bay, AD 180-395, London-New York 2005, p. 269, sugli sviluppi successivi alla battaglia.

[17] Cfr. CIL IX, 6308; 6309. Si vd. anche S.H.A. III Aurel. 18, 4; 19, 4; Zos. I 49; Aur. Vict. Caes. 35, 2; Watson, 1999, pp. 51, 216 e sgg.; Grant, 1984, p. 246.

[18] Cfr. Watson, 1999, pp. 155-157; si vd. anche S.H.A. III Aurel. 39, 7; Eutr. IX.

[19] Su questa ripartizione, si vd. P. Petit, Histoire générale de l’Empire romain : La crise de l’Empire (des derniers Antonins à Dioclétien), Paris 1974, p. 482.

[20] Sul rapporto fra Aureliano e i Goti, e soprattutto sulla campagna contro Cannabaude, si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 2; Grant, 1984, p. 247; P. Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, London-New York 2001 p. 225. Sulla figura di Cannabaude, cfr. H. Wolfram, Die Goten, Münich 1990, p. 106; A. Goltz, Die Völker an der mittleren und nordöstlichen Reichsgrenze, in K-P. Johne, 2008, pp. 449-464 [p. 461].

[21] Su Felicissimo, si vd. Barnes, 1972, p. 157.

[22] Cfr. S.H.A. III Aurel. 38, 2-4; Aur. Vict. Caes. 35, 6. Sulla rivolta dei monetarii, si vd. R. Turcan, Le délit des monétaires rebellés contre Aurélien, Latomus 28 (1969), pp. 948-959, e V. Cubelli, Aureliano imperatore: la rivolta dei monetieri e la cosiddetta riforma monetaria, Firenze 1992.

[23] L. Cozza, Roma: le Mura Aureliane dalla Porta Flaminia al Tevere, PBSR 57 (1989), pp. 1-5.

[24] Zos. I 49, 2.

[25] Si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 1. Cfr. R. Rémondon – A. Pastorino, La crisi dell’impero romano, da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975, p. 82.

[26] Sui tipi monetali dei sovrani palmireni, si vd. R. Bland, The Coinage of Vabalathus and Zenobia from Antioch and Alexandria, NC 171 (2011), pp. 133-186.

[27] Sulla conquista dell’Egitto da parte dei Palmireni, si vd. Zos. I 44.

[28] Sulla cultura di Zenobia, si vd. G. Bowersock, L’Ellenismo nel mondo tardoantico, Roma-Bari 1992, pp. 20-21. A proposito di Longino, si vd. J. Lamb, Longinus, the Dialectic, and the Practice of Mastery, ELH 60 (1993), pp. 545-567.

[29] S.H.A. III Aurel. 22, 4. Cfr. Bryce, 2014, p. 307.

[30] Zos. I 50, 2.

[31] Cfr. Zos. ibid.; S.H.A. III Aurel. 23.

[32] S.H.A. III Aurel. 25, 1; Zos. I 50, 2-4. Sulla vittoria a Immae, si vd., in particolare, G. Downey, Aurelian’s Victory over Zenobia at Immae, A.D. 272, TAPhA 81 (1950), pp. 57-68. Cfr. anche Bryce, 2014, p. 309.

[33] Euseb. Hist. Eccl. 30, 7.

[34] Cfr. F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third-Century Syria, JRS 61 (1971), pp. 1-17; K. Butcher, Roman Syria and the Near East, Malibu 2003, p. 378; Southern, 2008, p. 138.

[35] Zos. I 52, 1-2.

[36] Zos. I 52, 3.

[37] S.H.A. III Aurel. 25, 2-3; Zos. I 52, 3-54, 3. Cfr. Bryce, 2014, p. 310.

[38] S.H.A. III Aurel. 25, 6.

[39] Zos. I 54, 2.

[40] Sull’assedio di Palmira, si vd. Zos. I 55-56. S.H.A. III Aurel. 27-30.

[41] Secondo la versione di Zos. I 59, Zenobia sarebbe morta durante il viaggio.

[42] Per questa rivolta si vd. Zos. I 60, 1-2; S.H.A. III Aurel. 31, 2. Si vd. Barnes, 1972, pp. 145-146 (su Achilleo/Antioco).

[43] S.H.A. III Aurel. 31, 3-10.

[44] CIL V, 4319.

[45] S.H.A. III Aurel. 30, 5.

[46] S.H.A. III ibid.; CIL XII, 5456; AE 1980, 640; CIL VI, 1112 (p. 4324); VIII, 9040; XII, 5549; XIII, 8973; AE 1949, 35.

[47] CIL XII, 5561; 5571a; AE 1936, 129.

[48] AE 1981, 917; 1992, 1847; CIL VIII, 10205; 22361; 22449; XI, 1214; XII, 5456.

[49] Zos. I 61, 1.

[50] Sulla resa di Tetrico, si vd. E. Cizek, L’empereur Aurélien et son temps, Paris 1994, pp. 119-122. Sull’immagine dell’imperatore vittorioso sull’usurpatore gallico e sulla regina palmirena, si vd. A. Mastino – A. Ibba, L’imperatore pacator orbis, in M. Cassia et. al. (eds.), Pignora amicitia. Scritti di storia antica e di storiografia offerti a Mario Mazza, Catania 2012, pp. 192-196.

[51] Sul destino riservato a Zenobia, si vd., in particolare, S.H.A. III Tyr. Trig. 24; ma anche 30, 27; Eutr. IX 10-13; Grant, 1984, p. 248. A proposito di Tetrico, invece, si vd. S.H.A. III Tyr. Trig. 25, 1-4.

[52] A proposito dell’associazione della gens Aurelia al culto solare, si vd. J.C. Richard, Le culte de Sol et les Aurelii: à propos de Paul Fest. p. 22 L., in Mélanges offerts à Jacques Heurgon: L’Italie préromaine et la Rome républicaine, Rome 1976, pp. 915-925.

[53] Sulla dedicatio e sulla aedificatio del tempio, si vd. Jer. ab Abr. 2291 (275 d.C.); Cassiod. Chron. 990; S.H.A. III Aurel. 1, 3; 25, 4-6; 35, 3; 39, 2. Cfr. J. Calzini Gysens – F. Coarelli, s.v. Sol, templum, in E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV, Roma 1999, pp. 331-333

[54] Zos. I 61, 3.

