ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.
L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.
Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.
Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).
Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.
L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].
Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).
Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.
Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.
Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.
La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).
Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).
L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.
Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.
A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).
Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).
Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).
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di B. ZIMMERMANN, La commedia greca. Dalle origini all’età ellenistica, ed. S. FORNARO, Roma 2016, 75-78.
Mentre Aristofane lavorava a un’altra commedia della pace, la Lisistrata del 411 a.C., Atene visse la più grave crisi di politica interna ed esterna sino ad allora registrata durante la guerra del Peloponneso. La spedizione in Sicilia, decisa a larga maggioranza e con entusiasmo dall’assemblea ateniese, era sfociata in un disastro militare senza precedenti. I soldati ateniesi erano morti o languivano prigionieri nelle cave di Siracusa, le famigerate Latomie; gli strateghi erano caduti in combattimento; la flotta, l’orgoglio di Atene e base del suo potere, era stata distrutta. Inoltre, dal 413 i Lacedemoni, su consiglio di Alcibiade passato dalla loro parte, avevano occupato la fortezza attica di Decelea, da cui potevano compiere scorrerie in Attica tutto l’anno e non solo d’estate, com’era accaduto durante la prima fase del conflitto. Altrettanto gravi erano i fatti di politica interna. Poiché del disastro siciliano fu ritenuta responsabile la democrazia radicale, si introdusse il collegio dei dieci πρόβουλοι («preparatori»), una commissione di controllo che doveva preventivamente pronunciarsi su tutte le istanze presentate dall’assemblea. Fino a quel momento ogni cittadino ateniese aveva potuto presentare liberamente un’istanza all’ἐκκλησία. Il collegio dei probuli, a cui prese parte anche il tragediografo Sofocle, aveva invece – vista la sua funzione – orientamento oligarchico e costituì la premessa del “colpo di Stato” del 411 a.C. Si formarono due gruppi politicamente omogenei (ἑταιρίαι) – come era del resto abituale nei regimi oligarchici – che diffusero ad Atene, con misure terroristiche, un clima di incertezza e paura. L’espressione del pensiero era invero ancora libera, eppure nessuno aveva il coraggio di manifestare apertamente la propria opinione, poiché non si sapeva se l’interlocutore appartenesse o meno a un’eteria. È Tucidide a raccontarci questo stato di cose (VIII 66). Come la guerra civile sull’isola di Corcira, presa dallo storico quale esempio della decadenza morale e della perdita dei valori in tempo di guerra (III 82), così la crisi politica interna ad Atene portò alla dissoluzione delle regole democratiche su cui si reggeva la società ateniese. Andarono perse soprattutto la fiducia nei rapporti umani, tipica della democrazia ateniese, e la libertà di parola, che Pericle, nell’epitaffio di Tucidide (II 37), elogiava come basi esemplari della democrazia: al loro posto subentrarono invece la reciproca diffidenza e la paura di esprimersi.
Pittore di Penelope. L’attesa di Penelope (dettaglio). Pittura vascolare da uno σκύφος attico a figure rosse, c. 450-440 a.C. dall’Etruria. Chiusi, Museo Nazionale Etrusco.
Si fecero subito sentire le misure con le quali i club oligarchici liquidarono il sistema democratico: l’assemblea, l’organo di governo sovrano ad Atene, alla fine, si esautorò, le magistrature democratiche furono abolite e così anche i privilegi finanziari accordati al δῆμος, in particolare i «gettoni di presenza», che per i ceti inferiori erano fonte di sostentamento. Invece, fu introdotto un sistema che si basava su puri e semplici legami personali, un Consiglio di 400 membri e un’assemblea popolare di 5.000 aventi diritto al voto. Tuttavia, l’opposizione al Consiglio oligarchico non si fece attendere a lungo. Dopo un breve periodo intermedio caratterizzato da una costituzione moderata di tipo democratico-oligarchico, fu reintrodotta la democrazia radicale. Gli oligarchici furono giustiziati e alcuni riuscirono a fuggire a Sparta.
Pittore anonimo. Tre ragazze al lavacro. Pittura vascolare da uno στάμνος a figure rosse, c. 440 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.
In questo momento di straordinaria crisi, Aristofane portò in scena, alle Lenee del 411 a.C., Lisistrata, una commedia nella quale una serie di riflessioni politiche e la comicità più impudente sono connesse in maniera insuperabile, tanto da essere rappresentata ancora oggi con indubbio effetto comico. La trama della commedia nasce dall’idea che gli unici colpevoli della catastrofe di Atene siano i maschi: con la loro follia, in vent’anni di guerra, hanno rovinato la città. Per rimediare al danno, le donne greche, radunate dall’ateniese Lisistrata («colei che scioglie gli eserciti»), intendono negare ai loro mariti rapporti sessuali per indurli così alla ragione: un tema comico, questo, che naturalmente permette numerosi scherzi e battute oscene, soprattutto nella rappresentazione dei bisogni sessuali degli uomini, vittime dello sciopero.
Aubrey Beardsley, Lisistrata arringa le donne di Atene. Disegno, 1896.
L’azione della commedia si caratterizza da una divisione su due livelli scenici, di grande efficacia artistica. Al livello degli attori troviamo le donne giovani, schierate attorno a Lisistrata, e i maschi in età da servizio militare e pieni di voglie sessuali, mentre a livello del coro sono le vecchie e i vecchi. Nella Lisistrata Aristofane ha dunque introdotto l’inusuale strumento della divisione del coro in due parti, per rendere “concreta”, attraverso lo smembramento in un gruppo normalmente omogeneo, la spaccatura che si è aperta nella società ateniese.
Per assicurarsi della buona riuscita del suo piano, cioè costringere gli uomini con lo sciopero sessuale alla resa nella politica, Lisistrata ha occupato a sorpresa l’Acropoli, così da privare i maschi dei mezzi finanziari lì custoditi, necessari alla prosecuzione del conflitto. Lamentandosi degli acciacchi della vecchiaia e ricordando nostalgicamente il glorioso passato, inveendo contro l’impudenza delle donne, compare il coro degli anziani (vv. 254 ss., parodo I), che vuol bruciare le donne sulla rocca. Ma le vecchie, che costituiscono l’altra metà del coro, si affrettano a dar man forte alle loro alleate sull’Acropoli (vv. 319 ss., parodo II). Le anziane vogliono due cose, e perciò invocano l’aiuto della dea della città, Atena (vv. 341-345): liberare i cittadini dal conflitto contro gli Spartani e porre fine alla follia della guerra intestina ad Atene. La preghiera delle donne vuol dire palesemente che la fine delle ostilità contro i nemici esterni sarà possibile solo se prima ci sarà una riconciliazione tra le diverse fazioni nella città. Aristofane usa da subito la divisione dell’azione su due livelli per rendere teatralmente visibile, nella continua alternanza tra piano dell’attore e piano del coro, la stretta connessione tra pace interna ed esterna. Lisistrata è la voce ufficiale delle donne: difende il suo piano davanti a un rappresentate della πόλις, un probulo (vv. 387 ss.); tiene unite le donne, che alla vista dei loro mariti rischiano di diventare vulnerabili (vv. 708 ss.), e, infine, sprona la giovane Mirrine a sedurre suo marito Cinesia, senza però poi soddisfarlo sessualmente (vv. 829 ss.).
Pittore di Brygos. Scena di festa (dettaglio). Pittura vascolare da uno σκύφος attico a figure rosse, c. 490 a.C. Paris, Musée du Louvre.
Non solo ad Atene, ma anche tra i nemici si fa sentire l’effetto della forzata astinenza (vv. 980 ss.). Un araldo spartano, che inutilmente cerca di nascondere il suo fallo eretto sotto il mantello, si imbatte in un pritano che sta nelle stesse condizioni. Costretti dalla loro incoercibile eccitazione, incapaci di ragionare lucidamente, si accordano per far subito la pace, così da ottenere, con la dissoluzione delle «tensioni» di politica estera, anche lo scioglimento delle loro private «tensioni». Le trattative sono concluse tanto più celermente perché Lisistrata mette sotto il naso dei negoziatori ateniesi e spartani la «Riconciliazione» (Διαλλαγή), nella forma di una ragazza nuda (vv. 1111 ss.).
