Come bisogna impartire i primi insegnamenti (Quint. Inst. I 1, 1-7)

Il pensiero che sta alla base dell’Institutio oratoria di Quintiliano mostra che l’autore non si accontentò del proprio ruolo di intellettuale-funzionario e rifiutò orgogliosamente e con coerenza di considerare l’oratoria come semplice strumento dell’amministrazione imperiale. Al contrario, sul grande modello di Cicerone, anch’egli attribuiva alla formazione retorica il valore centrale di un’educazione globale, che facesse del cittadino essenzialmente un individuo morale.

Nel primo capitolo dell’opera, che i grammatici medievali hanno trasmesso sotto il titolo di Quemadmodum prima elementa tradenda sunt, Quintiliano esamina quella che deve essere l’educazione del futuro oratore dai primissimi anni di vita fino ai sette anni, quando il bambino cominciava a frequentare il ludus litterarius, corrispondente all’odierna scuola primaria; l’autore spiega che occorre avere la massima cura per la formazione dei bambini, che sono tutti – per la stessa predisposizione naturale – portati a imparare e a usare il pensiero. Primo degli scrittori latini di cui si ha notizia a occuparsene, Quintiliano passa in esame i più importanti problemi pedagogici inerenti alla prima infanzia, discutendo delle doti e delle capacità di nutrici e tutori, raccomandando agli stessi genitori una buona preparazione culturale e analizzando quale sia l’età più adatta per introdurre i bambini agli studi.

Siccome la prima età è estremamente duttile rispetto a ciò che le viene proposto, bisogna evitare che le persone con cui l’infante si relaziona possano trasmettergli insegnamenti sbagliati, che sarebbero difficili da correggere in seguito. Per questo è bene che le nutrici, i genitori e i pedagoghi (per lo più servi di origine greca che svolgevano il ruolo di maestri nell’ambito domestico) siano non solo moralmente irreprensibili, ma anche il più possibile colti e corretti, anche nel linguaggio.

In questo capitolo, l’Institutio oratoria offre un’idea abbastanza chiara di quello che doveva essere l’insegnamento in Roma antica e delle idee di Quintiliano in proposito. L’autore, infatti, appare come un educatore umano e comprensivo, ottimisticamente convinto – e lo dice quasi fin da subito – che nessuno sia del tutto negato per lo studio.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

[1, 1] Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. falsa enim est querela, paucissimis hominibus uim percipiendi quae tradantur esse concessam, plerosque uero laborem ac tempora tarditate ingenii perdere. nam contra plures reperias et faciles in excogitando et ad discendum promptos. quippe id est homini naturale, ac sicut aues ad uolatum, equi ad cursum, ad saeuitiam ferae gignuntur, ita nobis propria est mentis agitatio atque sollertia: unde origo animi caelestis creditur. [2] Hebetes uero et indociles non magis secundum naturam hominis eduntur quam prodigiosa corpora et monstris insignia, sed hi pauci admodum fuerunt. argumentum, quod in pueris elucet spes plurimorum: quae cum emoritur aetate, manifestum est non naturam defecisse sed curam. «Praestat tamen ingenio alius alium». [3] Concedo; sed plus efficiet aut minus: nemo reperitur qui sit studio nihil consecutus. hoc qui peruiderit, protinus ut erit parens factus, acrem quam maxime datur curam spei futuri oratoris inpendat. [4] Ante omnia ne sit uitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optauit, certe quantum res pateretur optimas eligi uoluit. et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. [5] Has primum audiet puer, harum uerba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo noua inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum uerteris uitia? non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit. [6] In parentibus uero quam plurimum esse eruditionis optauerim. nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur, et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumuiros habita legitur non tantum in sexus honorem. [7] Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes.

Ercole bambino uccide i serpenti. Affresco pompeiano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[1, 1] Ordunque, un padre, appena gli è nato un figlio, concepisca per lui le migliori speranze possibili: così ne avrà più cura fin dagli inizi della sua educazione. Falsa è, infatti, la lamentela, che a pochissimi sia stata concessa la capacità di assimilare ciò che viene insegnato e che, invece, i più perdano tempo e fatica per lentezza d’ingegno. Vero è, al contrario, che si trovano tanti dotati di buona penetrazione e inclini a imparare. Perché ciò è naturale per l’uomo; e a quella guisa che gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le fiere per incrudelire, così è tipicamente nostra la solerte attività dello spirito, per cui si crede che l’animo umano abbia origine divina. [2] Quelli duri di comprendonio, invece, e coloro che sono refrattari all’apprendimento non sono conformi alla natura umana più di quanto non lo siano i corpi anomali e straordinari per mostruosità, ma costoro sono sempre stati una rarità. Prova, questa, del fatto che nei ragazzi brilla la speranza di moltissime possibilità: e, quando queste svaniscono con il passare degli anni, è chiaro che è venuta meno non la natura, ma la diligenza degli educatori. «Non tutti hanno la stessa intelligenza». [3] D’accordo; ma conseguirà risultati più o meno buoni: non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l’applicazione una pur minima meta. Chi si sarà ben reso conto di ciò, non appena divenuto genitore, dedichi la maggiore attenzione che si possa avere alla speranza del futuro oratore. [4] Tanto per cominciare, le nutrici dovranno esprimersi con un linguaggio corretto: di loro Crisippo si augurava che fossero, se possibile, esperte di filosofia o, quantomeno, voleva che si scegliessero le migliori, per quanto permesso dalle circostanze. Non c’è dubbio che per prima cosa bisogna tener conto della loro moralità: occorre però che parlino anche correttamente. [5] È la nutrice che il bambino ascolterà per prima, sono le sue parole che egli cercherà di ripetere balbettando. E per natura noi siamo attaccatissimi alle prime suggestioni dell’innocenza: così come il sapore, del quale si impregnano i recipienti nuovi, rimane persistente né si potrà mai più cancellare la tinta della lana, che ne ha mutato l’originario candore. Il guaio è che proprio le suggestioni peggiori restano maggiormente impresse. Ciò che è buono si cambia facilmente nel peggio: quando mai potresti trasformare i difetti in virtù? Perciò, l’allievo, nemmeno finché è ancora nell’infanzia, si abitui a un linguaggio che dovrebbe poi disimparare. [6] Sarebbe ugualmente auspicabile che i genitori fossero istruiti quanto più possibile. E non parlo solo del padre. È noto, per esempio, che alla formazione oratoria dei Gracchi contribuì non poco la madre Cornelia, il cui stile coltissimo è stato tramandato anche ai posteri per mezzo delle sue lettere; e si dice che Lelia, figlia di Gaio, si esprimeva nel parlare con la medesima raffinatezza del padre; l’orazione tenuta da Ortensia, figlia di Quinto, davanti ai Triumviri si legge ancora oggi e non solo in omaggio al suo sesso. [7] Ciò non vuol dire che coloro ai quali non toccò in sorte di poter studiare essi stessi debbano aver minore cura nell’educazione dei figli; anzi, proprio per questo dovranno essere più attenti in tutto il resto.

Contrariamente alla pratica degli altri trattati antichi sull’eloquenza, che si concentravano sulla formazione oratoria in senso tecnico (quella che cominciava alla sequela di un rhetor professionista), l’Institutio quintilianea prende le mosse proprio dall’infanzia del futuro oratore, dedicando pagine celebri all’educazione domestica. Dopo il proemio, che enuncia e chiarisce gli obiettivi che sostengono la composizione dell’opera e ne riporta il piano complessivo, tutto il primo capitolo del I libro è dedicato ai criteri che devono regolare la scelta e la cura dell’ambiente umano più idoneo alla crescita culturale e personale del bambino, nell’ipotesi di base che qualsiasi individuo possa, in futuro, diventare un oratore perfetto. L’interesse particolare insito in questa pagina sta, oltre che nelle consuete ragioni specifiche interne all’opera e al profilo dell’autore, nel fatto che precedenti trattati pedagogici a cui Quintiliano può essersi ricollegato sono andati perduti (tra gli altri, il Περὶ παίδων ἀγωγῆς, De liberis educandis di Crisippo di Soli, a cui l’autore fa espressamente riferimento, talvolta per dissentirne); dunque, si devono a questa sezione alcune delle nozioni pervenute sugli orientamenti pedagogici e didattici del mondo antico.

