Il “Commentariolum petitionis”: una guida per le elezioni consolari

Il Commentariolum petitionis, attribuito a Quinto Tullio Cicerone, costituisce un documento di eccezionale importanza, un vero e proprio manuale su come vincere le elezioni. L’autore fornisce al fratello Marco, candidatosi per il consolato del 63 a.C., una serie di consigli e raccomandazioni, descrivendo nei minimi dettagli ogni comportamento e gesto che avrebbe dovuto tenere nei confronti dell’elettorato. Per conseguire la magistratura suprema l’interessato doveva assicurarsi solide basi che sostenessero la sua causa e, in particolare, non poteva fare a meno dell’appoggio degli amici: allargare la propria cerchia di conoscenti voleva dire guadagnarsi nuovi alleati, persone con le quali solo in certi casi si creavano dei legami affettivi che trascendessero l’aspetto politico; era fondamentale, oltretutto, ottenere l’amicitia di uomini di ogni ceto sociale e soprattutto riscuotere il favore delle personalità più cospicue, le quali solo con il loro nome potevano accrescere il prestigio del candidato, e quello degli elettori più influenti nelle centuriae, capaci di spostare molti voti. Pochi anni prima, durante la sua praetura nel 66, Marco era intervenuto a favore della lex Manilia sul conferimento del comando mitridatico a Gneo Pompeo Magno e ciò gli aveva attirato le simpatie «di quell’uomo potentissimo» (Comm. Pet. 5, eum qui plurimum posset).

Per procurarsi il supporto necessario, inoltre, il candidato doveva fare leva sull’emotività delle persone attraverso i beneficia, la speranza riposta nelle promesse e la contiguità d’animo e d’intenti. Spesso anche un piccolo beneficio, un aiuto era sufficiente a guadagnarsi l’amicizia di qualcuno e Marco, che da più di un decennio esercitava abilmente l’avvocatura, poteva valersi di una lunga lista di debitori, che adesso potevano restituirgli il favore appoggiandolo nella campagna elettorale: Cicerone poteva sfruttare l’amicitia di quanti aveva difeso e scagionato negli anni precedenti, ovvero Gaio Fundario, Gaio Orchivio, Gaio Cornelio e Quinto Gallo – tutti processati de peculatu (Comm. Pet. 19-20).

Uomo togato. Statua, marmo, c. 125-250 d.C., da Roma.

In altri casi, era la speranza a muovere l’animo della gente, e solo il pensiero di poter conseguire un guadagno futuro era già una motivazione valida per stringere un accordo, anche se alla fine l’utile concreto non sarebbe mai venuto: le promesse dovevano essere fatte in modo generale e allusivo, in modo che ciascun interessato potesse interpretarle come meglio credesse e il candidato potesse giocare sulle molteplici interpretazioni, se, una volta eletto, non facesse seguire i fatti. L’aspirante, poi, doveva dimostrare un impegno costante nei confronti degli amici, a riprova che il beneficium era duraturo e che il legame con il futuro magistrato avrebbe potuto consolidarsi e trasformarsi in un rapporto più familiare e personale. A tal proposito, Quinto osservava: «… tra tutti gli altri fastidi la candidatura ha pure questo vantaggio: puoi onorevolmente – cosa che non riusciresti a fare in tutte le altre circostanze della vita – associare alla tua amicizia tutte le persone che vuoi, con le quali, se in altro frangente vieni a trattative, affinché abbiano rapporti con te, dai l’impressione di agire in modo stonato; invece, nel caso di una candidatura, se non svolgi questa trattativa sia con molte persone sia con cura scrupolosa, dai l’impressione di non essere affatto un candidato» (Comm. Pet. 25, … in ceteris molestiis habet hoc tamen petitio commodi: potes honeste, quod in cetera vita non queas, quoscumque velis adiungere ad amicitiam, quibuscum si alio tempore agas ut te utantur, absurde facere videare, in petitione autem nisi id agas et cum multis et diligenter, nullus petitor esse videare).

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Quinto assicurava al fratello che la candidatura gli avrebbe portato nuove conoscenze, valide a battere gli altri concorrenti: godere dell’appoggio degli uomini più influenti avrebbe allargato il consenso di Cicerone, perciò era necessario non lasciare nulla al caso e catturare il favore dei ceti emergenti. Così l’autore raccomandava: «Per questo motivo, mediante numerose e svariate amicizie, procura di avere dalla tua parte tutte le centurie. E prima di tutto, cosa che balza all’occhio, lega a te senatori e cavalieri romani, le persone premurose e influenti di tutti gli altri ceti. Molti uomini laboriosi che vivono in città, molti liberi influenti e attivi, frequentano il foro; quelli che per opera tua, quelli che per mezzo degli amici comuni potrai avvicinare, datti da fare con estrema cura, affinché siano tuoi appassionati simpatizzanti: brama questo incontro, fa’ le tue deleghe, mostra di sentirti colmato di un sommo beneficio. Poi tieni conto dell’intera città, della associazioni, dell’area dei colli, dei quartieri periferici, delle zone circonvicine; se renderai partecipi della tua amicizia gli uomini più in vista di quella compagine, con il loro intervento avrai facilmente in tuo potere le rimanenti persone. Successivamente fa’ in modo di tenere a mente e nella memoria l’intera Italia ripartita in tribù e abbracciata nel suo insieme, per non consentire che ci sia nessun municipio, nessuna colonia, nessuna prefettura – insomma, nessun luogo d’Italia – nel quale tu non abbia quanto possa bastare di valido appoggio…» (Comm. Pet. 29-30, Quam ob rem omnis centurias multis et variis amicitiis cura ut confirmatas habeas. Et primum, id quod ante oculos est, senatores equitesque Romanos, ceterorum ‹ordinum› omnium navos homines et gratiosos complectere. multi homines urbani industrii, multi libertini in foro gratiosi navique versantur; quos per te, quos per communis amicos poteris, summa cura ut cupidi tui sint elaborato, appetito, adlegato, summo beneficio te adfici ostendito. Deinde habeto rationem urbis totius, collegiorum, montium, pagorum, vicinitatum; ex his principes ad amicitiam tuam si adiunxeris, per eos reliquam multitudinem facile tenebris. postea totam Italiam fac ut in animo ac memoria tributim discriptam comprehensamque habeas, ne quod municipium, coloniam, praefecturam, locum denique Italiae ne quem esse patiare in quo non habeas firmamenti quod satis esse possit…).

Per quanto concerne l’aspetto propagandistico, nel periodo di campagna elettorale il candidato riuniva attorno a sé un seguito di individui che lo accompagnava ovunque andasse. Quinto classifica questi «simpatizzanti» in tre categorie: salutatores, deductores e adsecatores.

M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

I salutatores erano coloro che si recavano di buon’ora a casa dei candidati per porgere omaggi: l’interessato, per scalzare la concorrenza e avere più salutatores possibili, doveva mostrarsi amichevole e rassicurante nei loro confronti; i deductores scortavano il proprio beniamino nel foro e lo annunciavano alla folla ovunque andasse; gli adsectatores erano gli accompagnatori assidui, che, volontari o prezzolati, seguivano il candidato in ogni apparizione pubblica: agli uni andava l’eterna gratitudine dell’aspirante, dagli altri si pretendeva un impegno e una partecipazione costanti, al punto che, in caso di indisponibilità, dovevano delegare un parente, affinché il beniamino potesse sempre sfoggiare una gran folla con forte impatto visivo (Fezzi 2007, 20-22).

D’altra parte, frequentare la gente poteva far incappare in un’insidia, cioè trovarsi in mezzo ad agguerriti nemici: quanti erano stati danneggiati da un’arringa giudiziaria e coloro che, supportando altri aspiranti in lizza, non erano legati da amicitia con il candidato. Nei confronti di queste persone occorreva adottare una linea morbida: con i primi bisognava scusarsi direttamente e assicurare che ci si sarebbe occupati anche dei loro affari in cambio dell’amicitia; con i secondi era opportuno infondere loro speranza di agire nel loro interesse, una volta eletti, e provare ad assumere un atteggiamento benevolo nei confronti dell’avversario stesso (Comm. Pet. 40).

Benché fosse usanza comune denigrare il competitore, stando pur sempre nei limiti del possibile, per far cadere su di lui sospetti di ogni tipo, Quinto consigliava a Marco di perseguire la strada del riappacificamento, trattando i concorrenti e i loro sostenitori con rispetto, rivolgendo anche a loro favori e promesse per appianare i contrasti.

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Da oltre un secolo e mezzo il Commentariolum è stato oggetto dell’analisi di molti studiosi e fin dalla sua scoperta all’interno dei codici contenenti le Epistulae ad Quintum fratrem. Contro l’attribuzione della paternità al fratello di Cicerone si pronunciò per primo Eussner (1892), che evidenziò forti analogie tra il manuale e l’orazione di Marco In toga candida, e si convinse che il Commentariolum fosse opera di un falsario. Gli fece eco Hendrickson (1892; 1904), che trovò delle incongruenze tra il linguaggio tipico di Quinto e quello usato nel testo, sostenendo che fosse riconducibile piuttosto allo stile di Marco. Così Henderson (1950) mise in dubbio la veridicità di alcune sezioni del manualetto, nel quale, per esempio, si sarebbe erroneamente attribuita la povertà del padre di Catilina scambiandolo con quello di Clodio, come allo stesso Clodio e non a Catilina sarebbe imputabile l’accusa di stupro a danno della sorella. A favore dell’attribuzione si schierarono, invece, già Tyrell e Purser (1904); in effetti, gli strali contro l’autenticità, lanciati da Nisbet (1961), non riuscirono a demolire la fiducia della maggioranza degli studiosi nella paternità dello scritto. Comunque, è stato Nardo (1970), in un contributo denso e perspicuo, a fornire una valutazione a favore dell’autenticità del Commentariolum e attribuirlo a Quinto, stabilendo che una certa somiglianza con In toga candida costituisca la prova di una collaborazione pragmatica e ideologica tra i fratelli Cicerone; d’altronde, dal momento che questi ultimi nutrivano un rapporto di stima e di amicizia con Attico, è verosimile che il Commentariolum fosse stato concepito da Marco, scritto da Quinto e pubblicato da Attico. Tra gli assertori di questa teoria, Alexander (2009) ha proposto un’interpretazione originale, definendo l’operina «un vero e proprio attacco satirico alle campagne elettorali romane e non un insieme di consigli sui comportamenti da tenere».

Fin dall’esordio del manuale Quinto sottolineava la novità più clamorosa del fratello: l’essere un homo novus. A tal proposito, lo esortava a ripetersi: «Io sono un homo novus, aspiro al consolato, la comunità è Roma» (Comm. Pet. 2, “Novus sum, consulatum peto, Roma est”). Per raggiungere lo scopo, inoltre, Marco doveva saper giocare e far leva sulla nominis novitas, elevandola con la dicendi gloria (l’eloquenza), l’arte fondamentale di tutti i successi forensi: grazie a questa Cicerone aveva difeso molti publicani e cavalieri, i quali adesso avevano l’occasione di dimostrargli la propria riconoscenza sostenendolo. Oltre a ciò, Quinto raccomandava al fratello di procurarsi il favore di nobiles e consulares, comportandosi in modo tale da apparire al loro cospetto degno della posizione cui aspirava. Infine, lo esortava ad attirare alla sua causa gli adulescentes nobiles, il cui supporto gli avrebbero conferito un prestigio ancor più grande (Comm. Pet. 4-6).

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

Quanto ai concorrenti – Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina –, per poterli battere sarebbe stato opportuno ricordare alla gente chi fossero: non solo parlare delle origini familiari e della carriera politica di costoro, ma anche e soprattutto puntare il dito contro i reati da quelli commessi per provocare scandalo e denigrarli (Comm. Pet. 8-12).

Durante la campagna elettorale, l’aspirante magistrato naturalmente doveva tenere in massima considerazione anche l’opinione pubblica e garantirsi il favore popolare. A tal proposito, Quinto spiegava che fosse necessario munirsi di un nomenclator (il servo incaricato di ricordare al dominus i nomi delle persone incontrate), dimostrare abilità nel lusingare, assiduità, benevolenza, disporre di voci di propaganda e fare bella apparenza in pubblico (Comm. Pet. 41). In altre parole, il candidato doveva mettere in luce la propria volontà di conoscere le persone (homines noscere), fingendo al punto da dare l’impressione di agire secondo talento naturale. In effetti, a Marco – riconosce il fratello – non mancava «quell’affabilità che è degna di un uomo onesto e dolce di carattere» (comitas… ea quae bono ac suavi homine digna est), ma nel corso della campagna elettorale gli sarebbe stata indispensabile la blanditia («l’arte della lusinga»): il candidato doveva modificare «sia la fronte, sia la linea del volto, sia la conversazione» (et frons et vultus et sermo), adattando al modo di pensare e al volere delle persone che avrebbe incontrato (Comm. Pet. 42).

