M. Anneo Lucano

da CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 150-158.

Nel processo che, durante l’età tardo repubblicana e augustea, realizzò l’ambizione di elaborare una letteratura nazionale paragonabile al corpus della letteratura greca classica ed ellenistica, l’Eneide rappresentò il momento conclusivo: con il poema virgiliano la cultura romana si dotò finalmente di un capolavoro capace di sostituire Omero, entrando subito nella scuola e diventando il testo base dell’educazione letteraria latina; l’Eneide costituì il canone indiscusso e imprescindibile del genere epico. Dopo Virgilio, il poeta epico latino non poteva più sottrarsi al confronto con il grande modello, anche quando l’esperienza del potere imperiale rese difficile, se non impossibile, continuare a credere negli ideali etico-politici che l’epos virgiliano aveva contribuito a creare, anche quando le illusioni dei miti augustei erano definitivamente crollate.

Fu il caso di Lucano, giovane poeta di talento morto suicida a ventisei anni, nella repressione della congiura pisoniana: della sua produzione, sorprendentemente vasta e varia, ci resta il poema epico Pharsalia, un’appassionata, coraggiosa denuncia della guerra fratricida che aveva prodotto la fine della libertas romana e l’avvento della tirannide. Non potendo mettersi nel solco di Virgilio, Lucano scrisse “contro” di lui, adottando una puntuale tecnica di «contestazione» del modello, basata su un nuovo tipo di arte allusiva, che è stata definita «allusività antifrastica»: in altre parole, attraverso la ripresa “a rovescio” del modello, Lucano si propose di smascherare l’inganno con cui Virgilio aveva coperto la trasformazione dell’antica res publica in dominato.

Nerone Claudio Augusto. Asse, Lugdunum, 66 d.C. Recto: testa nuda del princeps. Legenda: Imp(erator) Nero Caesar Aug(ustus) P(ontifex) M(aximus) Tr(ibunicia) Pot(estas) P(ater) P(atriae).

Un poeta alla corte del princeps

Marco Anneo Lucano nacque a Cordŭba (od. Cordova), in Hispania Tarraconensis, il 3 novembre del 39; figlio di Marco Anneo Mela, fratello di Seneca, era dunque nipote del filosofo. Nel 40 la famiglia si trasferì a Roma, dove negli anni successivi Lucano avrebbe atteso alla propria formazione: ebbe come maestro lo stoico Lucio Anneo Cornuto, alla cui scuola conobbe Aulo Persio Flacco, con il quale strinse amicizia. Intellettuale brillante, Lucano entrò alla corte di Nerone, che per un certo periodo lo ebbe fra i suoi più intimi amici. Per concessione del princeps, il giovane poeta ricoprì la quaestura prima dell’età minima prevista, ed entrò a far parte del collegio degli augures. Alle feste indette dall’imperatore nel 60, i Neronia, Lucano recitò delle laudes per il Cesare, composte per l’occasione. Secondo alcune fonti antiche, nello stesso periodo pubblicò i primi tre libri della Pharsalia, il poema cui da qualche tempo andava dedicandosi.

Subentrò una brusca rottura con il princeps, per ragioni non del tutto chiare: le fonti antiche accennano a una gelosia letteraria da parte dello stesso Nerone, ma è anche possibile che quest’ultimo non vedesse di buon occhio le idee troppo marcatamente improntate alla nostalgia per l’età repubblicana che Lucano andava esprimendo nel proprio poema. Caduto, dunque, in disgrazia presso il princeps e allontanato dalla corte, Lucano aderì alla congiura di Pisone; una volta scoperto il complotto, ricevette, come molti altri, l’ordine di darsi la morte. Si tolse la vita il 30 aprile del 65, a meno di ventisei anni.

Si è conservata l’opera principale di Lucano, il poema epico Bellum civile o Pharsalia: quest’ultimo (da Pharsalus, luogo della storica sconfitta di Gneo Pompeo Magno), d’altronde, fu il titolo con cui l’autore stesso chiama la propria opera; l’altro titolo, Bellum civile, si ricava invece dalle biografie di Lucano (quella composta da Svetonio, nel De poetis, e un’altra attribuita a un certo Vacca). Il poema, in dieci libri (per un totale di 8.060 esametri), alla cui elaborazione l’autore attese probabilmente dal 60, è rimasto incompiuto a causa della sua prematura morte; il libro X, infatti, molto più breve di tutti gli altri, mostra una brusca interruzione. Ci restano, inoltre, i titoli (e in qualche caso scarsissimi frammenti) di opere tutte quasi certamente anteriori alla Pharsalia: un Ilìacon (componimento in versi sulla guerra di Troia); un Catachthònion (carme sulla discesa agli Inferi, da alcuni identificato con un epillio su Orfeo); un De incendio Urbis; una tragedia incompiuta, Medea; i Saturnalia; dieci libri di Silvae (raccolta di poesie di vario genere); le già ricordate Laudes Neronis; sappiamo inoltre di epigrammi, libretti per pantomime, declamazioni.

La fanteria di Pompeo tenta di sostenere l’assalto dei cesariani. Illustrazione di Peter Dennis.