Pittore Onesimo. Una ragazza che prepara il bagno. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Bruxelles, Musees Royaux.
Eppure, prima che si possa giungere a una tregua ufficiale, devono essere ricomposte le tensioni interne alla città, cioè, nella finzione della commedia, si deve giungere a una riappacificazione e, dunque, a una riunificazione dei due semicori. La ricomposizione delle due parti del coro è preparata da Aristofane accortamente nei singoli canti corali. Nella parabasi, completamente integrata nell’azione (vv. 614 ss.), gli uomini si danno ancora una volta a ricordi spacconi sulle loro splendide imprese, compiute per il bene di Atene. nonostante la discrepanza tra il loro incedere barcollante e la grandiosità delle loro affermazioni, i vecchi non danno l’impressione di figure comiche, ma suscitano nello spettatore piuttosto un sorriso dovuto a simpatia. Come i vecchi, anche le vecchie si vantano di aver fatto qualcosa di importante per la città nel ruolo di madri e di sacerdotesse. E sono le anziane ad avviare la riconciliazione (vv. 1014 ss.). Nonostante parole aspre e brontolii del corifeo, la corifea del semicoro femminile gli si avvicina, gli mette amorevolmente addosso una tunica e gli toglie dall’occhio una zanzara. Commosso, anche il vecchio corifeo dà la mano alla donna. Traslata sul piano politico, la scena significa che alla pace in politica interna si arriva senza costrizioni o pressioni esterne, e solo in questo modo è possibile raggiungere una vera e duratura riconciliazione, un concetto preannunciato già da questo discorso per similitudini di Lisistrata (vv. 574-586):
«Innanzitutto, dovreste, come si fa con la lana grezza, nettare con un bagno la città della sua sporcizia; e poi, dopo averla stesa su un letto, dovreste toglier via, a colpi di bastone, gli elementi dannosi e scartare le spine; e quanti si mettono insieme e complottano per le cariche pubbliche, bisognerebbe cardarli e spelare loro le teste. E in seguito bisognerebbe pettinare la concordia comune, mettendo tutti insieme, in un cestino, i meteci, gli stranieri a voi amici, i debitori dell’Erario. E, per Zeus, per quanto riguarda le città che sono nostre colonie, bisognerebbe considerarle come bioccoli caduti per terra, l’uno lontano dall’altro. E allora si dovrebbe prenderli e raccoglierli qua, tutti insieme, e farne un grande gomitolo con il quale poi tessere un mantello per il popolo!».
Telefane e il suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀ sono noti unicamente grazie alla citazione di Ateneo di Naucrati[1]. Il titolo Περὶ τοῦ ἄστεος suggerisce che l’opera apparteneva al filone della letteratura periegetica, e cioè che era una sorta di “guida” di Atene, anche se nulla osta che possa essersi trattato di altro, dato che nel frammento superstite si ha soltanto il riferimento al demo di Diomea, al suo celebre 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 e a un’associazione di “professionisti della risata”. Jacoby (𝐹𝐻𝐺 IV, 507) nel suo commento al passo aveva ipotizzato che l’autore fosse di età imperiale (forse del II secolo?), ma nulla vieta di pensare che possa essere vissuto in epoca precedente[2].
Ippoloco il Macedone nella sua lettera a Linceo ricorda i buffoni attici Mandrogene e Stratone. Ad Atene c’era un gran numero di furbi di questa razza: per esempio, nel tempio di Eracle nel demo di Diomea se ne riuniva una sessantina, e in città erano appunto conosciuti come i “Sessanta” e si diceva: «Questo l’hanno detto i Sessanta», e anche: «Sono stato dai Sessanta». Tra costoro c’erano Callimedonte, detto “l’Aragosta”, e Dinia, e poi Mnasigitone e Menecmo, come afferma Telefane nel suo saggio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀. Tale divenne la fama del loro umorismo che anche Filippo II di Macedonia, quando ne sentì parlare, mandò loro un talento perché mettessero per iscritto le battute e gliene inviassero.
Pittore Pitone. Un attore di farsa fliacica con canestro. Sul lato A di un cratere a campana a figure rosse, 360-350 a.C. ca. da Paestum. Paris, Musée du Louvre.
Il libro XIV dei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖𝑠𝑡𝑖 dedica i primi capitoli ai cosiddetti γελωτοποιοί («buffoni»)[3]. A questa categoria di epoca tardo-classica ed ellenistica appartenevano anche i πλάνοι («burloni», «illusionisti»; ma anche «impostori»), i quali esercitavano propriamente l’arte di ingannare gli altri. Ateneo, in particolare, ne ricorda soprattutto due: Cefisodoro e Pantaleonte[4]. Del primo parla il commediografo Dionisio di Sinope negli 𝑂𝑚𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖 (Ὁμώνυμοι), titolo che tradisce con ogni probabilità una serie equivoci in cui incappavano due personaggi dello stesso nome:
Si dice che ad Atene ci fosse un tal Cefisodoro
detto il Burlone, che dedicava
il suo tempo a quest’attività.
Costui correva veloce in salita,
ma poi faceva la discesa tranquillo, appoggiandosi al suo bastone[5].
Ne parlava anche il comico Nicostrato in un frammento de 𝐼𝑙 𝑆𝑖𝑟𝑜 (Σύρος):
Per Zeus, non male ha fatto Cefisodoro
il Burlone, che si dice abbia messo in una strettoia
dei portatori con fascine in braccio, così che nessuno potesse più passare[6].
Invece, delle trovate di Pantaleonte riferisce Teogneto ne 𝐼𝑙 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑜 𝑑𝑒𝑣𝑜𝑡𝑜 (Φιλοδέσποτος):
Questo stesso Pantaleonte si prendeva gioco dei forestieri
e di chi non lo conosceva, e di solito si comportava
come sotto l’effetto di una sbornia, perché per far ridere
Perfino lo stoico Crisippo di Soli parla di costui nel V libro del suo trattato 𝑆𝑢𝑙 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑝𝑖𝑎𝑐𝑒𝑟𝑒:
Quel burlone di Pantaleonte sul letto di morte si prese gioco di entrambi i figli, uno dopo l’altro, dicendo a ciascuno, separatamente, che solo a lui avrebbe rivelato dove avesse sepolto il suo tesoro; così, quando in seguito si ritrovarono a scavare inutilmente fianco a fianco, quelli si accorsero di essere stati gabbati[8].
Pittore Asteas. Scena di farsa fliacica – tre uomini (Gynmilos, Kosios e Karion) derubano un poveraccio (Kharinos) nella sua stessa casa. Lato A di un calyx-krater, 350-340 a.C. ca., da Sant’Agata dei Goti. Paris, Musée du Louvre.
Nel passo di Telefane, l’accenno agli artisti attici Mandrogene e Stratone, di cui parla il macedone Ippoloco nella sua lettera al comico Linceo di Samo[9], porta il discorso a un’ulteriore digressione sui giullari più in voga nell’Atene di IV secolo e alla menzione di una consorteria, nota come “i Sessanta” (οἱ ξ̄); a quanto pare, doveva trattarsi di un cenacolo di gaudenti, famoso in tutta la Grecia per i suoi spettacoli faceti, che aveva sede presso il santuario di Eracle nel demo di Diomea: questo 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛, strettamente connesso al ginnasio di Cinosarge, appena fuori le mura di Atene, ospitava una grande festa in onore del semidio, con processioni, sacrifici e banchetti sacri[10].