[55] Cfr. A. Savio, Monete romane, Roma 2001, p. 198, e G.G. Belloni, La moneta romana, Roma 2004, p. 263. Sulla riforma monetaria di Aureliano, in generale, si vd. R.A.G. Carson, The Reform of Aurelian, RN 7 (1965), pp. 225-235, W. Weiser, Die Münzreform des Aurelian, ZPE 53 (1983), pp. 279-295, e il più recente M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform. Between Debasement and Public Trust, Chiron 41 (2011), pp. 1-40. Sulle conseguenze della riforma, si vd. C. Crisafulli, La riforma di Aureliano e la successiva circolazione monetale in Italia, in M. Asolati – G. Gorini (eds.), I ritrovamenti monetali e i processi storico-economici nel mondo antico, Padova 2012, pp. 255-282.

[56] A proposito delle intenzioni di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 35, 4; Grant, 1984, p. 249; Watson, 1999, p. 102.

[57] S.H.A. III Aurel. 35-37.

I mutevoli confini della conoscenza

di A. LO MONACO, in AA.VV., I giorni di Roma. L’età della conquista, Ginevra-Milano 2010, 35-43 [link].

In poco più di ottant’anni il Senato di Roma si trovò in una situazione a dir poco singolare. Era il 229 a.C. quando i due consoli dell’anno, Cn. Fulvio Centumalo e L. Postumio Albino, furono inviati in Illiria a capo di un impressionante corpo militare (duecento vascelli, ventimila fanti e duemila cavalieri), incaricati della risoluzione di una questione spinosa, che venne poi festeggiata come un vero e proprio trionfo (ex Illurieis), sebbene non vi fossero state reali battaglie cruente e copioso spargimento di sangue, come prescritto dalla legge. Era questa la prima «traversata in armi» di Roma verso Est, come la definirà con tono solenne Polibio (II 2, 4). E già nel 146 a.C., a seguito della risoluzione del conflitto acheo con l’epocale vittoria di Lucio Mummio, Roma non aveva più alcun rivale, era ormai realmente l’unica vera potenza egemone.

Mappa con i popoli della futura provincia romana di Dalmazia.

Guerrieri illirici (III sec. a.C.) [link].
Il fenomeno della simultanea espansione romana su tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna alle coste dell’Asia Minore, è stato oggetto di una moltitudine di studi. Furono quelli decenni di repentini cambiamenti, destinati, com’è noto, a influire profondamente sulla stessa formazione di un’identità «romana», e sulla nascita di un gusto e di uno stile artistico che solo d’ora in avanti saranno compiutamente «romani». Eppure, anche negli studi recenti, pressoché inevitabilmente, l’accento cade su termini quali «imperialismo» (nell’ottica romana) o «filoellenismo» (nell’ottica greca).

Nelle pagine che seguono vorrei soffermarmi piuttosto su altri interrogativi, legati al cambiamento che in questi decenni si produsse sulla «conoscenza dell’altro»: i presupposti culturali, gli stereotipi pregressi, il confronto, e, infine, l’acquisizione di una reale conoscenza reciproca.

Quale Grecia?

Per prima cosa occorre interrogarsi su «quale Grecia» fosse quella cui si riferiva immediatamente la nozione stessa di «grecità» agli occhi dei Romani, a partire dai secoli precedenti alla conquista vera e propria.

I primi rapporti diretti sembrano correlare il Senato di Roma a due specifici centri della Grecia: Delfi e Atene.

Il locus religiosus per eccellenza è naturalmente Delfi: a più riprese ambascerie viaggiano alla volta del venerando santuario nella speranza che le parole dell’oracolo possano contribuire alla risoluzione di gravi crisi o al debellamento delle frequente pestilenze. La prassi, frequente in età repubblicana, è riferita addirittura da Cicerone all’età dei Tarquini in due passaggi del De re publica, nei quali egli insiste sulla decisiva influenza greca che si sarebbe avuta a Roma già ai tempi di Tarquinio Prisco e sull’invio di dona a Delfi da parte di Tarquinio il Superbo. La reale frequentazione dei Tarquini a Delfi è tuttavia argomento spinoso, unicamente basato sul ricordo, narrato a molti secoli di distanza da Dionigi di Alicarnasso (IV 69) e Livio (I 56, 4-13), della consultazione dell’oracolo da parte dei figli del re, Lucio e Arrunte, accompagnati da L. Giunio Bruto, figlio della sorella di Tarquinio. Qualche incertezza permane anche sulla storicità del ricorso all’oracolo di Delfi in occasione della conquista di Veio: prima dell’inizio della guerra, un’ambasceria sarebbe stata inviata a consultare la Pizia, mentre nelle fasi convulse dell’assedio, Furio Camillo avrebbe promesso all’Apollo delfico la decima del bottino, poi effettivamente inviata nelle forme di un cratere d’oro, scortato da tre ambasciatori (L. Valerio, L. Sergio e A. Manlio) (Livio, V 21, 2; V 28; Diodoro Siculo, 14, 93; Valerio Massimo, I 1, 4). In effetti, la base bronzea del cratere era conservata all’interno del Thesauròs dei Romani e dei Massalioti ancora nel II secolo d.C., stando almeno alla testimonianza di Appiano (Sulle cose italiche, 8). In ogni modo, sembra che relazioni precise tra Roma e Delfi siano soltanto episodiche prima del 216 a.C.: in quell’occasione, dopo l’inattesa sconfitta di Canne, è lo storico Q. Fabio Pittore a ricevere dal Senato l’incarico di interrogare la Pizia su quali preci e suppliche (quibus precibus suppliciisque) avessero potuto contribuire a risolvere la più grave crisi della storia di Roma (Livio, XXII 57, 4-5): al suo ritorno in città, sarà sua cura tradurre in latino il responso in esametri, e riferirne accuratamente in Senato. Con Fabio Pittore arriva dunque per la prima volta a Roma quello che Gagè definì acutamente un parfum delphique authentique: la corona d’alloro indossata a Delfi è deposta all’ingresso in città sull’altare di Apollo (Livio, XXIII 11, 4-6), mentre in città risuonano sia le parole stesse della Pizia, sia, per la prima volta, ordini da adempiere per sancire il ritorno alla normalità.

Testa di marmo da una statua di Tito Quinzio Flaminino. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Delfi.