Il ritorno all’epica storica

Il poema Pharsalia, sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo, segnò un forte stacco rispetto alla precedente produzione del poeta. Dai titoli delle opere perdute sembra infatti di poter cogliere una totale adesione ai gusti e alle direttive neroniane: l’Ilìacon veniva incontro alla passione del princeps per le antichità troiane; Silvae e libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro di quella poesia di intrattenimento, ricca di spunti occasionali e raffinata nella fattura, che l’imperatore pareva prediligere. Anche se la Pharsalia non era fin dall’inizio in contrasto marcato con le tendenze culturali di Nerone – che personalmente andava progettando un poema epico sulla storia romana –, il modo in cui Lucano scelse di trattare l’argomento si risolse in un’esaltazione dell’antica libertas repubblicana e in un’esplicita condanna del regime imperiale.

Nikolaos Gyzis, Historia. Olio su tela, 1892.

La Pharsalia e il genere epico

La novità del poema lucaneo consiste non tanto nella scelta di un argomento storico (tale era stata l’epica latina prima di Virgilio), quanto nel completo abbandono dell’apparato mitologico: nella Pharsalia non si assiste più all’intervento di divinità che prendono parte all’azione al fianco degli uomini. Per questo il poema fu aspramente criticato nell’antichità, come testimonia la tradizione scoliastica e i giudizi dei grammatici (Servio) e dei retori (Quintiliano, Frontone): la rinuncia agli interventi delle divinità, l’ordine della narrazione quasi “cronachistico” o “annalistico”, tipico più delle opere storiografiche che di quelle poetiche, e l’uso e l’abuso di sententiae concettistiche sono tra le censure più spesso mosse alla Pharsalia.

I motivi che spinsero Lucano su questa via sono legati all’atteggiamento dell’autore nei confronti della tradizione epica romana e dei suoi modelli: in particolare l’Eneide di Virgilio rappresentava un inevitabile termine di confronto sia per il poeta sia per i suoi lettori. Del resto, difficoltà oggettive impediscono di valutare con precisione l’attendibilità di queste critiche.

La perdita del materiale storiografico a cui con ogni probabilità Lucano si rifaceva (i libri di Livio sulle guerre civili e le Storie di Seneca il Vecchio) non permette infatti di verificare se il poeta abbia seguito le proprie fonti in modo sostanzialmente pedissequo. Di certo, nel poema lucaneo la fedeltà scrupolosa alla fonte storica viene sacrificata alle “deformazioni” della verità a fini ideologici, soprattutto per quel che riguarda Pompeo, Cesare e i rispettivi sostenitori; in tal caso, l’alterazione riguarda il modo di presentare o di colorire alcuni degli avvenimenti tramandati dalle fonti; ma altre volte essa si spinge fino al punto di inserire episodi estranei alla realtà dei fatti, come la scena di negromanzia nel libro VI o l’intervento di Cicerone a Farsalo nel libro VII.

È possibile, inoltre, che il criticato modulo cronachistico fosse un “difetto” tradizionale di tutta l’epica storica, ad argomento monografico, dell’ultima età repubblicana e del primo periodo imperiale; ed è probabile che alla conservazione di tale impianto narrativo spingesse anche l’autorità degli Annales di Ennio. D’altronde, è noto che già in età augustea vari poeti avevano scelto come soggetto epico le guerre civili (Cornelio Severo e Rabirio, autore del Bellum Actiacum), anche se gli scarsi frammenti di questa produzione non consentono di stabilire legami precisi con la Pharsalia. Sta di fatto che, insieme con le critiche, l’opera “innovatrice” di Lucano conobbe subito vasto favore, come si ricava dalle affermazioni di Marziale e di Stazio, oltre che dai numerosi richiami contenuti nella poesia epica posteriore.