Il cenacolo dei “Sessanta” è letteralmente un ℎ𝑎́𝑝𝑎𝑥 𝑙𝑒𝑔𝑜́𝑚𝑒𝑛𝑜𝑛, non ricorrendo in altre fonti. A rigor di termini, Ateneo riporta Telefane solo per i nomi di alcuni membri di questa consorteria, non per l’interesse mostrato da re Filippo per le buffonate. Tuttavia, altrove il Naucratita (Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 260d) riferisce che «a quelli che si riunivano ad Atene nel tempio di Eracle di Diomea per parlare di argomenti ridicoli, [Filippo] era solito mandare una quantità adeguata di monetine e ordinava ad alcuni di trascrivere ciò che dicevano e di inviargli il tutto», riprendendo l’aneddoto da Egesandro di Delfi[11]; se anche Telefane accennasse al medesimo fatto rimane oscuro.
In ogni caso, l’aneddoto secondo il quale il sovrano argeade fu disposto a pagare di tasca propria pur di avere una copia scritta delle battute dei “Sessanta” dimostrerebbe che questo cenacolo avesse raggiunto una certa notorietà prima della battaglia di Cheronea, ma non è dato sapere quanto a lungo rimase in attività dopo il 338 a.C.
Ora, la passione di Filippo il Macedone per buffoni e motteggiatori, barzellette e canzoni oscene, nonché per la volgarità, le bisbocce e la dissolutezza è altrimenti ben attestata. A questo proposito, si può ricordare che il suo nemico giurato, l’oratore Demostene, si esprimeva in questi termini: «… e gente evitata da tutti, … attori di pagliacciate e autori di pessime canzoni presentati ai suoi ospiti per allietarli; questi gli piacciono e li tiene intorno a sé»[12].
Pare che lo stesso argomento fosse ampiamente affrontato anche da Teopompo di Chio nelle sue 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑓𝑖𝑙𝑖𝑝𝑝𝑖𝑐ℎ𝑒. Nel IX libro, dopo aver descritto il comportamento adulatorio del tessalo Agatocle e della sua abilità nel mettere di buon umore il re, Teopompo commenta dicendo che «il Macedone (𝑠𝑐. Filippo) aveva sempre intorno a sé questo genere di persone, con le quali, per la loro intemperanza nel bere e l’atteggiamento buffonesco, trascorreva di solito la maggior parte del suo tempo; inoltre, le consultava ogniqualvolta dovesse prendere decisioni su fatti della massima importanza»[13].
Nel libro XXVI il Chiota ricorda che «Filippo, sapendo che i Tessali erano dissoluti e vivevano in modo licenzioso, organizzò dei banchetti con la loro partecipazione e fece di tutto per risultare loro simpatico, danzando, gozzovigliando e accettando ogni genere d’indecenza (era triviale già di suo, si ubriacava ogni giorno e godeva di quelle abitudini che tendono a tutto questo; amava inoltre la compagnia delle persone comunemente definite “di spirito”, capaci cioè di dire e fare cose stupide)»[14].
Filippo II. Testa, copia di marmo da originale greco. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.jpg
Quindi, lo stesso autore riferisce alcune notizie sulle sbornie del sovrano macedone e il suo amore smodato per il vino:
Filippo era proprio una testa matta e si buttava a capofitto in mezzo ai pericoli, in parte per indole, in parte per gli effetti del vino: era infatti un grande bevitore e spesso si lanciava in sortite completamente ubriaco[15].
E ancora nel libro LIII, dopo aver narrato i fatti di Cheronea, Teopompo parla dei meticolosi preparativi del banchetto per celebrare quella vittoria così decisiva, e chiosa:
Egli era sempre perfettamente equipaggiato di tutto il necessario per il simposio e per intrattenere la compagnia. Poiché infatti gli piaceva bere ed era d’indole dissoluta, aveva un folto seguito di parassiti, musicanti e persone che lo divertivano con facezie[16].
Pare che, dopo la sua morte, al re macedone fosse stato tributato un culto divino, celebrato sul Cinosarge, come rivela Clemente Alessandrino:
Ora decretano che sul Cinosarge si adori il Macedone di Pella, Filippo figlio di Aminta, quello dalla “clavicola spezzata e storpio da una gamba”, lo stesso cui fu cavato un occhio[17].
Alessandro III il Grande. Tetradramma, Anfipoli 325-323/2 a.C. ca. Ar. 17, 21 g. Recto: testa di Eracle voltata a destra con leontea.
Dei quattro membri del collegio dei “Sessanta” espressamente ricordati da Telefane, soltanto Callimedonte può essere identificato con sicurezza[18]. Si tratta del figlio di Callicrate, originario del demo attico di Collito, che fu politico ateniese di orientamento oligarchico e per le sue posizioni filomacedoni fu costretto all’esilio nel 324.[19] Riparò a Megara e lì insieme a un gruppo di fuoriusciti della stessa fazione avrebbe giurato di tornare ad Atene e abbattere il regime democratico; per questa ragione l’oratore Demostene si fece promotore di una εἰσαγγελία contro di lui per alto tradimento[20]. Postosi al servizio di Antipatro, reggente di Alessandro, allo scoppio della guerra lamiaca nel 323 Callimedonte agì per conto dei Macedoni:
L’oratore Pitea e Callimedonte il Carabo, lasciata Atene, si dichiararono per Antipatro e con gli amici e i messi di quest’ultimo girarono per la Grecia, cercando di impedire che le varie città si ribellassero ai Macedoni e si schierassero a fianco degli Ateniesi[21].
Descritto come un «uomo temerario e odiatore del popolo» (ἁνήρ θρασύς καὶ μισόδημος), nel 322 prese parte alla delegazione macedone alla Cadmea per stipulare la pace con le città greche sconfitte, le quali, accettate le condizioni poste da Antipatro, riaccolsero i propri fuoriusciti[22]. In questo modo anche Callimedonte poté rientrare in patria, dove, grazie all’instaurazione di un regime plutocratico, basato sul censo, in breve tempo divenne un uomo d’affari di successo, ottenendo alcune concessioni minerarie[23]. Il suo ritorno ad Atene, tuttavia, non durò a lungo: infatti, nel 318 un nuovo rivolgimento politico riportò al potere i democratici e Callimedonte fu costretto a riprendere la via dell’esilio; stavolta trovò rifugio a Beroea, nella Grecia settentrionale. Anche lui, come Focione e altri oligarchici, fu raggiunto dal bando di condanna a morte[24]. Dopo questa data non si hanno ulteriori informazioni sul conto di Callimedonte, e perciò si ipotizza che abbia continuato a vivere lontano da Atene[25].
L’interesse per questo personaggio è suscitato dal soprannome con cui era noto presso gli antichi, cioè ὁ Κάραβος (“l’Aragosta”): le sue caratteristiche fisiche e il suo stile di vita lo resero oggetto di scherno da parte dei poeti comici almeno dal 340 a.C. Callimedonte era infatti strabico, un formidabile ghiottone, andava pazzo per la matrice di scrofa bollita, per le anguille e soprattutto per l’aragosta.
Il commediografo Alessi in un frammento dialogato della sua 𝐿’𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒 (Ἰσοστάσιον), dove sembra alludere alla consorteria dei “Sessanta”[26], lo elenca proprio con questo soprannome:
I nomignoli di questi ghiottoni compaiono anche nel 𝐶𝑎𝑚𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑛𝑐𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜 (Παγκρατιαστής) dello stesso autore e lì sono classificati nelle due categorie di “pane” (i cereali) e “companatico” (il pesce), un vero τρεχεδείπνους καταλέγων («catalogo di cacciatori di pranzi»)[28].
Anche Antifane in un frammento de 𝐿𝑎 𝑝𝑒𝑠𝑐𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 (Ἁλιευομένη) menziona il politico ateniese tra alcuni illustri estimatori di pesce[29].
Pescatore con aragosta (dettaglio dalla scena con Ulisse e le Sirene). Mosaico 260-268 d.C., da Thugga (od. Dougga, Tunisia). Tunis, Musée National du Bardo.