L’invito iniziale al padre rientra nel più ampio quadro di quella pedagogia tesa verso un ideale di perfezione, al quale Quintiliano si attiene scrupolosamente, riprendendo e approfondendo uno spunto già ciceroniano. A tale perfezione ideale possono teoricamente accedere tutti; dunque, gli educatori dovranno trattare qualsiasi bambino come potenzialmente diretto a raggiungerla. È vero che non tutti hanno le stesse qualità intellettuali, ma ognuno può ottenere significativi risultati attraverso lo studio (parr. 1-3).

Scena di allattamento. Statuetta, terracotta, II-III sec. d.C., da Bordeaux. Saint-Germain-en-Laye, Musée Archéologie Nationale.

E così, Quintiliano inizia le proprie raccomandazioni a partire dai primi contatti che il bambino ha con il mondo delle parole: l’ambiente domestico con le balie (parr. 4-5). Nutrix va inteso in senso più ampio di quello di «balia che allatta», e cioè come «governante», quella figura che si prendeva cura dei bambini anche successivamente all’allattamento; poteva essere una serva di origini greche e allora aveva il compito di familiarizzare i piccoli con la sua lingua-madre (i sostenitori della tradizione erano contrari a quest’impiego, preferendo che le madri stesse provvedessero all’allattamento, alla cura e all’educazione dei figli). Quest’importanza accordata alla correttezza linguistica delle nutrici pare interesse autenticamente quintilianeo ed è legato alla constatazione che il primo approccio del bambino al linguaggio avviene per imitazione.

Dopo aver parlato delle nutrici, l’autore passa ai genitori (parr. 6-7), per i quali insiste particolarmente sull’importanza anche della partecipazione materna alla formazione dell’infante (nec de patribus tantum loquor), adducendo exempla illustri di madri colte.

L’incipit dell’Institutio manifesta con evidenza, sul piano stilistico, la ricerca di chiarezza e armoniosità che Quintiliano persegue sul modello ciceroniano. Alcuni nessi e scelte terminologiche infatti sono ripresi dall’Arpinate. Per esempio, tarditate ingenii è nesso già ciceroniano (cfr. Cic. orat. 229); agitatio, deverbativo di agito (frequentativo di ago), si trova più di una volta nel lessico filosofico di Cicerone, in riferimento alla mens con il significato appunto di «attività»; si è ben lontani dal senso negativo che Seneca attribuiva al termine o ai suoi sinonimi, in riferimento all’assenza di equilibrio interiore.

Per quanto riguarda la costruzione del periodo, si nota il chiasmo et facile in excogitando et ad discendum promptos (I 1, 1), che accosta i due gerundi con variatio del caso. Tutto il paragrafo si segnala per la ricerca accurata di concinnitas. Un altro chiasmo compare poco dopo, sicut aves ad volatum, equi ad cursum, ad saevitiam ferae… ita nobis…; qui l’esempio costruito sulle diverse specie animali è di ascendenza ciceroniana ed è funzionale a inserire anche l’uomo all’interno della varietà delle specie.

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Bibliografia:

G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 356-360.

F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, 153-155.

La corruzione dell’eloquenza: un dibattito acceso

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 402-403.

 

Le cause della “corruzione” della prosa. | Il dibattito sulla decadenza della retorica e dell’eloquenza coinvolse gli intellettuali nei primi due secoli dell’età imperiale, sia a Roma sia nel mondo ellenizzato. Il “nuovo” stile, lontano dalla concinnitas ciceroniana, e insieme le tendenze asiane, reinterpretate non più in maniera altisonante, ma caricate di un espressionismo che sfociava nella sententia acuminata e nella brevitas concettosa, provocarono una reazione dei letterati alla vecchia scuola, che vissero il cambiamento come una forma di decadenza. Nella loro etica il modello canonico era Cicerone: interrogandosi sulle cause di quella che a loro giudizio era una corruzione dello stile ideale, discutevano quelli che a parer loro erano i motivi della decadenza, sostenendo, attraverso analisi stilistiche ed etico-politiche, tesi talora contrastanti e presentando un quadro vario e problematico, non solo delle scuole di retorica, ma anche in generale della cultura del tempo.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1768 (XIII sec. c.), Seneca il Vecchio, Controversiae, con marginalia di Albertino Mussato, f. 73r.

Seneca: l’immoralità come causa della decadenza. | Nell’Epistola ad Lucilium 114 Seneca filosofo discute la questione con il suo destinatario, il quale gli ha chiesto come mai in determinati periodi si sviluppi un genere corrotto di eloquenza, a cui sono inclini gli uomini d’ingegno. Nel riferire la domanda dell’amico, il filosofo descrive lo stile di questa prosa “corrotta” con abbondanza di attributi (Ep. 114, 1): inflata explicatio, «modo di esprimersi gonfio»; infrancta et in morem cantici ducta, «spezzato e condotto alla maniera di una filastrocca»; sensus audaces et fidem egressi, «concetti arditi e incredibili»; abruptae sententiae et suspiciosae, «frasi spezzate ed enigmatiche». La sua risposta alla domanda di Lucilio potrebbe apparire ai moderni sorprendente o almeno incongrua: talis hominibus fuit oratio qualis vita, «tale è il modo di parlare di ognuno quale la sua vita». Quindi, la condotta morale esercita un’influenza sul linguaggio: se è ottima, lo stile sarà ottimo. E questo assioma non vale solo per gli individui, ma anche per interi popoli, se si sono abbandonati «ai piaceri» (in delicias). Un’eloquenza corrotta generalizzata è segno di una dissolutezza generale: lascivia orationis è prova di una luxuria publica.

Gli esempi negativi: Mecenate e Sallustio. | Seguono dimostrazioni ed esempi (fra cui quello di Mecenate) di pubblica immoralità e nel contempo di prosa «rilassata» e «snervata», «oscura, involuta come quella di un ubriaco, degenerata e corrotta». La prosperità eccessiva genera una diffusa dissolutezza e, quando l’anima comincia a provar noia del consueto, si rivolge all’insolito, al desueto o addirittura conia parole nuove e nuove metafore, come ultimo segno di eleganza, o lascia le frasi sospese o tronca i concetti. Così faceva Sallustio e con lui che apprezzava la sua eloquenza: Anputatae sententiae et verba ante expectatum cadentia et obscura brevitas, «frasi troncate e parole che arrivano inaspettate e un’oscura brevità».

Maestro di retorica con i suoi allievi. Rilievo, marmo, IV sec. d.C. da un sarcofago romano.

Il giudizio di Quintiliano: Seneca cattivo maestro”. | Seneca, il quale criticava aspramente Sallustio come l’esempio negativo che ha trascinato tanti seguaci, non si accorse che il proprio stile aveva tutti i difetti di quella prosa “corrotta” da lui tanto biasimata. Se ne sarebbe accorto, poi, Quintiliano (Inst. X 1, 125-131), che avrebbe attribuito al filosofo uno «stile corrotto e spezzato» (corruptum et […] fractum dicendi genus), rivolgendogli l’accusa di aver voluto intraprendere una via dell’eloquenza diversa dai classici, corrompendo i giovani che ne avrebbero saputo imitare solo i difetti.

