Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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Nerone fa uccidere Agrippina Minore (Tac. Ann. XIV 3-8)

Marzo 59: Nerone decide di uccidere la madre: prima tenta di far naufragare la nave su cui Agrippina faceva ritorno ad Anzio dalla Campania, dove aveva incontrato il figlio; poi, fallito il falso incidente, l’imperatore ordina a dei sicari di recarsi nella sua villa e di eliminarla.

Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico. Aureus, Roma c. 55. Ar. 7,60 g. Recto: Nero Claud(ius) Divi f(ilius) Caes(ar) Aug(ustus) Germ(anicus) imp(erator) tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul). Busti drappeggiati dell’imperatore e di sua madre, voltati a destra.

[3, 1] Igitur Nero vitare secretos eius congressus, abscedentem in hortos aut Tusculanum vel Antiatem in agrum laudare, quod otium capesseret. postremo, ubicumque haberetur, praegravem ratus interficere constituit, hactenus consultans, veneno an ferro vel qua alia vi. placuitque primo venenum. [2] sed inter epulas principis si daretur, referri ad casum non poterat tali iam Britannici exitio; et ministros temptare arduum videbatur mulieris usu scelerum adversus insidias intentae; atque ipsa praesumendo remedia munierat corpus. ferrum et caedes quonam modo occultaretur, nemo reperiebat; et ne quis illi tanto facinori delectus iussa sperneret metuebat. [3] obtulit ingenium Anicetus libertus, classi apud Misenum praefectus et pueritiae Neronis educator ac mutuis odiis Agrippinae invisus. ergo navem posse componi docet, cuius pars ipso in mari per artem soluta effunderet ignaram: nihil tam capax fortuitorum quam mare; et si naufragio intercepta sit, quem adeo iniquum, ut sceleri adsignet, quod venti et fluctus deliquerint? additurum principem defunctae templum et aras et cetera ostentandae pietati.

[4, 1] Placuit sollertia, tempore etiam iuta, quando Quinquatruum festos dies apud Baias frequentabat. illuc matrem elicit, ferendas parentium iracundias et placandum animum dictitans, quo rumorem reconciliationis efficeret acciperetque Agrippina, facili feminarum credulitate ad gaudia. [2] venientem dehinc obvius in litora (nam Antio adventabat) excepit manu et complexu ducitque Baulos. id villae nomen est, quae promunturium Misenum inter et Baianum lacum flexo mari adluitur. [3] stabat inter alias navis ornatior, tamquam id quoque honori matris daretur: quippe sueverat triremi et classiariorum remigio vehi. ac tum invitata ad epulas erat, ut occultando facinori nox adhiberetur. [4] satis constitit extitisse proditorem, et Agrippinam auditis insidiis, an crederet ambiguam, gestamine sellae Baias pervectam. ibi blandimentum sublevavit metum: comiter excepta superque ipsum collocata. iam pluribus sermonibus, modo familiaritate iuvenili Nero et rursus adductus, quasi seria consociaret, tracto in longum convictu, prosequitur abeuntem, artius oculis et pectori haerens, sive explenda simulatione, seu pe[ri]turae matris supremus adspectus quamvis ferum animum retinebat.

[5, 1] Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere. nec multum erat progressa navis, duobus e numero familiarium Agrippinam comitantibus, ex quis Crepereius Gallus haud procul gubernaculis adstabat, Acerronia super pedes cubitantis reclinis paenitentiam filii et recuperatam matris gratiam per gaudium memorabat, cum dato signo ruere tectum loci multo plumbo grave, pressusque Crepereius et statim exanimatus est: Agrippina et Acerronia eminentibus lecti parietibus ac forte validioribus, quam ut oneri cederent, protectae sunt. [2] nec dissolutio navigii sequebatur, turbatis omnibus et quod plerique ignari etiam conscios impediebant. visum dehinc remigibus unum in latus inclinare atque ita navem submergere; sed neque ipsis promptus in rem subitam consensus, et alii contra nitentes dedere facultatem lenioris in mare iactus. [3] verum Acerronia, imprudentia dum se Agrippinam esse utque subveniretur matri principis clamitat, contis et remis et quae fors obtulerat navalibus telis conficitur. Agrippina silens eoque minus agnita (unum tamen vulnus umero excepit) nando, deinde occursu lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur.

[6, 1] Illic reputans ideo se fallacibus litteris accitam et honore praecipuo habitam, quodque litus iuxta, non ventis acta, non saxis impulsa navis summa sui parte veluti terrestre machinamentum concidisset, observans etiam Acerroniae necem, simul suum vulnus adspiciens, solum insidiarum remedium esse [sensit], si non intellegerentur; [2] misitque libertum Agermum, qui nuntiaret filio benignitate deum et fortuna eius evasisse gravem casum; orare ut quamvis periculo matris exterritus visendi curam differret; sibi ad praesens quiete opus. [3] atque interim securitate simulata medicamina vulneri et fomenta corpori adhibet; testamentum Acerroniae requiri bonaque obsignari iubet, id tantum non per simulationem.

[7, 1] At Neroni nuntios patrati facinoris opperienti adfertur evasisse ictu levi sauciam et hactenus adito discrimine, ‹ne› auctor dubitaret‹ur›. [2] tum pavore exanimis et iam iamque adfore obtestans vindictae properam, sive servitia armaret vel militem accenderet, sive ad senatum et populum pervaderet, naufragium et vulnus et interfectos amicos obiciendo: quod contra subsidium sibi, nisi quid Burrus et Seneca? ‹expurgens› quos statim acciverat, incertum an et ante ignaros. [3] igitur longum utriusque silentium, ne inriti dissuaderent, an eo descensum credebant, ‹ut›, nisi praeveniretur Agrippina, pereundum Neroni esset. post Seneca hactenus promptius, ‹ut› respiceret Burrum ac s‹c›iscitaretur, an militi imperanda caedes esset. [4] ille praetorianos toti Caesarum domui obstrictos memoresque Germanici nihil adversus progeniem eius atrox ausuros respondit: perpetraret Anicetus promissa. [5] qui nihil cunctatus poscit summam sceleris. ad eam vocem Nero illo sibi die dari imperium auctoremque tanti muneris libertum profitetur: iret propere duceretque promptissimos ad iussa. [6] ipse audito venisse missu Agrippinae nuntium Agermum, scaenam ultro criminis parat, gladiumque, dum mandata perfert, abicit inter pedes eius, tum quasi deprehenso vincla inici iubet, ut exit‹i›um principis molitam matrem et pudore deprehensi sceleris sponte mortem sumpsisse confingeret.