A quanto sembra, uno dei motivi per cui a Callimedonte fu appioppato il soprannome di Κάραβος fu la sua smodata passione per i crostacei, celebrata in maniera ironica da un passo della 𝐷𝑜𝑟𝑐𝑖𝑑𝑒, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜𝑐𝑐𝑎 𝑏𝑎𝑐𝑖 (Δορκίς ἢ Ποππυζούση) di Alessi:
Dai pescivendoli è stato votato,
come dicono, di porre una bronzea statua
di Callimedonte nel mercato del pesce, alle Panatenee,
che tiene nella destra un’aragosta arrostita,
dato che soltanto lui per quelli della loro categoria
è il salvatore, mentre tutti gli altri son la rovina![30]
Da una scena simile, ambientata forse al mercato del pesce, si riferisce anche un breve dialogo tra due interlocutori ignoti, tratto dalla commedia 𝐹𝑒𝑑𝑜𝑛𝑒 𝑜 𝐹𝑒𝑑𝑟𝑖𝑎 (Φαίδων ἢ Φαιδρία), nel quale si mette alla berlina la ὀψοφαγία di Callimedonte, che lo rende una vera furia:
(A) Sarai ispettore del mercato, se gli dèi lo vorranno,
per impedire a Callimedonte – se tieni a me –
d’imperversare tutto il giorno per il mercato del pesce!
(B) Oh, un’azione degna d’un tiranno, altro che ispettore mercatale, ci vorrebbe!
Quello è un attaccabrighe, ma è un benemerito della città![31]
Mentre il primo personaggio auspica l’intervento dell’amico, una volta divenuto funzionario, perché lo protegga dalla voracità di Callimedonte, l’altro ammette che, nonostante un ἀγορανόμος avesse l’incarico di mantenere l’ordine pubblico in piazza, controllare la qualità e il peso delle merci, riscuotere dazi e fare da arbitro nelle contese, contenere un simile ghiottone sarebbe andato al di là dei suoi poteri. Benché certi dettagli siano dovuti all’inventiva del poeta comico, è probabile che negli anni 330-320 a.C., in un periodo forse di rincari sui prezzi del pesce (?), un decreto pubblico abbia realmente premiato Callimedonte con l’erezione di un monumento bronzeo per i buoni uffici svolti per la cittadinanza. D’altronde, come attestano alcuni reperti epigrafici, questo genere di riconoscimenti era caratteristico della vita pubblica ateniese tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. e i decreti attuativi che li ratificavano elogiavano le qualità dei beneficiati con formule abbastanza convenzionali, quali εὔχρηστος/πρόθυμος/φίλος/χρήσιμος τῷ δήμῳ/τῇ πόλει (𝐼𝐺 II² 356, 28-29; 584, 21; 498, 19).
Ora, la spiegazione del soprannome ὁ Κάραβος relativamente alla ghiottoneria di Callimedonte non è l’unica. Sempre Alessi in un dialogo dal 𝐶𝑟𝑎𝑡𝑒𝑎, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑖𝑠𝑡𝑎 (Κρατεύα ἢ Φαρμακοπώλη) lo associa allo strabismo del personaggio:
(A) Da tre giorni ho in cura le pupille di Callimedonte!
(B) Le pupille? Intendi dire le sue figliole?
(A) Macché, quelle degli occhi!
Neppure Melampo, il solo che riuscì a sanare
dalla follia le figlie di Preto, sarebbe buono a raddrizzargliele![32]
In questo passo l’equivoco è giocato sul termine κόρη, cioè «ragazza» ma anche «pupilla (degli occhi)». Neppure il mitico indovino e guaritore “dai piedi neri”, Melampo, che guarì le κόραι di Preto dalla pazzia potrebbe fare qualcosa per le “insani κόραι” di Callimedonte. Può darsi che lo strabismo fosse il motivo più probabile del suo nomignolo data la stretta analogia con gli occhi mobili dell’aragosta[33]. Il commediografo Timocle, invece, nello stesso frammento de 𝐼𝑙 𝑡𝑟𝑎𝑓𝑓𝑖𝑐𝑜𝑛𝑒 (Πολυπράγμων) spiega che il soprannome ὁ Κάραβος dipendesse sia dal difetto dello sguardo sia dalla voracità di quell’uomo:
Poi, all’improvviso, Callimedonte
l’Aragosta si fece appresso. Mi fissava –
così almeno mi sembrava – discorrendo con un altro.
Di quel che diceva non capivo una parola, ovviamente!
Eppure, annuivo come un ebete: già, le sue pupille
guardano in direzione opposta a quel che ci si aspetta![34]
Scena di vita marina. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Come si è accennato, l’oligarca ateniese era appassionato anche di anguilla. Così, in un frammento de 𝐿𝑎 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑑𝑟𝑎𝑔𝑜𝑟𝑎 (Μανδραγοριζομένη) del solito Alessi, un parassita dichiara il proprio amore per i padroni di casa che lo nutrono e lo mantengono:
Alla passione per questa specie ittica allude anche il poeta Menandro nella sua commedia giovanile dal titolo 𝐿𝑎 𝑠𝑏𝑟𝑜𝑛𝑧𝑎 (Μέθη), in cui Callimedonte è reso un parente stretto (εἷς τῶν συγγενῶν) delle anguille[36].
In un frammento de 𝐿’𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑃𝑜𝑛𝑡𝑜 (Ποντικός) Alessi mette in ridicolo l’oratore ateniese per una certa predilezione verso la «matrice di scrofa» (μήτρα), pietanza considerata una vera leccornia, soprattutto se servita bollita e condita con aceto e succo di silfio:
Per la patria chiunque è disposto a sacrificarsi,
ma forse Callimedonte l’Aragosta avrebbe preferito morire
La ὀψοφαγία del personaggio è l’obiettivo degli strali di Antifane in un passo del 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑡𝑜 (Γοργύθος), nel quale chi parla dichiara di desistere dai propri propositi più a malincuore «di quanto farebbe Callimedonte, se dovesse rinunciare a una testa di glauco»[38]; ma è attaccata anche da Eubulo ne 𝐼 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑠𝑠𝑢𝑡𝑖 (Ἀνασῳζομένοι), in cui si dice che «lui solo tra i mortali / è capace d’ingoiare tranci di pesce a palate da casseruole / bollenti, senza lasciarne traccia»: un’abilità tipica del ghiottone![39]
Infine, la tradizione indiretta da Ateneo conserva alcuni riferimenti comici nei quali Callimedonte da “consumatore di aragosta” si trasforma in “aragosta da consumare”: è il caso di un frammento dialogato de 𝐼𝑙 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜 (Ἰατρός) di Teofilo, in cui l’eloquenza dell’oratore è giudicata fiacca e scipita come una pietanza ormai raffreddata[40]. Siccome Erodico Crateteo nei suoi 𝐾𝑜𝑚𝑜𝑑𝑜𝑢̀𝑚𝑒𝑛𝑜𝑖 (F 4, 126 Düring) attesta che Agirrio era figlio di Callimedonte, il poeta Filemone nel suo 𝐼𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 (Μετιών) dice che, quando al ragazzo fu servita un’aragosta, quello salutò suo padre e se lo mangiò[41].
[10] Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝑅𝑎𝑛. 651; 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙. 𝑎𝑑 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ. 𝑙.𝑐.; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἡράκλεια, ἐν Διομείοις Ἡράκλειον; Sᴜɪᴅ. 𝑠.𝑣. ἐν Διομίοις Ἡράκλειον 1179 Adler; 𝐼𝐺 II² 1245; 1247. A proposito dell’ubicazione di questo tempio e della sua relazione con la collina di Cinosarge, vd. Bɪʟʟᴏᴛ 1992, 124-125; cfr. anche Tʀᴀᴠʟᴏs 1980, 340.
[17] Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 54, 5, νῦν μὲν τὸν Μακεδόνα τὸν ἐκ Πέλλης τὸν Ἀμύντου Φίλιππον ἐν Κυνοσάργει νομοθετοῦντες προσκυνεῖν, τὸν “τὴν κλεῖν κατεαγότα καὶ τὸ σκέλος πεπηρωμένον”, ὃς ἐξεκόπη τὸν ὀφθαλμόν. Per una possibile connessione tra Filippo, il Cinosarge e i “Sessanta”, vd. Vᴇʀsɴᴇʟ 1973, 278-279.