Il contenuto della Pharsalia
Libro IDopo la presentazione dell’argomento del poema e un lungo elogio a Nerone, Lucano passa a esporre le cause della guerra civile. Segue la narrazione del passaggio del Rubicone da parte di Cesare e del terrore che si diffonde a Roma alla notizia del suo avvicinamento. Una serie di presagi annuncia la catastrofe incombente.
Libro IILamenti dei Romani che ricordano il precedente conflitto tra Mario e Silla e giungono alla consapevolezza che quello fra Cesare e Pompeo sarà ben più tremendo. Discussione notturna tra Bruto e Catone: è giusto astenersi da un conflitto che comunque si risolverà con il dominio assoluto del vincitore o, invece, è consigliabile schierarsi dalla parte di Pompeo, nella speranza di condizionarlo? Catone persuade il giovane interlocutore a scegliere la seconda alternativa. Sotto la pressione delle legioni cesariane, Pompeo abbandona l’Italia.
Libro IIIAppare in sogno a Pompeo il fantasma di Giulia, figlia dell’avversario e sua prima sposa, per minacciargli terribili sciagure. Cesare entra nell’Urbe e si impadronisce dell’aerarium. Pompeo raduna i suoi alleati, soprattutto tra i reguli orientali, dei quali Lucano fornisce un lungo elenco (alla maniera del “catalogo delle navi” dell’Iliade. Il teatro della guerra si sposta quindi a Massilia, assediata da Cesare; ha luogo una battaglia navale tra gli abitanti della città e le forze assedianti.
Libro IVCesare trasferisce, poi, le operazioni in Hispania. In battaglia si distingue un pompeiano, Vulteio, che, a capo di una esigua coorte, sostiene l’attacco in massa dei nemici. Curione, giovane partigiano di Cesare, muore in Africa, sconfitto dalle truppe numidiche.
Libro VIl Senato in esilio si riunisce in Epiro. Un pompeiano, Appio, si reca a consultare l’oracolo di Delfi, ma il responso resta ambiguo. Dopo aver domato un tentativo di ribellione, Cesare porta le proprie legioni in Epiro; irritato per gli indugi di Antonio, che tarda a seguirlo con la restante parte dell’esercito, cerca di raggiungerlo passando di nuovo il mare in incognito, su una barchetta; ma una furiosa tempesta lo respinge a terra. Pompeo, intanto, mette al sicuro la moglie Cornelia sull’isola di Lesbo.
Libro VIA Durazzo Pompeo viene rinchiuso e assediato. Il cesariano Sceva compie azioni eroiche. Gli eserciti avversari raggiungono la Tessaglia, teatro dello scontro definitivo. Sesto, uno dei figli di Pompeo, si reca a consultare la negromante Erittone, che, grazie alle sue arti, richiama in vita un soldato morto in battaglia, il quale rivela a Sesto Pompeo la futura rovina che incombe su di lui, sulla sua famiglia e su tutto l’ordinamento della Repubblica.
Libro VIIPompeo rivede in sogno i trionfi del proprio passato. Si tiene il consiglio di guerra, in cui il comandante cerca di dissuadere i collaboratori dal combattimento, ma è sopraffatto dalla volontà dei suoi. Si tengono, allora, i preparativi per la battaglia, a Farsalo. L’indomani si scatena lo scontro furibondo. La giornata campale viene vinta da Cesare; in combattimento cade Domizio Enobarbo, pompeiano e antenato di Nerone. Pompeo fugge. Il vincitore rifiuta gli onori funebri ai caduti nemici e, durante la notte, visioni funeste gli turbano il sonno.
Libro VIIIRipresa con sé Cornelia, Pompeo suggerisce ai suoi di proseguire la lotta con il sostegno dei Parti, ma la proposta viene respinta dopo un energico discorso di Lentulo. Pompeo fa dunque rotta verso l’Egitto, dove spera di trovare asilo e alleati. Ma re Tolemeo, dietro consiglio dei suoi potenti cortigiani, lo fa uccidere al suo arrivo. Il corpo decapitato di Pompeo è abbandonato sulla spiaggia: un certo Cordo gli dà umile sepoltura.
Libro IXDopo la morte del generale, Catone assume il comando dei resti dell’esercito repubblicano e attraversa il deserto libico, affrontando pericoli di ogni sorta; rifiuta di consultare l’oracolo di Ammone: la conoscenza del futuro non può modificare le decisioni del saggio. Intanto, Cesare, dopo aver visitato le rovine di Troia, attraversato l’Oriente, giunge in Egitto, dove gli viene offerta in dono la testa del nemico; finge un cavalleresco sdegno per la proditoria uccisione del rivale.
Libro XAd Alessandria Cesare fa visita alla tomba di Alessandro Magno, quasi un suo “maestro” di tirannide. Si tiene un fastoso banchetto alla presenza di Cleopatra e il generale vittorioso intrattiene una lunga discussione sulle sorgenti del Nilo con il sacerdote Acoreo. Gli Alessandrini tentano una sollevazione contro Cesare. A questo punto la narrazione si interrompe bruscamente.
José Garnelo y Alda, Studio per la morte di Lucano. Tempera su tela, 1887.

La Pharsalia e l’Eneide: la distruzione dei miti augustei

Nella tradizione romana, a partire dal Bellum Poenicum di Nevio e dagli Annales di Ennio, il poema epico era stato un monumentum, celebrazione solenne delle glorie della res publica e dei suoi eserciti. E monumentum era stata anche l’epica “omerica” di Virgilio, canto di fatiche e di lutti che avrebbero, comunque, fondato l’impero e la pax Romana. Nelle mani di Lucano, il poema epico divenne, invece, uno strumento di denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori condivisi, dell’avvento di un’era di ingiustizia.

L’inversione di prospettiva rispetto all’Eneide è netta e al confronto con Virgilio spinge volontariamente la stessa Pharsalia: a ragione si è potuto parlare del poema come di una sorta di «anti-Eneide» e del suo autore come di un «anti-Virgilio». Il poeta mantovano era per Lucano il modello da rovesciare e confutare, perché, per Lucano, egli aveva coperto con un velo di mistificazioni la trasformazione dell’antica res publica in tirannide, esaltando l’avvento di Ottaviano Augusto come una missione fatale.

La via che Lucano scelse per sconfessare Virgilio è stato, in primo luogo, il mutamento dell’oggetto: non si trattò, cioè, di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà, un passato recente e ben documentato, soprattutto universalmente conosciuto. Questa scelta programmatica di fedeltà al “vero” storico spiega, in larga parte, la rinuncia agli interventi delle divinità che tanto faceva scandalizzare la critica antica.

La polemica antivirgiliana infatti incomincia a delinearsi fin dai versi immediatamente successivi al proemio, dove le allusioni al modello sembrano atteggiate secondo un gesto di opposizione: nell’epos di Virgilio il tema storico delle guerre civili si affacciava qua e là nel testo, ma, proiettato in un passato mitico – era per così dire solo adombrato nel remoto conflitto fra Troiani e Latini (destinati poi a fondersi in un unico popolo); Lucano vuole invece riproporlo in tutta la sua ineludibile realtà storica, presentandone le nefaste conseguenze sulla storia successiva.

Lucano sembra, inoltre, proporsi di confutare e quasi rovesciare puntualmente personaggi, scene, addirittura singole espressioni del modello virgiliano. Molti esempi potrebbero essere citati: particolarmente significativo è il modo in cui Lucano rilegge il brano sulla profezia di Anchise nel libro VI dell’Eneide. Come l’Eneide, infatti, la Pharsalia si articola intorno a una serie di profezie, ma esse rivelano non le future glorie di Roma, bensì la rovina che l’attende. La più importante è costituita appunto dalla nekyomantèia («negromanzia») del libro VI.