[8, 1] Interim vulgato Agrippinae periculo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere. questibus votis clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec adspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. [2] Anicetus villam statione circumdat refractaque ianua obvios servorum abripit, donec ad fores cubiculi veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. [3] cubiculo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidem: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. [4] abeunte dehinc ancilla: «Tu quoque me deseris?» prolocuta respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito centurione classiario comitatum: ac si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere; non imperatum parricidium. [5] circumsistunt lectum percussores et prior trierarchus fusti caput eius adflixit. iam ‹in› morte‹m› centurioni ferrum destringenti protendens uterum «Ventrem feri!» exclamavit multisque vulneribus confecta est.

Veduta di una villa maritima. Affresco, ante 79, dalla sala n. 60 di Villa San Marco, Stabiae.

***

[3, 1] Nerone, dunque, incominciò a evitare di incontrarsi da solo con la madre e, quando lei se ne andava in campagna a Tuscolo o ad Anzio, si compiaceva con lei perché si prendeva un po’ di svago. Alla fine, considerando che la presenza di lei, in qualunque luogo ella si trovasse, era per lui pericolosa, decise di ucciderla, mostrandosi dubbioso solo sul fatto se dovesse adoperare il veleno o il ferro o qualche altro mezzo violento. In un primo momento, pensò al veleno. [2] Se, tuttavia, questo fosse stato propinato alla mensa del principe, ciò non si sarebbe potuto attribuire a una pura fatalità, dato il precedente della morte di Britannico, e, d’altra parte, sembrava difficile corrompere i servi di una donna che era vigile contro le insidie, proprio per la consuetudine di perpetrare delitti; c’era poi il fatto che Agrippina aveva assuefatto il proprio corpo con l’uso di antidoti contro i veleni. Nessuno, poi, avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un eccidio fatto a colpi di pugnale, poiché Nerone temeva che colui che fosse stato prescelto a compiere così grave misfatto potesse anche ricusarne l’incarico. [3] Gli offrì un’idea ingegnosa il liberto Aniceto, capo della flotta di stanza a Capo Miseno e precettore di Nerone fanciullo, odioso ad Agrippina, che era da lui ricambiata di pari odio. Costui informò il principe che si poteva costruire una nave, una parte della quale, in alto mare, si sarebbe aperta tramite un apposito congegno e avrebbe fatto affogare Agrippina, colta di sorpresa. Nulla più del mare offriva possibilità di disgrazie accidentali e, se Agrippina fosse stata portata via da un naufragio, chi sarebbe mai stato tanto iniquo da attribuire a un delitto ciò che i venti e le onde avevano compiuto? Il principe avrebbe poi elevato alla madre morta un tempio, degli altari e altri segni d’onore, a testimonianza del proprio affetto filiale.

[4, 1] La trovata geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dato che Nerone celebrava presso Baia le Quinquatria. Là attrasse Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori delle madri e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe stata diffusa la voce di una riconciliazione e Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per quelle cose che suscitano piacere. [2] Nerone, poi, sulla spiaggia mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio e, avendola presa per mano, l’abbracciò e l’accompagnò a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. [3] Era là ancorata fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore per la madre: Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere nottetempo per celare il piano. [4] È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni di affetto del figlio cancellarono in lei ogni timore; accolta affabilmente, fu fatta collocare al posto d’onore. Con i più svariati discorsi, ora con tono di vivace familiarità, ora con atteggiamento più serio, come se volesse metterla a parte di più importanti questioni, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnarla all’imbarco, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la finzione, o perché, guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire, sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.

[5, 1] Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dèi prepararono una notte tranquilla, piena di stelle e un placido mare. La nave non aveva ancora percorso lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi familiari, Crepereio Gallo, che stava presso il timone, e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso, a un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio, morto sul colpo. Agrippina e Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. [2] Nel parapiglia generale, non si effettuò neppure l’apertura dell’imbarcazione, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve allora necessario inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo loro possibile, in un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo, anche perché gli altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. [3] Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a urlare che era lei Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva riportato una sola ferita alla spalla), dapprima a nuoto, poi con una barchetta da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al lago Lucrino, rientrò nella sua villa.

[6, 1] Qui, ripensando alla lettera piena d’inganno con la quale era stata invitata, agli onori con i quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, si era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie fosse quello di fingere di non aver capito. [2] Mandò, perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio, che, per la benevolenza degli dèi e per un caso fortuito, si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso alla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, poiché, per il momento, lei aveva bisogno di tranquillità. [3] Frattanto, affettando in piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l’ordine di ricercare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.

[7, 1] Nerone, intanto, in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese, invece, che Agrippina si era salvata con una lieve ferita, avendo, tuttavia, corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno al mandante dell’insidia. [2] Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un minuto all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando i servi sia eccitando alla sollevazione i soldati sia appellandosi al Senato e al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto egli avrebbe avuto contro di lei, se non ricorrendo a Burro e a Seneca? Perciò, fece subito chiamare l’uno e l’altro che, forse, erano già prima al corrente della vicenda. [3] Stettero a lungo in silenzio, per non pronunciare vane parole di dissuasione o, forse, perché pensavano che la cosa fosse giunta a un punto tale che, se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente morire. Dopo qualche momento, Seneca in questo soltanto si mostrò più deciso, in quanto, scambiandosi un’occhiata con Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio. [4] Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico, non avrebbero certo osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. [5] Costui, senza alcun indugio, chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone s’affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’Impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corse subito via e condusse con sé i soldati deliberati a eseguire gli ordini. [6] Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo, messaggero inviato da Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se l’avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.

[8, 1] Frattanto, essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse accaduto per caso, a mano a mano che si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Alcuni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri ancora scendevano in mare, per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piena di grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; una gran moltitudine s’affollò sul lido con lumi e, come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero incontro per rallegrarsi con lei, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. [2] Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle e, abbattuta la porta e fatti trascinare via i servi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, poiché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati. [3] Nella stanza c’erano un piccolo lume e una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno, se veramente la sua sorte fosse stata felice; non c’era che quel deserto rotto da urla improvvise, indizi di suprema sciagura. [4] Quando anche l’ancella si mosse per andarsene, Agrippina nell’atto di volgersi a lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», scorse Aniceto, in compagnia del trierarca Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi, allora, a lui gli dichiarò che, se era venuto per vederla, annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se, poi, fosse lì per compiere un delitto, ella non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. [5] I sicari circondarono il letto e primo il trierarca la colpì in testa con un bastone. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla, protendendo il grembo, gridò: «Colpisci al ventre!»; e cadde trafitta da molte ferite.