Seneca il Vecchio e le nuove generazioni di rammolliti. | Anche il padre, Seneca il Vecchio, cui si deve una raccolta di controversiae e di suasoriae, esercitazioni fittizie, le une di carattere giudiziario, le altre di argomento mitologico, lontane comunque della vita come dai dibattiti forensi, aveva messo in evidenza (Contr. I, praef. 8-10) come ormai gli ingegni di una gioventù pigra fossero intorpiditi (torpent ecce ingenia desidiosae inventutis) e non fossero più dediti ad alcuna attività onesta. Ogni interesse per lo studio veniva meno in giovani rammolliti, effemminati, buoni a «ondularsi i capelli e a tener dietro a una sconcia eleganza» (capillum frangere et […] immundissimis se excolere munditiis). L’esempio della figura morale di Catone e i precetti al figlio Marco erano ancora posti come lezione di vita e di dottrina: Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi peritus.

La responsabilità delle scuole di retorica. | Negli scritti dell’epoca ritorna con insistenza l’opposizione foro/scuola di declamazione, la contrapposizione fra vita sociale e politica e mondo artificiale dell’esercizio scolastico. Ancora Seneca il Vecchio (Contr. III praef. 12-14) affermava che, quando declamava, gli sembrava di lottare in un sogno e di menare colpi a vuoto; Quintiliano parlava di persone diventate vecchie sui banchi di scuola, che rimanevano stupefatte quando si trovavano per la prima volta nel foro. In Satyricon 1-2 Petronio, per bocca di Encolpio, afferma che «i giovani a scuola rincitrulliscono» (ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri), e descrive il tipo di insegnamento lontano dalla realtà a cui sono sottoposti gli scolari dei declamatori che, come in preda alle Furie, li esercitano su temi fittizi e vani: pirati in catene presso il lido, tiranni che scrivono editti feroci, responsi di oracoli in seguito a pestilenze. Il tutto con uno stile zuccheroso e quasi sparso di papavero e di sesamo (mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa). I grandi oratori e poeti greci (si citano Sofocle, Euripide, Pindaro, i lirici, Platone, Demostene, Tucidide, Iperide) hanno imparato a parlare e a scrivere bene perché non hanno frequentato le scuole di eloquenza: Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, «Non ancora un ammuffito maestro aveva distrutto gli ingegni»; mentre ora una «ventosa» e «sregolata» loquacitas è passata dall’Asia ad Atene, investendo come una cattiva stella i giovani al punto che l’eloquenza «si è arrestata e ammutolita» (stetit et obmutuit).

«Giovane oratore» o Hermes. Statua, marmo, copia romana da originale greco di II sec. a.C., I sec. d.C. c. Madrid, Museo del Prado.

Le colpe dei genitori. | A un altro personaggio del Satyricon, Agamennone, spetta il compito di ribattere a Encolpio e di sostenere (capp. 3-4) una tesi diversa: non le scuole, ma i genitori sono responsabili della corruzione dell’eloquenza, per l’educazione sbagliata che danno ai figli: smaniosi di immaturi progressi, li spingono nel foro quando ancora non si sono formati, non li lasciano seguire studi regolari, assorbire gradatamente le letture, formarsi attraverso la filosofia, correggere il loro stile e misurarsi con i modelli dei grandi oratori che vogliono imitare. Solo così facendo, la grande oratoria racquisterebbe il suo peso e il suo splendore.

Contro le declamazioni di scuola [Quint. V 12, 17-23]

da A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 441-444.

Dopo aver esposto gli accorgimenti necessari affinché un’argomentazione sia efficace (tema del V libro), con particolare attenzione al metodo per costruire le prove di ragionamento (i cosiddetti «sillogismi retorici»), Quintiliano specifica che tanta accuratezza sia dovuta al fatto che le orazioni preparate per le esercitazioni scolastiche (le declamationes) spesso sono infarcite di ragionamenti capziosi, che rendono il complesso del discorso debole, se non ridicolo. Con una metafora di forte impatto emotivo, l’autore paragona l’atteggiamento degli autori di arzigogolate declamazioni, gradevoli all’ascolto, ma prive di sostanza, a quello dei venditori di schiavi che evirano i fanciulli prima di metterli in vendita, nella convinzione che i giovani dai tratti effemminati riscuoteranno maggior favore presso i clienti. In questa parte del testo Quintiliano riprende il tema che caratterizzava la sua opera andata perduta, il De causis corruptae eloquentiae.

[17] […] Quod eo diligentius faciendum fuit quia declamationes, quibus ad pugnam forensem uelut praepilatis exerceri solebamus, olim iam ab illa uera imagine orandi recesserunt, atque ad solam compositae uoluptatem neruis carent, non alio medius fidius uitio dicentium quam quo mancipiorum negotiatores formae puerorum uirilitate excisa lenocinantur. [18] nam ut illi robur ac lacertos barbamque ante omnia et alia quae natura proprie maribus dedit parum existimant decora, quaeque fortia, si liceret, forent ut dura molliunt: ita nos habitum ipsum orationis uirilem et illam uim stricte robusteque dicendi tenera quadam elocutionis cute operimus et, dum leuia sint ac nitida, quantum ualeant nihil interesse arbitramur. [19] sed mihi naturam intuenti nemo non uir spadone formosior erit, nec tam auersa umquam uidebitur ab opere suo prouidentia ut debilitas inter optima inuenta sit, nec id ferro speciosum fieri putabo quod si nasceretur monstrum erat. libidinem iuuet ipsum effeminati sexus mendacium, numquam tamen hoc continget malis moribus regnum, ut si qua pretiosa fecit fecerit et bona. [20] quapropter eloquentiam, licet hanc (ut sentio enim, dicam) libidinosam resupina uoluptate auditoria probent, nullam esse existimabo quae ne minimum quidem in se indicium masculi et incorrupti, ne dicam grauis et sancti, uiri ostentet. [21] an uero statuarum artifices pictoresque clarissimi, cum corpora quam speciosissima fingendo pingendoue efficere cuperent, numquam in hunc ceciderunt errorem, ut Bagoam aut Megabuxum aliquem in exemplum operis sumerent sibi, sed doryphoron illum aptum uel militiae uel palaestrae, aliorum quoque iuuenum bellicorum et athletarum corpora decora uere existimarunt: nos qui oratorem studemus effingere non arma sed tympana eloquentiae demus? [22] igitur et ille quem instituimus adulescens quam maxime potest componat se ad imitationem ueritatis, initurusque frequenter forensium certaminum pugnam iam in schola uictoriam spectet, et ferire uitalia ac tueri sciat, et praeceptor id maxime exigat, inuentum praecipue probet. nam ut ad peiora iuuenes laude ducuntur, ita laudati in bonis manent. [23] nunc illud mali est, quod necessaria plerumque silentio transeunt, nec in dicendo uidetur inter bona utilitas. sed haec et in alio nobis tractata sunt opere et in hoc saepe repetenda: nunc ad ordinem inceptum.