[18] Considerate la carriera di quest’uomo politico e la considerazione nutrita da Filippo II per il gruppo dei “Sessanta”, la cronologia per l’attività dell’associazione è confermata nella seconda metà del IV secolo. Tuttavia, stando a un verso degli 𝐴𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒𝑠𝑖 di Aristofane (Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝐴𝑐ℎ𝑎𝑟𝑛. 605), è molto probabile che l’𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 di Diomea sia stato luogo di aggregazione dei γελωτοποιοί già in precedenza, dato che si accenna ai Διομειαλαζόνας («spacconi diomei»). Cfr. Sᴛᴏʀᴇʏ 1995.
di FERRARI F., ROSSI R., LANZI L., Bibliotheke, II, Roma 2001, 83-85; 99-104.
Posteriore di una quarantina d’anni rispetto a Tespi e nato non molto tempo dopo l’istituzione dei primi rudimentali agoni tragici, Eschilo è il più antico drammaturgo di cui rimangano opere complete. Apportò alla struttura della tragedia innovazioni decisive, come l’introduzione del secondo attore (δευτεραγωνιστής), ampliando lo spazio degli episodi e conferendo maggior respiro allo sviluppo dell’azione, anche grazie all’impiego – forse peculiare del suo teatro – della «trilogia legata», nella quale la vicenda mitica trova continuità nella successione dei tre drammi[1]. La sua vita si svolse negli anni cruciali del passaggio dalla tirannide pisistratide all’affermarsi della democrazia con la riforma di Clistene, fondata su base territoriale, che garantì la fusione e la concordia sociale delle classi che componevano la cittadinanza ateniese. Eschilo, inoltre, fu testimone dell’irreversibile ascesa ateniese dopo il trionfo sui Persiani. Da questa esperienza e dalla riflessione che ne maturò, trasferì sulla scena i grandi temi etici ed esistenziali, che caratterizzano il teatro quale luogo privilegiato di comunicazione nei confronti della comunità dei cittadini.
Sul conto di questo poeta le principali notizie biografiche sono trasmesse dalla 𝑉𝑖𝑡𝑎 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ𝑦𝑙𝑖, che in molti manoscritti accompagna il 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 della sua drammaturgia e contiene una folta messe di aneddoti, giudizi critici e testi apocrifi. Il ritratto comico che ne ha fatto Aristofane nelle sue 𝑅𝑎𝑛𝑒 è una fonte importante, perché fornisce preziose informazioni circa la fortuna del tragediografo: «O tu che primo fra i Greci hai fatto torreggiare parole venerande / e hai dato dignità alle tragiche frottole»[2]. Probabilmente l’ignoto autore della 𝑉𝑖𝑡𝑎 potrebbe aver attinto a materiale biografico dai 𝑆𝑜𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 (Ἐπιδημίαι) di Ione di Chio (c. 490/480-420), dal libro sui poeti tragici di Eraclide Pontico (c. 385-322/10) e dall’𝐴 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝐸𝑠𝑐ℎ𝑖𝑙𝑜 (περὶ Αἰσχύλου) di Camaleonte di Eraclea Pontica (c. 370-𝑝𝑜𝑠𝑡 280). Le varie fonti sono state studiate e raccolte da Wilamowitz (1914) e Radt (1985).
Eschilo. Busto, bronzo, II-I sec. a.C. dalla Meloria. Firenze, Museo Archeologico.
I. L’autore e le opere
1. La vita
Nato durante la XL Olimpiade, intorno al 525/4 a.C.[3], nel demo attico di Eleusi, centro del culto misterico di Demetra e Persefone, da un proprietario terriero di nome Euforione, Eschilo (Αἰσχύλος) combatté trentacinquenne a Maratona[4], dove cadde suo fratello Cinegiro cercando di impedire la fuga di una nave persiana[5], e forse a Salamina insieme all’altro fratello, Aminia, ma è attestata la sua partecipazione, assai più dubbia, anche alle battaglie dell’Artemisio e di Platea[6].
Eschilo iniziò la sua attività drammatica, proseguita fino alla morte, in occasione degli agoni tragici del 499-496 (LXX Olimpiade), quando, appena venticinquenne, gareggiò contro Cherilo e Pratina; stando al 𝑀𝑎𝑟𝑚𝑜𝑟 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑢𝑚, al 485/4, sotto l’arcontato di Filocrate, il poeta riportò la sua prima vittoria dionisiaca: a questa seguirono altri dodici successi, mentre, secondo la 𝑆𝑢𝑑𝑎, che verosimilmente comprende nel novero anche le repliche postume, le vittorie tragiche di Eschilo sarebbero ben ventotto. Nel 472 Eschilo conseguì il primo premio con una tetralogia (tre tragedie e un dramma satiresco), di cui facevano parte i 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, il più antico fra i suoi drammi pervenuti e l’unico di argomento storico; la coregia fu sostenuta dal giovane Pericle.
Poco dopo, il poeta si recò in Sicilia, a Siracusa, forse attratto dalla fama del tiranno Ierone, celebre per aver ospitato alla sua corte altri famosi poeti dell’Ellade, fra i quali Simonide, Bacchilide e Pindaro[7]. Nel 476/5 a.C. il tiranno aveva fondato la città di Etna, affidandone il governo a suo figlio Dinomene; mentre Pindaro, per l’occasione, compose la 𝑃𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎 I, Eschilo celebrò l’avvenimento con un dramma andato perduto, le 𝐸𝑡𝑛𝑒𝑒 (se ne possiede parte dell’𝑎𝑟𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑢𝑚 grazie al P. Oxy. 2257, F 1)[8]. Alcuni anni dopo, nel 469/8, Eschilo tornò ad Atene, dove Temistocle – l’artefice della vittoria di Salamina e fondatore della Lega delio-attica – era stato da poco ostracizzato, spianando l’ascesa politica di Cimone, figlio di Milziade e capo della fazione conservatrice. Eschilo gareggiò contro Sofocle, allora appena esordiente, che conseguì la vittoria, forse per la novità rappresentata dall’introduzione del tritagonista.
Agli agoni tragici del 467/6 Eschilo ottenne la sua rivincita con una tetralogia ispirata al ciclo tebano, che comprendeva i drammi 𝐿𝑎𝑖𝑜, 𝐸𝑑𝑖𝑝𝑜, e i 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑎 𝑇𝑒𝑏𝑒, l’unico pervenuto. Nel 463/2 – o comunque in un anno compreso fra il 466 e il 459 – riportò un altro successo contro Sofocle e un altrimenti ignoto Mesato con la trilogia delle 𝐷𝑎𝑛𝑎𝑖𝑑𝑖: da un frammento papiraceo (P. Oxy. 2256, F 3) pubblicato nel 1952, si ricava l’informazione che della trilogia facevano parte le 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, che la tradizione ha conservato, seguite dagli 𝐸𝑔𝑖𝑧𝑖 e le 𝐷𝑎𝑛𝑎𝑖𝑑𝑖. Ne è risultata dunque smentita la convinzione, fino ad allora invalsa, che le 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖 costituissero il dramma più arcaico di Eschilo pervenuto.
Nel 459/8 il poeta mise in scena la grandiosa trilogia dell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎, la in tutto il teatro attico a essere giunta completa, la quale comprendeva l’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, le 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 e le 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖. Assai incerta è la cronologia del 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, una tragedia che si presenta in posizione isolata per alcuni aspetti stilistici e sulla cui autenticità, dalla metà del XIX secolo, si è acceso fra gli studiosi un vivace dibattito.
Verso la fine della sua vita, per motivi che gli antichi vollero individuare in dissapori con il pubblico ateniese[9], Eschilo si recò nuovamente in Sicilia, ma non più a Siracusa, dove ormai Ierone era scomparso, ma nella vicina città di Gela, dove morì nel 456[10].