Introducendo il mondo dell’oltretomba, Lucano mostra l’evidente volontà di creare un pezzo che possa fare da pendant alla catabasi («discesa agli Inferi») di Enea. La collocazione dell’episodio nel libro VI, come nel poema virgiliano, costituisce un probabile indizio della posizione di centralità che il poeta intendeva accordargli nell’architettura della Pharsalia e, quindi, della progettata estensione del poema su un arco di dodici libri, al pari dell’opera-modello.

Lucano rovescia, però, il paradigma fin nei minimi particolari. Mentre l’Anchise virgiliano profetizzava a Enea la futura gloria della sua stirpe, destinata a dominare le genti, e mostrava al figlio le anime dei suoi discendenti più famosi, l’ombra del soldato richiamato in vita dalla maga tessala racconta di aver visto gli Inferi in grande agitazione; in lacrime le anime degli antichi eroi della tradizione, i quali deplorano l’infelice sorte che attende la loro patria; esultanti gli spiriti dei populares (fra i quali Catilina), gli antenati politici di Cesare, gli eterni nemici della res publica.

Sarebbe tuttavia unilaterale vedere in Lucano solo l’acceso oppositore di Virgilio; il suo rapporto con il modello è molto più complesso, probabilmente perché lo stesso Virgilio presentava aspetti ambigui e contraddittori. Quel Virgilio che al giovane poeta poteva apparire come il cantore, compromesso e convinto, dell’utopia augustea, era lo stesso che in certi passi delle Georgiche aveva lamentato l’orrore delle guerre civili; nella stessa Eneide, del resto, il credito fatto alla provvidenzialità della Storia si accompagnava alla commiserazione per le vittime innocenti del fato. Nei momenti di più forte compartecipazione ai casi di certi sventurati personaggi il dubbio sulla “bontà” del destino affiorava anche nei versi di Virgilio. Ma l’amarezza del dubbio non bastava a Lucano: fin dai primi versi della Pharsalia ogni illusione appare irrimediabilmente crollata.

John Hamilton Mortimer, Sesto Pompeo consulta la maga Erittone prima della battaglia di Farsalo. Olio su tela, 1771. Collezione privata

Un poema senza eroe: i personaggi della Pharsalia

A differenza dell’Eneide, la Pharsalia non ha un personaggio principale, un vero e proprio “eroe”; l’azione del poema – se si eccettuano diverse figure minori – ruota soprattutto intorno alle personalità di Cesare, di Pompeo e (in particolare, nell’ultima parte) di Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: spesso guidato dall’ispirazione momentanea o addirittura dalla temerarietà, egli assurge a incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Nell’incessante attivismo dispiegato da Cesare, l’”eroe nero” del poema, si è voluto intravedere talvolta quasi il segno dell’ammirazione di Lucano, ed è indubbio che il poeta sembra qua e là soccombere al fascino sinistro del suo personaggio.

In fondo Cesare rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell’Eneide venivano domate e sconfitte: il furor, l’ira, l’impatientia e una colpevole volontà di farsi superiore alla res publica sono le passioni che maggiormente agitano l’animo del condottiero. Sono, questi, tratti tipici della rappresentazione del tiranno, presenti già nella tragedia latina arcaica e riproposti nel teatro senecano. In questa tipologia rientrano anche la ferocia e la crudeltà: nella Pharsalia Lucano spoglia Cesare del suo attributo principale – la clementia verso i vinti – a costo di stravolgere la verità storica (come quando gli fa decidere di lasciare insepolti i caduti di Farsalo).

Alla frenetica energia di Cesare si contrappone, fin dall’inizio del poema, una relativa passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare. Questo tipo di caratterizzazione serve tuttavia, in modo abbastanza paradossale, a limitare le responsabilità di Pompeo: la forsennata brama di potere del rivale è la principale responsabile della catastrofe che porterà Roma al tracollo. L’intento di Lucano è quello di fare di Pompeo una sorta di Enea, il cui destino, però, si mostra completamente avverso: in tal senso, egli diviene una figura “tragica”, l’unica che, nello svolgimento del poema, subisca un’evoluzione psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare di Pompeo dai vertici più alti, mentre la Fortuna, un tempo così arridente, gli si rivolge contro con un’ostile determinazione.

Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato, degli affetti familiari (in aperto contrasto con l’atteggiamento egocentrico di Cesare): Lucano insiste nel mostrare l’attaccamento di Pompeo ai propri figli e soprattutto verso la moglie, come nel libro V, quando, di fronte all’incalzare dei nemici, il generale la mette al sicuro nell’isola di Lesbo, e all’addio dei due sposi sono dedicati versi dominati dal pathos degli affetti familiari (vv. 727-733). Alla fine, abbandonato dalla Fortuna, Pompeo va incontro a una sorta di “purificazione”: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l’unica via di riscatto morale.

Questa consapevolezza, che per Pompeo è frutto di una lunga e dolorosa conquista, costituisce invece per Catone un solido possesso fin dalla sua prima apparizione nell’opera. Un verso lapidario, giustamente celebre, definisce l’ideologia di questo personaggio, che riflette in larga misura quella dello stesso Lucano (I v. 128): uictrix causa deis placuit, sed uicta Catoni («la causa vittoriosa ebbe il divino sostegno, ma quella sconfitta ebbe quello di Catone»).