(trad. it. di B. Ceva, Milano, BUR, 2011)

Trireme romana. Affresco, ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Una delle pagine più famose degli Annales di Tacito e insieme uno degli esempi meglio riusciti di storiografia tragica è il racconto del matricidio di Agrippina, preceduto dal fallimento di un rocambolesco naufragio appositamente organizzato. Nerone, oppresso dalla presenza della madre, decide di eliminarla e, scartate le opzioni dell’avvelenamento e dell’accoltellamento, decide, su proposta del liberto Aniceto, di far costruire una nave dotata di un congegno che provochi lo sganciamento di parte dello scafo e, di conseguenza, il naufragio di Agrippina. Il finto incidente viene organizzato nei minimi particolari, ma, al momento di affondare il natante, quelli fra l’equipaggio all’oscuro di tutto ostacolano il successo dell’impresa. Acerronia, liberta e compagna di viaggio dell’imperatrice madre, per sollecitare i soccorsi proclama a gran voce di essere lei Agrippina, ma, contro ogni sua aspettativa, viene massacrata a colpi di remi. Agrippina, intanto, contusa e ferita, riesce ad allontanarsi mettendosi in salvo a nuoto e, raccolta da una barca da pesca, viene riportata a riva.

Mentre Agrippina fa ritorno a casa, nella sua villa nei pressi del Lago Lucrino, pur resasi conto dei terribili propositi di suo figlio, decide di fingere di non avere sospetto alcuno, Nerone, impaurito dalle reazioni della potente madre, convoca d’urgenza Burro e Seneca, i suoi più fidati consiglieri e tutori. È chiaro a tutti che Agrippina vada eliminata prima che sia lei a muovere all’attacco! Il liberto Aniceto si assume l’onere di eseguire materialmente il matricidio. Intanto, l’arrivo del liberto di Agrippina, Agermo, giunto a portare al princeps un messaggio della madre, viene colto a pretesto dall’imperatore per mettere in scena un falso attentato contro la propria persona: mentre il latore è intento a recapitargli il messaggio, Nerone getta ai piedi di quello una spada, affinché tutti credano che Agrippina abbia mandato quell’uomo per assassinare il figlio. Quindi, ordina l’immediata esecuzione della madre, affinché assomigli a un suicidio.

La scena dell’azione si sposta nuovamente nella villa dell’imperatrice-madre, dove ella era stata portata dopo essere stata tratta in salvo. L’Augusta matrona si trova da sola nel suo cubiculum: accanto a lei soltanto un’ancella, che presto l’abbandonerà terrorizzata, non appena il ritardo di Agermo renderà evidente la sorte della padrona. Il lettore è accompagnato da Tacito all’interno della stanza di Agrippina, in una suspence crescente, ne condivide l’angoscia e il turbamento. Alla fine, Aniceto e i suoi sicari arrivano e, fatta irruzione nella casa, allontanati i servi, la uccidono con randelli e spade senza pietà.

Il racconto del matricidio è seguito da una serie di pettegolezzi che rendono ancor più torbido l’atto criminale. Tacito riferisce le voci secondo le quali Nerone avrebbe fatto apprezzamenti sulla bellezza della madre, alla vista del suo cadavere, e racconta l’episodio di Mnestere, un liberto della donna, che si trafisse con un pugnale alla vista della pira funebre; probabilmente, insinua l’autore, per amore dell’antica padrona. In linea con le tendenze della storiografia tragica, non manca neanche il riferimento a una profezia dei Caldei sulla fine di Agrippina per mano del figlio, cui la donna avrebbe risposto: “Mi uccida, purché imperi!”.

Gustav Wertheimer, Il naufragio di Agrippina.

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La corte imperiale in età giulio-claudia: domus Augusta e aula Caesaris

di M. Pani, La corte dei Cesari fra Augusto e Nerone, Roma-Bari 2003, pp. 7-23.

Composizione e confini della corte a Roma

In uno studio recente sull’aula Caesaris, che può essere considerato il più accurato e completo sull’argomento, Aloys Winterling (1999) cerca di seguire il processo d’istituzionalizzazione della corte nei primi due secoli dell’Impero. Egli individua, in particolare, alcuni elementi di rottura rispetto alla tradizione della domus gentilizia, da cui ha origine l’apparato della casa imperiale. Specialmente con Claudio e con Domiziano, il progressivo ampliamento delle strutture edilizie imperiali del Palatium, e il connesso adeguamento culturale, nel segno dello sfarzo e dell’esclusivismo, disperdono ogni possibile legame con quell’eredità. Il Palatium, il Palatino, finisce per diventare per antonomasia «il palazzo».

Gli aspetti del cerimoniale risalgono al costume clientelare repubblicano della salutatio (l’omaggio del saluto mattutino che i clientes devono al loro patronus), ma adesso è l’aristocrazia nel suo insieme a entrare, con questo rito, nell’amicitia del principe. Anche i conviti rinviano a un costume repubblicano, ma con Claudio il numero dei convitati arriva a 600! La stessa organizzazione amministrativa, partendo dall’apparato domestico della familia, che ha un decisivo incremento sempre con Claudio, rompe ogni legame con la tradizione della casa aristocratica, a causa della sua ampiezza e dell’inserimento progressivo dei cavalieri al posto dei liberti. In questo modo, la corte si stabilizzerebbe, fra le tradizionali sfere repubblicane della domus e della res publica, come una nuova istituzione sui generis.

L’interpretazione delle nuove gerarchie sociali è la parte più laboriosa e forse più problematica della ricostruzione di Winterling, che basa su di essa l’individuazione del processo d’istituzionalizzazione della corte. Agli inizi del principato nasce una nuova gerarchia sociale, misurata secondo la vicinanza al principe, comprendente anche individui di umile origine. Questa gerarchia si affianca a quella di rango – aristocratica e tradizionale – misurata essenzialmente sulla famiglia e sulla carriera magistratuale. In particolare, Winterling vede agli inizi del principato tre categorie di «cortigiani»: 1) la cerchia più ristretta, cioè i familiares; 2) una più larga cerchia di amici; 3) l’insieme dell’aristocrazia, la cui amicizia ha un carattere istituzionale perché s’impernia sul principe come tale, non su legami personali con lui, e si manifesta con il rito della salutatio. Le prime due categorie di legami sono di tradizione repubblicana; la terza è invece specifica del principato.

Il processo d’istituzionalizzazione passerebbe attraverso la progressiva sovrapposizione, nei primi due secoli del principato, della terza categoria alla seconda e poi anche alla prima. Ciò comporterebbe l’unificazione della gerarchia basata sulla vicinanza al principe con quella basata sul rango sociale, anche perché il principe affida di fatto a persone di sua fiducia sia le magistrature, e quindi il rango senatorio, sia il rango equestre. Si verificherebbe allora un’istituzionalizzazione e insieme un’aristocratizzazione della corte. La reazione a questo processo sarebbe, già con Adriano, la ricomposizione di una cerchia più ristretta di amicissimi, una sorta di «corte nella corte». Al posto della domus un nuovo termine segna, dalla metà del I secolo in poi, per Winterling, il concetto di corte istituzionalizzata: aula.