Una tradizione dubbia, che era riferita nel trattato 𝑆𝑢 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑜 (Περὶ Ὁμήρου) di Eraclide Pontico e a cui accenna anche Aristotele, racconta di un’accusa di empietà (ἀσέβεια) intentatagli dinanzi all’Areopago per aver rivelato i segreti dei misteri eleusini: il poeta si sarebbe difeso dichiarando che, non essendo iniziato, aveva provocato scandalo senza sapere che si trattasse di «cose segrete» (ἀπόρρητα)[11].
Ciononostante, dopo la morte Eschilo fu subito onorato dai suoi concittadini come un classico con un decreto che consentiva a chiunque di mettere in scena i suoi drammi, avendo la coregia assicurata dall’arconte[12]. Il più antico e il più autorevole fra i codici manoscritti che ne tramandano le tragedie, il Codice Mediceo-Laurenziano 32.9 (IX-X sec.), conserva l’epitafio in distici elegiaci di Eschilo, a lui attribuito, che, però, accenna solo alla sua partecipazione alla battaglia di Maratona e non alla sua produzione drammaturgica:
Αἰσχύλον Εὐφορίωνος Ἀθηναῖον τόδε κεύθει
μνῆμα καταφθίμενον πυροφόροιο Γέλας·
ἀλκὴν δ’ εὐδόκιμον Μαραθώνιον ἄλσος ἂν εἴποι
καὶ βαθυχαιτήεις Μῆδος ἐπιστάμενος.
Eschilo ateniese, figlio di Euforione, questo sepolcro
racchiude: è morto a Gela ricca di messi.
Il suo strenuo coraggio possono dire il sacro bosco
di Maratona e il Medo chiomato, che ne fece esperienza.
2. I drammi superstiti
La 𝑆𝑢𝑑𝑎 riporta che Eschilo compose novanta drammi, mentre la lista contenuta nel Mediceo 32.9 elenca settantatré titoli, fra cui uno dichiarato spurio (Αἰτναῖοι νόθοι). Altri titoli sono attestati da fonti diverse[13]. Di questi drammi, relativi a tutti i grandi cicli leggendari e anche ad alcune saghe minori e che valsero all’autore in vita tredici vittorie (e dopo la sua morte forse altre quindici) restano solo sette tragedie, tutte riferibili al periodo più maturo: 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑎 𝑇𝑒𝑏𝑒, 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, 𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒, 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖.
I drammi superstiti sono il frutto di una selezione che risale alla prassi scolastica di età imperiale. Numerosi e talora consistenti sono anche i frammenti e importanti i resti su papiro di tre opere, 𝑄𝑢𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑖𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑡𝑒, 𝑉𝑖𝑠𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑆𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝐼𝑠𝑡𝑚𝑜, 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑒𝑛𝑑𝑖𝑎𝑟𝑖𝑜, che dimostrano, con il loro contenuto giocoso e la grazia scherzosa che li caratterizza, come la Musa eschilea non disdegnasse anche toni leggeri e comici, e che consentono inoltre di apprezzare almeno in parte l’arte di Eschilo come autore di drammi satireschi, che gli antichi celebravano al punto da assegnargli il primo posto in questo genere[14].
Ciò si nota soprattutto nei frammenti del primo dramma (Δικτυολκοί)[15], in cui è trattato il mito di Danae, lo stesso sviluppato da Simonide in uno suo celebre θρῆνος. Nell’isola di Serifo, Diktys, fratello di Polidette, tiranno del luogo, e un altro pescatore tentano di tirar su a fatica la rete (di qui il titolo del dramma), in cui è rimasta impigliata una cassa, nella quale sono rinchiusi un bambino e una bellissima donna: il piccolo Perseo e sua madre Danae. Alla vista dei mostruosi Satiri, la donna rimane terrorizzata, mentre Perseo, per niente spaventato, comincia subito a giocare con quegli strani esseri, che si rivelano molto amichevoli. Alla fine, Diktys si offre di sposare Danae, che accetta prontamente, in mezzo ai maliziosi commenti dei Satiri.
Negli 𝑉𝑖𝑠𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑆𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝐼𝑠𝑡𝑚𝑜 (Θεωροὶ ἢ Ἰσθμιασταί), i protagonisti sono nuovamente i Satiri, giunti in gruppo alle feste celebrate sull’Istmo di Corinto, in onore di Poseidone[16]. Arrivati al santuari, i Satiri ne ammirano la bellezza e la grandiosità; poi offrono come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 le loro maschere, raccontando di essere giunti lì per partecipare ai giochi, nonostante il divieto del loro signore Dioniso, bene informato sulle loro scarse capacità ginniche. A questo punto, il frammento si interrompe, ma è probabile che il seguito contenesse il racconto delle comiche prestazioni atletiche dei Satiri.
Melpomene, musa della tragedia. Affresco, 62-79 d.C. ca., dalla casa di Giulia Felice. Toulouse, Musée Archéologique St. Raymond.
II. Eschilo e Atene
1. Non solo poeta ma anche uomo di teatro
L’anonima 𝑉𝑖𝑡𝑎 del codice Mediceo afferma che Eschilo superò di gran lunga i suoi predecessori «nella poesia, nella strutturazione della scena, nello splendore della coreografia, nell’abbigliamento degli attori e nella solennità del coro»[17]. Si tratta di elementi che è possibile verificare in se stessi solo in parte, e pressoché per nulla per quanto riguarda i rapporti fra Eschilo e i suoi predecessori, ma certo l’anonimo grammatico doveva registrare l’eco remota di una serie di invenzioni scenografiche che avevano provocato lo stupore e l’ammirazione dei primitivi uditori; e noi possiamo tuttora riferirci a momenti di intenso impatto visuale quali l’apparizione in volo delle Oceanine nel 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜, l’emergere dal suo tumulo sepolcrale dell’Ombra di Dario nei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, l’arrivo sul carro di Atossa nella stessa tragedia e quello di Agamennone nel dramma omonimo, l’accensione dei fuochi al principio e alla fine dell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎, i tappeti rossi dell’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒, le vesti lacere e la faretra vuota di Serse nell’esodo dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 (in contrasto con l’abbigliamento esotico e fastoso che caratterizzano Atossa e Dario nelle scene precedenti), la rete esibita da Oreste nelle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 dopo il matricidio, ecc. Eppure, com’è possibile riscontrare nella scena dell’epifania di Dario o in quella dei tappeti purpurei, l’elemento spettacolare, se ha indubbiamente il compito di suscitare un’immediata partecipazione emotiva del pubblico, tende costantemente a caricarsi in Eschilo di valenze simboliche, di significati che la parola lasciava emergere in forme dirette o mediate, come sottolineatura esplicita del dato visuale o come allusione sotterranea alle sue implicazioni metaforiche.
Entro questa cornice visuale agisce una drammaturgia ancora relativamente semplice nelle sue risorse ma innovativa rispetto alla tradizione se – come dice Aristotele nella 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎 (1449a15-8) – «Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre la parte del coro e a conferire un ruolo di primo piano alla recitazione»[18]; inoltre nell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎 è impiegato, seppur cautamente e, pare, in seguito a un’innovazione di Sofocle, anche il terzo attore, come nella scena del processo nelle 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖, dove il dialogo fra la corifea delle Erinni e Apollo è aperto e chiuso dagli interventi di Atena. D’altra parte, a questa semplicità delle costanti strutturali non corrisponde affatto una drammaturgia elementare: l’arte di accrescere e smorzare la tensione, di anticipare allusivamente gli eventi futuri o di richiamare quelli trascorsi, di creare richiami a distanza all’interno di una singola tragedia o fra scene anche lontane della trilogia, di far entrare e uscire i personaggi secondo un consumato senso del tempo e delle attese del pubblico, di produrre un’alternanza felice (ad es. nelle scene di uccisione dell’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒 e delle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒) fra azione rappresentata sulla scena e azione retroscenica, di variare i toni e i moduli espressivi eventualmente riutilizzando spunti e schemi dell’epica o della lirica, è un’arte che fa del teatro di Eschilo un denso concentrato di effetti, di emozioni, di idee.