Lo sfondo filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello Stoicismo di stampo tradizionale, che garantiva il dominio della ragione sul cosmo e, quindi, della Provvidenza divina nella Storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone, l’adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dèi) che lo Stoicismo pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: esso d’ora in poi risiede esclusivamente nella coscienza del sapiens. Nella sua ribellione “titanistica”, Catone si fa pari agli dèi: non ha più bisogno del loro consiglio per cogliere il discrimine fra giusto e l’ingiusto. Come non si sottomette più alla volontà del destino, così il saggio non può nemmeno mantenere la propria tradizionale imperturbabilità di fronte al suo realizzarsi: Catone si impegna nel conflitto civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro e alla conseguente necessità di darsi la morte, l’unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà.

Intorno ai tre protagonisti si muove una serie di personaggi minori, la cui caratterizzazione è condizionata dall’appartenenza all’una o all’altra factio in lotta. Così, molti dei pompeiani e dei catoniani sono presentati come combattenti valorosi anche se sfortunati. Spicca fra le altre la figura di Domizio Enobarbo, che Lucano rappresenta come un eroe, in contrasto con la realtà storica a noi nota: si discute tuttora se questa deformazione corrisponda o meno alla volontà di adulare Nerone, che era un discendente di Enobarbo. L’esercito di Cesare è, al contrario, costituito per lo più da “mostri” assetati di sangue, legati al loro comandante da una sudditanza psicologica e dall’avidità di prede. Anche quando ne presenta singoli atti di eroismo, come nel caso di Sceva, il poeta non manca di sottolineare l’ingiustizia della causa per cui essi combattono. Tra le figure femminili si distingue Cornelia, la sposa di Pompeo, la quale incarna il ritratto dell’assoluta fedeltà e devozione al marito, con cui condivide fino in fondo le avversità della sorte.

Johann Heinrich Füssli, Il fantasma di Giulia appare in sogno a Pompeo. Disegno, 1770 c.

Il poeta e il princeps: l’evoluzione della poetica lucanea

La Pharsalia presenta al lettore una visione della Storia a tinte fosche, che non lascia intravedere alcuna possibilità di redenzione. È abbastanza probabile che il pessimismo lucaneo sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura dell’opera: in una fase iniziale, l’autore avrà condiviso le speranze di palingenesi politico-sociale suscitate dall’avvento al potere del giovane Nerone. Nel proemio, infatti, sembra ancora possibile interpretare la comparsa del princeps come una sorta di compensazione per le sciagure provocate dal conflitto civile che si sta per narrare (vv. 33-38):

quod si non aliam uenturo fata Neroni              

inuenere uiam magnoque aeterna parantur    

regna deis caelumque suo seruire Tonanti      

non nisi saeuorum potuit post bella gigantum,             

iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque   

hac mercede placent…

Ma se i fati non trovarono altra via all’avvento di Nerone

e a un tale prezzo si preparano i regni eterni

ai numi e il cielo ha potuto servire il suo sovrano

il Tonante, solo dopo le guerre dei crudeli Giganti,

non ci lamentiamo più, o Celesti; questi crimini e misfatti

accogliamo volentieri per simile ricompensa…

(trad. di L. Canali)

L’elogio di Nerone riprende da Virgilio tutta una serie di motivi rivolti alla glorificazione del princeps: è evidente il ricordo delle parole con le quali, nel libro I dell’Eneide (vv. 291 ss.), Giove aveva profetizzato a Venere l’avvento di una nuova età dell’oro, dopo che Augusto avesse posto fine alle contese civili. L’attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del tempo: così, per esempio, nel poeta pastorale Calpurnio Siculo. Agli occhi di Lucano, tuttavia, il nuovo Augusto è di gran lunga migliore del primo e tesserne l’elogio implica entrare in velata polemica con Virgilio: Nerone, e non Augusto – sembra voler dire il poeta – è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano.

Questa interpretazione presuppone la “sincerità” dell’elogio del princeps, non univocamente condivisa dagli studiosi moderni. Già alcuni scolii antichi avevano visto, negli esuberanti tumores dell’elogio, nelle tensioni espressive di uno stile studiatamente turgido, barocco, il segno di una sorta di ironia “cifrata” nei confronti dell’imperatore: quest’interpretazione è stata più volte richiamata in vita, anche dai moderni, ma, a nostro avviso, non può essere accettata.

Maggiori elementi di plausibilità ha una seconda linea interpretativa, che presuppone in Lucano un’evoluzione sotto certi aspetti non dissimile da quella di Seneca. L’impostazione dei primi tre libri del poema (i soli che, a quanto riferisce la biografia cosiddetta di Vacca, furono pubblicati dall’autore) presenterebbe analogie con quella del De clementia e della Apokolokyntosis di Seneca, dove la conciliazione del principato e della libertà è ancora considerata possibile con un ritorno alla politica filosenatoria di Augusto.

Ciò non significa che si debba marcare una cesura troppo netta fra un “primo” e un “secondo” Lucano; su questa via, c’è chi si è spinto ad affermare che, nel corso della composizione, il poema muterebbe anche il proprio giudizio su Cesare e su Pompeo: partito da un’obiettiva “equidistanza”, dopo il libro III incomincerebbe a parteggiare apertamente per il secondo, scaricando invece su Cesare il proprio velenoso astio. In realtà, un relativo mutamento di giudizio su Pompeo era implicito nella stessa struttura della Pharsalia, in cui il personaggio si muove verso la conquista progressiva della saggezza; quanto a Cesare, l’avversione nei suoi confronti è costante fin dall’inizio del poema.