[17] […] Ho dovuto spiegare questo in modo particolarmente attento in quanto le declamazioni, con le quali eravamo soliti prepararci alle battaglie forensi come si fa con le armi d’addestramento, si sono ormai allontanate dalla funzione originaria di arringhe simulate e, composte solo per diletto, mancano di nerbo, sebbene per chi parli in pubblico non ci sia difetto maggiore, a dire il vero, di quello che è in uso tra i venditori di schiavi che rendono più graziosi i fanciulli evirandoli. [18] Come infatti quelli ritengono poco eleganti in primo luogo il vigore dei muscoli e la barba e poi gli altri attributi che la natura propriamente ha assegnato al maschio, e ammorbidiscono in quanto duri tutti i caratteri che dovrebbero essere robusti, se fosse consentito, così noi copriamo con uno strato sdolcinato di bello stile la consistenza propriamente virile di un discorso e la capacità di parlare con rigore e veemenza e, purché tutte le frasi sono levigate e nitide, crediamo che non abbia alcuna importanza il loro effettivo valore. [19] Al contrario, per me, basandomi sulla natura, un uomo sarà più bello di un eunuco, né la saggezza sarà mai tanto contraria rispetto al suo naturale corso in modo da operare che la debolezza sia da collocare tra le virtù, né mai riterrò che diventi bello grazie a un bisturi ciò che, se fosse nato così, sarebbe stato ritenuto deformità. Un corpo artificialmente reso femminile gioverà forse ai piaceri dell’erotismo, ma alla depravazione non toccherà mai la facoltà di rendere anche onesto ciò che ha reso pregiato. [20] Perciò, per quanto gli spettatori con passivo compiacimento approvino questa eloquenza viziata (dirò infatti come penso), io riterrò che non ci sia nessuna eloquenza che non mostri in sé nemmeno il minimo indizio di provenire da un uomo di autentica mascolinità, per non dire austero e venerando. [21] Del resto, i più noti scultori e pittori, desiderando realizzare con la scultura o la pittura corpi i più belli possibile, mai sono caduti nell’errore di prendersi un Bagoa o un Megabizo come modello dell’opera, ma giudicarono il doriforo il soggetto adatto per raffigurare il mestiere del soldato o l’attività sportiva, e anche di altri giovani combattenti e atleti ritennero veramente bello il corpo: e noi, che pretendiamo di formare un oratore, daremo alla sua eloquenza non armi vere ma dei sonaglietti? [22] Perciò, il giovane che stiamo educando si ispiri il più possibile all’imitazione della realtà, e, pronto a intraprendere frequentemente la battaglia delle contese forensi, già a scuola miri alla vittoria, e sappia colpire e individuare le parti vitali, e l’insegnante esiga soprattutto quello e, una volta ottenutolo, dia senza riserve l’approvazione. Infatti, come i giovani con gli elogi sono allettati addirittura al male, così, se opportunamente gratificati, permangono nei buoni costumi. [23] Attualmente di male c’è questo, che per lo più si passa sotto silenzio il necessario e nell’oratoria l’utile non sembra compreso tra i pregi.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

Quintiliano dunque spiega chiaramente che la declamazione è nata come esercizio di scuola. Da Seneca il Vecchio si apprende che l’abitudine di trattare di fronte al pubblico un argomento assegnato dal maestro è stata introdotta nelle scuole di retorica di Atene fin dal IV secolo a.C. A Roma l’usanza della declamatio si diffuse dal I secolo a.C. (declamare significa letteralmente «recitare ad alta voce»; in seguito, il termine declamatio prese il significato di «discorso fittizio»). Il pubblico, come in moderni saggi scolastici, era composto anche da persone esterne alla scuola, amici e parenti dei ragazzi. D’altra parte, anche oratori ormai in carriera potevano saltuariamente tornare a declamare per amici e conoscenti. Un significativo cambiamento intervenne verso la fine dell’età repubblicana – sempre secondo la testimonianza di Seneca il Vecchio – quando la declamazione divenne uno spettacolo indipendente dalla prassi scolastica. In vere e proprie conferenze, in cui non mancava una certa dose di mondanità, si esibivano gli oratori più famosi. Per ottenere l’applauso degli astanti furono adottati espedienti sempre più appariscenti e artificiali, perché la scelta degli argomenti astrusi dava modo ai relatori di mettere in luce la propria competenza argomentativa. Questo fenomeno era per Quintiliano una mostruosità! Il vero male dell’eloquenza del suo tempo era quello di aver perso il contatto con la realtà – concetto espresso anche con la similitudine fondata sull’esempio dei grandi scultori dell’antichità.

Boulanger Gustave Clarence Rudolphe, Il mercato degli schiavi.

Secondo Quintiliano, la causa della decadenza dell’oratoria era un fenomeno dipendente esclusivamente da un processo avvenuto all’interno delle scuole: aver trasformato un esercizio in una forma di spettacolo aveva condotto a cercare soggetti sempre meno collegati con l’effettiva pratica forense (nec in dicendo uidetur inter bona utilitas, 23), tanto che i maestri, pensando ormai di dover preparare declamatori più che effettivi avvocati, trascurarono nell’insegnamento quanto fosse davvero necessario (necessaria plerumque silentio transeunt). Lo stile di eloquenza che Quintiliano rigettava con forza, in quanto artificiale e vuoto, era quello da lui attribuito a Seneca, come spiegava nella parte del libro X in cui prendeva in considerazione lo stile del filosofo, franto e sentenzioso, ma di grande impatto psicologico sui giovani di quella generazione. È probabile che un parere di questo tipo fosse rimarcato da Quintiliano anche nel De causis corruptae eloquentiae.

L’autore sembrava però ottimista di fronte alla decadenza dell’oratoria, in quanto riteneva che si potesse porre rimedio cambiando il metodo d’insegnamento e sostituendo i modelli da indicare agli alunni come riferimento. La similitudine del paragrafo 21, con il riferimento all’arte di Policleto, è indicativa di una concezione “classicistica” della retorica, che non doveva cercare modelli al di fuori di quelli consacrati dalla tradizione e soprattutto ispirati a un criterio di chiarezza e di equilibrio formale. La posizione di Quintiliano è, quindi, diversa rispetto a quella di Seneca il Vecchio, che, pur lamentando il medesimo problema, presupponeva per la decadenza dell’oratoria cause riconducibili a un peggioramento morale del mondo romano: ciò aveva ridotto la disciplina a mero strumento per facili guadagni.

Giovane intento alla lettura. Affresco (dettaglio), I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Giovane intento alla lettura. Affresco (dettaglio), I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Anche Seneca filosofo, la cui eloquenza era additata da Quintiliano come scadente, aveva lamentato ai suoi tempi un forte peggioramento qualitativo nell’arte della parola. Seneca aveva dedicato all’argomento una delle lettere a Lucilio (ad Luc. CXIV), mostrandosi in accordo con le affermazioni del padre e individuando nello scadimento morale dei Romani una delle principali cause di quella decadenza. Entrambi i Seneca, pertanto, rispetto a Quintiliano manifestavano un netto pessimismo riguardo alle possibilità che l’oratoria potesse tornare agli antichi splendori.

Marco Fabio Quintiliano

Al periodo turbolento del principato di Nerone (54-68) seguì quello della «restaurazione» di Tito Flavio Vespasiano e dei suoi successori (69-96): con un parallelo stilistico si potrebbe far corrispondere l’età neroniana le irregolarità dell’eloquenza asiana e alla successiva età flavia un’esigenza di ordine e organizzazione di tipo piuttosto atticista. I Flavi infatti sostituirono alla figura del filosofo e consigliere imperiale quella del retore e funzionario amministrativo, e di conseguenza attribuirono grande importanza alla formazione oratoria della nuova classe politica romana. È a questo punto che entra in gioco la figura di Quintiliano, già insegnante di retorica nella nativa Hispania e primo maestro a ricoprire la cattedra di eloquenza stipendiata dall’Impero per volontà di Vespasiano nel 71. Il fatto che divenisse poi precettore dei figli e dei nipoti di Domiziano potrebbe farlo apparire irrimediabilmente compromesso con la politica di regime del princeps, ma, nonostante egli considerasse la realtà dell’Impero come necessaria (e, quindi, come imprescindibile posizione di partenza), tracciò una figura nobile di oratore, con il cui contributo giovare certo più al bene della res publica che del singolo principe.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

 