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per rafforzare la propria adsiduitas e dimostrare benignitas nei confronti dell’elettorato, oltre a offrire banchetti sia agli amici sia a invitati passim et tributim («presi qua e là dalle tribù»), Marco doveva consentire agli altri un facile accesso, spalancando loro tanto le porte di casa quanto i recessi del proprio animo, dato che la gente non vuole che le si facciano soltanto promesse ordinarie, ma si sia disposti a largheggiare. Quindi, occorreva chiarezza su ciò che si sarebbe voluto fare, dichiarando di essere pronti a compierlo con zelo e volentieri, ma anche trasparenza su ciò che non si voleva o non si poteva fare, opponendo un garbato rifiuto o non dichiarando alcunché. Le persone, in genere, desiderano che alle parole seguano i fatti; perciò, per non attirarsi l’ira popolare è bene evitare di fare promesse o di accettare richieste che non sarebbe possibile attuare. Se l’elettore, per qualche ragione, si indisporrà, sarà opportuno che ciò accada dopo l’entrata in carica che prima; certamente sarà meno scontento colui che non vedrà realizzata una promessa, se lo si convincerà che la causa della mancata realizzazione è stata un grave imprevisto. In estrema sintesi, Quinto sostiene che «tutto sommato, il primo comportamento è proprio di un uomo onesto, l’altro di un buon candidato» (Comm. Pet. 45, quorum alterum est tamen boni viri, alterum boni petitoris).

L’autore conclude la propria esposizione facendo richiami all’eloquenza del fratello, augurandogli di condurre una campagna elettorale splendida e decorosa, raccomandandogli di mettere in luce gli atteggiamenti sospetti dei suoi competitori, senza dimenticare di sottolineare in pubblico il successo derivatogli dall’oratoria.

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24 agosto 410. Il sacco di Roma

L’episodio più famoso del complesso fenomeno delle migrazioni di popoli (Völkerwanderungen) fu il sacco di Roma a opera dei Visigoti nel 410 (Prosp. epit. Chron. 1240 a. 410, Roma a Gothis Alarico duce capta [VIIII kl. Septemb.]; Cassiod. Chron. 1185 a. 410, Roma a Gothis Halarico duce capta est, ubi clementer usi victoria sunt; Exc. Sangal. 541, Roma fracta est a Gothis Alarici VIIII kl. Septembres). Era la prima volta in ottocento anni che la città cadeva in mano ai barbari, ma, in concreto, l’avvenimento non ebbe molta importanza dal punto di vista strategico. Il saccheggio dell’Urbe suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’Impero: il valore simbolico dell’evento fu superiore alla sua portata effettiva al punto da risultare più traumatico della deposizione dell’ultimo Augustus d’Occidente (476).

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

Il sacco di Roma del 410 fu il risultato del secondo tentativo da parte del comandante visigoto Alarico di strappare all’imperatore Onorio l’autorizzazione a insediare i suoi nei territori danubiani. L’eliminazione, il 22 agosto 408, del potentissimo Stilicone aveva creato un vuoto politico e militare, di cui il Goto aveva saputo approfittato, trovandosi spianata la strada per Roma. Tra l’altro, nello stesso anno, l’armata alariciana era stata ingrossata dagli uomini dei reparti ausiliari germanici – circa 30.000 soldati, secondo Zosimo di Panopoli (V 35, 5-6) – che avevano prestato servizio sotto il defunto Stilicone, furibondi per il massacro di donne e bambini perpetrato dalle truppe imperiali a seguito dell’assassinio del “generalissimo”. Per parte sua, Alarico, che non aveva certo ambizioni di conquista in Italia, «ricordando dei patti stipulati a suo tempo con Stilicone» e la promessa di 4.000 libbre d’oro, mirava a ottenere che l’imperatore onorasse tali accordi. Così, aveva tentato di negoziare, mandando un’ambasceria a Ravenna per chiedere la pace in cambio di una modesta somma di denaro per i suoi uomini e uno scambio di ostaggi, ma Onorio aveva respinto le sue richieste (Zos. V 36, 1; cfr. Iord. Get. 30, 152). Continuando a gravare sulla Penisola la minaccia alariciana, l’imperatore, consigliato dal magister officiorum Olimpio, si era limitato a porre a capo dell’esercito uomini inetti e «adatti solo a suscitare il disprezzo dei nemici» (καταφρόνησιν ἐμποιῆσαι τοῖς πολεμίοις ἀρκοῦντας): Turpilione, Varane e Vigilanzio.

Flavio Onorio. Solidus, Ravenna post 408. AV 4,47 g. Recto: D(ominus) N(oster) Honori-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto elmato, perlato-diademato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Alarico, invece, «poiché aveva intenzione di intraprendere un’impresa tanto importante in condizioni di netta superiorità e non di semplice parità» (ἐπεὶ δὲ μεγίστοις οὕτως πράγμασιν οὐκ ἐκ τοῦ ἴσου μόνον ἀλλὰ καὶ ἐκ μείζονος ὑπεροχῆς ἐγχειρῆσαι διενοεῖτο), aveva richiamato dalla Pannonia superior suo cognato Ataulfo perché gli portasse dei rincalzi gotici e unni e quello, durante la marcia verso Roma, aveva devastato la Penisola senza incontrare resistenza (Zos. V 37, 1-3).

L’Urbe, stretta d’assedio, fu flagellata dalla carestia, poiché il blocco dell’accesso al Tevere impediva la fornitura dei viveri attraverso il porto, e dalle epidemie, perché i cadaveri non potevano essere seppelliti fuori dalle mura a causa delle truppe di Alarico che stazionavano presso le porte. Gli abitanti della città decisero di resistere nella speranza che da Ravenna giungessero aiuti (Zos. V 39, 2-3). Alla fine, i Romani decisero di mandare al nemico un’ambasceria composta dall’ex praefectus urbi Basilio e da Giovanni, già primicerius notariorum, per dichiarare che sarebbero stati disposti a combattere all’ultimo sangue. Quando Alarico, ricevuti i delegati, ascoltò le loro parole, si mise a ridere per quell’atteggiamento un po’ fanfarone – vista la situazione; allora, parlando di pace, il condottiero «diceva che non avrebbe desistito dall’assedio, se non avesse ottenuto tutto l’oro e l’argento della città e, inoltre, tutte le suppellettili che trovasse e i servi di origine barbara» (ἔλεγε γὰρ οὐκ ἄλλως ἀποστήσεσθαι τῆς πολιορκίας, εἰ μὴ τὸν χρυσὸν ἅπαντα, ὅσον ἡ πόλις ἔχει, καὶ τὸν ἄργυρον λάβοι, καὶ πρὸς τούτοις ὅσα ἐν ἐπίπλοις εὕροι κατὰ τὴν πόλιν καὶ ἔτι τοὺς βαρβάρους οἰκέτας). A uno degli ambasciatori che gli chiedeva che cosa sarebbe rimasto alla città, se mai avesse ottenuto tutto ciò, Alarico avrebbe risposto: «Le vite umane» (Zos. V 40). La popolazione di Roma, in preda alla disperazione, si rivolse allora alle divinità antiche e il prefetto della città Pompeiano, consultati alcuni Etruschi, raccomandò al vescovo Innocenzo I di non tenere conto delle cerimonie pagane fintanto che fossero celebrate in forma privata. Ma se ciò tranquillizzò in parte quei Romani che provavano ancora nostalgia verso la tradizione antica, la mossa successiva ebbe l’effetto opposto: infatti, per poter pagare quanto Alarico chiedeva, le statue d’oro e d’argento delle divinità vennero portate via dai templi. Secondo il pagano Zosimo, questo episodio rappresentò l’inizio della fine di Roma: «I Romani persero il coraggio e il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali» (ὅσα τῆς ἀνδρείας ἦν καὶ ἀρετῆς παρὰ Ῥωμαίοις ἀπέσβη, τοῦτο τῶν περὶ τὰ θεῖα καὶ τὰς πατρίους ἁγιστείας ἐσχολακότων ἐξ ἐκείνου τοῦ χρόνου προφητευσάντων, Zos. V 41, 7). Ad Alarico furono promesse «5.000 libbre d’oro, 30.000 libbre d’argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 pelli scarlatte e 3.000 libbre di pepe» (πεντακισχιλίας μὲν χρυσοῦ λίτρας, τρισμυρίας τε πρὸς ταύταις ἀργύρου, σηρικοὺς δὲ τετρακισχιλίους χιτῶνας, ἔτι δὲ κοκκοβαφῆ τρισχίλια δέρματα καὶ πέπερι σταθμὸν ἕλκον τρισχιλίων λιτρῶν, Zos. V 41, 4); dopo aver ricevuto un parte di quanto gli era dovuto, il comandante goto fece aprire le porte della città per consentire agli abitanti di rifornirsi di viveri, concedendo loro tre giorni di mercato: questa fu l’occasione per i suoi soldati di vendere alimenti a prezzi altissimi (Zos. V 42).

Alarico allora si ritirò da Roma e pose l’accampamento in Etruria, continuando comunque a inviare richieste a Ravenna: chiese tributi annuali in denaro e grano e alloggi per la sua gente in entrambe le Venetiae, in Noricum e in Dalmatia (Zos. V 48, 3). Giovio, praefectus praetorio, mandato come ambasciatore da Onorio presso Alarico per i negoziati, riferì all’imperatore che il Visigoto si sarebbe con tutta probabilità accontentato anche di meno si gli fosse stato concesso il titolo di magister utriusque militiae, già appartenuto a Stilicone, ma Onorio acconsentì ai versamenti di denaro e grano, rifiutando di concedere quella dignità. Il divieto dell’imperatore di conferire ai Goti cariche o comandi romani, sentito come un affronto, mandò Alarico su tutte le furie: egli prontamente diede ordine alla sua armata di dirigersi nuovamente su Roma (Zos. V 49). Secondo Zosimo, pur continuando a negoziare, il condottiero goto mandò «i vescovi di ciascuna città come ambasciatori, perché esortassero nel contempo l’imperatore a non permettere che la città, che regnava su gran parte della Terra da più di mille anni, fosse abbandonata alla devastazione dei barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico; accettasse piuttosto di concludere le trattative a condizioni molto moderate» (τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδεδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις, Zos. V 50, 2). Alarico, dunque, rinunciava alla sua richiesta delle regioni adriatiche in cui insediare la sua gente, accontentandosi delle due province danubiane del Noricum, territorio che – come veniva fatto notare all’imperatore – non rappresentava una grave perdita poiché era «devastato da continue incursioni e dava un modesto contributo alle casse dello Stato» (συνεχεῖς τε ὑφισταμένους ἐφόδους καὶ εὐτελῆ φόρον τῷ δημοσίῳ εἰσφέροντας, Zos. V 50, 3).

Flavio Valente o Flavio Onorio. Busto, marmo, fine IV secolo-inizi V secolo. Roma, Musei Capitolini

Quanto accadde in seguito dimostra, comunque, che Alarico continuò a manovrare politicamente anziché guidare l’esercito a Roma: minacciando di prendere la città con la forza, il condottiero goto impose ai Romani di passare dalla sua parte contro Onorio e pretese che il Senato dichiarasse il Teodoside decaduto e insediasse Prisco Attalo. Per parte sua, costui, eminente membro del venerando consiglio e già comes sacrarum largitionum, si dimostrò disponibile a collaborare con i Visigoti, convertendosi all’Arianesimo e facendosi battezzare dal vescovo Sigesaro (Zos. VI 6-7; Sozom. HE. IX 9). Tuttavia, le trattative diplomatiche si conclusero con un nulla di fatto: Onorio, alla fine, temendo di perdere la porpora, offrì di condividere con Attalo la carica imperiale, ma Attalo non accettò; allora, l’Augustus rispose dando ordine a Eracliano, comes Africae, di bloccare le forniture di grano all’Italia; quando poi l’usurpatore, sollecitato da Alarico a inviare contingenti in Africa, oppose il proprio rifiuto, i Goti lo deposero (Zos. VI 11-12). Alarico tentò ancora di negoziare con Onorio ma, attaccato dalle truppe imperiali, decise infine di tornare indietro e di completare il sacco di Roma. Lo storico Zosimo, che era pagano, attribuisce a Onorio e ai suoi consiglieri tutte le colpe di quanto accadde in seguito: «A tal punto era cieca la mente di coloro che amministravano lo Stato, privati della provvidenza divina» (τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων, Zos. V 51, 2).

Prisco Attalo. Siliqua, Roma, 409-410. AR 2,32 g. Recto: Priscus Attalus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra

Il 24 agosto 410, dopo una pressione esercitata per almeno un paio d’anni, ebbe inizio il vero e proprio sacco di Roma, che si protrasse per tre giorni. Secondo alcuni storici, Alarico sarebbe riuscito a entrare a Roma con l’aiuto di certi servi goti che si trovavano in città (cfr. Procop. Vand. I 2, 13-23). L’eco delle devastazioni e delle atrocità commesse in quella circostanza dai soldati alariciani si diffuse immediatamente per ogni dove, trasmessa e amplificata nei toni più drammatici da quanti, superstiti e in fuga, avevano assistito allo scempio. Un secolo più tardi Procopio di Cesarea raccontò che quando Onorio, al sicuro nel suo palazzo, fu informato della morte di Roma sarebbe scoppiato in lacrime e lamenti, ma si sarebbe tranquillizzato allorché gli fu spiegato che si trattava della città di Roma e non di Roma, il suo gallo prediletto:

«Si narra che, a Ravenna, fu un eunuco – a quanto pare un guardiano del pollaio – ad annunciare all’imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: “Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!”. Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L’eunuco, capito l’equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cedere per opera di Alarico, e allora l’imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: “Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!”. Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore».