Pittore di Brooklyn-Budapest. Elettra, Oreste, Pilade e una serva alla tomba di Agamennone. Pittura vascolare da un’anfora panatenaica a figure rosse, 380-360 a.C. c. dalla Lucania. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
2. Lo studio e la creazione dei personaggi
Anche i personaggi, se da un lato tendono a costruirsi secondo poche linee di forza energicamente rilevate che nulla concedono a tratti accessori o marginali, offrono, nell’incrocio o nello scontro fra queste linee e nel profilarsi dell’agire umano sullo sfondo del volere divino, l’immagine di un mondo dei mortali dominato dalla passione per mete irrinunciabili, da un voler essere che in nome di un determinato obiettivo trasgredisce limiti etici e leggi ancestrali ed entra nel campo della ὕβρις, della cecità, del delitto.
Allargare un impero aggiogando i sacri sentieri del mare, conservare il potere a prezzo del fratricidio, immolare la propria figlia perché le navi achee veleggino alla volta di Ilio, assassinare il marito per vendicarsi del torto subìto: pur nella specificità dei loro profili individuali Serse, Eteocle, Agamennone, Clitennestra appaiono accomunati da questa volontà di autoaffermazione che li trascina in una zona oscura, attraversata dai demoni della vendetta e della follia, che sono pronti a collaborare con le pulsioni profonde del loro carattere. Ma rispetto a questo tipo fondamentale di personaggio si prospettano impreviste varianti: anche Oreste, come la madre, uccide per vendetta, ma si tratta per lui di una reazione che ha la sua molla iniziale nell’ordine di un dio (Apollo delfico) e che per diventare convinta decisione ha bisogno dell’aura emotiva che lievita, nel commo delle 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒, dalla rievocazione del delitto e dalle invocazioni ossessive al padre ucciso. Oppure coesistono, all’interno di questo modello di personaggio che afferma con violenza la sua volontà di potere, aspetti positivamente dissonanti: Eteocle è anche un valoroso oplita, preoccupato delle sorti della sua città; Agamennone, quando appare sulla scena al suo ritorno ad Argo, è diventato un uomo moderato e pio; Clitennestra conosce anche momenti di amore filiale (alla notizia della morte di Oreste) e il suo legame con Egisto non è esclusivamente strumentale al delitto.
Accanto ai grandi ritratti si affacciano fugacemente figure minori, come la delirante Cassandra o la premurosa Cilissa, colte nell’istantanea di una singola scena ma ugualmente convincenti per l’incisiva fissazione di un determinato aspetto dell’umano; oppure si propongono figure collettive, come le terrorizzate coreute tebane dei 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒, che nel confronto con il protagonista sanno trovare imprevedibili risorse dialettiche, o le parimenti emotive Oceanine del 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜, anch’esse dotate d’insospettata tenacia quando nella chiusa si lasciano precipitare nel Tartaro pur di non abbandonare la vittima di Zeus, o, ancora, le sconcertanti Danaidi delle 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, volta a volta querule e appassionate, imploranti e minacciose.
«Atena Farnese». Statua, copia romana in marmo dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
3. L’assetto dell’ordine divino e le prospettive dell’uomo
In contrasto con un mondo umano aperto a convulsioni, dissesti, lacerazioni e che solo a tratti e con molto travaglio riesce a progettare un modello di ordine e di civiltà (la πόλις ateniese nelle 𝐸𝑢𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑖), il mondo divino appare organizzato come ordinata struttura che fa capo a Zeus, reggitore del cosmo con cui si armonizzano le altre grandi divinità del culto poliade, Atena e Apollo in primo luogo.
Condizionamento divino e responsabilità individuale interagiscono in modo problematico: sulla scia di Solone e della sapienza arcaica, si realizza quel fenomeno per cui il movimento dell’uomo oltre il limite imposto dalla sua condizione, provoca un movimento inverso di invasione del divino entro il campo dell’umano nella forma di forze normalmente qualificate come “demoniche” oppure con un generico θεός: «quando un uomo smania di agire, anche un dio coopera» (v. 742) dice Dario confermando quanto poco prima aveva intuito la regina madre riguardo l’operato di Serse (v. 724: «Certo un dio si attaccò alla sua mente»).
Ciò che al poeta preme di sottolineare è l’intreccio fra la pulsione umana verso e al di là del limite (ὕβρις) e la «collaborazione» di un dio o di un demone da cui l’azione umana appare condizionata attraverso l’interno (le φρένες) dell’individuo fino allo smarrimento, al traviamento, alla follia (ἄτη).
In Eschilo, l’uomo, in particolare il potente che agisce violando limiti e leggi, non è trascinato fatalmente da una follia irresistibile, ma neppure è pienamente libero delle proprie azioni: come osserva M. Pohlenz, «Serse rimane responsabile, anche se vi è stata la cooperazione di un demone; e perfino quando sulla casa degli Atridi pesa uno spirito di maledizione che induce a sempre nuovi delitti, dopo l’assassinio di Agamennone il coro ha, sì, la tormentosa intuizione che dietro questo avvenimento si celi la volontà di Zeus, che di tutto è causa e tutto opera (“Che cosa compirebbe mai l’uomo senza Zeus?”), eppure respinge con durezza il tentativo di Clitennestra di sbarazzarsi della colpa attribuendola al demone: “Il demone della casa può certo essere d’aiuto; ma la colpevole sei tu”. La responsabilità di Serse non è neppure diminuita dalla circostanza ch’egli fu condotto su di una falsa strada dall’“astuto inganno del dio”, dalla sua posizione di sovrano d’un popolo distruttore, procedente di vittoria in vittoria. Era stata la sua ὕβρις a trascinarlo nella rovina. Per l’intervento di potenze divine e demoniche non s’annullano quindi, per Eschilo, la capacità dell’uomo di autodeterminarsi e la responsabilità che gliene deriva».
L’Olimpo eschileo è carico di eticità e impone all’uomo di non oltrepassare i suoi limiti e di sentirsi responsabile delle sue azioni: con la consapevolezza che chiunque ha peccato pagherà ma, altresì, che la sofferenza può essere, per noi stessi o per altri, via alla saggezza. Tale dinamica trova la sua sintesi nell’enunciazione della legge del πάθει μάθος[19], cioè dell’apprendimento attraverso la conoscenza:
Parallelamente, la dimensione etica è per gli stessi dèi il risultato di un processo avvenuto attraverso il tempo, dopo che Zeus ha preliminarmente conquistato e difeso la sua egemonia con la stessa violenza con cui suo padre Crono aveva spodestato Urano. E la sfera degli Olimpî deve fare i conti e integrarsi con forze marginali, retaggio delle più antiche forme di religiosità mediterranea – le potenze della Notte, delle Erinni, del demone Ἀλάστωρ («Colui che non dimentica») –, lasciando ad esse uno spazio e un culto grazie ai quali, nel nuovo modello di πόλις vagheggiato da Eschilo, il cittadino possa nutrire verso le leggi e i doveri della collettività lo stesso istintivo timore che da sempre avvertiva nei confronti delle manifestazioni più arcane del divino.
Bassorilievo votivo al fiume Cefiso. Dedicato da Senocratea. Marmo, fine V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
4. Le istituzioni della πόλις democratica
La linea di equilibrio e di continuità fra le concezioni religiose ancestrali e il nuovo ordine della πόλις (di cui sono garanti le divinità olimpiche), è espressa in un dibattito cruciale che segna una sorta di «passaggio delle consegne» tra le Erinni e Atena. In una fase del processo presso il tribunale dell’Areopago, le Erinni rivendicano l’importanza del “terrore” (τὸ δεινόν) quale elemento di costrizione su cui bisogna fondare la giustizia e la moderazione («tutto quanto sta nel mezzo»):
Questi ammonimenti vengono riecheggiati, a tratti perfino letteralmente, da Atena (vv. 698 ss.), che insiste sulla necessità che τὸ δεινόν il «timore» (timore delle leggi e timore della punizione dei delitti) non sia cacciato dai confini della città e che lo spazio della politica sia circoscritto entro limiti che escludono tanto il dispotismo quanto l’assenza di potere istituzionale (vv. 696 s.). Se saprà operare in conformità con questi principî l’Areopago – aggiunge Atena – potrà costituire un «baluardo della contrada» e uno «strumento di salvezza per la città» (v. 701) ignoto agli Sciti o alle genti del Peloponneso.