La vita

Ciò che si sa di Quintiliano è noto prevalentemente dalla sua opera e dal Chronicon di Girolamo, fonte preziosa peraltro di notizie riguardanti numerosi altri autori latini. Alcuni cenni sul suo conto si trovano in varie fonti, per esempio, in Marziale II 90 e Giovenale VII 186 ss. Marco Fabio Quintiliano nacque fra il 35 e il 40 a Calagurris (od. Calahorra) in Hispania Tarraconensis. Il padre, anch’egli maestro di retorica, lo condusse giovanissimo a Roma, dove seguì gli insegnamenti del grammatico Remmio Palemone e dell’oratore Domizio Afro, personaggio da lui più volte ricordato con ammirazione. Tornò in patria dove esercitò la professione di avvocato, raggiungendo fama e successo, fino a quando nel 68 fu ricondotto a Roma da Galba, allora legatus Augusti della provincia, acclamato imperatore dalle legioni ispaniche. Nell’Urbe rimase anche dopo l’assassinio del princeps, dedicandosi all’avvocatura e all’insegnamento dell’oratoria. Dagli imperatori che governarono durante la sua vita ebbe grandi prove di stima: da Vespasiano, come si è ricordato, gli fu attribuita una delle prime cattedre di retorica (ebbe come allievi Plinio il Giovane e forse anche Tacito e Giovenale) con uno stipendio annuo di centomila sesterzi; da Domiziano gli furono conferiti gli ornamenta consularia e, dopo il suo ritiro dalla professione di docente durata circa vent’anni, l’incarico di istruire i suoi pronipoti. Quintiliano scomparve presumibilmente fra il 96 e il 100.

Durante la sua vita quest’uomo vide succedersi numerosi imperatori in Roma. Durante la sua giovinezza, infatti, governarono prima Claudio (41-54) e poi Nerone (54-68): in tal periodo il potere si era spostato progressivamente dal Senato al principe, con conseguente perdita della libertas, presupposto indispensabile per la lotta politica, la militanza e l’attività pubblica, nonché linfa vitale per l’oratoria, che da essa aveva tratto vigore e passione nei secoli precedenti.

Lo studio della retorica, in particolare, che a Roma aveva rivestito grande importanza nell’iter formativo della classe dirigente dal III-II secolo a.C. circa, all’epoca di Nerone non fu più diretto prevalentemente alla preparazione dell’oratore che avrebbe dato prova di sé nel foro e nella vita pubblica, ma divenne elemento base dell’istruzione superiore a cui si dedicavano intellettuali e alti funzionari imperiali. Spia della mutata situazione era la pratica delle declamationes, che, nate come esercitazioni da parte del maestro o degli allievi delle scuole di retorica, divennero discorsi fittizi che si tenevano in pubblico. Di conseguenza, si era affermato uno stile più ricercato, spesso artificioso, mirante a suscitare diversi effetti sull’uditorio e strappare applausi.

Questa ondata anticlassicista della tarda età giulio-claudia si andò esaurendo con l’avvento degli imperatori della dinastia Flavia. Tutto il loro programma, imperniato sulla ricerca di un nuovo equilibrio, rivelava un’impostazione di tipo conservatore: segni evidenti di ciò furono il riavvicinamento al Senato (sul piano della politica interna) e il ritorno agli antichi ideali e costumi (sul piano sociale). In questo senso fu favorito, quanto alla retorica, un revival del classicismo che appunto trovò in Quintiliano uno dei massimi fautori. L’impegno da parte dei Flavi alla formazione di una classe dirigente e la loro attenzione alla cultura che serviva all’insegnamento svilupparono gli studi di retorica. Questi furono tenuti in così grande considerazione al punto che, per la prima volta, furono istituite delle cattedre di eloquenza retribuite dallo Stato.

Giovane intento a far di conto con l’abaco. Rilievo, marmo, I sec. d.C. particolare da un sarcofago di età flavia. Roma, Musei Capitolini.

L’opera

Gli interessi di Quintiliano, come rivelano i titoli delle sue opere, furono incentrati esclusivamente sulla retorica e i problemi a essa connessi. La sua attività di scrittore si svolse completamente dopo il ritiro dall’attività di insegnamento. Tuttavia, come egli stesso riferisce nella Institutio oratoria, già in precedenza era stata diffusa sotto il suo nome un’opera, in due libri, di arte retorica, compilata da suoi allievi, che avevano raccolto il materiale stenografando una lunga conversazione e numerose sue lezioni, senza alcuna revisione da parte del maestro e senza la sua volontà. Di Quintiliano è andato perduto un trattato, De causis corruptae eloquentiae, in cui esaminava le cause della decadenza dell’oratoria dei suoi tempi. La sua opera maggiore, fortunatamente conservata, è la Institutio oratoria, in dodici libri, scritta probabilmente fra il 93 e il 95. Inoltre, sono state tramandate con il suo nome due raccolte di Declamationes (diciannove maiores, ampie e compiute, e centoquarantacinque minores in forma di schema o di abbozzo di orazione), ma la loro paternità è, in parte o completamente, respinta da molti studiosi.

 

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

 

I rimedi alla corruzione dell’eloquenza

Il problema della corruzione dell’eloquenza investiva contemporaneamente questioni morali e di gusto letterario: il primo aspetto era particolarmente evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva la parola a fini di ricatto materiale e morale; inoltre, a quanto pare, nelle scuole erano abbastanza diffuse figure di insegnanti corrotti, i quali, a loro volta, corrompevano la moralità degli allievi (tristemente celebre l’esempio di quel Remmio Palemone che fu tra i maestri dello stesso Quintiliano!). Un secondo risvolto del problema era quello relativo alle scelte letterarie, perché nelle virtù e nei vizi di stile taluni vedevano l’espressione della virtù e vizi del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: in particolare si trattava di stabilire quale fosse lo stile migliore da perseguire nell’arte della parola (arcaizzante, modernizzante, ciceroniano) e di individuare le cause prime della crisi della retorica.

Dal punto di vista dei gusti letterari, Quintiliano si pose fra i classicisti, anzi fu il “vessillifero” di una reazione conservatrice nei confronti dello stile «corrotto» e «degenerato» di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e insieme il maggiore responsabile. Quintiliano, non meno da altri autori antichi, vedeva in termini moralistici il problema della degenerazione dell’eloquenza e ne additava le cause nella generale degradazione dei costumi. Ma egli era, in primo luogo, un uomo di larga esperienza didattica, profondamente convinto dell’efficacia dell’educazione e dell’istruzione. La corruzione della retorica aveva, ai suoi occhi, anche motivazioni «tecniche», che egli ravvisava nel decadimento delle scuole e nella vacuità stravagante delle declamazioni retoriche. A una rinnovata serietà dell’insegnamento egli affidava pertanto il compito di ovviare al problema nella misura in cui fosse possibile. Così nella sua Institutio oratoria Quintiliano delineò un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore avrebbe dovuto seguire scrupolosamente dall’infanzia fino al suo ingresso nella vita pubblica.

Questa formazione, che andava al di là del possesso di buone competenze tecniche, era stata proposta come ideale anche da Cicerone; tuttavia, in essa, diversamente che per l’Arpinate, per Quintiliano non era più la filosofia a ricoprire un ruolo primario, bensì la stessa retorica, che in tal modo perdeva una connotazione puramente tecnica di strumento di persuasione per assumere un’ampia valenza educativa. Scopo dichiarato dell’autore dell’Institutio era comunque il recupero, adattandola ai propri tempi, dell’eredità di Cicerone: un compito che Quintiliano seppe assolvere con finezza e senso della misura. Nel ritorno a Cicerone si esprimeva, da parte sua, l’esigenza di ritrovare una sanità di espressione che fosse insieme sintomo della saldezza dei costumi. Probabilmente una simile esigenza potrebbe spiegarsi anche sullo sfondo dei più vasti mutamenti sociali e politici a cui avrebbe accennato anche Tacito (Annales III 55), osservando come, con l’avvento al potere di Vespasiano, le «stravaganze» dell’età neroniana cedettero il posto a consuetudini più sobrie: in parte perché i novi homines di provenienza italica e provinciale, raggiungendo posizioni di prestigio, ebbero la tendenza a reintrodurre codici di comportamento più aderenti alla tradizione quiritaria.