È una «corte senza “Stato”». L’istituzionalizzazione sembrerebbe da intendersi, nell’impostazione di questo studioso, in relazione al profilo politico-sociale della nozione di Stato, più che a quello propriamente istituzionale. L’istituzionalizzazione, vista in maniera essenzialmente sociologica, sembrerebbe verificarsi quando si generalizza l’aristocratizzazione degli amici principis, cioè quando il ruolo di amicus diventa indipendente dalle relazioni personali del principe. È in questo senso che la corte viene definita come istituzione sui generis tra la sfera domestica e quella civica, tra la domus e la res publica.

Nasce tuttavia, proprio in questo periodo, una realtà nuova rispetto alla tradizione repubblicana: la categoria dell’amministrazione, il cui rapporto con la corte è ancora in fieri. L’apparato della carriera equestre non può essere certo considerato come l’«organizzazione cortigiana del principe». Si pone piuttosto il problema della definizione giuridica del personale amministrativo, e in particolare dei procuratori, anche se il tentativo di razionalizzare queste figure in termini che potrebbero soddisfare le concettualizzazioni moderne potrebbe risultare vano, come, del resto, quello di far rivivere compiutamente le categorie antiche.

Il problema dell’istituzionalizzazione, in effetti, è legato anche a quello della definizione complessiva dell’apparato di governo che emana sì dal principe, ma si dipana poi in una serie di posti, ruoli, incombenze, carriere. Un elemento sicuro e non trascurabile che possiamo utilizzare è quello offerto da Marco Aurelio, quando, in una sua descrizione della corte (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31), non inserisce fra le sue componenti il personale amministrativo in quanto tale: esso è nascosto tra parenti, amici, personale «familiare», domestici.

La situazione, da questo punto di vista, avrà uno sviluppo solo con gli imperatori assoluti del IV secolo. In quest’epoca, tuttavia, la «corte istituzionalizzata» non corrisponde al termine aula – semmai al più indicativo sacrum Palatium – mentre, come riferimento attivo, opera il comitatus, che si estende anche al personale burocratico non cortigiano. In effetti, la documentazione tarda non aiuta a definire gli ambiti: la corte come tale appare anzi schiacciata dalle istituzioni. Il concetto di aula, comunque, continuerà ad avere, come risulta negli autori tardi e nella letteratura giuridica, il suo senso più generico e informale, ruotante attorno al concetto fisico di «reggia».

Gruppo familiare (dettaglio). Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

La corte fra nobilitas e nuove aristocrazie in formazione

Torniamo agli inizi del processo e, quindi, agli inizi del principato: in particolare, al ruolo delle aristocrazie e alle relazioni gerarchiche che ruotano attorno al principe. Bisogna ritornare dapprima al concetto di domus Augusta, che è propedeutico, come si accennava, e non alternativo a quello di aula. Secondo quanto risulta dalla tradizione, questi termini sembrano in effetti maturare quasi nello stesso tempo, tra la fine del principato di Augusto e gli inizi di quello di Tiberio. Il concetto di domus Augusta, d’altra parte, è verosimilmente connesso col problema della successione. L’idea di domus, mentre allargava l’ambito della gens e della familia, restava in una logica nobiliare, che possiamo continuare a chiamare, in senso lato, «gentilizia». Da questo punto di vista, lungi dall’essere vista come una colpa, come apparirà agli inizi del principato, la concezione del predominio di una sola famiglia era più accettabile del predominio di un singolo. La successione si giustificava all’interno di questa concezione.

A questo processo si collegava forse un altro fenomeno importante: nel comune modo di vedere, per nobilitas s’intendeva ora solo la nobilitas di tradizione repubblicana. Sembra che le cariche magistratuali assunte in età giulio-claudia non producessero più nobilitas, come avveniva in età repubblicana. La nuova nobiltà, infatti, era indicata sempre con il termine homines novi. In questo senso si registra una sorta di serrata ideologica, una chiusura della vecchia nobiltà che la avvicina alla nobiltà moderna e che ben si adattava a quell’esclusivismo da cui può nascere un ambiente di corte.

La domus Augusta e la nobiltà esclusiva appaiono dunque strettamente connesse e si uniscono in un largo intreccio di parentele, che vede praticamente tutti i discendenti dei grandi leader repubblicani essere in qualche modo legati da parentela alla domus: gli Scribonii, gli Antonii, i Cornelii Scipiones, gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani, i Cornelii Sullae, i Pompeii, i Domitii. È qui il nucleo e la genesi della corte. La vicinanza al principe viene dunque misurata in termini tradizionali, cioè in gradi di “nobilizzazione”: ma la gerarchia di nobiltà è dettata ora dai legami più o meno stretti con la casa cesarea, come prima lo era dal numero dei consolati o dei trionfi. Si tratta di una gerarchia guidata da una rinnovata logica aristocratica nobiliare, adesso strettamente dipendente dal principe.

A Roma non esisteva una tradizione di casa reale, né era il principe ad assegnare il rango nobiliare come in età moderna. Il presupposto stabile per la formazione di una corte riconoscibile e riconosciuta fu dunque il ceto ormai circoscritto ed esclusivo della nobiltà repubblicana, che – insieme con la domus e con il personale servile e libertino delle case aristocratiche – costituiva il nucleo dell’apparato di governo centrale del principe. La stessa possibilità di una successione appariva quindi circoscritta alla nobilitas, legata intimamente alla domus Augusta.

Alla presenza nobiliare, che caratterizzava la corte, basata su una rinnovata gerarchia aristocratica di tipo piramidale, si aggiungeva l’eredità di una struttura tipica dello stile di vita aristocratico repubblicano: la clientela. Nella corte si affermano i clienti del principe o di qualche altro importante esponente della domus (per esempio, Antonia Minore). Accanto al piccolo Britannico, figlio di Claudio, sedeva a cena, insieme con i figli dei nobili, anche il suo coetaneo Tito, figlio dell’uomo nuovo Vespasiano. Qui vediamo il germe di una nuova gerarchia: a volte, un «amico», di rango inferiore, del principe assume, come singolo, un ruolo e un potere maggiore di un aristocratico. È la gerarchia che Winterling opportunamente definisce «secondo la vicinanza al principe», anche se non dobbiamo dimenticare che essa nasce, attraverso la clientela, dalla stessa logica nobiliare che caratterizza la corte.