τότε λέγουσιν ἐν Ῥαβέννῃ Ὁνωρίῳ τῷ βασιλεῖ τῶν τινα εὐνούχων δηλονότι ὀρνιθοκόμον ἀγγεῖλαι ὅτι δὴ Ῥώμη ἀπόλωλε. καὶ τὸν ἀναβοήσαντα φάναι “Καίτοι ἔναγχος ἐδήδοκεν ἐκ χειρῶν τῶν ἐμῶν”. εἶναι γάρ οἱ ἀλεκτρυόνα ὑπερμεγέθη, Ῥώμην ὄνομα, καὶ τὸν μὲν εὐνοῦχον ξυνέντα τοῦ λόγου εἰπεῖν Ῥώμην τὴν πόλιν πρὸς Ἀλαρίχου ἀπολωλέναι, ἀνενεγκόντα δὲ τὸν βασιλέα ὑπολαβεῖν “Ἀλλ’ ἔγωγε, ὦ ἑταῖρε, Ῥώμην μοι ἀπολωλέναι τὴν ὄρνιν ᾠήθην”. τοσαύτῃ ἀμαθίᾳ τὸν βασιλέα τοῦτον ἔχεσθαι λέγουσι.

(Procop. Vand. I 2, 25-26)

John William Waterhouse, I favoriti dell’imperatore Onorio. Olio su tela, 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Una reazione più normale ebbe invece Sofronio Eusebio Girolamo, il quale si trovava a Betlemme, quando, nella lettera alla sua discepola Principia (Hier. Ep. VI 127, 12), le riferì di una terribile notizia giunta da Occidente. Si venne a sapere che Roma era assediata e che i suoi abitanti stavano comprando la propria salvezza con l’oro:

«Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. “La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata”: anzi, cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. “Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura”. “O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca”.

“Come ridire la strage, i lutti di quella notte? / Chi può la rovina adeguare col pianto? / Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo: / un gran numero di cadaveri erano sparsi / per le strade e anche nelle case. /Era l’immagine moltiplicata della morte”».

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius [Is. 15, 1]. Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret [Psalm. 79, 1-3].

Quis cladem illius noctis, quis funera fando / explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem? / Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos; / plurima, perque uias sparguntur inertia passim / corpora, perque domos, et plurima mortis imago” [Verg. Aen. II 361-365].

Il fatto che Roma, in quel frangente, fosse stata violata e fosse rimasta inerme alla mercé di un’orda barbarica per più giorni scatenò una violenta polemica tra i cristiani e i pagani: questi ultimi non mancarono di far notare come la Roma della tradizione, protetta dagli dèi, avesse saputo non solo preservarsi per secoli dalla violenza delle externae gentes, ma anche espandersi fino a creare un impero di straordinarie dimensioni e vigore, mentre ora i sepolcri degli apostoli di Cristo non avevano saputo tutelarla dalle spade di Alarico e dei suoi.

Evariste-Vital Luminais, Il sacco di Roma.

Il De civitate Dei, che Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, iniziò nel 413, fu un’altra risposta diretta tanto a quell’evento traumatico quanto alla polemica degli intellettuali: egli doveva dimostrare ai pagani che la devastazione della città non era una conseguenza dell’abbandono degli dèi, ma allo stesso tempo doveva anche rassicurare i cristiani incapaci di comprendere perché le sofferenze ricadessero pure su di loro. L’opera del prelato africano è pressoché contemporanea agli eventi narrati e non minimizza le violenze perpetrate: le donne furono violentate; così tanta gente fu ammazzata che i cadaveri giacevano dappertutto senza sepoltura; moltissimi furono fatti prigionieri (August. De civ. D. I 12, 1; 16). In Agostino, come in altri pensatori cristiani, il commento dei fatti del 410 trascendeva però i termini della polemica spicciola con i pagani circa l’«efficacia difensiva» delle rispettive divinità, per aprirsi a una riflessione più ampia sulla Storia e sulla ragione stessa dell’Impero cristiano. La sua grande opera era tesa a ricondurre tutto entro una visione provvidenzialistica della Storia, diretta all’avvento della «città di Dio», estranea a quella terrena; in questa chiave ogni accadimento storico, compreso il saccheggio alariciano, trovava una giustificazione negli imperscrutabili disegni celesti.

Raffaello Sanzio, Incendio di Borgo. Dettaglio con il quadriportico con dietro la facciata dell’antica basilica di San Pietro. Affresco, 1514. Città del Vaticano, Stanze Vaticane.

Gli scrittori cristiani posteriori sentirono l’esigenza di ridimensionare la barbarie dei Visigoti, e ne sottolinearono invece la pietas: sebbene fossero ariani, essi avevano dimostrato maggiore rispetto verso Dio e i luoghi consacrati di quanto non avessero fatto gli stessi Romani, sia cattolici sia pagani (cfr. Iord. Get. 30, 156). Anzi, negli Historiarum adversus paganos libri VII di Paolo Orosio Alarico diventava un mero strumento dell’indignazione divina per castigare i Romani dei loro comportamenti superbi, lascivi e blasfemi. Il condottiero barbaro, per esempio, avrebbe dato ordine ai suoi uomini di non violare i sacrari delle basiliche di San Pietro e di San Paolo, dove molti cittadini avevano cercato rifugio (Oros. VII 39, 1); una donna aveva lottato contro un guerriero che la voleva stuprare e lo aveva provocato fino quasi al punto di farsi uccidere, ma il violentatore avrebbe ceduto alla compassione e l’avrebbe accompagnata al sicuro nella basilica di San Pietro (Sozom. HE. IX 10); un altro soldato sarebbe entrato nella casa di pie donne esigendo oro e argento, gli sarebbero stati mostrati dei vasi liturgici appartenenti a San Pietro ed egli li avrebbe consegnati ad Alarico; questi, poi, li avrebbe fatti rispettosamente riportare nella basilica (Oros. VII 39, 3-7). Se si deve credere a Orosio, infine, Alarico avrebbe addirittura organizzato una stupenda cerimonia per simboleggiare l’unione dei popoli in Cristo: la pia processione si sarebbe svolta tra due file di spade sguainate e gli abitanti della città e gli invasori, insieme, avrebbero elevato un inno a Dio (Oros. VII 39, 8-9). L’interpretazione del presbitero spagnolo si preoccupava non tanto di ridimensionare l’accaduto, quanto di inserirlo in una visione complessiva, capace di spiegare gli eventi storici attribuendoli comunque alla volontà divina, ricomponendo il trauma e superando quindi l’immediato sconforto.

Alarico. Illustrazione di P. Kruklidis.

Questa visione del sacco di Roma è probabilmente frutto più della retorica sul nobile barbaro che della realtà storica. Un esempio analogo di retorica lo ritroviamo nel V secolo, negli scritti di Salviano di Marsiglia (Salvian. De gubern. D. VII). In base alle tante prove conservate possiamo affermare che i tre giorni di saccheggio non ebbero un impatto meramente psicologico. Anche Orosio ammette che nel 417 a Roma si potevano ancora vedere edifici distrutti dall’incendio, sebbene si affretti ad aggiungere che i fulmini (segno evidente della disapprovazione divina) avevano appiccato più incendi di quanto non avessero fatto i Goti. La casa dello storico Sallustio era ancora mezza distrutta alla metà del VI secolo, stando a quanto ci riferisce Procopio (Procop. Vand. I 2, 24). Fra il 430 e il 440 l’imperatore Valentiniano III finanziò il ripristino di un fastigium d’argento (una struttura a forma di baldacchino a coronamento di un altare) – che si dice pesasse 1.610 libbre –, che i barbari avevano sottratto dalla basilica costantiniana del Laterano (Lib. pont. 46, fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat, qui habet pens. libras ĪDCX).

Non ci furono soltanto danni materiali, ma anche forti ripercussioni sociali. Molti vennero fatti prigionieri dai Goti, inclusi uomini di Chiesa e la stessa Galla Placidia, sorellastra di Onorio. In tanti abbandonarono le loro proprietà e fuggirono da Roma e, quando i Goti si spostarono a sud dell’Urbe, lasciarono addirittura l’Italia. Lo studioso biblico Tirannio Rufino di Aquileia, con l’egocentrismo e la monomaniacalità tipica del vero erudito, nel Prologus alle Omelie sui Numeri di Origene, protestò seccato: «E infatti alla nostra vista, come infatti tu stesso puoi vedere, il barbaro, che appiccava fiamme alla città di Reggio, era tenuto lontano da noi dal solo brevissimo stretto, dove il suolo d’Italia si divide da quello di Sicilia. Ebbene, in queste condizioni, come posso trovare la tranquillità di mente necessaria per scrivere e soprattutto per tradurre?» (In conspectu etenim, ut videbas etiam ipse, nostro Barbarus, qui Regino oppido miscebat incendia, angustissimo a nobis freto, ubi Italiae solum Siculo dirimitur, arcebatur. In his ergo posito, quae esse ad scribendum securitas potuit, et praecipue ad interpretandum, ubi non ita proprios expedire sensus, ut alienos aptare proponitur?, Ruf. prol. ad Orig. in num. Homil., PG XII, pp. 583-586).

Leonardo da Vinci, San Girolamo penitente. Olio su pannello, 1480. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, Gerolamo, acerrimo nemico di Rufino, dovette interrompere i suoi monumentali Commentarii in Ezechielem prophetam, distratto dall’arrivo della notizia del sacco di Roma. Il biblista non riusciva a nascondere il proprio incredulo sgomento di fronte al quadro sconsolante al quale gli toccava di assistere. Proprio nella prefazione al III libro dei Commentarii egli si chiedeva con angoscia: «Chi potrebbe credere che sarebbe crollata Roma, costruita per i conquistatori del mondo intero, che essa stessa sarebbe diventata per i suoi popoli madre e sepolcro, che un tempo fu signora di tutti quanti i lidi d’Oriente, d’Egitto e d’Africa, li avrebbe riempiti di una massa di servi e di serve, che la santa Betlemme avrebbe accolto ogni giorno mendicanti, che, un tempo nobili di entrambi i sessi e assai ricchi, giungono a fiumi?» (Quis crederet ut totius orbis exstructa victoriis Roma corrueret, ut ipsa suis populis et mater fieret et sepulcrum, ut tota Orientis, Aegypti, Africae littora olim dominatricis urbis, servorum et ancillarum numero complerentur, ut quotidie sancta Bethleem, nobiles quondam utriusque sexus, atque omnibus divitiis affluentes, susciperet mendicantes?, Hier. in Ezechiel. III praef. 2).

Agostino di Ippona. Affresco, c. VI secolo. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Agostino non si dimostrò altrettanto comprensivo quando i profughi giunsero a Cartagine, e rimarcò che, nonostante tutto il mondo fosse in lutto per il loro tragico destino, non facevano altro che andarsene a teatro e divertirsi: «Questa pestilenza accecò le anime dei miseri in modo tanto tenebroso, le macchiò in modo tanto infame, che, una volta distrutta Roma – e forse sarà incredibile per i posteri! –, quelli che ne erano posseduti e riuscirono con la fuga a raggiungere Cartagine, impazzivano a gara ogni giorno, nei teatri, dietro gli istrioni. O menti dementi! È tanto grande questo errore – o piuttosto questo furore – che, mentre i popoli d’Oriente piangono la vostra fine e le città più grandi e lontane manifestano lutto e afflizione, voi cercate, frequentate, riempite i teatri e fate pazzie maggiori di prima?» (quae [pestilentia] animos miserorum tantis obcaecavit tenebris, tanta deformitate foedavit, ut etiam modo – quod incredibile forsitan erit, si a nostris posteris audietur – Romana Urbe vastata, quos pestilentia ista possedit atque inde fugientes Carthaginem pervenire potuerunt, in theatris cotidie certatim pro histrionibus insanirent. O mentes amentes! quis est hic tantus non error, sed furor, ut exitium vestrum, sicut audivimus, plangentibus orientalibus populis et maximis civitatibus in remotissimis terris publicum luctum maeroremque ducentibus vos theatra quaereretis intraretis impleretis et multo insaniora quam fuerant antea faceretis?, August. De civ. D. I 32-33).

Per Procopio, che scriveva nel VI secolo, le gravi conseguenze del sacco perpetrato dai Goti non si fecero sentire soltanto sulla città di Roma, ma su gran parte dell’Italia: «Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l’arco di una porta o qualcosa del genere, rimasto in piedi per caso. Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia vecchi sia giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l’Italia si trova a essere scarsamente popolata». (πόλεις τε γάρ, ὅσας εἷλον, οὕτω κατειργάσαντο ὥστε οὐδὲν εἰς ἐμὲ αὐταῖς ἀπολέλειπται γνώρισμα, ἄλλως τε καὶ ἐντὸς τοῦ Ἰονίου κόλπου, πλήν γε δὴ ὅτι πύργον ἕνα ἢ πύλην μίαν ἤ τι τοιοῦτο αὐταῖς περιεῖναι ξυνέβη· τούς τε ἀνθρώπους ἅπαντας ἔκτεινον, ὅσοι ἐγένοντο ἐν ποσίν, ὁμοίως μὲν πρεσβύτας, ὁμοίως δὲ νέους, οὔτε γυναικῶν οὔτε παίδων φειδόμενοι. ὅθεν εἰς ἔτι καὶ νῦν ὀλιγάνθρωπον τὴν Ἰταλίαν ξυμβαίνει εἶναι, Procop. Vand. I 2, 11-12).

Ricostruzione di un guerriero visigoto. Illustrazione di A. Gagelmann.