Quando, presumibilmente intorno al 90, Quintiliano pubblicò il suo De causis corruptae eloquentiae, il Nuovo Stile di cui Seneca pochi decenni prima era stato l’esponente più illustre, contava ancora numerosi seguaci e ammiratori. Ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione parve alquanto mutata: il nuovo classicismo era un movimento che andava affermandosi e la battaglia culturale di Quintiliano era ormai vinta.

 

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Plut. 46.12 (1477 c.), contenente l’Institutio oratoria di Quintiliano. Frontespizio.

 

L’Institutio oratoria

L’Institutio oratoria è dedicata a Vittorio Marcello, un oratore ammirato anche da Stazio e amico di Valerio Probo, ed è preceduta da una lettera a Trifone, l’editore che dovette curarne la pubblicazione. Indicativo è il fatto che il titolo riporti il concetto di institutio, ossia di formazione, istruzione, educazione: il testo si presentava al lettore antico quale manuale di tecnica retorica accompagnato da un forte interesse didattico. Mentre le precedenti opere in materia avevano sempre rivolto i loro precetti a uomini già culturalmente formati, Quintiliano ritenne di dover tracciare una metodologia di formazione dell’oratore che comprendesse addirittura la fase più elementare:

 

Nam ceteri fere qui artem orandi litteris tradiderunt ita sunt exorsi quasi perfectis omni alio genere doctrinae summam †in eloquentiae† manum imponerent, siue contemnentes tamquam parua quae prius discimus studia, siue non ad suum pertinere officium opinati, quando diuisae professionum uices essent, seu, quod proximum uero, nullam ingenii sperantes gratiam circa res etiamsi necessarias, procul tamen ab ostentatione positas, ut operum fastigia spectantur, latent fundamenta. Ego cum existimem nihil arti oratoriae alienum sine quo fieri non posse oratorem fatendum est, nec ad ullius rei summam nisi praecedentibus initiis perueniri, ad minora illa, sed quae si neglegas non sit maioribus locus, demittere me non recusabo, nec aliter quam si mihi tradatur educandus orator studia eius formare ab infantia incipiam.

 

… Generalmente gli autori di precettistica retorica iniziarono le loro opere come rivolgendosi a persone già perfettamente versate in ogni ramo del sapere, per dar loro quindi l’ultima mano, consistente nei precetti dell’eloquenza; sia in dispregio dei primi studi, come fossero bagatelle, sia perché credettero che non a essi spettasse soffermarvisi, in quanto, a loro avviso, esisteva la specializzazione professionale, sia forse – ed è questa l’ipotesi più probabile – perché non speravano in alcun riconoscimento del loro ingegno, se si fossero attardati intorno a cose necessarie, sì, ma lontane dalla possibilità di un certo esibizionismo: proprio come di un edificio si suole osservare la parte alta, mentre le fondamenta restano nascoste. Personalmente, ritengo non esservi nozione alcuna, indispensabile alla formazione di un oratore, che sia estranea all’arte oratoria, e che non si può giungere alla formazione di qualche cosa, se non partendo dai suoi primi elementi; ed è per questo che non mi rifiuterò di scendere fino ai semplici fondamenti della formazione retorica, i quali sono, tuttavia, premessa indispensabile per le fasi più impegnative del seguito; e comincerò a organizzare gli studi e le attività dell’oratore fin dalla sua infanzia, esattamente come se mi venisse affidato perché lo allevi.

 

(Inst., Proemio 4-5, trad. it. R. Faranda)

 

È un’impostazione che rivela l’atteggiamento di chi certo riconosceva lo stato decadente della disciplina contemporanea, ma, al tempo stesso, riteneva che potesse esservi rimedio e che la soluzione consistesse proprio in una riforma radicale dell’educazione. Tacito, in seguito, con maggiore penetrazione, avrebbe individuato le ragioni profonde di questa decadenza nella mancanza di libera espressione imposta dal regime imperiale. Certo è che a Quintiliano interessava delineare maggiormente il ruolo culturale dell’oratore piuttosto che la sua possibilità di affermarsi in ambito politico.

Dell’opera quintilianea i primi tre libri sono dedicati alle definizioni generali di carattere retorico e soprattutto alla prima formazione, grammaticale per il bambino e oratoria per il ragazzo: si tratta di pagine famose per acutezza pedagogica, soprattutto nei passi in cui l’autore raccomanda ai maestri di prestare grande attenzione alle caratteristiche dell’indole di ciascuno studente. Dal libro IV inizia la trattazione più tecnica delle parti tradizionali in cui si articola l’arte retorica: fino al libro VI si parla dell’inventio, nel VII della dispositio, nell’VIII e nel IX dell’elocutio e nell’XI della memoria e dell’actio. Nel libro X in particolare l’autore insegna i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell’espressione. Nel piano dell’educazione retorica del futuro oratore proprio in questo libro Quintiliano non manca di indicare quali letture fossero le più idonee: in questa prospettiva egli traccia un’ampia panoramica, quasi una breve storia letteraria, degli scrittori greci e latini utili a formare lo stile più efficace. Vengono espresse, in quest’ottica, delle valutazioni sui diversi autori, a volte desunte da fonti, a volte personali, che testimoniano quali fossero «i canoni critici dell’antichità»: ma i giudizi critici hanno di fatto un carattere spiccatamente retorico e ciò dà ragione di strane valutazioni e di inattese omissioni; pertanto, Quintiliano è tutto teso a mostrare come la cultura latina regga perfettamente il confronto con quella ellenica (molti dei suoi giudizi, tra l’altro, sono divenuti formule classiche della critica: per esempio, su Menandro, Tucidide, Sallustio, Livio e Lucano). Significativi delle sue scelte sono in particolare i giudizi che l’autore esprime sullo stile di Cicerone e quello di Seneca: decisamente favorevole, frutto di un attento vaglio delle sue caratteristiche, quello sull’Arpinate; negativo quello sul Cordovano, di cui afferma in X 1, 125: «Di molti suoi brani è consigliabile la lettura a scopo morale, ma per il riguardo stilistico sono generalmente corrotti e tanto più pericolosi, in quanto abbondano di allettanti vizi» (Quod accidit mihi dum corruptum et omnibus uitiis fractum dicendi genus reuocare ad seueriora iudicia contendo).

 

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Infine, il libro XII affronta in maniera abbastanza desultoria varie tematiche attinenti ai requisiti culturali e morali che si richiedono all’oratore, e accenna anche al problema dei rapporti fra oratore e principe. Quanto al primo aspetto, il ritratto dell’oratore ideale mostra che il professionista della parola doveva trarre la propria conoscenza dal modello ciceroniano e la necessaria formazione morale da quello catoniano:

 

Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur uir bonus dicendi peritus, uerum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique uir bonus: id non eo tantum quod, si uis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis priuatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro uirili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi.

 

Sia, dunque, l’oratore che andiamo formando e di cui dà la definizione Marco Catone, uomo onesto, esperto nell’eloquenza, ma soprattutto – come egli pure ha posto in primo luogo ed è anche secondo la natura preferibile e più importante – assolutamente onesto: e ciò non soltanto perché, se la capacità nell’eloquenza fosse servita a dare armi alla malvagità, non ci sarebbe nulla di più dannoso, per la vita pubblica e privata, dell’eloquenza, e noi stessi, che abbiamo tentato di portare secondo le nostre possibilità personali un contributo allo sviluppo dell’eloquenza, avremmo fatto il peggiore servizio all’umanità, se forgiassimo queste armi per un predone e non per un soldato.