In materia di competenza giuridica si ricorre invece ad Atene. Non si può trascurare al riguardo la notizia, riferita ancora da Livio (III 31), dell’invio ad Atene nel corso del V secolo a.C. dei consoli Sp. Postumio Albo, A. Manlio e P. Sulpicio Camerino, incaricati di copiare le leggi di Solone. La notizia permette di osservare una dicotomia che diverrà abituale nella mentalità dell’epoca: se a Delfi si fa ricorso in materia di religione, il sapere giuridico è esclusiva di Atene, ove le inclitae leggi di Solone a distanza di secoli vengono ancora lette, discusse e copiate. Nel passo di Livio i consoli romani sembrerebbero addirittura lavorare con moderno metodo comparativo: copiato Solone, essi muovono tra aliarum Graeciae civitates (quali non è dato sapere) al fine di conoscere i singoli ordinamenti giuridici.

In città, frattanto, si iniziava addirittura a «vedere» alla greca. Il primo caso, che segnò una vera rivoluzione di gusto nella Roma alto-repubblicana, fu quello della decorazione fittile del tempio della triade aventina (Cerere, Libero e Libera), dedicato secondo la tradizione nel 493 alle pendici del colle, affidata a due artisti greci laudatissimi, come dirà più tardi Plinio (Naturalis Historia, XXXV 154). Pochi anni dopo, nel 484, fu eretto al centro del Foro Romano un edificio sacro in onore dei due fratelli gemelli di ascendenza spartana, i Dioscuri (o i Castori per dirlo alla romana), quale segno di gratitudine per il prezioso aiuto da essi offerto in occasione della violentissima battaglia al Lago Regillo. Cinquant’anni più tardi, a seguito di una pestilenza, sarà la volta di un tempio all’Apollo Alexìkakos («Stornatore dei mali»), dedicato solo due anni dopo, nel 431, dal console Gneo Giulio (Livio, IV 29, 7). Si tratta ancora di dediche isolate, legate ad episodi singoli, non valutabili all’interno di un più generale impatto sull’urbanistica e sull’aspetto della città a quei tempi: sono però i primi casi in cui fanno la loro comparsa templi legati al culto di divinità greche, fino a quel momento «straniere».

Frattanto, almeno dal V secolo a.C., in Grecia s’iniziava a riflettere compiutamente su Roma, giungendo persino all’elaborazione dell’origine troiana della città come conseguenza ultima della fuga di Enea da Ilio in fiamme e del suo arrivo sulle coste italiche: pare che questa idea, destinata a un successo di enorme portata e già presente probabilmente nei versi di Stesicoro, fosse poi più compiutamente elaborata negli scritti di Ellanico e di Damaste di Sigeo. Il tema è molto complesso, e non si vuole in questa sede entrare nel merito del dibattito.

Nel corso del IV e del III secolo a.C. le riflessioni su Roma si moltiplicano: è un Eraclide forse allievo di Aristotele, a noi noto nelle citazioni di Plinio (III 31) e Plutarco (Vita di Camillo, 27), a ricordare a proposito delle vicende del sacco gallico una «città greca, chiamata Roma, sita lì da qualche parte, presso il mare»: nozione in verità ancora geograficamente confusa, che sembra focalizzare l’interesse, piuttosto che sulla precisione della localizzazione nello spazio, sulla comune matrice culturale. Continuano le riflessioni sulle origini mitiche di Roma (Callia, in Dionigi, I 72, 5), sui tristi avvenimenti relativi al sacco gallico della città (Teopompo, Aristotele, Eraclide), e, addirittura, sulla Rōmaikḗ archaiología (Ieronimo di Cardi). Sarà Timeo di Tauromenio, cui si deve la «scoperta di Roma» secondo una felice definizione di Momigliano, a esercitare una duratura influenza sull’élite romana e sugli stessi annalisti di età repubblicana: le sue opere, forse alla base del lavoro di Fabio Pittore, erano ancora lette da Cicerone (Ad Atticum, VI 1, 18) e da Varrone (De re rustica, II 5, 3).

A fronte di questa pluralità di riflessioni su Roma, bisogna sottolineare come nessuna fonte letteraria latina a noi nota nomini invece direttamente la Grecia in generale o alcune sue città prima della metà del III secolo a.C. Si deve certo considerare quanto la nostra visione sia distorta dal numero esiguo di opere a noi pervenute: eppure, risalta l’assenza di qualsiasi accenno diretto a località della Grecia nelle fabulae di Livio Andronico, pure di soggetto greco, nei ridottissimi frammenti degli Annales di Fabio Pittore o di Cincio Alimento, e nemmeno (ma qui probabilmente non è frutto del caso) nelle fabulae di Gneo Nevio.

Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.