Nell’ambito della corte prende forma un nuovo ceto, che però non si pone ancora, in quanto ceto, in concorrenza con quello vetero-nobiliare in termini di potere (un caso a sé, vedremo, è l’inserimento nella gerarchia di corte di liberti e servi imperiali, cioè di esponenti della familia). Lungo tutta l’età giulio-claudia, sono sempre le famiglie della vecchia nobiltà a trovarsi implicate nei giochi della successione, proprio perché connesse alla casa cesarea e per questo continuamente epurate. Minori rischi corrono, fino a un certo punto, come osservano gli stessi autori antichi, gli «uomini nuovi» o, comunque, i «cortigiani» di rango inferiore, proprio perché, nella logica nobiliare, non sono tenuti in considerazione, nel bene e nel male, per una successione. Solo alla fine del principato gentilizio giulio-claudio, che crolla insieme con le altre grandi famiglie nobiliari a esso connesse, in quell’irreversibile crisi di ricambio e di sostanze descritta mirabilmente da Tacito, le nuove gerarchie formatesi ai margini della corte nobiliare avranno un ruolo anche nella nomina del principe. Con i Iulii e con i Claudii si esauriscono grandi famiglie nobiliari gli Aemilii Lepidi, i Iunii Silani e altre ancora. Dopo il nobile Sulpicio Galba, sarà la volta dei Salvii, dei Vitellii, dei Flavii. Queste «famiglie nuove» emergeranno nella devozione alla famiglia cesarea, ai margini degli ambienti di corte. E la corte sopravviverà proprio grazie a individui in grado di acquisire, in termini per il momento più parchi, quello stile di vita e di governo nel quale erano cresciuti.

Integrazione e controllo delle classi superiori, patronato di quelle nuove ed emergenti, sono del resto fra le caratteristiche tipiche del ruolo della corte anche nell’età moderna. Una volta emarginati irreversibilmente gli esponenti residui della nobiltà repubblicana – l’unica nobiltà riconosciuta in età giulio-claudia – le nuove gerarchie si baseranno sulle funzioni pubbliche. Si tratta di un campo aperto al merito e alla mobilità, e in esso si affermerà alla fine anche una certa spersonalizzazione delle relazioni di corte, che sarà un punto cardine della sua funzione statuale. Certo, la nuova aristocrazia si forma, per la maggior parte, o direttamente nella corte o attraverso la sua mediazione (pur con l’apporto ormai di tutto l’Impero e dell’elemento militare): l’unificazione di aristocrazia e corte riguarda un ceto che non ha più la stessa formazione della nobilitas giulio-claudia e che si «burocratizza». Per altro verso, l’aristocrazia senatoria conserva una sua tradizione istituzionale e ideologica che può entrare in contrasto o in concorrenza con la corte e con il principe.

Scena di processione con la corte imperiale. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis (fregio A, lato ovest). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Sviluppi della corte a Roma

Marco Aurelio aggiunge ai componenti della corte, insieme con i parenti e gli amici del principe, gli οἰκεῖοι, da intendersi evidentemente come la familia Caesaris. Nasce da questo nucleo l’apparato amministrativo pubblico esterno alla familia: un apparato burocratico e stipendiato, che, sorto essenzialmente come emanazione della corte, assume presto una vita a sé, una sua struttura che diventa a sua volta modello di organizzazione governativa. In questo senso, si può sostenere che l’aula si pone, di fatto, come mediazione fra l’origine familiare del principato, con il suo apparato domestico, e la nascita di una stabile struttura burocratica «statuale», favorendo il processo di separazione, oltre che fra privato e pubblico, fra amministrazione e politica. L’aula contribuisce così, inaspettatamente, a un’opera di modernizzazione della vita pubblica. In età tardoantica, si riterrà utile selezionare i quadri dei funzionari, dei «competenti», anche attraverso una buona scuola, organizzata, ai livelli superiori, dai poteri «statali», alla quale si affiancheranno scholae specifiche per i diversi addetti all’amministrazione, gli officiales. Già nell’alto principato, tuttavia, la discussione sulla scelta del personale superiore vede affacciarsi la tendenza verso interessi «specialisti» rispetto alla tradizionale preparazione «generalista».

È difficile però, come si accennava, distinguere nettamente, nei vari stadi, fin dove arriva il raggio della corte e a partire da quale punto il personale debba essere invece inteso come apparato amministrativo, con una sua struttura ormai autonoma. Abbiamo visto che Marco Aurelio non include questo personale tra i componenti della corte. Il discrimine più semplice può essere forse individuato, come per l’età moderna, nell’ambito spaziale – all’interno o all’esterno del palazzo – dell’appartenenza alla casa del principe. Per questo sembra comunque difficile parlare di un’istituzionalizzazione della corte sotto il profilo giuridico già nel II secolo.

Nei primi due secoli dell’Impero la corte e la res publica restano in una posizione ambigua e contraddittoria. Da una parte è singolare che la corte si continui e si sviluppi proprio nel principato civilis o «illuminato» del II secolo, dall’altra, in fondo, un processo di istituzionalizzazione poteva attuarsi solo se la corte si allontanava dalla concezione nobiliare, «patrimoniale», originaria del principato. La corte era rimasta, anche con le «famiglie nuove» giunte al vertice dell’Impero, che del resto si erano formate all’interno della corte stessa, un’eredità ineliminabile lasciata dalle casate nobiliari, in quanto apparato «culturale», per il governo del principe. Gli storici «etici» del II secolo, pur critici verso i Giulio-Claudi, non danno una visione solo negativa o polemica dell’aula. Ne sono criticate solo le degenerazioni, la cattiva pratica. Il principe-filosofo Marco Aurelio respinge certo le degenerazioni della corte, ma l’accetta come un’espressione necessaria della gestione del potere: modello di un certo tono e di un certo stile che viene visto ormai caratteristica del governo del principe.

Pure, perché la corte si espandesse e consolidasse nella sua funzione pubblica bisognava che il principe, superata la logica del «primato» nobiliare, non fosse condizionato da troppe remore derivanti dall’etica «privatistica», familiare, e spezzasse ogni legame con la tradizione istituzionale repubblicana. Era necessario cioè che egli si trasformasse apertamente e programmaticamente in un sovrano assoluto, che nella sua altezza sacrale, proprio attraverso la corte, apparisse separato dal resto della società, e che il suo rapporto con le nuove aristocrazie sorte dal suo apparato cortigiano di governo fosse regolato da un rigido e uniforme principio gerarchico.

La storia della corte a Roma nasce dunque, sempre su suggestione delle monarchie orientali, dall’esclusivismo vetero-nobiliare accentratosi attorno alla domus Augusta dalla tarda età augustea a quella giulio-claudia. In quest’ambito la corte utilizza le strutture dell’amministrazione domestica e coopta presenze di natura clientelare, favorendo la crescita di un apparato di governo centrale. Questo apparato, che in progresso di tempo si baserà in buona parte sulle competenze, guarda all’amministrazione dell’Impero e nello stesso tempo pone, più o meno consapevolmente, le basi per la formazione di una nuova aristocrazia, anche politica. Questi due aspetti andavano entrambi al di là della struttura di potere magistratuale della città-stato. Il nuovo strato sociale emergente entra in parte nella corte e sopravvive anzi alla dissoluzione della sua originaria struttura vetero-nobiliare, divenendo il nucleo del governo imperiale e delle nuove gerarchie aristocratiche, politiche e burocratiche. È questa una fase di maturazione e d’istituzionalizzazione della corte che coincide, in laborioso connubio, con la contemporanea ideologia del «principe civile» (civilis princeps), anch’essa lontana dalla concezione patrimoniale e nobiliare del primo principato.