 

(Inst. XII 1, trad. it. R. Faranda)

 

Occorre subito sottolineare come l’auctor per eccellenza di Quintiliano fosse, comunque, proprio Cicerone, per il quale egli nutriva un’ammirazione non del tutto passiva:

 

Ego tamen secundum communem loquendi consuetudinem saepe dixi dicamque perfectum oratorem esse Ciceronem, ut amicos et bonos uiros et prudentissimos dicimus uulgo, quorum nihil nisi perfecte sapienti datur: sed cum proprie et ad legem ipsam ueritatis loquendum erit, eum quaeram oratorem quem et ille quaerebat. quamquam enim stetisse ipsum in fastigio eloquentiae fateor, ac uix quid adici potuerit inuenio, fortasse inuenturus quid adhuc abscisurum putem fuisse (nam et fere sic docti iudicauerunt plurimum in eo uirtutum, nonnihil fuisse uitiorum, et se ipse multa ex illa iuuenili abundantia coercuisse testatur): tamen, quando nec sapientis sibi nomen minime sui contemptor adseruit et melius dicere certe data longiore uita et tempore ad componendum securiore potuisset, non maligne crediderim defuisse ei summam illam ad quam nemo propius accessit.

 

Spesso ho detto e dirò che Cicerone è oratore perfetto, così come chiamiamo generalmente gli amici e galantuomini e prudentissimi, mentre nessuna di queste qualità viene concessa, se non ai sapienti in assoluto. Ma, quando bisognerà esprimersi con termini propri e secondo la legge stessa della verità, cercherò quell’oratore che anche lui cercava. In sostanza, sebbene io confessi che egli è pervenuto al più alto fastigio dell’eloquenza e non mi riesca quasi di trovare che cosa ancora gli si sarebbe potuto aggiungere, anche se potrei trovare, forse, che cosa a mio avviso gli si sarebbe ancora potuto togliere (effettivamente il giudizio degli studiosi, in generale, è che siano in lui moltissime virtù e qualche difetto: del resto, egli ammette da sé di aver molto sfrondato dalla sua giovanile esuberanza): tuttavia, dal momento che non si ascrisse il titolo di sapiente – ancorché fosse tutt’altro che denigratore di se stesso – e che avrebbe potuto essere miglior oratore, se almeno avesse avuto vita più lunga e maggiore tranquillità per comporre, potrei onestamente credere che gli sia mancata quella suprema perfezione, alla quale nessuno più di lui si avvicinò mai.

 

(Inst. XII 19-20, trad. it. R. Faranda)

 

La grande dote di Quintiliano appare proprio la moderazione, che gli consentiva di evitare gli eccessi e di cogliere in ogni direzione le prospettive positive. Così egli si distaccò dalle esagerazioni dell’atticismo e dell’asianesimo, dalla moda dello stile arcaico e dalla degenerazione delle declamazioni retoriche spettacolari. Non gli piaceva nemmeno il filosofo Seneca (4 a.C-65 d.C.) con quel suo procedere a frasi spezzate e oscuri giochi di parole, ma ancora con equilibrio ne riconosceva i pregi nel giudizio formulato nel libro X. È nel libro VIII, però, che si svolge un’aspra polemica contro le sententiae della maniera senecana. Originariamente – spiega Quintiliano – sententia voleva dire genericamente e semplicemente «giudizio», «opinione»; invece, alla sua epoca si indicavano così «i tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli che sono collocati alla fine del periodo» (lumina praecipueque in clausulis posita, VIII 5, 2). Le sententiae, dunque, erano diventate un artificio per rendere più vivace il discorso (o per appesantirlo?). È facile riconoscere l’oggetto della polemica: lo scintillare continuo di piccole sentenze che spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile, come scatti e salti del pensiero che vogliono colpire il lettore/ascoltatore. Di questi espedienti si era alimentato, appunto, lo stile sconnesso e spezzettato di Seneca, il suo scrivere “a effetto”.

Il fatto è che Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della «sostanza delle cose» (rerum pondera, X 1, 130), laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all’esigenza di catturarne l’interesse e di guidarne le reazioni. Così la polemica di Quintiliano contro questo Nuovo Stile (si potrebbe dire semplificando) rappresentava, in realtà, lo scontro tra due diverse istanze del discorso: una era l’esigenza del docere, quella che fondava il discorso sull’oggettività delle cose dette e considerava l’autore (chi parla o chi scrive) come l’unico “attore” del testo; l’altra, caratteristica del Nuovo Stile, era l’esigenza del movere, quella che caricava il senso del discorso sul destinatario, il fruitore, e faceva di lui (o meglio della sua percezione e delle sue emozioni) il vero “primo attore” del testo.

 

Ragazzi e ragazze che giocano. Rilievo, marmo, III sec. d.C. pannello di un sarcofago romano, dalla Vigna Emendola sulla Via Appia. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

La pedagogia di Quintiliano

 

Peculiarità dell’opera quintilianea è l’attenzione ai problemi didattici e pedagogici. Non erano mancati spunti e riflessioni sporadiche che rivelavano sensibilità verso l’insegnamento anche in opere di scrittori precedenti, come gli stessi Cicerone e Seneca (in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam, diceva, per esempio, il filosofo cordovano in ad Luc. VI 4), ma da parte di Quintiliano la preoccupazione di indicare a chi insegna comportamenti e suggerimenti tecnici è costante. Egli traccia perciò l’intero percorso necessario alla formazione dell’oratore, accompagnato da una serie di indicazioni didattiche legate in modo organico e coerente. D’altronde, egli credeva fermamente alla determinante importanza dell’insegnamento nella formazione, tanto da ritenere che vi fosse possibilità di miglioramento per l’oratoria futura grazie al contributo di docenti validi, moralmente ineccepibili.

Per Quintiliano, come si è ripetutamente ricordato, l’oratore doveva raggiungere una formazione morale e culturale completa: per conseguire tale scopo era necessario che il maestro lo seguisse fin dall’infanzia, fornendogli non solo competenze tecniche, ma anche un esempio morale tale da permettergli un armonico sviluppo interiore. In tal modo l’autore riporta nell’opera la sua stessa esperienza ventennale di insegnante attento e sensibile, dimostrando di conoscere le caratteristiche e le esigenze dell’età degli scolari e di come i ragazzi vadano trattati per ottenere da loro i migliori risultati nell’apprendimento.

Alcune intuizioni pedagogiche sono ritenute ancora oggi assolutamente valide, quali, per esempio, la necessità di alternare allo studio lo svago e la convinzione che non si debba ricorrere a punizioni fisiche – che pure fino all’età moderna e contemporanea sono state ricorrenti! Per questi aspetti l’opera quintilianea conobbe una certa fortuna fin dal Medioevo e l’autore è stato ritenuto un precursore della pedagogia moderna.

 

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Bibliografia:

J. ADAMIETZ, Quintilian’s Institutio Oratoria, ANRW II 32, 4 (1986), 2226-2271.

P. BIZZELL, B. HERZBERG, The Rhetorical Tradition, Boston 1990.

S. BONNER, Education in Ancient Rome: From the Elder Cato to the Younger Pliny, London 2012.

G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, 426-430.

W. DOMINIK, J. HALL (eds.), A Companion to Roman Rhetoric, Malden 2010.

F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, 148-150.

A.J. WOODMAN, J.G.F. POWELL (eds.), Author and Audience in Latin Literature, Cambridge-New York 1992.