Le prime testimonianze dirette sono contenute nelle fabulae di Plauto, in scena tra la seconda metà del III secolo e le due prime decadi del II secolo a.C. Poco importa in quest’ottica quanto i testi in questione siano una fedele traduzione delle commedie della Nea, o una versione più libera adattata alla cultura e alla mentalità romana: ciò che conta è che con le fabulae plautinae recitate in occasione dei ludi scaenici si inizi ad offrire alla folla di spettatori frammenti di una Grecia fino a quel momento ancora lontana e ideale. I riferimenti nei dialoghi delle fabulae sono così numerosi che si è addirittura parlato di una sorta di iper-ellenizzazione. Nella finzione della narrazione, i personaggi si muovono in uno spazio caratterizzato come greco: greci sono i nomi delle suppellettili potorie (kantharoi, kyathoi) e del mobilio, greche sono le città dove essi vivono e viaggiano, greci i loro stessi costumi di scena. Eppure è ancora una Grecia del tutto astratta: i luoghi citati non hanno mai una vera connotazione in senso geografico, utili ad ancorare le città al territorio, mentre appare sufficiente evocarne i nomi dal suono “straniero”: non è uno scenario descritto, ma semplicemente evocato alla memoria. Il procedimento è ben evidente in un passo del Mercator. Per ambientare un proprio viaggio immaginario, il protagonista Charinus finge di spostarsi da Cipro a Calcide, fino a giungere ad Atene, dove riesce infine a ritrovare la donna amata: le città sono nominate in una sequenza artificiosa, che chiaramente non è quella che avrebbe avuto un viaggio “reale”. Certo, a quest’operazione non dovette essere estranea la natura stessa dei testi, commedie che avevano bisogno solo di una cornice in cui svolgere l’azione, senza la necessità di dilungarsi in descrizioni particolareggiate. È stato osservato come si debba proprio a Plauto con ogni probabilità la coniazione di neologismi quali graecissare e, con note forse in senso peggiorativo, pergraecari e congraecari: termini che raggiungono il loro effetto comico solo a patto che il pubblico abbia giù un quadro di riferimento mentale che lo possa guidare intuitivamente alla comprensione di cosa comporti «fare il Greco». Nelle fabulae è naturalmente Atene, la nutrices Graeciae (Stico, 649), a essere capace di richiamare con il suo solo nome la “concezione” stessa di grecità (Rudens, 737). Essa è insomma «la più greca delle città greche», caratteristica che conserverà fino al tardo Impero (basti pensare alla definizione di Ateneo, che chiamava Atene «Mouseîon tēs Helládos» (Deipnosofisti, V 12, 7). E anzi, Plauto ci informa dell’esistenza della regola non scritta, quasi una consuetudine per gli autori, di piazzare la scena ad Atene, cosicché l’ambiente potesse sembrare “più greco” (Menecmi, prologo, 7). In tal senso si comprende l’intento, enunciato a chiare lettere dall’autore nel prologo del Truculentus, di «trasferire Atene a Roma, senza architetti». È forse utile richiamare che il luogo fisico in cui tali performances avevano luogo, in assenza di veri e propri teatri stabili, erano strutture effimere. Una commedia molto riuscita di Plauto, lo Pseudolus, fu messa in scena sul Palatino, dinanzi al tempio della Magna Mater, nel 191, in occasione della dedica dell’edificio sacro. Il pubblico, assiepato sulle gradinate del tempio e forse negli spazi laterali, non doveva essere però eterogeneo: in queste sue prime fasi, pare che il culto della dea, piuttosto “serrato”, fosse ancora prerogativa esclusiva della nobilitas senatoria. È certo curioso immaginare tali grecismi e richiami alla vita ateniese risuonare in cima al Palatino, in uno scenario che è stato di recente definito «l’Acropoli palatina», una delle aree più sacre dell’Urbe, ricco di memorie connesse alle stesse origini della città. Ogni anno, in occasione dei ludi scaenici previsti durante le feste in onore della dea, si svolgevano qui rappresentazioni teatrali (tra le quali numerose commedie di Terenzio), che consigliarono nel tempo la realizzazione di impianti scenici provvisori, verosimilmente su un margine della platea.

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Festoni con maschere, foglie e frutta. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Precisi riferimenti alla praeclara Atene si colgono anche nelle opere, pure molto diverse, di Ennio, Lucio Accio e Lucrezio. Se in Ennio il riferimento è puntuale ma troppo stringato per trarne considerazioni più generali, in Accio e in misura ancora più evidente in Lucrezio la città è ricordata in riferimento a un’aetas mitica. E anzi, Lucrezio sembra avere dinanzi agli occhi un’Atene “reale”, con l’Acropoli che svetta sul paesaggio urbano, e, visibile su di essa, il tempio di Atena e gli altari fumanti di offerte. Un riferimento reale a una Grecia conosciuta sembrerebbe adombrato nello stesso libro anche dal verso che narra dell’oracolo di Delfi. Nec res ulla magis quam Phoebi Delphica laurus terribili sonitu flamma crepitante crematur (6, 153): visione potente e completa, che non abbisogna, come nel caso ateniese, di precise notazioni descrittive. L’evocazione suggestiva di suono e fiamme è di per sé sufficiente a ricreare nella mente, per astratto il paesaggio delfico. In effetti il santuario di Delfi, pure oggetto di una frequentazione ormai da lunga data, non è mai descritto nelle fonti latine del periodo con reali notazioni in senso paesistico o accenni topografici: al più, si fa riferimento alla caratterizzazione delfica del dio, ma nulla di più. Analogo discorso per il santuario di Olimpia, presente solo in verso di Ennio con stringato riferimento a una vittoria negli agoni (citato in Cicerone, De senectute, 14). Qualche dettaglio maggiore si ottiene nel caso della città di Cnosso, che si dice (dicitur) di fondazione attribuibile alla stessa Vesta (citato in Lattanzio, Institutiones divinae, I 11, 45-46): lì, il sepolcro di Zeus è reso riconoscibile per mezzo dell’apposizione di un’iscrizione in un font greco ormai in disuso (antiquis litteris Graecis), che lo stesso Ennio si premura di tradurre in latino (ZAN KPONOI id est Latine Ippiter Saturni). In questo caso la descrizione sembrerebbe derivare da una conoscenza “reale” del monumento, anche considerato lo scarto nella modalità narrativa tra il dicitur della frase precedente e dell’uso verbale (est… est inscriptum) in questa.

Più in generale, la Grecia ricordata nelle opere di questi secoli è una Grecia ammantata dalla clara fama del suo passato o di alcuni avvenimenti esemplari: basi pensare al richiamo a Leonida pronunciato da Catone (citato in Aulo Gellio, Noctes Atticae, III 7, 19) , o alla Grecia ideale ricordata in un’orazione di Gaio Gracco (Orationes, 44, 17). Gli altri scritti sono purtroppo troppo frammentari per poterne trarre conclusioni di carattere generale: la voce Graecia ricorre solo nelle tragedie di Lucio Accio (Tragedie, 464, 560) e in locuzione aggettivale nelle Satire di Lucilio (9, 335; 27, 709; 29, 915), in cui si tenta di ottenere un effetto comico mediante l’impiego di suoni che dovevano risultare al pubblico sgraziati e “stranieri”.

La lingua dell’altro.

La traduzione di Livio Andronico dell’Odissea di Omero, intorno alla metà del III secolo a.C., fu una vera e propria rivoluzione culturale. Non si trattava di una mera trasposizione lessicale (tanto che non vi compaiono mai prestiti linguistici), quanto di una traduzione “artistica”: risultarono determinanti la scelta della resa degli eleganti esametri omerici in saturni, il metro dell’antica poesia oracolare latina, e una certa predilezione per l’utilizzo di espedienti retorici al fine di accentuare il páthos del modello originario. Il lavoro di Livio divenne così un vero e proprio libro di testo, utilizzato per più generazioni, e ancora letto da Cicerone e Orazio. È curioso ricordare come, alle orecchie di Cicerone, raffinato grecista, la traduzione di Livio avesse ormai l’aspetto, vetusto e un po’ rigido c’è da pensare, degli xóana dedalici (Brutus, 18, 17).