È solo nel IV secolo, dopo il trauma della crisi del III secolo, quando il principe si isola infine nel suo assolutismo «divino» e il sistema di governo dell’Impero viene riorganizzato, che la corte diventa – a rischio peraltro di complicare la propria identità a causa dei propri confini sfumati – un’espressione dello Stato, la cui concezione rivela ormai un grado avanzato di astrazione. Una nuova aristocrazia all’interno della corte, e una nuova gerarchia che si estende anche al suo esterno, entrambe «burocratizzate», fanno da raccordo tra il sovrano e la società esterna.

Roma trasmetterà così alla cultura occidentale moderna, insieme con il modello della città-stato, perpetuatosi negli ordinamenti municipali, quello dell’organizzazione di corte: i due modelli di governo e di selezione del ceto dirigente fra i quali si dibatteranno i sistemi organizzativi della storia d’Europa fino alla costituzione dello «Stato moderno» e degli Stati nazionali.

Tiberio Claudio Germanico Augusto e la moglie Agrippina Minore (a sn) affrontati a Germanico e Agrippina Maggiore (a dx). Cammeo detto “Gemma Claudia”, onice, 49. Wien, Kunsthistorisches Museum.

«Domus Augusta» e «aula»

Nell’età di Traiano, Tacito osserva sconsolato che con il principato di Augusto i nomi delle istituzioni – Senato, magistrati, res publica – pur restando gli stessi di prima, coprivano ormai realtà diverse, svuotate di consistenza (Annales I 3, 7; 7, 3, ecc.). Erano invece attivi nell’alto principato, possiamo aggiungere, nuovi termini e nuove realtà, quali la domus Augusta e l’aula. Quest’ultima indica a volte, fisicamente, la casa del principe, la reggia; altre volte l’aggregazione di persone che gravitano attorno al principe, con il loro stile di vita.

Gli ambienti e gli spazi cui i nuovi termini fanno riferimento non sono definibili in precisi profili giuridici, ma rimandano comunque a concettualizzazioni socialmente sentite e operanti. Cercheremo di percepirne qualche eco.

Anche se per l’età giulio-claudia non possiamo parlare di una società di corte pienamente strutturata, siamo di fronte a un sistema aggregativo e organizzativo nuovo rispetto all’età repubblicana, un sistema che viene a porsi come nuovo centro di potere. Da chi era formata dunque nell’alto principato una corte? Le indicazioni fondamentali ci sono fornite, come abbiamo già detto, da Marco Aurelio. Egli individua l’esistenza di una corte già sotto Augusto, e la descrive in questi termini: «La corte di Augusto: moglie, figlia, nipoti, figliastri, sorella, Agrippa, parenti (συγγενεῖς), personale di famiglia (οἰκεῖοι), amici, Ario (Didimo di Alessandria, filosofo), Mecenate, medici, sacrificatori» (Τὰ εἰς ἑαυτόν 8, 31).

Compongono dunque la corte la domus Augusta col suo personale e con una rete di parentele che confina con i semplici amici; e inoltre vari «intellettuali». Probabilmente per motivi moralistici Marco Aurelio non include le guardie del corpo (che altrove appunto non vede bene nella corte: Τὰ εἰς ἑαυτόν 1, 17) e che sono ricordate invece da Tacito fra la «pompa» dell’aula (Annales I 7, 3).

Il concetto di aula presuppone evidentemente quello di domus. La casa del principe a Roma è, all’inizio del principato, il nucleo del potere. Nella crisi delle istituzioni tardorepubblicane emergono le strutture familiari, che da sempre erano state in concorrenza con esse: Tacito vede nel principato di Augusto l’esito della vittoria del «partito della famiglia giulia» (le Iulianae partes) nelle guerre civili (ibid. I 2, 1). Ora l’ambito familiare si ampliava e si rafforzava. Il concetto di domus indicava, già in età repubblicana, un ambito di parentela più largo rispetto a quello agnatizio (linea maschile) della gens e della familia: si adattava quindi alla costruzione della casata di Augusto, dove mancavano i discendenti maschi e le donne avevano un’importanza decisiva. Da questo punto di vista è opportuno precisare che con l’espressione da noi usata «principato gentilizio» non intendiamo rinviare alla gens come famiglia agnatizia ma, in senso lato, alla concezione nobiliare viva in questa fase: la concezione secondo la quale la generazione successiva poteva vedere la dinastia dei Giuli e dei Claudi come «l’eredità di una sola famiglia» (Tacito, Historiae I 16, 1).

Il concetto di domus Augusta si forma solo nella tarda età augustea. A parte l’evidenza dei gruppi statuari familiari della casa cesarea, promossi anche ufficialmente, e a parte l’imponenza iconografica della famiglia negli spazi pubblici della città (Foro, templi, ecc.), l’idea di domus Augusta ha una sua prima elaborazione, in quanto tutela dell’Impero, con Ovidio, nelle opere dell’esilio. Solo nei primi anni tiberiani, come ci rivelano i nuovi importanti documenti epigrafici rinvenuti in Spagna, la domus Augusta entra nel linguaggio ufficiale (dopo essere entrata in quello simbolico-iconografico): nel 15 d.C., come sappiamo dalla Tabula Siarensis, che conserva il decreto senatorio sugli onori da rendere alla morte di Germanico in missione in Oriente, una statua fu dedicata nel circo Flaminio dal console Norbano Flacco al divo Augusto e alla domus Augusta (Tab. Siar. ll. 9-11). La domus Augusta è ricordata poi nella sentenza del Senato del 20, a conclusione del processo contro Gneo Pisone, legato di Siria, accusato di aver osteggiato, ostacolato e addirittura avvelenato Germanico; in questo documento, essa compare esplicitamente, nella sua inviolabile maestà (maiestas), come depositaria dell’incolumità (salus) della res publica (Senatus consultum de Cn. Pisone patre ll. 33; 160-165). La maiestas attribuita dal Senato alla domus Augusta cancella il suo carattere privato e qualifica la sua funzione pubblica come riferimento e insieme espressione del populus Romanus. La rappresentatività pubblica del principe, protetto dalla lex maiestatis dall’8 a.C. (se non già dal 27), porta con sé quella della domus. Riflettendo sulla precarietà della fortuna, Seneca distingue esplicitamente le privatae domus da quelle publicae, che reggono gli imperi (Nat. quaest. 3, pref. 9).