Ciò sembra essere confermato da quanto Rutilio Namaziano scrive nel poema che narra il viaggio da lui intrapreso nel 416 per tornare da Roma a casa sua in Gallia. Egli fu costretto a prendere il mare in quanto il viaggio via terra, lungo l’Aurelia, non era più sicuro perché i ponti erano stati distrutti dai Goti, le stazioni di posta (cursus publicus) non erano più garantite, e lungo la strada si poteva incappare in bande di predoni e mercenari allo sbando: «Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sulle alture sono aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti: è meglio affidare le vele al mare, benché incerto» (Electum pelagus, quoniam terrena viarum / plana madent fluviis, cautibus alta rigent. / Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense vel igne manus / non silvas domibus, non flumina ponte cohercet, / incerto satius credere vela mari, Rutil. Namat. 37-42).

Hubert Robert, Acquedotto in rovina.

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Massimino, il “barbaro” che difese l’Impero

La dinastia severiana, nonostante le sue contraddizioni, aveva rappresentato nel complesso un periodo di stabilità politica e di ripristino di favorevoli condizioni economiche per l’Impero. Il periodo di anarchia politica che le succedette ebbe effetti devastanti sulla compagine stessa dell’Impero, innescando un processo di regressione economica, fatto non nuovo nel mondo romano, ma acuito dalle continue invasioni barbariche. Le fonti storiche e letterarie relative a questo periodo sono confuse e frammentarie, tanto che risulta assai difficile per gli storici ricostruirne con esattezza le convulse vicende; nel complesso, emerge un quadro di estrema incertezza per il futuro, di una profonda inquietudine che scuoteva la granitica certezza dell’invincibilità di Roma.

La critica storica moderna tende a ridimensionare il quadro negativo offerto dalle fonti, e soprattutto l’idea di una crisi totale e dagli effetti disastrosi: se è vero che l’incertezza politica regnava sovrana e i confini erano perennemente in tensione, tuttavia la crisi non colpì allo stesso modo tutte le parti dell’Impero. Sicuramente le più svantaggiate furono le province occidentali, dove più si faceva sentire il peso delle invasioni, mentre nelle province orientali e soprattutto in quelle africane la vita continuò a prosperare sino a tutto il IV secolo. Ma, al di là di queste differenze regionali, è comunque certo che i decenni centrali del III secolo misero in serio pericolo la sopravvivenza dell’Impero come organismo unitario, sia dal punto di vista politico sia da quello socio-economico.

La crisi finanziaria fu allo stesso tempo causa ed effetto dell’indebolimento politico: lo Stato sosteneva enormi spese, soprattutto per il mantenimento delle truppe e la promozione di campagne militari. L’imposizione fiscale straordinaria rappresentava spesso una misura necessaria per far fronte alla mancanza di liquidità. I contadini da una parte, i ceti mercantili provinciali dall’altra vennero a poco a poco spogliati, attraverso requisizioni in natura e imposte straordinarie. Nelle province le ribellioni si moltiplicarono. L’autorità imperiale, per esercitare la sua oppressione, doveva appoggiarsi ai soldati, favorendone in tal modo le richieste e l’indisciplina. L’esercito acquistava forza e l’amministrazione militare iniziava a immischiarsi pericolosamente nella gestione stessa dello Stato: l’Impero stesso era diventato una monarchia militare.

Giulio Vero Massimino il Trace. Denario, Roma 236. AR. 3,7 g. Recto: Maximinus Pius Aug(ustus) Germ(anicus). Testa laureata, drappeggiata e corazzata dell’imperatore, voltata a destra.

Proprio l’importanza via via assunta dalle forze armate, garanti dell’integrità e della stabilità della compagine imperiale, fu dunque densissima di conseguenze: il tumulto di Mogontiacum, che rovesciò la dinastia dei Severi, pose altresì fine unilateralmente all’accordo tra soldati e monarchia. Per tutta quanta la storia imperiale, mai fino ad allora i militari avevano pensato neppure per un attimo a mettere in discussione l’istituto imperiale. D’ora in poi, la loro indispensabilità li avrebbe spinti a eleggere i propri Augusti, esprimendo di volta in volta i propri candidati alla porpora; tratto caratteristico di quest’epoca fu l’oscurità dei prescelti. Disordine interno e minacce esterne all’Impero contribuirono in egual misura a definire il cinquantennio più convulso della storia romana, il cui fenomeno più evidente fu il pullulare di usurpatori, che con la forza delle armi si sarebbero contesi il vertice supremo dello Stato.

In tutto ciò, il Senato, malgrado i tentativi di difendere le sue prerogative, sarebbe rimasto nell’ombra, incapace di far sentire la propria voce e di esercitare un potere reale, tale da garantire una legale successione al trono: di contro, si sarebbe limitato il più delle volte a ratificare ufficialmente una scelta compiuta altrove che a Roma.

Il periodo tra il 235 e il 285 è tradizionalmente definito «anarchia militare» o «età dei Soldatenkaiser»: questa definizione, di comodo come tutte le definizioni storiche, sottolinea la preminenza quasi assoluta dell’elemento militare nella scelta dell’imperatore e allude al fatto che gli eserciti fossero dislocati per blocchi territoriali spesso distanti fra loro, ognuno dei quali proponeva contemporaneamente un proprio candidato.

Giulio Vero Massimino il Trace. Busto togato di profilo, marmo, 235-238 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nel marzo del 235, tra quanti tumultuarono a Mogontiacum contro Severo Alessandro, c’era anche Giulio Vero Massimino, noto in seguito (dal IV secolo) come Massimino il Trace. Costui era originario della regione interna della Tracia, proveniva da una famiglia semi-barbara di pastori (Hdn. VI 8, 1; SHA Maxim. 1, 5; Iord. Get. 15, 83). Dopo una brillante carriera militare nei reparti di cavalleria sotto i Severi, fra il 231 e il 233, durante la spedizione contro i Sassanidi, Massimino era stato tra i generali che avevano guidato vittoriosamente le truppe in Mesopotamia (Hdn. VII 8, 4; Iord. Get. 15, 88). Nel 234 Severo Alessandro lo aveva assegnato in qualità di praefectus tironibus al quadrante renano perché addestrasse i legionari alla prossima guerra contro Alamanni e Franchi.

Detronizzato e tolto di mezzo l’ultimo Severo, Massimino fu acclamato imperator dai soldati nei quartieri di Mogontiacum: fu lui il primo a dare avvio alla lunga serie di effimeri principati, che si susseguirono nel corso di un cinquantennio (Hdn. VI 8,4-5; 9,6; SHA Max. 8,1; Aur. Vict. Caes. 25, 1; Eutrop. 9, 1; CIL VI 2001; 2009; IGR 3, 1213). La tradizione storiografica di parte senatoria – da cui dipende ogni ricostruzione – è unanime nel dire che Massimino fu il primo imperatore proveniente dai ranghi dell’esercito e a essere rivestito della porpora senza il consenso volontario dell’autorevole consesso. Infatti, al Senato, nonostante le fondate remore, più per prudenza che per spontanea adesione, non restò che sanzionare ufficialmente ciò che ormai era un dato di fatto. E dietro il giudizio della tradizione si cela forse la presa d’atto che fin da subito i rapporti fra il nuovo Augustus e i patres non furono certo idilliaci.

Oltre al fatto che non si recò mai nell’Urbe e che ordinò di erigergli una statua nella Curia, la sua costituzione fisica, per i tempi certo fuori dalla norma, ha consentito agli stessi autori antichi di divertirsi costruendo e consegnando l’immagine “barbarica” di un uomo dalle capacità eccezionali, in grado di compiere le azioni più incredibili – tutto l’opposto, cioè, del misuratissimo Severo Alessandro. Il biografo dell’Historia Augusta dice di lui: Erat magnitudine conspicuus, virtute inter omnes milites clarus, forma virili decorus, ferus moribus, asper, superbus, contemptor, saepe tamen iustus (SHA Max. 2, 2, «era un omone di grossa corporatura, famoso per il coraggio in mezzo a tutti i commilitoni, bello d’aspetto, rozzo nei modi, grossolano, pieno di sé, sprezzante, ma spesso giusto»). Erodiano, addirittura, riferisce che «era tale da suscitare timore (φοβερώτατος) con il suo aspetto (τὴν ὄψιν) ed era tanto forzuto (μέγιστος τὸ σῶμα) che nessun guerriero barbaro fra i più abili in combattimento né alcun atleta greco si sarebbe potuto misurare con lui». A proposito dell’altezza di quest’uomo si stima che fosse di 8 piedi e 6 dita, cioè fosse alto m 2, 46.

Massimino il Trace. Illustrazione di Joaquín Santiago García.

Il nuovo imperatore, esperto unicamente nell’arte bellica, iniziò la sua politica di rafforzamento del potere attraverso lauti donativi ai soldati, eliminando chiunque rappresentasse un ostacolo sul proprio cammino; tolse di mezzo soprattutto gli amici e i consiglieri del suo predecessore. Gli atti di crudeltà di cui è accusato fin dai suoi esordi (cfr. SHA Max. 9, 2, neque enim fuit crudelius animal in terris) sono da mettere in relazione proprio con la necessità di consolidare un potere evidentemente non da tutti ben accetto. Infatti, i nostalgici di Severo Alessandro si espressero con due congiure, entrambe scoperte e ferocemente represse, messe in atto da generali appoggiati dal Senato, che mal si adattava a sopportare l’onta di un imperatore-soldato.

Ciò che stava più a cuore a Massimino era la guerra contro le tribù germaniche, che il suo predecessore aveva condotto blandamente. Il nuovo imperatore, anzi, si distinse proprio nello sforzo di ristabilire l’ordine lungo tutto il limes renano e danubiano, come dimostra anche il coevo riattamento di un certo numero di strade in quei settori. Con rapida decisione Massimino attraversò il Reno alla guida dell’esercito radunato da Severo e conseguì un’importante vittoria: il colpo inferto agli Alamanni e alle tribù loro alleate fu così duro da costringerli alla resa senza condizioni (Hdn. VII 2; Aur. Vict. Caes. 26, 1; SHA Max. 11, 7-12, 6). La risonanza del trionfo gli meritò il titolo onorifico di Germanicus Maximus, mentre suo figlio Giulio Massimo fu elevato al rango di Caesar (CIL XIII 8954; RIC 4, 2, 143-144; Aur. Vict. Caes. 25, 2). Poi, nel 236 l’imperatore si portò in Pannonia, dove affrontò vittoriosamente Sarmati e Daci, fregiandosi dei titoli di Sarmaticus Maximus e Dacicus Maximus (CIL II 4757; 4826; 4853; 4870).

Le necessità finanziarie per condurre le campagne contro i barbari inasprirono, a detta delle fonti, il regime autoritario instaurato da Massimino, provocando un odio feroce da parte della popolazione, fomentato ad arte dai senatori, che non aspettavano altro che l’occasione più favorevole per deporlo (Hdn. VII 3).

Un lanciarius del III secolo. Illustrazione di Stefano Borin (Eschbach 2020).

Mentre Massimino si preparava, dal suo quartiere generale a Sirmium, a un ultimo grandioso attacco che si poneva l’ambizioso obiettivo di soggiogare tutte le popolazioni germaniche, la situazione interna precipitò. La sua politica di esazioni, accompagnate da estorsioni e violenze, con prelievi anche dal tesoro pubblico di città e templi, fece aumentare il malcontento un po’ in tutto l’Impero. La prima esplosione di questo risentimento si ebbe a Thysdrus (od. El-Jem), la «capitale dell’olio» dell’Africa proconsularis. Le malversazioni di un funzionario imperiale (fisci procurator in Lybia) spinsero i latifondisti locali ad armare servi e contadini; l’ufficiale fu catturato e ucciso e fu il punto di non ritorno (SHA Max. 14, 1). Gli insorti proclamarono imperatore Marco Antonio Gordiano Semproniano, il proconsole della provincia, virum venerabilem natu grandiorem, omni virtutum genere florentem (SHA Max. 14, 2, «un uomo rispettabile, già avanti negli anni e adorno di ogni virtù»). Suo legato era l’omonimo figlio, Gordiano il Giovane, che fu associato al potere nel 238 (SHA Gord. 5-9; Hdn. VII 5).

L’arrivo nell’Urbe della notizia di quell’avvenimento provocò reazioni entusiastiche e il Senato riconobbe subito il nuovo imperatore, deponendo formalmente Massimino e decretando lui e suo figlio hostes publici, mentre il popolo di Roma assalì i funzionari del Trace: il praefectus praetorio Vitaliano fu assassinato, mentre il praefectus Urbi Sabino fu massacrato dalla folla. L’allargamento in varie province della rivolta spinse il Senato a creare una commissione speciale di XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato (Hdn. VII 7, 2-7; SHA Max. 15, 2; Gord. 9-11; Aur. Vict. Caes. 26).

Nel frattempo, il legatus Augusti pro praetore della Numidia, provincia confinante a ovest con l’Africa, un certo Capelliano, pare forse per motivi personali, decise in quella circostanza di tenersi leale a Massimino: alla testa della legio III Augusta di stanza a Lambaesis (od. Tazoult) il governatore marciò contro le bande dei rivoltosi e, accerchiati i ribelli a Cartagine, il 12 aprile 238 sconfisse i due Gordiani in battaglia (Hdn. VII 9, 11; SHA Max. 19, 20, Gord. 15-16; Zon. 12, 17; ILS 8499).

M. Antonio Gordiano Semproniano. Busto, marmo, III sec. Roma, Musei Capitolini.

La fine dei Gordiani, dopo solo tre settimane di principato, non segnò la fine dell’insurrezione, ormai sanzionata dal Senato, dal popolo di Roma e dalle autorità nella maggior parte delle province. Anzi, gli eventi indussero il venerando consesso a estrarre dal collegio dei XXviri due personaggi eminenti e a nominarli Augusti: Marco Clodio Pupieno e Decimo Calvino Balbino, patres Senatus, come si definirono nelle monete che fecero coniare. Per accontentare anche il popolo romano, il supremo consiglio cooptò come Caesar ai due prescelti il giovanissimo nipote di Gordiano I, appena tredicenne (Hdn. VII 10; AE 1951, 48).