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

La conoscenza del greco doveva essere a Roma a quel tempo già di lunga durata, forse diffusa anche grazie all’elevato numero di schiavi provenienti dalla Magna Grecia. Nel 282, a ridosso dell’arrivo di Pirro in Italia, Postumio Megello era stato oggetto dei sarcasmi dei Tarantini per il suo modo, considerato “barbaro”, di rivolgersi in greco alla folla riunita a teatro per ascoltarlo: notazione che riflette, in ogni modo, come il console non solo fosse già in grado di esprimersi in quella lingua, ma che scegliesse intenzionalmente di farlo (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5,1; Appiano, Sanniti, VII 2). In questi decenni nell’Urbe si poteva leggere, scrivere, far di conto, imparare il greco, la giurisprudenza e la politica (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5). Pare che la prima scuola pubblica, un grammatodidaskaleîon, sia stato aperto a Roma nel 235, e che vi abbia insegnato il liberto Spurio Carvilio (Plutarco, Quaestiones Romanae, 59); sappiamo inoltre che Livio ed Ennio (entrambi peraltro semi-graeci come li definì Svetonio) si dedicarono all’insegnamento anche del greco sia in privato sia in pubblico, in una scuola sull’Aventino, il collegium scribarium histrionumque annesso al tempio di Minerva (Svetonio, Grammatici retoresque, 1). Si leggevano in greco, ed erano evidentemente comprensibili, i titoli di alcune opere di Livio Andronico (Aiax mastigophorus), Nevio (Akontizomenos, Agrypnuntes, Astiologa, Colax) ed Ennio (Hedyphagetica). Non solo: gli intrecci di molte di queste tragedie sono legate ai miti del ciclo troiano (Achille, Aiace, Andromeda) con il quale il pubblico iniziava a familiarizzare.

Ma non è tutto. Gli incerti eventi del III secolo a.C. avevano consigliato l’introduzione, in città, di riti secondo il costume greco (Graeci riti): i ludi tarentini in onore di Dis Pater e Proserpina nel 249 (con un inno composto da Livio Andronico e cantato da un coro di ventisette fanciulle); i ludi apollinares nel 212, e un secondo inno, composto da un ormai anziano Livio Andronico nel 207 in onore di Giunone Regina. Talora, un cerimoniale “alla greca” fu prescritto entro le maglie di culti antichi: lo dimostra, in modo eclatante, il caso del culto di Cerere sull’Aventino, che vide l’introduzione di due sacerdotesse pubbliche di origine greca (o, per meglio dire magno-greca, considerata la loro provenienza da Velia e Napoli). Sappiamo molto poco di come questi riti dovessero essere integrati all’interno della religione romana e cosa essi comportassero nella realtà delle cose: in talune occasioni festive, certi settori della città, chiusi al normale traffico cittadino, potevano forse risuonare di processioni, danze o gare “alla maniera greca”. In ogni modo i vari rituali finirono ben presto con l’essere integrati e con il costituire, mescolati alla tradizione, un’unità inscindibile sentita come autenticamente “romana”.

Frattanto, si scrivevano in greco le prime storie di Roma: le Storie di Fabio Pittore, di Cincio Alimento, di Acilio Glabrione, di Postumio Albino. In una curiosa premessa, quest’ultimo giungerà persino a scusarsi della sua non perfetta padronanza della lingua greca, ammissione che scatenò la pungente ironia di Catone (Polibio, 39, 1; Plutarco, Vita di Catone, 12, 6). Nel tempo il greco divenne parte integrante della formazione scolastica dei fanciulli: Quintiliano (Institutio oratoria, I 1, 12) e Tacito (Annales, 29, 1) ci informano come ai loro tempi (e certo anche prima) fosse addirittura invalsa la consuetudine di far precedere l’apprendimento del greco rispetto al latino nell’età prescolare.

T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.

Ma il greco non era una lingua esclusivamente “letteraria”. Pare che negli uffici della questura fosse possibile far eseguire per conto del Senato tradizione di documenti ufficiali contenenti decisioni sulla Grecia. dovevano essere redatti in greco, ad esempio, scritti destinati alla comunicazione con i sovrani ellenistici: sembrerebbe questo il caso della lettera, scritta da Roma e indirizzata a un Seleuco intorno alla metà del III secolo a.C., con la quale si prometteva al re l’amicizia e l’alleanza del Senato, in cambio dell’immunità fiscale a vantaggio degli Iliei. Risalgono a questi anni accesi dibattiti che animavano la vita culturale cittadina sulla modalità delle più corrette traduzione dal greco al latino, e le prime tradizioni dei titoli delle cariche ufficiali, che portarono all’equiparazione di anthýpatos e proconsul, presbeutḕs e legatus, tamías e quaestor. Va infine ricordato come il primo “ambulatorio” medico, installato in una taberna acquistata con fondi pubblici presso il compitum Acilii (Plinio, XXIX 12), fosse stato aperto nel 219 a.C.: competenza che richiese, verosimilmente, l’impiego di personale specializzato, ovviamente di lingua greca.

La conoscenza del greco era dunque abbastanza radicata nella Roma del III secolo a.C. Come notò acutamente Momigliano, essa divenne ben presto un impareggiabile strumento di dominio: «Né Polibio né Posidonio si resero conto di quale superiorità i leader romani avevano acquisito grazie al semplice fatto di saper parlare e pensare in greco, mentre quelli greci avevano bisogno di interpreti per capire il latino». Alcuni dei consoli inviati a Taranto o in Grecia erano in effetti già in grado di sfoggiare un’ottima conoscenza del greco: Flaminino (Plutarco, Vita di Flaminino, 6), Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei Gracchi (Cicerone, Brutus, 20, 79), Lutazio Catulo (Cicerone, De oratore, II 7, 28), o P. Licinio Crasso Dives, console nel 131 a.C., capace di rispondere in cinque diversi dialetti greci ai supplici che si erano rivolti a lui (Valerio Massimo, VIII 7, 6; Quintiliano, XI 2, 50). La loro fu, comunque, sempre una scelta “politica” e consapevole. Emilio Paolo, capace di passare senza problemi da una lingua all’altra (Livio, XLV 8, 8; XXIX 3), si rivolge in greco a un Perseo prigioniero e sconfitto, ma ricorre al latino (e ai servizi di tradizione del suo pretore Gneo Ottavio) nel comunicare, da vincitore, le decisioni del Senato alla folla riunita ad Anfipoli. Che si trattasse di scelte intenzionali è chiaro dall’episodio di Catone, intento ad Atene a parlare in latino (!) a una folla riunita per l’occasione, nonostante egli fosse perfettamente in grado di esprimersi in greco (Plutarco, Vita di Catone, 12, 5).