Resta il fatto che, all’interno della Pharsalia, l’elogio di Nerone suona come una nota stridente: nello stesso progetto del poema era insita la contraddizione fra la visione radicalmente pessimistica dell’ultimo secolo di storia romana, che Lucano era venuto maturando, e le aspettative suscitate dal nuovo principe. L’incrinatura con la quale la Pharsalia nasceva non attendeva che di essere approfondita – e a ciò avrebbero pensato gli eventi – perché Lucano si liberasse anche degli ultimi residui di una già traballante concezione provvidenziale. Nel seguito del poema il pessimismo lucaneo si fa molto più radicale, e approda a una concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio “antimito” di Roma, il mito del suo tracollo, della sua inarrestabile decadenza.

Jean-Paul Laurens, La morte di Catone a Utica. Olio su tela, 1863.

Lo stile della Pharsalia

La tradizione epica aveva costruito tutto un linguaggio complesso, capace di dare l’attraente forma di narrazione ai grandi modelli culturali e ai valori cui si ispirava la società romana. Lo stile grande e solenne di questi poemi, che significativamente si servivano di una lingua dalle coloriture arcaiche, era quello che, nella gerarchia dei generi letterari, faceva dell’epos la più alta forma di espressione poetica. Ma a questo compito di positiva commemorazione dei grandi modelli eroici, l’epica non poteva più far fronte, ora che lo sviluppo degli eventi aveva tradito quel mondo ideale e aveva tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano; e, insieme, aveva generato nuove aspettative nel pubblico.

Lucano, insomma, non ebbe la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sentiva insufficiente ai propri bisogni. Più che tentare di rifondare il linguaggio epico, cercò un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui ne denunciò la crisi. Così la presenza di un’ideologia politico-moralistica si fece in lui ossessiva, invase il suo linguaggio, divenne anzi tutta e solo linguaggio, perché fu gridata, ostentata: propugnata linguisticamente (in sententiae costruite a effetto o in antitesi freddamente intellettualistiche), si ridusse a retorica. Ma la retorica che anima questo linguaggio non appare segno di vana artificiosità ornamentale, bensì il gesto di uno stile che, paradossalmente, per ritrovare la propria autenticità, per essere sicuro di non tradire con le parole il messaggio di un’ideologia disperata, non poteva più affidarsi a un’espressione semplice e diretta, ma di necessità avrebbe parlato (e parla) ricorrendo agli schematismi enfatici del discorso retorico. Spettò così alla retorica, ai suoi costrutti laboriosi e calcolati, di compensare la perdita di credibilità in cui erano cadute le forme semplici del linguaggio epico.

Per la spinta continua al pathos e al sublime, lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle grandi tragedie di Seneca: si è potuto parlare di «barocco» e di «manierismo» (di quest’ultimo soprattutto a proposito del gusto per i paradossi e per la concettosità, che nello stile di Lucano non ha meno peso di quello per i tumores). Ardens et concitatus: così Quintiliano (Inst. X 1, 90) ebbe a definire Lucano e volle probabilmente riferirsi anche all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell’esametro: così l’urgenza “concitata” dei pensieri si rispecchia nel continuo enjambement, e la sintassi delle parole aspira a uscire dai vincoli dello schema metrico, imprimendo un’eccezionale tensione espressiva al verso. L’io del poeta è praticamente onnipresente per giudicare e, spesso, per condannare in tono indignato. Di qui la straordinaria frequenza, nella Pharsalia, delle apostrofi e, in generale, degli interventi personali dell’autore a commento degli eventi narrati.

È, indubbiamente, uno stile che di rado conosce dominio e misura: per questo, esso può rapidamente saziare il lettore. Ma è, altrettanto indubbiamente, uno stile che non è solo frutto dell’adesione alle mode letterarie del tempo né intende solo compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell’epica lucanea si alimenta dell’impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile (Romani contro Romani) non poteva – ora che il mondo intero non avrebbe potuto più essere quello che era stato prima – continuare a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genero epico offriva.

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Bibliografia – studi:

Cᴏɴᴛᴇ G.B., Saggio di commento a Lucano. Pharsalia VI 118-260: l’Aristia di Sceva, Pisa 1974.

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La corruzione dell’eloquenza: un dibattito acceso

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 402-403.

 

Le cause della “corruzione” della prosa. | Il dibattito sulla decadenza della retorica e dell’eloquenza coinvolse gli intellettuali nei primi due secoli dell’età imperiale, sia a Roma sia nel mondo ellenizzato. Il “nuovo” stile, lontano dalla concinnitas ciceroniana, e insieme le tendenze asiane, reinterpretate non più in maniera altisonante, ma caricate di un espressionismo che sfociava nella sententia acuminata e nella brevitas concettosa, provocarono una reazione dei letterati alla vecchia scuola, che vissero il cambiamento come una forma di decadenza. Nella loro etica il modello canonico era Cicerone: interrogandosi sulle cause di quella che a loro giudizio era una corruzione dello stile ideale, discutevano quelli che a parer loro erano i motivi della decadenza, sostenendo, attraverso analisi stilistiche ed etico-politiche, tesi talora contrastanti e presentando un quadro vario e problematico, non solo delle scuole di retorica, ma anche in generale della cultura del tempo.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1768 (XIII sec. c.), Seneca il Vecchio, Controversiae, con marginalia di Albertino Mussato, f. 73r.