Informato di tutti questi eventi, incollerito, Massimino abbandonò il fronte danubiano per mettersi in marcia verso l’Italia alla testa delle sue armate assieme al figlioletto: distribuiti lauti donativi alle truppe, percorse la via tradizionale per scendere nella Penisola da nord e, dopo una breve tappa a Emona (od. Lubiana), si diresse su Aquileia. Siccome un Senatus consultum diramato in ogni dove ordinava ai governatori provinciali di tagliare i rifornimenti al nemico pubblico, Massimino doveva essere rapido. Nel frattempo, Pupieno si era incaricato di marciare contro di lui e si era diretto a Ravenna, dove aveva posto il proprio quartier generale, mentre Balbino rimaneva a Roma insieme al giovane Gordiano.

Massimino rimase bloccato nell’assedio di Aquileia: la difesa della città era stata predisposta da Menofilo e Crispino nei minimi dettagli e diversi contingenti militari l’avevano raggiunta da ogni parte d’Italia. Impediti nei rifornimenti dai difensori e non avendo possibilità di riuscita nella loro spedizione, gli uomini della legio II Parthica si ribellarono al loro comandante e dopo averlo preso nel mezzo insieme al figlio, lo assassinarono. Le teste dei Massimini, padre e figlio, furono infilzate su picche e portate prima a Ravenna, poi a Roma; i loro corpi, mutilati, furono dati in pasto ai cani; il loro nome fu colpito dalla damnatio memoriae (Hdn. VII 8; 12, 8; VIII 1-5; SHA Max. 21-23; Balb. 11, 2; Zos. 1, 15).

Giulio Vero Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 Æ. 18, 4 g. Obverso: Providentia Aug(usta)S(enatus) c(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, con cornucopia, scettro e globo.

La morte dell’usurpatore, comunque, non ristabilì l’ordine, ma acuì i dissapori interni tra gli imperatori eletti dal Senato e i pretoriani, esclusi dalle lotte politiche. Perciò, nello stesso anno, dopo 99 giorni di governo i due anziani Augusti furono trucidati e le guardie acclamarono il giovane Gordiano III (SHA Gord. 22, 5; Hdn. VIII 8).

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Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

L’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 di Lucio Cornelio Scipione Barbato (𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309)

Nel corso dell’età repubblicana, a Roma, l’epigrafia si prestò a usi molto diversificati anche nella sfera del privato. Come è facile immaginare, il maggior numero di documenti iscritti su pietra proviene dall’ambito funerario: all’iscrizione era affidata la funzione di conservare, comunicare e tramandare ai vivi e ai posteri la 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎 di chi non c’era più. La gamma delle epigrafi funebri è quanto mai varia per scopo e tipologia: da essenziali didascalie recanti semplicemente il 𝑡𝑖𝑡𝑢𝑙𝑢𝑠 (il nome proprio e il patronimico) del defunto a testi più o meno complessi, nei quali alla sequenza onomastica si aggiunge una dedica espressa nella forma dell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚. È questo il caso dell’iscrizione apposta sul sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato (𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309)[1].

Dalla prima metà del III secolo, la prestigiosa casata dei 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑖 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 ebbe il proprio mausoleo appena fuori 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝐶𝑎𝑝𝑒𝑛𝑎, lungo la 𝑣𝑖𝑎 𝐴𝑝𝑝𝑖𝑎, secondo una consuetudine che cominciava proprio allora a consolidarsi in seno all’𝑒́𝑙𝑖𝑡𝑒 gentilizia romana. Accortamente, a questo proposito, Cicerone si domandava: 𝐴𝑛 𝑡𝑢 𝑒𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑢𝑠 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝐶𝑎𝑝𝑒𝑛𝑎, 𝑐𝑢𝑚 𝐶𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑖, 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑢𝑚, 𝑆𝑒𝑟𝑢𝑖𝑙𝑖𝑜𝑟𝑢𝑚, 𝑀𝑒𝑡𝑒𝑙𝑙𝑜𝑟𝑢𝑚 𝑠𝑒𝑝𝑢𝑙𝑐𝑟𝑎 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑠, 𝑚𝑖𝑠𝑒𝑟𝑜𝑠 𝑝𝑢𝑡𝑎𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑜𝑠? (Cɪᴄ. 𝑇𝑢𝑠𝑐. I 7, 13, «Ma tu, quando esci da Porta Capena e vedi i sepolcri di Calatino, degli Scipioni, dei Servili e dei Metelli, li diresti dei poveracci?»). In effetti, la felice posizione e collocazione di questi sepolcreti appena fuori dagli accessi principali dell’Urbe, lungo gli assi viari più importanti, consentiva ai membri delle 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒𝑠 di celebrare la gloria degli avi ed esaltare la propria autorappresentazione.

Il testo di 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309 si configura come un vero e proprio 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 e costituisce a tutti gli effetti la più antica attestazione nota di un 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑢𝑚:

[𝐿(𝑢𝑐𝑖𝑜𝑠)] 𝐶̲𝑜̲𝑟̲𝑛̲𝑒̲𝑙̲𝑖̲𝑜(𝑠) 𝐶𝑛(𝑎𝑒𝑖) 𝑓(𝑖𝑙𝑖𝑜𝑠) 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜.

〚——〛

〚—〛𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑢𝑠 𝐿𝑢𝑐𝑖𝑢𝑠 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜 𝐵𝑎𝑟𝑏𝑎𝑡𝑢𝑠 𝐺𝑛𝑎𝑖𝑢𝑜𝑑 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑒

𝑝𝑟𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑢𝑠 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑖𝑠 𝑢𝑖𝑟 𝑠𝑎𝑝𝑖𝑒𝑛𝑠𝑞𝑢𝑒 – 𝑞𝑢𝑜𝑖𝑢𝑠 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑢𝑖𝑟𝑡𝑢𝑡𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑖𝑠𝑢𝑚𝑎

𝑓𝑢𝑖𝑡 – 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑜𝑙, 𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟, 𝑎𝑖𝑑𝑖𝑙𝑖𝑠, 𝑞𝑢𝑒𝑖 𝑓𝑢𝑖𝑡 𝑎𝑝𝑢𝑑 𝑢𝑜𝑠 – 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑎 𝐶𝑖𝑠𝑎𝑢𝑛𝑎

𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑜 𝑐𝑒𝑝𝑖𝑡 – 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑔𝑖𝑡 𝑜𝑚𝑛𝑒 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎𝑚 – 𝑜𝑝𝑠𝑖𝑑𝑒𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑎𝑏𝑑𝑜𝑢𝑐𝑖𝑡.

Come annotò Adriano La Regina (1968, 173), il sarcofago di Scipione Barbato ha suscitato più di una volta l’attenzione dell’indagine storico-filologica per la complessità e l’importanza dei problemi che esso pone. E, come talvolta avviene anche per i monumenti entrati nel patrimonio delle più comuni conoscenze e divenuti capisaldi della ricostruzione storica, si può dire che sotto certi aspetti lo studio del documento sia stato tutt’altro che completo e definitivo.

Sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309). Nenfro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla 𝑣𝑖𝑎 𝐴𝑝𝑝𝑖𝑎.

Con la locuzione 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑢𝑚 i Romani intendevano quella successione gerarchia, progressiva e sequenziale che caratterizzava la “carriera politica” del cittadino libero durante l’età repubblicana (in particolare, nell’ultima fase di quest’epoca), mentre al tempo in cui visse il personaggio commemorato dall’iscrizione evidentemente non esisteva ancora una ben definita e sistematica successione delle magistrature. Tra l’altro, va ricordato, l’unica vera magistratura (𝑚𝑎𝑔𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑢𝑠) era il consolato; le altre cariche “ordinarie”, difatti, che di volta in volta erano create per le più svariate ragioni di contingenza e di necessità, erano ritenute “satelliti”. In altre parole, queste magistrature erano istituite per supplire le funzioni dei 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙𝑒𝑠, qualora questi ultimi si fossero trovati impegnati in lunghe campagne militari all’estero o per accontentare i 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖𝑖 più intransigenti ogniqualvolta che i plebei ottenessero l’accesso alle cariche più prestigiose.

Uno dei primi problemi sollevati da 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309 riguarda l’etimologia di 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚, di cui gli studiosi hanno dato diverse interpretazioni. Theodor Mommsen e Georg Götz, alla fine del XIX secolo, avevano supposto che il termine andasse posto in relazione con il verbo 𝑒̄𝑙𝑖̆𝑔𝑒̆𝑟𝑒 (“scegliere”, “selezionare”), intendendo quindi l’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 come la “selezione”, “cernita”, negli archivi privati delle grandi famiglie romane, di memorie e tradizioni sul conto dei loro membri più cospicui. Secondo altri studiosi, invece, l’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 andrebbe concepito come forma di autorappresentazione veicolata dal 𝑐𝑙𝑎𝑛 verso l’esterno e, pertanto, ricondotta al campo semantico di 𝑒𝑙𝑜𝑞𝑢𝑖𝑢𝑚 e 𝑙𝑜𝑞𝑢𝑖. Joseph M. Stowasser è stato il primo ad accostare il lat. 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 al gr. εὐλογία (dal verbo εὐλογεῖν, “parlare bene di [qualcuno]”) e, sulla scorta di Ernst R. Curtius e Christian Hülsen – allievi del Mommsen –, estese questa considerazione al genere elegiaco, il cui schema metrico si caratterizza per l’avvicendamento di distici di esametri e pentametri. Per avallare la loro tesi, proprio Curtius e Hülsen, presero in considerazione un passo di Aulo Gellio, il quale, a sua volta, cita un estratto dalle 𝑂𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑒𝑠 di Marco Porcio Catone Censore, in cui si narra l’episodio del valoroso tribuno Quinto Cedicio: nel corso della prima guerra punica, in Sicilia, Cedicio suggerì al proprio comandante di affidargli un gruppo di quattrocento uomini con il quale si sarebbe attestato in una stretta gola per tenervi impegnato il nemico e consentire al console di prenderlo alle spalle con il resto dell’esercito. Il piano, di per sé, fu un vero successo: la mossa escogitata dal tribuno militare fu una trappola mortale per i Cartaginesi; ma, nel corso del combattimento, lo stesso Cedicio e tutti i suoi perirono (Gᴇʟʟ. 𝑁𝑜𝑐𝑡. 𝐴𝑡𝑡. III 7, 19). Il generale di Cedicio era 𝐴. 𝐴𝑡𝑖𝑙𝑖𝑢𝑠 𝐴. 𝑓. 𝐶. 𝑛. 𝐶𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑢𝑠, console del 258, che Cicerone menziona spesso come uomo dalle virtù esemplari e del quale, ai suoi tempi, era ancora possibile vedere il sepolcro, identificato dagli studiosi moderni con la cosiddetta “Tomba Arieti” presso la 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝐸𝑠𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑛𝑎 di Roma. L’Arpinate, fra l’altro, riporta testualmente il distico elegiaco che doveva campeggiare sul sarcofago del personaggio: 𝐻𝑢𝑛𝑐 𝑢𝑛𝑢𝑚 𝑝𝑙𝑢𝑟𝑖𝑚𝑎𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑢𝑛𝑡 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒𝑠 / 𝑝𝑜𝑝𝑢𝑙𝑖 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎𝑟𝑖𝑢𝑚 𝑓𝑢𝑖𝑠𝑠𝑒 𝑢𝑖𝑟𝑢𝑚 (Cɪᴄ. 𝑆𝑒𝑛. 61, «La maggior parte delle 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒𝑠 conviene (nel dire) / che costui fu l’uomo più importante di (tutto) il popolo»).

Il frammento catoniano, secondo i due filologi tedeschi, istituirebbe un evidente confronto con l’𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑢𝑚 ben noto di re Leonida e i suoi trecento spartiati alle Termopili, celebrati dal poeta Simonide di Ceo (Sɪᴍᴏɴ. F 531 Page). Gellio racconta che al tribuno e ai suoi soldati furono dedicati dei 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎 – un nome collettivo con cui i Romani designavano 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑎, 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑎𝑒, 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎, ℎ𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎𝑒, ecc.).

Tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo gli studiosi hanno sostenuto l’ipotesi per la quale gli 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 fossero strettamente collegati con la pratica delle 𝑙𝑎𝑢𝑑𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 𝑓𝑢𝑛𝑒𝑏𝑟𝑒𝑠, come si desume dalla descrizione piuttosto dettagliata riportata da Polibio (Pᴏʟʏʙ. VI 53):

Ὅταν γὰρ μεταλλάξῃ τις παρ’ αὐτοῖς τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν, συντελουμένης τῆς ἐκφορᾶς κομίζεται μετὰ τοῦ λοιποῦ κόσμου πρὸς τοὺς καλουμένους ἐμβόλους εἰς τὴν ἀγορὰν ποτὲ μὲν ἑστὼς ἐναργής, σπανίως δὲ κατακεκλιμένος. πέριξ δὲ παντὸς τοῦ δήμου στάντος, ἀναβὰς ἐπὶ τοὺς ἐμβόλους, ἂν μὲν υἱὸς ἐν ἡλικίᾳ καταλείπηται καὶ τύχῃ παρών, οὗτος, εἰ δὲ μή, τῶν ἄλλων εἴ τις ἀπὸ γένους ὑπάρχει, λέγει περὶ τοῦ τετελευτηκότος τὰς ἀρετὰς καὶ τὰς ἐπιτετευγμένας ἐν τῷ ζῆν πράξεις. δι’ ὧν συμβαίνει τοὺς πολλοὺς ἀναμιμνησκομένους καὶ λαμβάνοντας ὑπὸ τὴν ὄψιν τὰ γεγονότα, μὴ μόνον τοὺς κεκοινωνηκότας τῶν ἔργων, ἀλλὰ καὶ τοὺς ἐκτός, ἐπὶ τοσοῦτον γίνεσθαι συμπαθεῖς ὥστε μὴ τῶν κηδευόντων ἴδιον, ἀλλὰ κοινὸν τοῦ δήμου φαίνεσθαι τὸ σύμπτωμα.