Busto di Carneade. Marmo, I secolo d.C. Museo dei Marmi di Firenze.

È di un qualche interesse sottolineare come, per parte loro, i Greci non abbiano mai utilizzato la lingua latina. Per l’intero corso dell’età repubblicana non è dato il caso di nessun greco incaricato di una missione diplomatica capace di esprimersi fluentemente in latino. Gli ambasciatori greci inviati al Senato ricorsero di norma ai servizi di traduttori. È forse il caso di Cinea, ambasciatore di Pirro nel 280 a.C. (Plutarco, Vita di Pirro, 18); lo è con certezza in quello dei tre filosofi del 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao, i cui interventi furono tradotti in latino per merito del senatore Gaio Acilio, versato nella conoscenza della lingua straniera, tanto da scrivere, in greco, una storia di Roma che doveva giungere al 184 a.C. (Aulo Gellio, Noctes Atticae, VI 14, 9; Macrobio, Saturnalia, I 5, 16). Per una concessione forse di Silla, sarà solo Molone di Rodi, maestro di Cicerone e di Cesare, il primo straniero ad avere il permesso di poter parlare in Senato senza avvalersi dell’uso di interpreti (Valerio Massimo, II 2, 3): ma i tempi erano ormai mutati, e la conoscenza della lingua greca a Roma doveva essere sentita ormai come basilare nella formazione letteraria della nobilitas senatoria.

In Grecia invece persino gli spazi pubblici, le agoraí, i santuari continuavano a essere affollati da donari le cui dediche rimanevano, senza eccezioni, in greco. Le rare dediche bilingui sono esclusivamente opera di consoli romani, che indirizzano agli dèi locali le loro dediche in latino, premurandosi di fornire in greco appropriate traduzioni. A Olimpia, la prima iscrizione in latino sarà opera soltanto di Agrippa, che fece ricorso alla “sua” lingua (forse addirittura non leggibile per i Greci dell’epoca!) per commemorare, in lettere bronzee dorate, i propri interventi di restauro nel pronao del tempio di Zeus.

Che la scelta e la gestione della lingua siano stati nel corso della conquista del Mediterraneo autentici strumenti di dominio lo dimostrano le riflessioni di Valerio Massimo (II 2), ormai agli inizi dell’età imperiale: «I Romani forzarono i Greci a parlare con loro mediante l’ausilio di un interprete, non solo nella nostra città, ma persino in Grecia e in Asia, cosicché il rispetto e la reverenza verso la lingua latina si diffusero attraverso i vari popoli».

La percezione dell’altro.

La reale conoscenza degli altri è talvolta anticipata, a livello di coscienza collettiva, dalla creazione di stereotipi o di astratti valori generici di riferimento.

Dal punto di vista dei Greci, i Romani furono inseriti, già intorno alla metà del IV secolo a.C., all’interno della categoria dei «barbari», classificazione che aveva origine in una visione binaria del mondo che risaliva già a Tucidide e che riuniva entro tale concetto ogni popolazione che non fosse di lingua o cultura ellenica: era un mondo di «altre genti» opposte agli Elleni. Non era una distinzione in chiave etnica, quanto legata a differenze “culturali” e a un lessico che alle orecchie dei Greci doveva risultare come il prodotto di suoni incomprensibili (bar-bar). Probabilmente Aristotele, nei suoi nómima barbariká, parlava già di Roma come di una città «barbara».

Filippo V. Didramma, Anfipoli 180 a.C. Ar. 8,46 gr. Dritto: Testa diademata verso destra.

Il ricorso a questo concetto, che diventerà un vero e proprio artificio retorico, è frequente nella gestione politica di conflitti e alleanze: è esemplare il caso dell’acarnano Licisco, che ricorre al concetto di «barbarie» opposto alla comune matrice «ellenica» nel tentativo di impedire l’alleanza di Sparta con l’Etolia (e quindi con Roma) nel corso del conflitto del 210 con Filippo V (Polibio, IX 37, 7-39; 44) e ancora, forse nel corso del medesimo scontro, l’analogo discorso pronunciato dal rodio Trasicrate (Polibio, XI 4-5), nel quale viene riservato ai pur antichi “soci in affari” l’epiteto di bárbaroi. A esso possono essere affiancati i termini, di nuova coniazione e piuttosto significativi, di allóphyloi («gente con un altro modo di sentire») o allogenḕs («gente nata altrove»): tra i numerosi casi, si segnala quello del concilio panetolico di Naupatto (primavera del 199), in cui sono gli ambasciatori di Filippo (Livio, XXXI 29) ad avvertire come siano un pericolo «quegli stranieri, separati da noi più che per la lingua, gli usi e le leggi, che non da distanza di mare o di terra». Il cliché della barbarie e dell’ignoranza dei Romani sarà molto difficile da sradicare, tanto che, ormai in età augustea, Dionigi di Alicarnasso a premessa della sua opera storica scriverà: «Tutti i Greci [dei suoi tempi] ignorano la storia di Roma, e immaginano che i primi abitanti di Roma fossero errabondi, barbari, e non uomini liberi».

Si tratta certo di giudizi sempre manipolati in chiave politica. prova ne sia il fatto che, già nel 200 a.C. nel corso della II Guerra macedonica, lamentando le pesante devastazioni cui Filippo V aveva sottoposto il territorio dell’Attica, Atene invoca i Romani come «secondi agli dèi» (Livio, XXXI 30, 4). E, pochi anni dopo, l’entusiasmo suscitato dall’atteggiamento di Flaminino, vincitore su Filippo V a nome dei Greci, porterà ad accostare al suo nome l’epiteto di sōtḗr («salvatore») e addirittura alla creazione di festival legati al suo nome: a partire da questa fase il ritornello della “barbarie” sembra perdere di smalto, a deciso vantaggio di un atteggiamento più ossequioso, che diviene ancora più smaccato subito dopo la vittoria di Emilio Paolo su Perseo e lo smembramento della Macedonia in quattro “distretti” non autonomi. L’assetto geopolitico è ormai mutato, e i Romani sono con ogni evidenza l’unica potenza egemone del Mediterraneo: abbandonata ogni remora, essi stessi sembrano in questa fase più inclini ad atteggiamenti arroganti e spavaldi, allontanandosi dal delicato sistema di equilibri cui si erano attenuti sinora (valga, tra tutti, l’episodio del “cerchio” di Popilio Lenate ad Antioco IV, su cui cfr. Polibio XXIX 27, e Livio, XLIV 19; XLV 12).