Ma quali categorie comprendeva il concetto di domus? Nella fitta e aggrovigliata rete di parentele che investono la domus, i suoi confini spesso ci sfuggono e quindi non è precisamente definibile il discrimine tra famiglia del principe e gli amici, che sono spesso legati anche da qualche parentela, magari lontana, alla famiglia. I redattori della citata sentenza sul processo di Gneo Pisone (ll. 142-145) ricordano come Claudia Livia (Livilla), sorella di Germanico, che aveva sposato il figlio di Tiberio, Druso, fosse strettamente imparentata con la nonna Giulia Augusta e con lo zio e suocero Tiberio. Evidentemente essi intendono con domus non i Iulii in senso stretto, ma almeno anche i Claudii. Il concetto di domus pare in definitiva poggiare appunto su parentele più o meno strette o lontane. Svetonio dice di Galba, successo al potere alla morte di Nerone, che «non toccava a nessun livello (nullo gradu) la casa dei Cesari» (Galba 2), riconoscendo così una gradualità di articolazioni, e quindi una gerarchia, nella vicinanza o nell’appartenenza alla domus.

Accanto all’idea di domus Augusta, e verosimilmente in dipendenza da essa, prende dunque forma dall’avanzata età augustea, nell’autocoscienza del principato, il termine e il concetto di aula, riferito sia al palazzo dove risiede il principe, sia alle persone che gravitano con continuità intorno a lui, sia al «clima» che intorno a lui si respira. L’aula appare dunque come un ambiente dotato di una certa stabilità: è lecito rendere questo secondo referente col termine «corte». Pur non essendo una nozione assimilabile al concetto di «pubblico», l’aula assume, accanto alla domus Augusta e alla residenza dei Cesari (il Palatium), un certo aspetto di «ufficialità», soprattutto nel momento in cui richiede un’ammissione formale. Questo termine, riferito al princeps e alla domus, rimanda a una realtà generalmente accettata, che acquisisce un’accezione negativa solo nelle sue espressioni degenerate.

Il più immediato modello di riferimento per l’uso del termine aula a Roma non poteva che essere l’αὐλή delle monarchie orientali, persiana ed ellenistiche. L’αὐλή indicava anzitutto il βασίλειον, la residenza regale, attorno alla quale si sviluppavano le relazioni di amicizia del re. Questi si circondava di aristocratici fiduciari (i φίλοι, «gli amici») che, mentre con questa vicinanza partecipavano in qualche modo al potere, a loro volta riconoscevano e legittimavano la figura centrale e preminente del monarca. Un cerimoniale condiviso formalizzava le reciproche relazioni, contribuendo a creare nel βασίλειον il centro decisionale, con una gerarchia che incideva nell’organizzazione interna del regno. Non è un caso che, insieme con la corte di Augusto, Marco Aurelio ricordi promiscuamente come «tutte simili» le corti di Adriano, di Antonino, di Filippo, di Alessandro, di Creso (la circostanza è significativa anche se la sua visione è orientata da una riflessione moralistica sulla precarietà della condizione umana: Τὰ εἰς ἑαυτόν 10, 27). In modo simile, già Seneca aveva genericamente evocato, con chiara allusione ai propri tempi, atteggiamenti riferiti alla «corte dei re».

Esaminiamo adesso, per quel che riguarda Roma, che cosa gli autori antichi intendessero con il termine aula e quale concettualizzazione esso presupponesse o rispecchiasse. La prima testimonianza di un uso del termine riferibile con molta probabilità all’ambito del princeps si trova in Seneca. Nel dialogo ad Novatum de ira, scritto nei primi anni Quaranta, Seneca riporta come «ben nota» la risposta di un personaggio che aveva passato una lunga vita accanto ai «re»; a chi gli chiedeva come avesse fatto a raggiungere la vecchiaia «a corte» (nell’aula), cosa rarissima, l’anziano rispose «accettando le offese e ringraziando»: un compendio dello stile di vita di un vero cortigiano (II 33, 2). È noto che Seneca indichi spesso con il termine «re» il principe. In ogni caso, pare chiaro che l’aneddoto riguardasse anche l’attualità, sicché nella sua lunga vita il cortigiano potrebbe aver conosciuto l’età di Tiberio. Tacito ricorda (Annales I 7, 3) che subito dopo la morte di Augusto Tiberio cominciò ad agire come se fosse già principe in carica, «tutt’attorno le guardie, le armi e l’altra pompa di corte» (exubiae, arma, cetera aulae). Sarebbe interessante sapere se qui il termine aula si debba a Tacito o alla sua polemica fonte. L’esistenza di una corte attorno al principe nell’età di Tiberio è attestata comunque da una testimonianza che possiamo considerare diretta. Quand’era un ragazzo, Svetonio (Caligola 19, 3) aveva sentito raccontare dal nonno di aver saputo da intimi aulici («intimi cortigiani»), il motivo della costruzione del ponte fra Baia e Pozzuoli da parte di Caligola, all’inizio del suo regno. Con quest’impresa l’imperatore aveva voluto dare una risposta all’astrologo Trasillo, intimo di Tiberio. Durante il regno di Tiberio, Trasillo, secondo i pettegolezzi degli aulici, aveva predetto che Caligola avrebbe fatto più presto ad andare a cavallo da Baia a Pozzuoli che a regnare. Il termine aula, se Svetonio, come sembra dal contesto, riprende il racconto del nonno, risale dunque all’ambito dell’età di Tiberio. Con un termine «tecnico», che in quanto tale sembra risalire all’epoca del suo racconto, Tacito parla di una «corte divisa» (aula discors) nei primi anni del regno di Tiberio, a proposito del favore per Germanico o per Druso, i due figli, adottivo e naturale, del principe (Annales II 43, 5). Morti poi entrambi e caduto infine anche Seiano, Caligola, da parte sua, essendo ormai, come osserva Svetonio, «abbandonata a sé stessa e priva di ogni altro sostegno l’aula», poteva guardare con fiducia alla successione (Caligola 12).

Il concetto di corte, inteso a indicare i frequentatori della casa del Cesare, del palazzo, e comunque della sua residenza (come a Capri), sembra dunque risalire all’età di Tiberio, forse anche agli ultimi anni di Augusto. Marco Aurelio, come s’è visto, fa cominciare la formazione di una corte a Roma già in età augustea, ma dobbiamo riconoscere che la sua affermazione può essere stata distorta dalla lunga storia successiva. A una caratteristica tipica delle corti che ritroviamo anche in età medievale e moderna, richiamano i conviti allietati da buffoni di cui Svetonio (Tiberio 61, 6) leggeva negli Annali di un ex console di età tiberiana. Un nano, fra i buffoni, chiese a Tiberio come mai fosse ancora vivo un tal Paconio, pur accusato di lesa maestà (siamo evidentemente nel periodo tardo del regno, durante il soggiorno di Tiberio a Capri: la corte, come quelle moderne, segue il principe). Sul momento, Tiberio rimproverò quella lingua petulante, ma dopo pochi giorni sollecitò con una lettera il senato perché si affrettasse a giudicare Paconio. L’aneddoto fa comprendere che era presente, già in quell’epoca, la tipica e pericolosa sfrontatezza politica dei buffoni di corte che ci è nota per le corti di altre epoche.