Quando fra loro muore un personaggio in vista, durante la celebrazione delle esequie, egli viene trasportato, con tutti gli onori, presso i cosiddetti 𝑅𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎, nel Foro, a volte in posizione eretta, in modo da essere ben visibile, raramente adagiato. Mentre tutto il popolo gli sta attorno, un figlio – se il morto ne ha lasciato uno in età adulta e se questi si trova presente –, o altrimenti, se c’è, un altro membro della famiglia, sale sulla tribuna e parla delle virtù del defunto e dei successi da lui conseguiti in vita. L’effetto di ciò è che la folla, ricordando e richiamando alla mente l’accaduto – non solo coloro che hanno preso parte ai fatti, ma anche gli estranei –, sia tanto commossa che non sembra trattarsi di una disgrazia privata, limitata alle persone in lutto, ma comune a tutto il popolo.

Scena di compianto funebre. Dettaglio di un rilievo su sarcofago, marmo, I sec. Paris, Musée National du Moyen Age

Il cerimoniale romano, insomma, prevedeva che il membro più importante del 𝑐𝑙𝑎𝑛 gentilizio prendesse la parola e tenesse un’orazione pubblica per “elogiare” il 𝑑𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠. Nella 𝑙𝑎𝑢𝑑𝑎𝑡𝑖𝑜, in maniera abbastanza schematica, l’oratore ripercorreva tutta l’esistenza del congiunto scomparso, celebrandone il carattere, le virtù etiche, le competenze civiche e militari, passando in rassegna le sue azioni e commemorandone il ruolo svolto per la comunità. In altre parole, si esaltava la 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑠 del personaggio, cioè la sua capacità di farsi notare in pubblico, in relazione all’utilità che l’intero corpo civico ne aveva tratto. Polibio, da straniero, nota acutamente come fra i Quiriti imperasse una sorta di “fame di potere”, da intendersi non come la frenesia di accaparrarsi un posto di comando sopra e a scapito degli altri, bensì come la volontà di rivestire a tutti i costi delle cariche pubbliche, pur di nobilitare se stessi, illustrare la propria casata e giovare alla “cosa pubblica”. È risaputo che nella società romana l’individuo fosse subordinato alla collettività. Esemplare, a questo proposito, fu Quinto Fabio Massimo “il Temporeggiatore”: costui, a seguito della disfatta cannense (216), s’impegnò personalmente, dando fondo al proprio patrimonio, per riscattare i concittadini caduti prigionieri nelle mani di Annibale. A conti fatti, Fabio Massimo non domandò nulla come risarcimento al Senato, né alle famiglie dei riscattati, ma ne ottenne l’infinita gratitudine, aumentando a dismisura la propria fama. Nella società romana, dunque, gli individui agivano per ottenere la miglior forma di glorificazione (la 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑠), nel solco di una comunità più funzionale di quanto non lo fosse la loro stessa persona. Di qui, perciò, l’uso di far redigere iscrizioni, la costruzione di monumenti ed edifici pubblici, i cerimoniali funebri, lo 𝑖𝑢𝑠 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑢𝑚, ecc.

Il sarcofago di Scipione Barbato è costituito da una cassa di peperino, una roccia magmatica molto comune sui Colli Albani, lunga circa 1,42 m, l’unica nel mausoleo ad avere un’elaborata decorazione architettonica. Il sepolcro, infatti, fu concepito come un vero e proprio altare dalla struttura sensibilmente rastremata, modanata alla base e ornata nella sua sezione superiore con un fregio dorico (con tanto di triglifi e metope, riempite da rosoni a rilievo diversi l’uno dall’altro). Il coperchio presenta un bordo scolpito secondo lo schema ionico di una σιμά e un γεῖσον con dentellatura, su cui poggiano due 𝑝𝑢𝑙𝑣𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖̆𝑎 (“cuscini”).

Più volte è stato sottolineato dagli esperti che la collocazione del mausoleo sull’𝐴𝑝𝑝𝑖𝑎 – fatta costruire da Appio Claudio Cieco nel 312 – fosse in stretta connessione alla famiglia di Scipione Barbato, in quanto principale promotrice dell’espansionismo romano verso la 𝑀𝑎𝑔𝑛𝑎 𝐺𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑎. Con ogni probabilità, i 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑖 intrattenevano rapporti con le comunità grecaniche del Meridione già dalla fine del IV secolo, comunità presso le quali – come è noto – erano diffuse le dottrine pitagoriche. A questo proposito, Plinio il Vecchio spiegava che nell’area del 𝐶𝑜𝑚𝑖𝑡𝑖𝑢𝑚, nel Foro romano, 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖, era stata posta, fra le altre, anche una statua che raffigurava nientemeno che lo stesso Pitagora (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 12, 26). Da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑁𝑢𝑚. 8, 18) si apprende l’esistenza di una tradizione presso gli 𝐴𝑒𝑚𝑖𝑙𝑖𝑖 𝑀𝑎𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑛𝑖, in base alla quale vantavano legami di parentela con il filosofo; pare che alcuni esponenti di questo 𝑐𝑙𝑎𝑛 fossero stati stretti collaboratori degli 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 come veicolo di diffusione nell’Urbe delle dottrine politico-sociali provenienti dalle realtà suditaliche.

Mausoleo dei 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑖 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠, III-II secolo a.C. sulla 𝑣𝑖𝑎 𝐴𝑝𝑝𝑖𝑎.

Bisogna dunque pensare che la società romana, agli inizi del III secolo, fosse particolarmente raffinata e acculturata: gli esponenti delle 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒𝑠 erano in stretto contatto con le città magnogreche, dalle quali apprendevano lingua, costumi, stili e altri spunti per la definizione delle virtù politiche: se si tiene conto di ciò, allora appare più chiaro il motivo per cui Scipione Barbato nell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 sia ricordato come 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑖𝑠 𝑢𝑖𝑟 𝑠𝑎𝑝𝑖𝑒𝑛𝑠𝑞𝑢𝑒, formula che sembra trovare perfetta aderenza al greco καλὸς καὶ ἀγαθός (“bello e buono”). Va inoltre ricordato come i Romani spesso discettassero sulla vera natura del concetto di 𝑠𝑎𝑝𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎, ovvero la capacità empirica di prevedere gli effetti delle proprie e delle altrui azioni, che la persona apprendeva con il tempo e l’esperienza. Insomma, dati questi elementi, è chiaro che quella romana, tra IV e III secolo, fu tutt’altro che una società monolitica, grezza e chiusa (come spesso si è voluto rappresentarla) e la cultura ellenica vi svolse, indubbiamente, un ruolo fondamentale nel processo di acculturazione e di formazione.

Gioacchino De Angelis D’Ossat (1936), per primo, si occupò di studiare i materiali repertati nel mausoleo degli 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 e i sarcofagi in ispecie. Reinhard Herbig (1952, 124) ipotizzò che la pietra utilizzata per la loro realizzazione fosse nenfro, una tipologia di tufo grigio molto diffusa nell’Alto Lazio.

Quanto alla sequenza onomastica che Attilio Degrassi riportò alla r. 1 di 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309 (1957, 178) – [𝐿(𝑢𝑐𝑖𝑜𝑠)] 𝐶̲𝑜̲𝑟̲𝑛̲𝑒̲𝑙̲𝑖̲𝑜(𝑠) 𝐶𝑛(𝑎𝑒𝑖) 𝑓(𝑖𝑙𝑖𝑜𝑠) 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜 – corrisponde al testo che doveva comparire sul 𝑝𝑢𝑙𝑣𝑖𝑛𝑎𝑟 del coperchio come 𝑡𝑖𝑡𝑢𝑙𝑢𝑠 𝑝𝑖𝑐𝑡𝑢𝑠, cioè realizzato con rubricatura, ma non inciso. La sequenza, composta da 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛, 𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛, 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖𝑐𝑢𝑠, 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛, secondo l’uso arcaico, presentava un’uscita in -𝑜𝑠 (non ancora “oscurata”) del 𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑙𝑖𝑐𝑖𝑢𝑚. Christian Hülsen (𝐶𝐼𝐿 VI 31587) osservò che, quando i testi delle iscrizioni del mausoleo furono pubblicati da Ennio Q. Visconti nel 1785 e riprodotti da Giovanni Battista Piranesi, mostravano la sequenza onomastica “normalizzata” in 𝐿. 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑢𝑠 𝐶𝑛. 𝑓. 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜. I testi furono poi ricopiati fedelmente nelle schede di Gaetano Marini (1742-1815), Prefetto dell’Archivio Pontificio e Primo Custode della Biblioteca Apostolica Vaticana. Secondo Raffaele Garrucci (1877), Piranesi non aveva riprodotto il testo del sarcofago nella maniera più fedele: le lettere 𝑙 ed 𝑛 dell’iscrizione sul manufatto appaiono, in realtà, incise secondo l’uso arcaico, cioè con un’inclinazione destrorsa. Nella sezione successiva, Garrucci leggeva le lettere 𝑒 𝑠 𝑡, mentre Hülsen (che anche lui volle osservare di persona il sarcofago) riteneva che al di sopra del termine 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑖𝑠, nella parte di testo mancante, si potessero intravedere, leggermente abrase, 𝑒 𝑠 𝑜, che riconduceva a un ipotetico (𝑐)𝑒(𝑛)𝑠𝑜(𝑟). La tesi che va per la maggiore sulla base di questi saggi è che quelle lettere fossero i resti di un originario 𝑡𝑖𝑡𝑢𝑙𝑢𝑠 𝑝𝑖𝑐𝑡𝑢𝑠, sostituito in seguito da una prima forma di epigrafe, riportante una sintesi degli ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒𝑠 rivestiti dal defunto, successivamente erasa e rifatta in posizione più bassa.

A una prima lettura, il testo epigrafico mette in luce alcuni caratteri formali piuttosto curiosi, a partire dalla sequenza onomastica: mentre sul coperchio gli elementi del nome, benché in un latino arcaico, erano collocati in successione canonica, nella parte di testo riportata sulla cassa il gentilizio precede il 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 – tra l’altro, non abbreviato; tutti i nominativi di II declinazione presentano la vocale tematica già oscurata in -𝑢𝑠. Nella sequenza compare anche il 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛: va precisato che tra il IV e il III secolo l’onomastica latina era piuttosto fluida; difatti, almeno sui documenti ufficiali, gli esponenti del patriziato non facevano apporre anche il 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 (“soprannome”). Per esempio, presso la 𝑔𝑒𝑛𝑠 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑎, solo i discendenti del 𝐶𝑢𝑛𝑐𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟 (“Temporeggiatore”) portavano il soprannome di 𝑀𝑎𝑥𝑖𝑚𝑢𝑠. I 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 entrarono stabilmente nell’uso pubblico nel momento in cui le ramificazioni di uno stesso 𝑐𝑙𝑎𝑛 erano tali che i legami di sangue non erano più facilmente rilevabili. Perciò non doveva essere inconsueto che fra i 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑖 vi fosse un ramo degli 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 𝐵𝑎𝑟𝑏𝑎𝑡𝑖 o 𝐵𝑎𝑟𝑏𝑎𝑡𝑖 soltanto. La questione è ulteriormente complicata dal modo in cui le fonti letterarie trattano l’onomastica dei grandi personaggi del passato: solo a partire dal III secolo, i 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 patrizi cominciarono a differenziarsi. I più antichi erano “soprannomi” derivanti da caratteristiche fisiche o particolari virtù morali, o ancora da indicazioni toponomastiche. In quest’ultimo caso, i membri di alcune famiglie legavano a sé il nome di un luogo, spesso quello di nascita: per esempio, i 𝑀𝑎𝑛𝑙𝑖𝑖 e i 𝑄𝑢𝑖𝑛𝑐𝑡𝑖𝑖 erano detti 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑖𝑛𝑖, per il fatto che i loro avi avessero abitato il Campidoglio. Ancora, i 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 spesso derivavano da difetti fisici o comportamentali, e portarli non era considerato motivo di disonore o vergogna. Con l’andare del tempo, tuttavia, i Romani persero cognizione del motivo per cui i loro avi avessero lasciato in eredità certi “soprannomi”, spesso bizzarri; pertanto, spesso cercavano di darsene ragione costruendo racconti eziologici fantasiosi:

𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑖𝑛𝑑𝑒: 𝑃𝑖𝑙𝑢𝑚𝑛𝑖, 𝑞𝑢𝑖 𝑝𝑖𝑙𝑢𝑚 𝑝𝑖𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑢𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑡, 𝑃𝑖𝑠𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑎 𝑝𝑖𝑠𝑒𝑛𝑑𝑜, 𝑖𝑎𝑚 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑜𝑟𝑢𝑚, 𝐿𝑒𝑛𝑡𝑢𝑙𝑜𝑟𝑢𝑚, 𝐶𝑖𝑐𝑒𝑟𝑜𝑛𝑢𝑚, 𝑢𝑡 𝑞𝑢𝑖𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑎𝑙𝑖𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑜𝑝𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑢𝑠 𝑠𝑒𝑟𝑒𝑟𝑒𝑡…

Connessi all’agricoltura sono anche i 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 più antichi: Pilumno, perché aveva inventato il pestello per i mulini, Pisone dal verbo 𝑝𝑖𝑠𝑒̆𝑟𝑒 (“macinare”), e poi i 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑖, i 𝐿𝑒𝑛𝑡𝑢𝑙𝑖, i 𝐶𝑖𝑐𝑒𝑟𝑜𝑛𝑒𝑠, a seconda del legume che erano più abili a seminare (…).