Pavel Glodek, Battaglia di Cinoscefale.

Parallelamente anche l’atteggiamento dei Greci subisce una virata: istruttiva al riguardo la visita di Prusia II di Bitinia a Roma, il quale, col capo rasato e abbigliato come un liberto, fermo sulla porta della Curia si sarebbe rivolto ai senatori riuniti all’interno invocandoli «dèi salvatori». È evidente come un simile atteggiamento di smaccata sottomissione suonasse eccessivo agli occhi di un Greco: e infatti Polibio descrive la visita del re con una nota di biasimo malcelato, in chiave quasi caricaturale (Polibio, XXX 18, 1-4). Può essere utile, a contrasto, confrontare la versione dello stesso avvenimento fornita da Livio, decisamente più sobrio (XLV 44, 4-20).

È un dato di fatto che la pressoché integrale scomparsa delle fonti di parte greca ci privi della possibilità di comprendere quali fossero gli elementi dello Stato o della società romana percepiti come “strani” o “sgraziati” agli occhi dei Greci. Riusciamo a recuperare appena qualche isolato frammento.

«Il Senato gli era apparso come un’assemblea di molti re»: con queste parole Plutarco racconta le impressioni del tessalo Cinea, ambasciatore nel 280 a.C. di Pirro, inviato al Senato per trattare la pace e il rilascio dei prigionieri (Plutarco, Vita di Pirro, 19, 6). Era costui un abile oratore, allievo di Demostene, di ottima memoria. E la sua in verità non dovette essere un’impressione superficiale, legata semplicemente alla sensazione di trovarsi al cospetto di una moltitudine di senes, abbigliati nelle candide toghe e riuniti in assemblea plenaria, anche se l’effetto scenografico della seduta dovette certo avere la sua parte. Pare piuttosto di essere alle prese con il resoconto di un’analisi attenta sulla qualità della forma di governo dei Romani, lucidamente esaminata, e sentita come “contrastante” rispetto alla forma di governo monarchico, incentrata sulla figura del basileús unico al quale erano demandati tutti i poteri (affari interni, affari esteri), al più affiancato da una commissione di consiglieri.

Pirro dell’Epiro. Busto, marmo, da un originale del 290 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Si tratta evidentemente dello stesso atteggiamento di curiosità “scientifica” che, qualche tempo più in là, si legge nell’elogium di Roma contenuto in 1 Maccabei. Siamo nel 161 a.C., nelle fasi centrali della rivolta giudaica contro il re di Siria Antioco IV. L’aiuto di Roma viene invocato da Giuda Maccabeo con una lettera che è a tutti gli effetti una valutazione del sistema di governo romano, considerato superiore a quello degli Stati ellenistici: «Nessuno fra loro ha assunto il potere regio, con i simboli del diadema e della porpora per dominare. Esiste invece presso di loro un’assemblea di trecentoventi membri che si riunisce ogni giorno per deliberare nell’interesse del popolo e per mantenere l’ordine nello Stato. Essi conferiscono ogni anno il potere del comando su tutto il loro territorio a un solo personaggio al quale tutti obbediscono senza invidia e gelosia». Il complesso apparato cerimoniale e il fasto delle corti ellenistiche dovette fungere da vivido contrasto agli occhi degli ambasciatori orientali ammessi dinanzi ai senatori: e tuttavia, subito dopo la lode per il rifiuto di diadema e porpora (tipico dei re), anche in questo caso l’attenzione si sposta su aspetti più legati all’analisi costituzionale, sebbene con qualche imprecisione.

Basti ricordare, a contrasto, come l’accusa di ricercare regnum in Senatu, rivolta agli inizi del secolo (ma già dopo i successi contro Antioco III) a Scipione Africano e al fratello, avesse stigmatizzato il tentativo di ricercare una qualsiasi posizione di preminenza all’interno della compagine del sistema, non tollerabile e perciò sprezzantemente qualificata.

Qualche decennio più in là, la riflessione sugli ordinamenti e sulla costituzione romana occuperà un intero libro (il sesto) delle Storie scritte a Roma da uno storico greco, Polibio. E anche in questo caso, non mancano pagine di comparazione tra le forme di governo greche e quelle dei Romani, ormai signori del Nuovo Mondo: sono esaminati potere monarchico e forme dell’ordinamento costituzionale, con la proibizione dell’accentramento del potere nelle mani di un singolo e l’esaltazione dei pregi della divisione di poteri nella gestione collettiva della cosa pubblica (consoli, Senato e plebe).

Antioco IV. Tetradramma, Akko-Ptolemais 175-164 a.C. Ar. 17,0 gr. D – Testa diademata di Antioco verso destra.

Agli occhi dei Greci di quei tempi, tuttavia, la coralità della gestione collettiva dello Stato romano doveva risultare ancora non del tutto comprensibile: «Se per caso uno soggiorna a Roma quando il console non è presente, il regime politico gli appare senz’altro aristocratico. È per questo che molti Greci, anche dei re, finiscono per convincersi che quasi tutti gli affari sono di competenza del Senato» (Polibio, VI 13, 8-9).

Ma gli aspetti legati alle istituzioni politiche non erano i soli capaci di suscitare la curiosità e animare il dibattito.