Nello spazio della πόλις e delle sue istituzioni è fondato un ordine di giustizia entro il quale le antiche forze primordiali e i loro rappresentanti, dalle Erinni al benefattore Prometeo, restino operanti ma subordinate, presenti e tuttavia marginali rispetto a un nocciolo che abbia il suo punto di riferimento in Zeus, figura di un mondo senza facili illusioni dove la conoscenza deve lievitare attraverso la sofferenza e la speranza può prender corpo solo nell’ossequio a Δίκη.
Solo entro questo quadro trovano superamento le contraddizioni interne dell’ἦθος aristocratico, fondato sull’attribuzione al γένος di una responsabilità collettiva, che incardina la giustizia nel principio secondo cui «sangue chiama sangue». La logica secondo cui a delitto risponde pari delitto, innesca un meccanismo incontrollabile, per cui da colpa nasce colpa, in una linea di continuità ereditaria che scatena la faida tribale. Le vicende degli Atridi sono percorse da una linea di sangue (metaforicamente rappresentata dal tappeto rosso che Clitennestra stende davanti al palazzo e che Agamennone percorrerà, seguendo il suo destino), e da Atreo colpa e punizione ricadono su Agamennone, poi su Clitennestra ed Egisto, per arrivare infine a Oreste.
Alla catena insolubile di crimini pone freno la comunità, rappresentata dal tribunale dell’Areopago, sotto la tutela di Atena: con l’assoluzione di Oreste si affermano le leggi della πόλις, che trasferiscono a livello della comunità il controllo del vivere sociale. Convinto sostenitore della visione politica temistoclea e poi di quella elaborata da Efialte e Pericle, Eschilo porta sino in fondo la difficile operazione di sostenere i valori della polis e della ancora recente democrazia attraverso immagini, figure, energie dissotterrate dagli strati più profondi del conglomerato ereditario della civiltà ellenica. Si tratta di quelle forze, legate al senso del γένος e alla venerazione delle potenze numinose della vendetta, che non potevano più essere centrali in un mondo gravitante sulla πόλις in quanto collettività capace di inglobare e ridimensionare potere e valore dei singoli γένη, ma che, nello stesso tempo, non potevano essere espulse dal cerchio della città, se questa non voleva correre il rischio di oscillare paurosamente fra anarchia e dispotismo.
5. La ricchezza di linguaggio
Tensioni di forze, varietà di effetti, incisività di penetrazione psicologica, progettualità ideologica sono valorizzate da un linguaggio che nell’estrema densità e concentrazione, nella ricchezza di neologismi (talora in forma di imponenti composti che possono occupare tutto un emistichio), nella creazione di immagini e non da ultimo nella stessa coscienza del potere della parola poetica rappresenta un momento indimenticabile e per certi aspetti insuperato nell’espressione dei Greci. Capace di commentare il sublime e l’orrifico, la solennità e la volgarità, l’asprezza più energica e la più delicata trepidazione, lo stile di Eschilo pesca il suo materiale in un serbatoio sterminato, attingendo con uguale disinvoltura ai lessici della caccia e della mantica, del diritto e della politica, della guerra e della navigazione; inoltre recupera tutta l’esperienza delle forme letterarie del passato, per cui i moduli della narrazione, dell’orazione, della supplica o dell’inno vengono subordinati a un dominio unitario della sequenza drammatica.
Sul piano iconico un’immagine o una costellazione di immagini (la nave della città nei 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒, gli sparvieri nelle 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖, la caccia nell’𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑎) possono generare una catena metaforica che si associa, come forma di visualità interna, alla visualità dello spettacolo fisicamente rappresentato, connotando e commentando gli eventi.
Con effetto in parte analogo le etimologie, lasciando emergere la struttura profonda di un nome, tendono a instaurare una relazione sostanziale fra il linguaggio e le cose, le parole e i fatti (p. es., Polinice è Πολὺ νεῖκος, «Molta contesa» in 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒 577, Elena/Ἑλένη diventa ἑλένας ἕλανδρος ἑλέ-/πτολις «conquistatrice di navi, di uomini, di città» in 𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒 689 s., Δίκα si propone come abbreviazione di Διὸς κόρα in 𝐶𝑜𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 949).
[9] Si vd. Sᴜɪᴅ. 𝑠.𝑣. Αἰσχύλος αι 357 Adler; 𝑉𝑖𝑡. 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ. 8-9; cfr. anche Pʟᴜᴛ. 𝐶𝑖𝑚. 8, 483; Pᴏʟʟ. 𝑂𝑛𝑜𝑚. IV 110.
[10] Le circostanze della scomparsa del poeta, descritte da 𝑉𝑖𝑡. 𝐴𝑒𝑠𝑐ℎ. 10, hanno dell’incredibile: Eschilo, che si trovava seduto all’aperto, fu colpito violentemente in testa dal guscio di una tartaruga, lasciata cadere, a una certa altezza, da un’aquila, con l’intenzione di romperne il carapace per nutrirsi delle carni. Cfr. anche Dᴇᴍᴏᴄʀɪᴛ. T 68 Diels-Kranz; Vᴀʟ. Mᴀx. IX 12, 2; Aᴇʟ. 𝑁𝐴 7, 16.
[11] Aʀɪsᴛᴏᴛ. 𝐸𝑁 III 2, 1111a 8; Hᴇʀᴀᴄʟ². F 170 Wehrli = Aɴᴏɴ. 𝑖𝑛 𝐸𝑡ℎ. 𝑁𝑖𝑐. III 2, 1111a 8; cfr. anche Aᴇʟ. 𝑉𝐻 5, 19; Cʟᴇᴍ. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. II 461.
[19] Dietro la formulazione del πάθει μάθος c’è l’espressione παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω («e soffrendo lo stolto capì») che troviamo negli Erga esiodei (v. 218). In modo molto simile Erodoto (I 207, 1) farà dire a Creso: τὰ δέ μοι παθήματα ἐόντα ἀχάριτα μαθήματα γέγονε «le mie ingrate sofferenze sono divenute per me ammaestramenti» (l’insegnamento viene fatto coincidere, subito dopo, con la capacità di riconoscere l’esistenza di «un ciclo delle vicende umane che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi individui siano fortunati»). Senonché, mentre in origine l’espressione proverbiale intendeva ironizzare sulla stoltezza di chi riconosce troppo tardi il proprio errore, in Eschilo, come anche in Erodoto, il μάθος diventa l’effettivo apprendimento di una norma universale che ha come suo contenuto il φρονεῖν e il σωφρονεῖν, una saggezza che comporta devozione verso gli dèi, conoscenza del limite nell’agire, rispetto delle istanze poste dalla società e coerenza con lo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 nel cui ambito l’individuo si trova a vivere. Se indubbiamente la nozione di πάθος continua a comprendere il momento del castigo prodotto da altri uomini o dagli dèi o dalla sorte, l’immagine che Eschilo mette in primo piano subito dopo l’enunciazione della norma generale è quella di un μνησιπήμων πόνος, di un «affanno memore di colpe», insomma di un rimorso che, togliendo il sonno, costringe anche colui che recalcitra a imboccare la via della σωφροσύνη: un favore (χάρις) degli dèi che, con un ossimoro, è detto «violento» (βίαιος).
Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.
Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).
William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.
Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.
Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?
All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).
Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.
Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).
Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).
Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.
Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).
A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.
L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).
Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).
La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).
All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).
Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.
L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).
Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.
Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).
Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).
Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.
Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).
I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.
Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.
Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).
In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).
Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.
In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).
Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.
Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).
A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).
Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).
Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).
Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).
Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).
Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.
Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.
Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.
Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).
Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).
Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).
Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).
Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.
Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.
Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):
Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre
di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,
avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.
Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,
ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]
e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,
a stento salvò la pelle con le lacrime.
Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).
Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.
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Bibliografia:
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