Queste curiose etimologie, riportate da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XVIII 3, 10), mettono il nome dei 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑖 in collegamento con 𝑓𝑎𝑏𝑎 (“fava”), quello dei 𝐿𝑒𝑛𝑡𝑢𝑙𝑖 con 𝑙𝑒𝑛𝑠 (“lenticchia”), e quello dei 𝐶𝑖𝑐𝑒𝑟𝑜𝑛𝑒𝑠 con 𝑐𝑖𝑐𝑒𝑟 (“cece”).

Tornando a 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309, al testo normalizzato con i nominativi uscenti in -𝑢𝑠 fa da contraltare la formula 𝐺𝑛𝑎𝑖𝑢𝑜𝑑 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑒 / 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑢𝑠, dove il primo elemento riprende l’arcaica desinenza dell’ablativo singolare della II declinazione (-𝑜𝑑), contiene il dittongo aperto -𝑎𝑖- di chiara influenza ellenica e conserva la confusione grafica tra 𝐺 e 𝐶. Si suppone che il prenome 𝐺𝑛𝑎𝑒𝑢𝑠 (“Gneo”) abbia origini etrusche: l’epigrafia funebre di area tirrenica risalente al IV secolo, difatti, attesta il nome 𝐶𝑛𝑒𝑢𝑒. Gli studiosi sospettano una probabile manipolata artificiosità del testo iscritto sul sarcofago di Barbato e alcuni sono convinti che queste “patine” arcaizzanti, pseudo-greche siano palesemente volute e manierate.

L’espressione 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑒 / 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑢𝑠, poi, appartiene a quel codice linguistico con cui, dal III secolo in poi, gli aristocratici romani tendevano a farsi rappresentare. A tal proposito, Matteo Massaro (2008, 52) ha osservato che l’inversione fra il 𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑙𝑖𝑐𝑖𝑢𝑚 e il 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 e fra il 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛 e il 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖𝑐𝑢𝑠 potrebbe aver avuto ragioni metriche, oltre che chiare funzioni propagandistiche. Non è un caso, infatti, che nel registro “burlesco” della commedia plautina questo codice autorappresentativo fosse spesso motteggiato: non rare, infatti, sono le scene in cui buffoni, fanfaroni e altri personaggi di dubbia origine si vantino di essere dei 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑖.

Stando all’espressione 𝑠𝑎𝑝𝑖𝑒𝑛𝑠𝑞𝑢𝑒, Scipione Barbato doveva essere dotato di quella virtù che i Greci chiamavano φρόνησις, che si potrebbe tradurre come “accortezza politica”, diversa dalla σωφροσύνη, che indica la “moderazione” e la “temperanza”, e dalla σοφία, ossia la “saggezza che deriva dalla dottrina” (corrispondente alla latina 𝑠𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎). Coraggio, audacia e prontezza d’azione derivavano all’uomo romano dalla preparazione e dalla saggezza, cioè dalla formazione e dall’esperienza (chi era preparato, sapeva prendere decisioni previdenti e non avventate). I Romani, insomma, esaltavano nella 𝑠𝑎𝑝𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎 della persona non solo l’avvedutezza, ma anche la capacità di “agire bene” (cfr. Pesando 1990; Pignatelli 2001).

Il sintagma successivo 𝑞𝑢𝑜𝑖𝑢𝑠 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑢𝑖𝑟𝑡𝑢𝑡𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑖𝑠𝑢𝑚𝑎 / 𝑓𝑢𝑖𝑡 si può ben avvicinare all’ideale greco arcaico della καλοκαγαθία, la massima perfezione umana, l’unione nella stessa persona della “bellezza” e della “bontà” morale. Di conseguenza, nell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 di Scipione Barbato sembra esserci un tentativo di appropriazione di tale principio straniero e di renderlo “romano”. Sul piano morfologico, si nota che 𝑞𝑢𝑜𝑖𝑢𝑠 sia la forma antica di 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠, il dativo 𝑢𝑖𝑟𝑡𝑢𝑡𝑒𝑖 presenta l’originale desinenza con dittongo aperto dei nomi della III declinazione e 𝑝𝑎𝑟𝑖𝑠𝑢𝑚𝑎, che sta per il classico 𝑝𝑎𝑟𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑎, indica al superlativo assoluto la totale identificazione tra le virtù morali e spirituali e la bellezza fisica del defunto. Massaro (2008) ha ipotizzato che 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 fosse un esplicito riferimento a un ritratto dello stesso Barbato che, anticamente, doveva essere posto sopra il sarcofago, secondo un uso ravvisabile presso gli Etruschi.

Di seguito, inizia quella parte di testo che sicuramente richiama elementi più arcaizzanti e più propriamente quiritari. Innanzitutto, si indicano le cariche pubbliche che il 𝑑𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠 rivestì in vita: 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑜𝑙, 𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟, 𝑎𝑖𝑑𝑖𝑙𝑖𝑠. All’epoca di Scipione Barbato (fine IV – inizi III secolo), com’è noto, non esisteva ancora un 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑢𝑚 e l’unica vera e propria magistratura era il consolato. Ma nel corso dei decenni, la rapida estensione dell’egemonia dell’Urbe sull’Italia centro-meridionale e i primi conflitti con le genti esterne, nonché l’ingresso nella 𝑟𝑒𝑠 𝑝𝑢𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎 di nuovi elementi, se non interi gruppi gentilizi, comportarono il proliferare di nuovi ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒𝑠 oltre il consolato, che assunsero, a poco a poco, la dignità magistratuale. L’iscrizione sul sarcofago, dunque, mostra la successione delle cariche ricoperte da quella che normalmente era considerata la più importante: il nome 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑜𝑙 presenta un’uscita priva di oscuramento (è molto probabile che, all’epoca, si pronunciasse in questo modo). Tuttavia, siccome l’epigrafia latina, in genere, mostra l’abbreviazione in 𝑐𝑜𝑠 o l’estensione in 𝑐𝑜𝑠𝑜𝑙, il fatto che in questo caso il termine sia riportato per intero lascia pensare che si tratti di un falso arcaismo. Del secondo titolo, 𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟, già si è detto, ricordando che l’editore Hülsen aveva ravvisato sulla cassa del sarcofago le tenui tracce di una rubricatura; ulteriore spia di arcaismo affettato è l’incisione della parola per intero. Infine, la terza carica, 𝑎𝑖𝑑𝑖𝑙𝑖𝑠, presenta l’originario dittongo in 𝑎𝑖. Ora, dato che all’epoca di Barbato non esisteva una determinata successione delle cariche pubbliche, è probabile che egli le avesse esercitate una di seguito all’altra come riferito dall’iscrizione; ma è anche vero che l’epigrafe non determina per forza un ordine crescente o decrescente, perciò si potrebbe ipotizzare che quegli ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒𝑠 siano stati disposti nell’ordine giudicato più opportuno: il consolato, con cui il defunto illustrò se stesso e la propria famiglia, compiendo imprese degne di memoria; la censura, che misurava il prestigio e il carisma della persona; l’edilità, che dava prova dell’impegno dell’uomo verso la 𝑐𝑖𝑣𝑖𝑡𝑎𝑠.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini

Fu solo con la 𝑙𝑒𝑥 𝑉𝑖𝑙𝑙𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑛𝑎𝑙𝑖𝑠, un plebiscito fatto approvare nel 180 dall’omonimo tribuno della plebe, Lucio Villio, che si stabilì 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑢𝑠 𝑜𝑟𝑑𝑜 𝑚𝑎𝑔𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑢𝑢𝑚, disciplinando la carriera politica dei cittadini. Il provvedimento imponeva un’età minima per l’accesso alle diverse magistrature e l’osservanza di un intervallo obbligatorio minimo di due anni tra un mandato e l’altro. Con questa legge la 𝑞𝑢𝑎𝑒𝑠𝑡𝑢𝑟𝑎 divenne una carica elettiva a tutti gli effetti, con il prerequisito di aver prestato almeno dieci anni di servizio militare (𝑑𝑒𝑐𝑒𝑚 𝑠𝑡𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑖𝑎). A 37 anni si poteva essere eletti 𝑎𝑒𝑑𝑖𝑙𝑒𝑠, a 40 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑜𝑟𝑒𝑠 e a 43 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙𝑒𝑠. La funzione del dispositivo era quella di assicurare un regolare avvicendamento al potere dei cittadini, evitando che gli individui più spregiudicati, da semplici 𝑝𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑖, ottenessero un 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑖𝑢𝑚 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙𝑎𝑟𝑒, arruolassero eserciti in proprio e gestissero i propri affari, pur compiendo missioni per il bene della 𝑟𝑒𝑠 𝑝𝑢𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎.

La formula 𝑞𝑢𝑒𝑖 𝑓𝑢𝑖𝑡 𝑎𝑝𝑢𝑑 𝑢𝑜𝑠 è un esempio di enfasi pleonastica, che si ritrova pressoché identica anche nell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 del figlio di Barbato (𝐶𝐼𝐿 VI 1287), l’omonimo Lucio Cornelio Scipione, console nel 259, il cui sepolcro era posto nello stesso mausoleo. È molto probabile che il pleonasmo doveva sottolineare l’unicità e l’eccezionalità del defunto rispetto al corpo civico, nonché il suo vanto di essere stato egli stesso un 𝑐𝑖𝑣𝑖𝑠 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛𝑢𝑠.

Nelle ultime due righe dell’iscrizione si indicano sinteticamente i principali successi conseguiti da Barbato, evidentemente durante il consolato. Con ogni probabilità, questa porzione di testo non doveva far parte dell’originaria redazione in rubricatura, né nella prima versione incisa. Adriano La Regina (1968) notò che l’epitaffio altro non era che la trascrizione di alcuni passi più significativi della 𝑙𝑎𝑢𝑑𝑎𝑡𝑖𝑜 𝑓𝑢𝑛𝑒𝑏𝑟𝑖𝑠, recitata alle esequie. Sulla stessa linea, Fausto Zevi (1969-70, 69) dimostrò che l’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 fu, in realtà, il risultato di una sintesi estremamente elaborata ed efficacissima – al punto da sembrare evocativa – di quegli elementi che il discorso funebre dovette affrontare più diffusamente.

Le questioni più complesse sorsero quando gli interpreti moderni tentarono di vagliare, alla luce delle notizie pervenute da altra fonte, la veridicità delle 𝑔𝑒𝑠𝑡𝑎𝑒 di Barbato, console nel 298. Le discrepanze apparvero effettivamente inconciliabili e le diverse soluzioni proposte convennero, in linea di massima, nel riporre meno fiducia nella testimonianza più antica e diretta che nelle rielaborazioni dell’annalistica. Alcuni studiosi avrebbero aggirato il problema con un’imputazione di “falso ideologico” nei confronti della stessa 𝑔𝑒𝑛𝑠 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑎, che avrebbe esaltato nel suo avo meriti inesistenti. Filippo Coarelli (1999) evidenziò che le incongruenze tra 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309 e due passi liviani (Lɪᴠ. X 41, 9-14) sarebbero più apparenti che reali, sospettando che, in realtà, l’autore dell’iscrizione intendesse celebrare le imprese di Barbato in qualità di 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑢𝑠 nel 293. Tito Livio segue una tradizione che colloca la missione di Scipione Barbato in 𝐸𝑡𝑟𝑢𝑟𝑖𝑎 e quella del collega Gneo Fulvio Massimo Centumalo nel 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑢𝑚, mentre l’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 non accenna minimamente agli Etruschi, anzi, attribuisce la conquista del 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑢𝑚 espressamente allo stesso Scipione (𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑜 𝑐𝑒𝑝𝑖𝑡). La fonte liviana, dunque, ignora completamente le presunte operazioni militari di Barbato contro i Sanniti e i Lucani, concordando piuttosto con i 𝑓𝑎𝑠𝑡𝑖 𝑡𝑟𝑖𝑢𝑚𝑝ℎ𝑎𝑙𝑒𝑠, che in corrispondenza con l’anno 298 (= 456 𝑎.𝑈.𝑐.) accredita la vittoria 𝑑𝑒 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑡𝑖𝑏𝑢𝑠 𝐸𝑡𝑟𝑢𝑠𝑐𝑒𝑖𝑠𝑞𝑢𝑒 a Centumalo. Inoltre, Livio racconta che la campagna assegnata a Scipione incontrò non poche difficoltà, essendo i nemici particolarmente agguerriti e militarmente preparati.