Nella quarta decade di Livio è il racconto della rivalità tra i due figli di Filippo V (Livio, XL 5): Perseo, convinto assertore della possibilità di una qualche forma di indipendenza del regno macedone da Roma, e Demetrio, che, ostaggio per qualche anno nell’Urbe dopo la sconfitta di Cinoscefale, era adesso fautore di una linea politica più vicina ai Romani. Nel tentativo di indurre Filippo V a uno scontro con Roma e di rendere Demetrio inviso al padre, i cortigiani intavolarono allora una discussione su Roma, schernendone gli usi, le istituzioni, le imprese, persino alcuni dei più illustri cittadini. Poi, e qui si entra nel vivo della questione, essi giunsero a schernire l’aspetto della città, ai loro occhi “rea” di non essere ancora adorna di edifici pubblici e privati ([…] speciem ipsius urbis nondum exornatae neque publici neque privatis locis). La scena è ambientata nel 182 a.C., la pace di Apamea ha da qualche anno segnato la fine dei conflitti con Antioco III e sancito l’estensione del dominio di Roma al Mediterraneo orientale. Che senso ha dunque il biasimo agli occhi di un Greco di una città che si appresta a divenire la capitale del Mediterraneo? Bisogna considerare, ed è stato ripetuto molte volte, come in quegli anni Roma fosse ancora una città di legno e terracotta: il primo edificio templare in marmo, opera dell’architetto Ermodoro di Salamina, sarà dedicato solo dopo il 146 a.C. La moda dell’uso del marmo, anche policromo, nella costruzione degli edifici o nel loro arredo scultoreo sembra esplodere come conseguenza dell’espansione romana nel Mediterraneo proprio intorno alla metà del II secolo a.C.: arrivano allora a Roma gli splendidi marmi africani (giallo antico dalla Numidia, o porfido e basalto dall’Egitto), i rinomati marmi bianchi dalla Grecia (pentelico, imezio, pario, nassio, tasio), il pavonazzetto dalla Frigia. È impossibile dunque che all’inizio del secolo l’aspetto della città, a confronto con quello delle altre grandi capitali, fosse percepito ancora come misero.

Ma non dovette essere unicamente questione di materiali da costruzione. Sebbene aduse all’impiego del marmo ormai da secoli, alcune città greche in questa fase non dovevano infatti essere splendide né risplendenti ai dettami della moderna architettura ellenistica, almeno non come noi siamo indotti a ritenere. Il periegeta Eraclide critico, autore nel III secolo a.C. di un trattatello Sulle città dell’Ellade a noi pervenuto in frammenti, così descrive l’Atene dei suoi tempi: «[…] a causa della sua antichità, è mal distribuita in strade e quartieri; le strade sono strette e tortuose; la maggior parte delle case è a buon mercato, ma poche sono comode. Se uno straniero visitasse solo queste, ben difficilmente crederebbe che si tratti della famosa città degli Ateniesi» (FrGrHist. II, 264). Dunque, anche ad Atene nessuna regolare e ordinata pianificazione urbanistica, ma isolati e quartieri che si sovrappongono l’un l’altro tanto da suscitare una sorta di sgomento all’idea di trovarsi dinanzi alla “famosa” città di Pericle, di Platone e dei tragediografi. Neanche in questo caso la città ideale sembra riflettersi nella realtà dello spazio urbano a disposizione. Ma ecco che, imbattendosi negli edifici pubblici, lo straniero in visita ha modo di ricredersi: sono enumerati, in rapida sequenza, «un teatro degno di essere menzionato, grande e ammirevole, un magnifico santuario di Atena, visibile da lontano con il suo tempio […] che fa una grande impressione su chi lo contempli. Tre ginnasi: l’Accademia, il Liceo e il Cinosarge, tutti piantati ad alberi e con prati». Dunque, non è questione di “gusto”, né di assetto urbanistico, quanto dell’individuazione di alcuni elementi sentiti come imprescindibili nel delineare la fisionomia greca di una città: teatro, santuario, ginnasi. In tale prospettiva, sono perfettamente comprensibili le parole di scherno dei cortigiani di Filippo. Nella Roma degli inizi del II secolo a.C. non vi era infatti ancora alcuno di questi edifici: non un teatro né un ginnasio, gli stessi templi avevano ancora enormi tetti in terracotta, né vi era alcun edificio nel quale potere passeggiare al riparo dal sole o ammirare qualche bella opera d’arte, come tra i portici di un’agorà di qualsiasi cittadina greca.

Angus Mcbride, Antioco IV e Popilio Lenate.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Il dibattito sugli ornamenta urbis è a Roma di grande attualità nella seconda metà del I secolo a.C., fase in cui, ormai archiviata la questione della supremazia romana nel bacino del Mediterraneo, si discute di quanto fosse cambiata la città a seguito di quelle conquiste. I due termini ricorrono infatti nelle opere di Cicerone sempre in riferimento allo spoglio di città sconfitte da parte dei generali vincitori, il cui prezioso bottino giungerà di lì a poco nell’Urbe, trasformandone l’aspetto per sempre: Marcello a Siracusa (In Verrem, II 4, 121, 6), L. Calpurnio Pisone a Bisanzio (De provinciis consolaribus, IV 7), Emilio Lepido (Filippiche, XIII 4, 8). Di lì a breve, tale background porterà alle considerazioni di Strabone (un Greco!), sulla noncuranza dei “vecchi” Romani per la bellezza della città, cura alla quale, a suo giudizio, i Romani dei suoi tempi si dedicarono con grande dispendio di mezzi, riempiendo la città di molte e belle opere (Strabone, V 3, 7). È la stessa linea del famoso manifesto di Augusto, che si gloriava di aver «trovato una città di mattoni e averne lasciata una di marmo». Non si può del tutto escludere, dunque, che la ricostruzione di Livio e gli argomenti da lui attribuiti ai cortigiani di Filippo abbiano risentito in qualche misura di questo dibattito sulla trasformazione e l’abbellimento della città, di grande attualità ai suoi tempi.

Per parte romana, è di un qualche interesse rilevare come la visione del mondo non sia mai stata binaria (Romani/resto del mondo), e che anzi gli stereotipi coniati in “favore” di Greci e della Grecia siano molto più numerosi e dettagliati rispetto a quanto non sia avvenuto per gli altri paesi di recente conquista. Se per gli Africani è sufficiente ricordare la vanitas, per gli Iberi la feritas, per i Germani la fluxa fides o per i Parti la perfidia, per i Numidi una stupefacente attitudine al sesso (in venerem incredibile effusi), per i Greci ci si sbizzarrisce, con l’invenzione di nozioni come levitas, arrogantia, ineptia, volubilitas linguae e molti altri ancora, il cui ambito semantico è in genere connesso con una loro maggiore dimestichezza nell’uso linguistico, parallela a una minore attitudine sul versante pragmatico o militare. Eppure, tali concetti, che ricorrono con una certa frequenza negli scritti di Sallustio, Cicerone, Livio, Orazio e Ovidio, sembrerebbero attestati solo a partire dalla metà del I secolo a.C.: non riflettono dunque una fase di esplorazione e primi contatti, ma un orizzonte in cui la Grecia si conosce ed è stata ormai ben integrata […].