La quasi coincidenza cronologica dell’apparire dei concetti domus Augusta e aula Caesaris conferma la loro relazione: l’aula si forma attorno alla domus Augusta. Bisogna d’altra parte tener conto che in quella stessa età, o poco dopo, matura anche il concetto di Palatium come sede del principe, luogo ormai pubblico del potere. Esso si affianca al referente di Palatium (Palatino) come colle dove si trovano le residenze dei principi. Anche la residenza di Augusto aveva subìto un graduale processo di «pubblicizzazione»; le tappe sono note: l’occasione dell’elezione a pontefice massimo nel 12 a.C.; la ricostruzione della casa, con l’apporto di una sottoscrizione pubblica, in seguito a un incendio nel 3 d.C. La residenza imperiale per il resto si amplia con altre domus, come quelle di Livia e di Germanico, prendendo nome dal principe in carica, così la domus Tiberiana e poi la domus Flavia. Con gli ampliamenti di Caligola, di Claudio, di Nerone, che si espande nell’Esquilino con la domus Aurea, e infine di Domiziano, che ritorna al Palatino come centro, si forma un complesso unitario che supera di gran lunga l’esperienza delle grandi case aristocratiche repubblicane da cui anche le domus dei principi dipendevano. Il Palatino diventa sinonimo del «palazzo» del principe. Nel 69, esso rappresenta la sede legittimante dei principi in contesa fra di loro: nel momento in cui Vitellio si accinge a lasciare il potere, di fronte alle truppe di Vespasiano, per ritirarsi nella casa del fratello, i suoi seguaci gli sbarrano la via verso quei «Penati privati», cioè una casa dai culti privati, premendo perché torni al Palatium (Tacito, Historiae III 68, 3).

Il Palatium è naturalmente la sede privilegiata, diciamo lo spazio proprio dell’aula. Negli autori aula e Palatium ricorrono spesso come sinonimi ad indicare la sede del principe. Ma, nel caso dell’aula come aggregazione di persone, come si è visto, il rapporto con la funzione pubblica è più complesso, ed è anche difficile definire l’ambito che la delimita.

Apoteosi di Augusto e allegoria della Pax Augusti (“Grand Camée de France”). Cammeo, 23 d.C. ca. Cabinet des Médailles.

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Decio, l’imperatore che morì in battaglia

Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.

Decio. Busto, marmo lunense, 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.

L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.

P. Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.

Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.

Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.

C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.

Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).

Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.

Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].

Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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Domizia Longina

Domizia Longina, nata fra il 50 e il 55 d.C. da Cn. Domizio Corbulone e Cassia Longina, sposò in prime nozze L. Elio Plauzio Lamia Eliano. Nel 70 fu costretta dal giovane Domiziano, secondo figlio di Vespasiano, a divorziare dal marito e a sposarsi con lui: dalla relazione ne nacque un figlio, T. Flavio, che però morirà prematuramente non prima dei dieci anni. Quando il cognato Tito venne a mancare, nell’81, Domiziano gli successe al principato e Domizia assurse al rango di Augusta.

Il nuovo principe era un uomo particolarmente geloso, e quando venne a sapere da alcune voci che la moglie lo stesse tradendo con un noto mimo, un certo Paride, fece arrestare e uccidere quest’ultimo e allontanò la sposa, mettendola sotto custodia. Secondo Cassio Dione (67, 3, 1), fu determinante l’intervento L. Giulio Urso, stretto collaboratore di Domiziano, nel sottrarre la donna all’esecuzione pretesa dal marito per il presunto adulterio. La vicenda si consumò fra l’82 e l’83, e in quel periodo l’imperatore pare che avesse intessuto una relazione amorosa con la giovane nipote, Giulia, figlia di Tito, dalla quale avrebbe avuto un figlio, se non l’avesse costretta ad abortire (cosa che la uccise).

Riappacificatosi in seguito con Domizia, la fece richiamare a corte, ripristinandone il rango e l’autorità. Negli anni successivi il principe divenne sempre più sospettoso e malfidente verso tutti, famigliari e collaboratori più intimi compresi, condannando a morte tutti coloro che credeva fossero sleali nei suoi confronti.

T. Flavio Domiziano. Busto, marmo, fine I secolo. Roma, Musei Capitolini.

Secondo Cassio Dione (67, 15, 4), Domizia trovò il proprio nome iscritto in una lista di sospetti; così portò il documento ai prefetti del pretorio T. Flavio Norbano e T. Petronio Secondo. Insieme architettarono una congiura e il 18 settembre 96 d.C. insieme al liberto Stefano, al segretario Partenio e alcuni altri, assassinarono l’imperatore. Domizia morì fra il 126 e il 130 d.C. Le venne dedicato un tempio a Gabii, come attesta un’iscrizione ivi rinvenuta nel 1792 (CIL 14, 2795 [p. 493] = ILS 272 = AE 2000, +251).

Fra i bronzi rinvenuti a Brescia nel 1826, nell’intercapedine tra il tempio capitolino e il colle Cidneo retrostante, in uno è ritratta una donna di età matura, con volto pieno, dalla caratteristica pettinatura tipica della moda di Roma nella seconda metà del I secolo d.C. La maggior parte degli studiosi è concorde nell’identificarvi il volto di Domizia Longina, moglie di Domiziano. Indubbiamente il ritratto deve essere coevo al suo principato (81-96 d.C.), durante il quale nelle acconciature femminili si usava applicare una sorta di toupet formato da riccioli a chiocciola sulla parte frontale del capo, mentre nella parte posteriore della nuca i capelli venivano raccolti in sottili trecce disposte a formare uno chignon.

Domizia Longina. Testa, bronzo, fine I sec. d.C. ca. dall’intercapedine del tempio capitolino. Brescia, Museo di S. Giulia.

La testa è alta 40 cm e doveva appartenere a una statua, come suggeriscono la presenza di un frammento di veste visibile sul collo e la frattura sul lato posteriore, dovuta al distacco violento dal resto del corpo. È realizzato con la tecnica della fusione a cera persa e dimostra una buona qualità di esecuzione: non si vedono, infatti, le tracce lasciate dal processo di fusione e i dettagli sono stati abilmente lavorati a freddo con strumenti diversi, come si evince dalle ciocche dei capelli e dalle trecce. Gli occhi sono stati realizzati in avorio e le iridi in pietra dura, mentre le ciglia sono state tracciate a freddo. Il reperto si trova oggi conservato a Brescia, presso il Museo di S. Giulia.

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