 

Cecilio Stazio, un grande commediografo

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 49-51.

Maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno (VI 12, 2-5), Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

  1. Vita

Come Andronico e Terenzio, Cecilio Stazio era un liberto di origine straniera. Veniva, pare, da Mediolanum ed era perciò un Gallo insubre; dato che l’acme della sua produzione si colloca intorno al 180 a.C., è verosimile che egli sia stato portato a Roma dopo la battaglia di Clastidium del 222. La data di nascita potrebbe, dunque, essere tra il 230 e il 220; la sua attività letteraria colloca Cecilio come contemporaneo prima di Plauto e poi di Ennio. Di quest’ultimo, in particolare, fu amico intimo. Morì un anno dopo di lui, nel 168, e i due poeti furono sepolti vicino.

La notizia che il giovane Terenzio leggesse al vecchio Cecilio la sua prima opera, l’Andria, è probabilmente un falso destinato a meglio riconnettere fra loro i due più stimati successori di Plauto. È noto, invece, che l’Andria andò in scena solo nel 166. Comunque, come Terenzio, anche Cecilio fu strettamente legato all’influente attore e soprattutto impresario teatrale Ambivio Turpione.

  1. Opere

Di Cecilio Stazio restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium (“La collana”). I titoli hanno sia forme greche – ad esempio, Ex hautoù hestòs (“Quello che sta in piedi da sé), Gamos (“Le nozze”), Epikleros (“L’ereditiera”), Synaristòsai (“Le donne a colazione”) e Synépheboi (“I compagni di gioventù”) – sia latine – quali, ad esempio, Epistula (“La missiva”) e Pugil (“Il puglile”) –, ma pure forme doppie, come Obolostàtes/Faenerator (“Lo strozzino”).

  1. Fonti

Informazioni biografiche dell’autore provengono dal Chronicon di San Girolamo e risalgono, in ultima analisi, al De poetis di Varrone. Tra i giudizi più importanti si possono citare: Cicerone, De optimo genere oratorum 1, 2; Orazio, Epistulae 2, 1, 59; Velleio Patercolo 1, 17, 1; Quintiliano 10, 1, 99; Gellio 2, 23 e 15, 24. Cecilio fu letto e apprezzato in tutta l’età repubblicana, ma pure in quella imperiale sino almeno al II secolo d.C.

  1. La fortuna di Cecilio presso gli antichi

Le ragioni per cui Cecilio Stazio è trattato, nei manuali di storia letteraria, come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e profondi conoscitori di letteratura quali Varrone, Cicerone e Orazio valutarono Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto e a Terenzio. Orazio lo elogiava per la serietà dei sentimenti e Varrone approvava i suoi intrecci; solo sulla purezza del suo uso latino permaneva, in Cicerone, qualche riserva (Brutus 258, 3; ad Att. 7, 3, 10). Il canone dei più apprezzati poeti comici di Roma, stilato intorno al 100 a.C. dall’erudito Volcacio Sedigito, pose Cecilio al primo posto, davanti a Plauto. La scomparsa della sua produzione non è dovuta, quindi, a un discredito o ad una manifesta inferiorità rispetto ad altri classici.

  1. Il rispetto dei modelli

La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che sono pervenuti si iscrive perfettamente nell’atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra, in un certo senso, più vicino al modello della Commedia Nea ateniese; quanto meno, i titoli che si hanno sono riproduzioni molto fedeli (a volte letterali: ad esempio, Plocium dal Plokion di Menandro) dei titoli degli originali greci. Inoltre, è assente dai titoli la figura dello schiavo: in Plauto, la passione per questo personaggio dominava anche i titoli (si veda, ad esempio, lo Pseudolus) e andava spesso a trasformare le linee del modello greco per crearsi un maggiore spazio vitale. Si ha, dunque, l’impressione che Cecilio fosse un po’ più rispettoso dei modelli. Inoltre, egli sembra avere una predilezione decisa per Menandro: per quasi metà dei titoli attestati, infatti, si può proporre una derivazione affatto menandrea.

  1. Somiglianze tra Cecilio e Terenzio

Interesse per Menandro e più sorvegliata adesione al modello greco via via adottato (in rapporto con una fase sempre più dotta ed ellenizzante della cultura romana), dunque, sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano da Plauto. Non si ha, invece, alcuna prova che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi e sboccati, l’approfondimento psicologico. Del resto, è noto che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata.

  1. Il vertere di Cecilio: un confronto con il modello

Il relitto più interessante dell’opera ceciliana deriva da un paragrafo delle Noctes Atticae di Gellio (2, 23), in cui l’erudito istituisce un puntuale confronto tra un passo del Plocium e uno corrispondente del modello seguito, il Plokion menandreo: si consideri che – prima della recente scoperta di un papiro del Dis exapatòn di Menandro, confrontabile con i passi delle Bacchides di Plauto – si trattava dell’unica occasione utilizzabile per comparare un brano abbastanza corposo di palliata con il relativo modello greco. Si nota così chiaramente quanto libero sia il rifacimento che i Romani chiamavano vertere: le innovazioni portate da Cecilio sul tessuto della sua fonte sono giudicate da Gellio con una certa severità e sono indubbiamente significative di una poetica comica autonoma. In Menandro si ha un marito che si lamenta perché la moglie bisbetica ha cacciato di casa la giovane ancella: «ha buttato fuori di casa, come voleva, la fanciulla che le dava ombra, perché tutti volgano gli sguardi al volto di lei e sia ben chiaro che è lei la mia padrona…». Nello sviluppo di Cecilio questo è solo un canovaccio: egli inserisce, secondo un suo gusto caratteristico, una massima di carattere generale in apertura: «Quell’uomo, appunto, è un disgraziato che non sa nascondere il suo patire…»; Cecilio, insomma, approfondisce enfaticamente il motivo della “schiavitù” dell’uomo sposato e dà corpo alla frustrazione del marito facendo sì che questi si immagini una colorita scena di donne pettegole, in cui la vecchia e brutta moglie si vanta del suo trionfo. Più in generale, il tranquillo monologo menandreo è stato convertito in un’aria farsesca, in un canticum. Da altri confronti è possibile ravvisare che Cecilio non arretrava di fronte a tinte ancora più forti, caricando sui misurati copioni menandrei anche lazzi e battutacce: «quando rientro a casa, mia moglie mi dà subito un bacio a stomaco vuoto… Non lo fa per sbaglio: vuole che tu vomiti quello che ti sei bevuto fuori casa». Come Plauto, insomma, anche Cecilio non si sforzava tanto di “rinarrare” ciò che era benissimo riuscito a Menandro o a Difilo, quanto di reinventare le storie dei modelli secondo una nuova e autonoma poetica teatrale.

  1. Bibliografia

I frammenti sono stati raccolti da O. RIBBECK, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Leipzig 1875 (rist. Hildesheim 1968); inoltre, da T. GUARDI, I frammenti. Cecilio Stazio, Palermo 1974. Alcune informazioni biografiche sono state raccolte da F. SKUTSCH, s.v. Caecilius (25), RE 3, 1 (1897), coll. 1189-1192. Le migliori analisi (dopo F. LEO, Geschichte der römische Literatur, Berlin 1913, pp. 217-226) sono venute da A. TRAINA, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 19742, pp. 41-53, e ID., Comoedia. Antologia della palliata, Padova 19692, pp. 95 ss. Si vedano, inoltre, J. WRIGHT, Dancing in Chiains. The Stylistic Unity of the “Comoedia Palliata”, Roma 1974, pp. 86 ss. e, per il confronto Cecilio-Menandro, L. GAMBERALE, La tradizione in Gellio, Roma 1969.

9. Studi ulteriore [ndr]

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