Seneca: l’immoralità come causa della decadenza. | Nell’Epistola ad Lucilium 114 Seneca filosofo discute la questione con il suo destinatario, il quale gli ha chiesto come mai in determinati periodi si sviluppi un genere corrotto di eloquenza, a cui sono inclini gli uomini d’ingegno. Nel riferire la domanda dell’amico, il filosofo descrive lo stile di questa prosa “corrotta” con abbondanza di attributi (Ep. 114, 1): inflata explicatio, «modo di esprimersi gonfio»; infrancta et in morem cantici ducta, «spezzato e condotto alla maniera di una filastrocca»; sensus audaces et fidem egressi, «concetti arditi e incredibili»; abruptae sententiae et suspiciosae, «frasi spezzate ed enigmatiche». La sua risposta alla domanda di Lucilio potrebbe apparire ai moderni sorprendente o almeno incongrua: talis hominibus fuit oratio qualis vita, «tale è il modo di parlare di ognuno quale la sua vita». Quindi, la condotta morale esercita un’influenza sul linguaggio: se è ottima, lo stile sarà ottimo. E questo assioma non vale solo per gli individui, ma anche per interi popoli, se si sono abbandonati «ai piaceri» (in delicias). Un’eloquenza corrotta generalizzata è segno di una dissolutezza generale: lascivia orationis è prova di una luxuria publica.

Gli esempi negativi: Mecenate e Sallustio. | Seguono dimostrazioni ed esempi (fra cui quello di Mecenate) di pubblica immoralità e nel contempo di prosa «rilassata» e «snervata», «oscura, involuta come quella di un ubriaco, degenerata e corrotta». La prosperità eccessiva genera una diffusa dissolutezza e, quando l’anima comincia a provar noia del consueto, si rivolge all’insolito, al desueto o addirittura conia parole nuove e nuove metafore, come ultimo segno di eleganza, o lascia le frasi sospese o tronca i concetti. Così faceva Sallustio e con lui che apprezzava la sua eloquenza: Anputatae sententiae et verba ante expectatum cadentia et obscura brevitas, «frasi troncate e parole che arrivano inaspettate e un’oscura brevità».

Maestro di retorica con i suoi allievi. Rilievo, marmo, IV sec. d.C. da un sarcofago romano.

Il giudizio di Quintiliano: Seneca cattivo maestro”. | Seneca, il quale criticava aspramente Sallustio come l’esempio negativo che ha trascinato tanti seguaci, non si accorse che il proprio stile aveva tutti i difetti di quella prosa “corrotta” da lui tanto biasimata. Se ne sarebbe accorto, poi, Quintiliano (Inst. X 1, 125-131), che avrebbe attribuito al filosofo uno «stile corrotto e spezzato» (corruptum et […] fractum dicendi genus), rivolgendogli l’accusa di aver voluto intraprendere una via dell’eloquenza diversa dai classici, corrompendo i giovani che ne avrebbero saputo imitare solo i difetti.

Seneca il Vecchio e le nuove generazioni di rammolliti. | Anche il padre, Seneca il Vecchio, cui si deve una raccolta di controversiae e di suasoriae, esercitazioni fittizie, le une di carattere giudiziario, le altre di argomento mitologico, lontane comunque della vita come dai dibattiti forensi, aveva messo in evidenza (Contr. I, praef. 8-10) come ormai gli ingegni di una gioventù pigra fossero intorpiditi (torpent ecce ingenia desidiosae inventutis) e non fossero più dediti ad alcuna attività onesta. Ogni interesse per lo studio veniva meno in giovani rammolliti, effemminati, buoni a «ondularsi i capelli e a tener dietro a una sconcia eleganza» (capillum frangere et […] immundissimis se excolere munditiis). L’esempio della figura morale di Catone e i precetti al figlio Marco erano ancora posti come lezione di vita e di dottrina: Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi peritus.

La responsabilità delle scuole di retorica. | Negli scritti dell’epoca ritorna con insistenza l’opposizione foro/scuola di declamazione, la contrapposizione fra vita sociale e politica e mondo artificiale dell’esercizio scolastico. Ancora Seneca il Vecchio (Contr. III praef. 12-14) affermava che, quando declamava, gli sembrava di lottare in un sogno e di menare colpi a vuoto; Quintiliano parlava di persone diventate vecchie sui banchi di scuola, che rimanevano stupefatte quando si trovavano per la prima volta nel foro. In Satyricon 1-2 Petronio, per bocca di Encolpio, afferma che «i giovani a scuola rincitrulliscono» (ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri), e descrive il tipo di insegnamento lontano dalla realtà a cui sono sottoposti gli scolari dei declamatori che, come in preda alle Furie, li esercitano su temi fittizi e vani: pirati in catene presso il lido, tiranni che scrivono editti feroci, responsi di oracoli in seguito a pestilenze. Il tutto con uno stile zuccheroso e quasi sparso di papavero e di sesamo (mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa). I grandi oratori e poeti greci (si citano Sofocle, Euripide, Pindaro, i lirici, Platone, Demostene, Tucidide, Iperide) hanno imparato a parlare e a scrivere bene perché non hanno frequentato le scuole di eloquenza: Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, «Non ancora un ammuffito maestro aveva distrutto gli ingegni»; mentre ora una «ventosa» e «sregolata» loquacitas è passata dall’Asia ad Atene, investendo come una cattiva stella i giovani al punto che l’eloquenza «si è arrestata e ammutolita» (stetit et obmutuit).