Ricostruzione del sepolcro di L. Cornelio Scipione Barbato, da J.E. Sandys, 𝐴 𝐶𝑜𝑚𝑝𝑎𝑛𝑖𝑜𝑛 𝑡𝑜 𝐿𝑎𝑡𝑖𝑛 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖𝑒𝑠, Cambridge 1913

Secondo Mommsen, nel 298, il Senato avrebbe decretato che entrambi i consoli si occupassero della guerra contro i Sanniti: Centumalo avrebbe sconfitto i nemici a 𝐵𝑜𝑢𝑖𝑎𝑛𝑢𝑚 e ad 𝐴𝑢𝑓𝑖𝑑𝑒𝑛𝑎, mentre Barbato avrebbe assediato ed espugnato gli 𝑜𝑝𝑝𝑖𝑑𝑎 indicati dal suo 𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚, cioè 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑎 e 𝐶𝑖𝑠𝑎𝑢𝑛𝑎. In questo modo, il filologo tedesco tentò di far collimare tutte le informazioni con le indicazioni dei 𝑓𝑎𝑠𝑡𝑖 𝑡𝑟𝑖𝑢𝑚𝑝ℎ𝑎𝑙𝑒𝑠: dopo aver sconfitto i Sanniti, Centumalo si sarebbe rivolto a nord per combattere gli Etruschi, mentre Barbato si sarebbe rivolto a sud, sottomettendo l’intera Lucania (𝑠𝑢𝑏𝑖𝑔𝑖𝑡 𝑜𝑚𝑛𝑒 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎𝑚), dalla quale avrebbe riportato ostaggi (𝑜𝑝𝑠𝑖𝑑𝑒𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑎𝑏𝑑𝑜𝑢𝑐𝑖𝑡). Infine, soltanto al collega sarebbe stato concesso il trionfo sulle popolazioni nemiche, perché Scipione Barbato avrebbe combattuto contro i Lucani, i quali, benché ribelli, erano pur sempre 𝑓𝑜𝑒𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑖. Insomma, con buona pace di Livio e delle sue fonti, tendenti spesso a far confusione, secondo Mommsen, i documenti epigrafici offrirebbero un quadro tutto sommato coerente. La sua ricostruzione per un po’ ha retto.

Tuttavia, il primo a porsi dei dubbi fu proprio La Regina, secondo il quale non esisterebbero elementi sicuri per suffragare l’ipotesi che i Lucani, nel 298, si fossero ribellati a Roma: Scipione Barbato non conquistò la Lucania, dato che i suoi abitanti, indotti dalla pressione dei Sanniti sulle frontiere settentrionali, chiesero e ottennero un patto d’alleanza con i Romani e, come voleva la consuetudine, inviarono degli ostaggi. In quegli anni l’Urbe stava gestendo due fronti di guerra, a nord contro gli Etruschi a sud contro i Sanniti; in queste condizioni, l’apertura di un terzo fronte, tra l’altro nei confronti di una popolazione prima di allora non coinvolta direttamente nelle politiche di espansione romana e che, tutt’al più, avrebbe avuto ogni ragione per schierarsi contro i Sanniti, sarebbe stata assolutamente controproducente. In ogni caso, secondo La Regina, ogni interpretazione addotta poggerebbe sulla presunzione di un elemento non dimostrato, e cioè che la 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎(𝑚) dell’iscrizione sia identificata effettivamente con l’omonima regione dell’Italia meridionale. In epoca antica, però, con quel nome non si indicava un unico territorio: secondo La Regina, nella fattispecie, si sarebbe trattato di una piccola comunità sabellica attestata lungo la valle del Sangro, nell’odierno Abruzzo meridionale, e il toponimo 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎(𝑚) andrebbe identificato con l’attuale Castel di Sangro (AQ). La tesi di La Regina è supportata dall’evidenza che il nome 𝐿𝑢𝑐𝑎𝑛𝑖𝑎, che indica la regione storica, non si trova mai con sdoppiamenti o dittonghi nelle attestazioni note. Detta interpretazione supera le riserve espresse da Ugo Scamuzzi (1957; 1959), il quale non era convinto che 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎(𝑚) si potesse ritenere esterna allo spazio della Lucania storica, ritenendo invece valida la ricostruzione di Mommsen.

La tesi di La Regina, dunque, collocherebbe più correttamente le operazioni militari condotte da Barbato in un settore del 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑢𝑚 più a settentrione rispetto a quelle compiute da Centumalo tra 𝐵𝑜𝑢𝑖𝑎𝑛𝑢𝑚 e 𝐴𝑢𝑓𝑖𝑑𝑒𝑛𝑎. D’altronde, addirittura Sesto Giulio Frontino (Fʀᴏɴᴛɪɴ. 𝑆𝑡𝑟. I 6, 1) era a conoscenza di una marcia di Scipione Barbato «nel territorio dei Lucani» (𝑖𝑛 𝐿𝑢𝑐𝑎𝑛𝑜𝑠). Anche Claudio Ferone (2005), seguendo La Regina, sostenne che il toponimo 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎(𝑚) non si riferisse alla Lucania storica, bensì a un territorio dell’area irpina.

Il problema, a questo punto, sta nel capire che cosa sia accaduto alla tradizione liviana e per quale motivo a Scipione Barbato sia stato attribuito il fronte etrusco, fermo restando che tutti gli studiosi fin qui passati in rassegna concordino sul fatto che 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑎 sorgesse presso l’od. Circello (BN). Domenico Silvestri (1978) tentò di far ordine sulle indicazioni di 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑎 𝐶𝑖𝑠𝑎𝑢𝑛𝑎 / 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑜, ma contestò l’idea di una toponomastica urbana: in tal senso, 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑎 deriverebbe dall’etnonimo 𝑇𝑎𝑢𝑟𝑎𝑠𝑖𝑖, antica popolazione di origine campana, e 𝐶𝑖𝑠𝑎𝑢𝑛𝑎 sarebbe un aggettivo derivato da *𝑐𝑖𝑠𝑠𝑎𝑏𝑒𝑛𝑜𝑠, riconducibile al nome arcaico del Sannio, 𝑆𝑎𝑏𝑒𝑛𝑖𝑜𝑛. Le ultime due righe dell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚, insomma, pongono enfasi sulle imprese militari del defunto in quella regione, esaltandone le vittorie.

Il collegamento che Livio istituisce tra Scipione Barbato e l’Etruria fu analizzato da Santo Mazzarino (1966, 288-290), il quale giunse alla conclusione che tra le due opposte versioni – quella familiare dei 𝐶𝑜𝑟𝑛𝑒𝑙𝑖𝑖 e quella annalistica di Livio – la più genuina fosse la prima. A partire da una supposta falsificazione di una sconfitta subita dai Romani a 𝐶𝑎𝑚𝑒𝑟𝑖𝑛𝑢𝑚 nel 295 per mano dei Galli (Lɪᴠ. X 25, 11; 26, 9), Mazzarino sosteneva che agli eventi del 298 si fosse sovrapposta e confusa una versione “ufficiale” distorta. Questa manipolazione era imputata dallo studioso all’annalista Fabio Pittore: costui, membro della 𝑔𝑒𝑛𝑠 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑎, non avrebbe avuto alcuno scrupolo a sostituire il reale protagonista di quella vergognosa sconfitta, Quinto Fabio Rulliano, uomo il cui prestigio proprio in quel periodo era giunto alle stelle. Malgrado il tentativo propagandistico di assicurare la fama al 𝑐𝑙𝑎𝑛 di appartenenza, Polibio rivela che quella sconfitta avvenne a causa dell’avventatezza del comandante romano (Pᴏʟʏʙ. II 19, 5-6). Pittore, dunque, sostituì a Rulliano nientemeno che Scipione Barbato, il quale si sarebbe per così dire “rifatto” con una magra vittoria sui Volterrani.

Diversamente, Ernst Meyer (1972, 971-973) pensò che la cronaca degli eventi del 298, in realtà, dipendessero sempre da un atteggiamento arbitrario: d’altronde, in antico, vittorie, sconfitte e altre azioni militari di qualsiasi tipo non venivano mai attribuite ai singoli consoli, ma ai Romani collettivamente. Secondo lo studioso, perciò, questi fatti “anonimi” furono assegnati con discrezionalità dagli annalisti seriori ai due consoli in carica – come in un caso del 294, in cui sono riportati accadimenti analoghi a quelli del 298.

Il ritorno dei guerrieri sanniti dalla battaglia. Affresco, IV secolo a.C. ca. dalla Tomba di Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sul piano morfologico-lessicale, gli elementi degni di nota nelle ultime due righe dell’iscrizione analizzata sono la voce 𝑆𝑎𝑚𝑛𝑖𝑜, che per Mommsen era un ablativo, mentre Friedrich Leo (1896, 11) lo interpretò come una forma arcaizzante di accusativo singolare di II declinazione, e il verbo 𝑎𝑏𝑑𝑜𝑢𝑐𝑖𝑡, per cui Edward Wölfflin (1890, 122) pensò che il lapicida avesse inserito tra le lettere -𝑐- e -𝑖- una -𝑠-, congetturando che il testo andasse emendato in 𝑎𝑏𝑑𝑜𝑢𝑐(𝑠)𝑖𝑡 e normalizzato in 𝑎𝑏𝑑𝑢𝑥𝑖𝑡; il solito Hülsen (𝐶𝐼𝐿 VI 31588) corresse questa interpretazione, affermando che i due segni semicircolari che Wölfflin aveva individuato come le anse di una 𝑠 fossero, in realtà, due piccoli fori. Quanto agli 𝑜𝑝𝑠𝑖𝑑𝑒𝑠, a detta di Denis Álvarez-Pérez Sostoa (2010), i Lucani avrebbero effettivamente consegnato degli ostaggi ai Romani nel 298, non come popolo vinto, bensì come garanzia per ottenerne protezione e siglare con loro un 𝑓𝑜𝑒𝑑𝑢𝑠. Siccome però nell’epigrafe compare l’espressione 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑔𝑖𝑡 𝑜𝑚𝑛𝑒 𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎𝑚, è altresì probabile che Roma abbia tentato di alleggerire la pressione della Federazione sannitica, sottomettendone una piccola area (𝐿𝑜𝑢𝑐𝑎𝑛𝑎) e conducendo da essa degli ostaggi.

Per quanto riguarda, invece, la cronologia del sarcofago di Scipione Barbato, Wölfflin fu il primo degli studiosi a decontestualizzare la redazione dell’epigrafe dal periodo in cui il defunto visse, sganciandone quindi l’elaborazione e la realizzazione dagli anni immediatamente successivi alla sua scomparsa, presumibilmente 𝑝𝑜𝑠𝑡 270. In sostanza, il filologo tedesco propose di collocarne la redazione addirittura verso la fine del III secolo. Fu proprio Wölfflin, tra l’altro, a supporre la successione di tre fasi d’intervento sull’epigrafe: la messa in evidenza della sequenza onomastica sia rubricata sia incisa; la raschiatura dell’identità del defunto dalla cassa per riportarla sull’opercolo e la composizione di una sorta di carme con le diverse indicazioni sul conto del morto; infine, la scalpellatura totale del testo per rifarne un altro. Wölfflin, dunque, ipotizzò una cronologia molto bassa, che andava dall’età dell’apogeo degli 𝑆𝑐𝑖𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠, dopo la guerra annibalica, fino alla fine del II secolo. Questa ricostruzione riscosse largo consenso presso gli esperti, tanto da essere ripresa, tra gli altri, da Heinz Kähler (1958), Vincenzo Saladino (1970) e Wilhelm Hornbostel (1973).

Il primo a muovere delle obiezioni a questa tesi fu Filippo Coarelli (1973, 43-44), il quale si disse fermamente convinto che il sarcofago e l’iscrizione fossero contestuali alla prima metà del III secolo, cioè fra la scomparsa di Barbato e il consolato del figlio (259/8). Eppure, l’esasperata individuazione, anche nell’𝑒𝑙𝑜𝑔𝑖𝑢𝑚 del giovane, di un 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑢𝑠 all’interno della cittadinanza romana ha indotto quanti difendono la cronologia bassa a privilegiare la ricostruzione di Wölfflin, sulla scorta della quasi mitizzazione che le fonti tramandano su Scipione Africano. I dubbi sulla cronologia bassa furono ripresi da Wachter (1987), che esaminò punto per punto grafia, fonologia, lessico e stile dell’epigrafe, riconducendo il testo e il manufatto agli anni 270-250 circa. Questa è nella maggior parte dei casi l’ipotesi accolta in tempi più recenti (Radke 1991; Kruschwitz 1998, 281).

Ora, in un caso come questo, tutti i caratteri intrinseci hanno creato maggiori difficoltà interpretative non tanto nell’analisi del documento epigrafico, quanto piuttosto nella sua contestualizzazione. Di conseguenza, le informazioni alle quali si deve fare riferimento non devono più essere soltanto quelle che l’iscrizione soltanto offre, ma devono diventare quelle attraverso le quali, indipendentemente dal testo, è possibile ricostruire le vicende del personaggio ricordato. L’epoca in cui visse Lucio Cornelio Scipione Barbato era un tempo in cui la classe dirigente romana si presentava ormai come compagine fortemente ellenizzata in tutti i suoi codici espressivi, dalle categorie morali e di pensiero con cui interpretare il mondo e le forme e i modi dell’autorappresentazione e del gruppo sociale d’appartenenza e della propria individualità. È perciò molto importante riuscire a ricostruire l’ambito entro cui collocare il documento, per poi scoprire la coerenza tra le informazioni offerte dal reperto e i dati provenienti dall’ambito in questione.

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[1] 𝐼𝐿𝐿𝑅𝑃 309 = 𝐶𝐼𝐿 I² 373 = 𝐶𝐼𝐿 I² 2, 4, 859 = 𝐶𝐼𝐿 VI 1284 = 𝐼𝐿𝑆 I 1 = 𝐴𝐸 1991, 72; 1997, 129; 2001, 205; 2005, 196; 2008, 168.