«Giovane oratore» o Hermes. Statua, marmo, copia romana da originale greco di II sec. a.C., I sec. d.C. c. Madrid, Museo del Prado.

Le colpe dei genitori. | A un altro personaggio del Satyricon, Agamennone, spetta il compito di ribattere a Encolpio e di sostenere (capp. 3-4) una tesi diversa: non le scuole, ma i genitori sono responsabili della corruzione dell’eloquenza, per l’educazione sbagliata che danno ai figli: smaniosi di immaturi progressi, li spingono nel foro quando ancora non si sono formati, non li lasciano seguire studi regolari, assorbire gradatamente le letture, formarsi attraverso la filosofia, correggere il loro stile e misurarsi con i modelli dei grandi oratori che vogliono imitare. Solo così facendo, la grande oratoria racquisterebbe il suo peso e il suo splendore.

Atticismo e Asianesimo

da A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 437-438.

Cicerone nell’Orator, una delle sue opere teoriche sulla retorica, usa la locuzione novi Attici («nuovi atticisti») con tono dispregiativo per riferirsi alla generazione di giovani oratori che muoveva critiche al suo stile retorico. La definizione richiama da vicino quella di poetae novi, che lo stesso Arpinate utilizzava per indicare i poeti della medesima generazione, come Catullo, e ugualmente in tono dispregiativo. Lo stile di quegli oratori, per quanto è possibile intendere in un contesto abbastanza povero di dati, cercava semplicità di espressione, rigore, ordine espositivo ed estrema chiarezza, avvalendosi di un lessico particolarmente sorvegliato e depurato da forme troppo vicine al sermo cotidianus. La definizione data da Cicerone si dovette al fatto che questi giovani retori si ispirarono agli oratori attici di V-IV secolo a.C., come Lisia e Iperide. Nel gruppo dei novi Attici si annoveravano personaggi assai vicini allo stesso Arpinate, come Celio Rufo (82-48 a.C., il giovane amante di Lesbia, rivale di Catullo, che la donna coinvolse in un processo politico), o Marco Giunio Bruto (85 c.-42 a.C.), il futuro cesaricida, al quale Cicerone avrebbe dedicato il trattato di oratoria che prende il titolo dal suo nome, Brutus.

Alla base delle scelte linguistiche compiute dai cosiddetti «atticisti» c’erano le dottrine analogiste, che raccomandavano l’uso di una lingua che non prevedesse neologismi o termini rari o di intonazione popolaresca. La critica che Cicerone mosse a costoro fu di essere poco incisivi e di risultare freddi all’uditorio. Forse, come oratore, anche Gaio Giulio Cesare appartenne alla linea atticista; tuttavia, bisogna considerare che la prosa dei Commentarii, pensati come rapporti al Senato, non è detto che fosse la medesima delle sue orazioni. D’altronde, tutte le testimonianze di Cesare retore, comprese quelle fornite dallo stesso Cicerone, affermano che il condottiero possedesse un’eloquenza tutt’altro che fredda, anzi addirittura travolgente!

Ritratto di togato. Statua, marmo, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Anche il nomignolo di Asiatici («asiani») riferito ad alcuni retori comparve per la prima volta nelle opere teoriche di Cicerone (per esempio, in Brutus 51, 8), sempre con intonazione negativa: con tale epiteto, infatti, l’Arpinate designava gli oratori attivi nelle città d’Asia successivamente alla grande stagione dell’oratoria politica ateniese. A suo giudizio, una certa incompetenza nell’uso della lingua greca aveva determinato forme espressive poco controllate, che avevano prodotto il moltiplicarsi di perifrasi ridondanti. Sempre secondo Cicerone, l’Asianesimo si manifestava secondo due tendenze, una che prediligeva periodi brevi e un andamento sentenzioso, un’altra, viceversa, caratterizzata da espressione piena e vigorosa, un vero e proprio flumen orationis (Brutus 325). Inoltre, Cicerone, individuando un indirizzo che la moderna critica ha denominato “rodiese”, ricordava che i retori delle scuole di Rodi – pure «asiani» – mantenevano un’eloquenza più controllata, più vicina a quella degli oratori attici di età classica.

Dopo la morte di Cicerone, con l’instaurazione del Principato di Augusto, a Roma prevalse nettamente l’Atticismo: si ha testimonianza di ciò dagli scritti di retori successivi o dai passi inseriti nella raccolta antologica di Seneca il Vecchio. A questo fenomeno contribuirono due circostanze: in primo luogo, la presenza nell’Urbe di Cecilio di Calatte (vissuto nella seconda metà del I secolo a.C.) e di Dionigi di Alicarnasso (60-7 a.C.), due retori greci decisamente schierati a favore dell’Atticismo (in particolare, al primo risale la codificazione del canone degli oratori attici del V-IV secolo a.C.); in secondo luogo, la preferenza manifestata verso questa tendenza dallo stesso princeps, il cui gusto naturalmente influenzò l’epoca. Come sottolineato dai maggiori studiosi del fenomeno, l’importanza di questo fatto va individuata nel formarsi di quello che si può considerare il primo “classicismo” della letteratura latina, dove si intende per “classicismo” la tendenza a imitare i lineamenti estetici di un nucleo di autori considerati canonici, nei quali si riconoscevano movenze espressive equilibrate, ordinate e regolari.