ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.
Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.
L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.
P.Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.
Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.
Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.
C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.
Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).
Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.
Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].
Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).
Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
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Salito al potere nel 284, Diocleziano ereditò un impero economicamente al collasso: nel precedente mezzo secolo di anarchia militare, infatti, il valore nominale delle monete romane aveva subito una costante e progressiva svalutazione a causa della presenza di molteplici candidati alla porpora e altrettanti usurpatori, i quali non avevano esitato a battere nuova moneta per consolidare la propria posizione, corrompendo senatori, funzionari e militari e per farsi propaganda. Di conseguenza, l’eccessivo esubero di moneta in circolazione aveva provocato la riduzione del potere d’acquisto del denaro, a cui parallelamente, si sommavano altri fenomeni perniciosi, come l’aumento dei prezzi, a sua volta prodotto in parte da periodiche carestie e dai conflitti e in parte da una speculazione selvaggia; insomma, si trattava di segnali di quella che gli economisti oggi chiamano inflazione.
C. Aurelio Valerio Diocleziano. Testa, marmo, c. 284-305, da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.
Diocleziano, dunque, concepì un progetto di riforma su vasta scala con il quale intese risanare l’economia e le finanze imperiali, revitalizzare il sistema monetario e soprattutto garantire la regolare corresponsione degli stipendia ai quadri amministrativi e militari. L’imperatore, poste fuori corso le emissioni dei predecessori, dal 294 introdusse nuovi tipi monetali e dal 1 settembre 301 attuò una serie di misure volte a rifondare l’apparato monetario, cercando di renderlo nuovamente coerente e affidabile, quale era stato al tempo di Nerone; in altre parole, l’imperatore imperniò il sistema sul rapporto tra l’aureus (5,45 g = 1/60 di libbra) e i nuovi coni: l’argenteus, il cui peso e il valore nominale lo rendevano in tutto e per tutto comparabile al denarius del principato, deteneva un contenuto di metallo prezioso pari a più del 90% e un peso teorico che si aggirava attorno ai 3 g o poco più, equivalenti a 1/96 di libbra – come riportato sui rovesci delle monete (XCVI); il follis (o nummus) era una grossa moneta di bronzo (∅ c. 30 mm), rivestita di una sottile patina d’argento (al 4%), avente un peso compreso tra i 9 e i 13 g (= 1/32 di libbra). Il rapporto di cambio tra queste monete erano i seguenti: per un argenteus ci volevano 8 folles; per un aureus 25 argentei. A causa, però, di un’eccessiva tesaurizzazione da parte della popolazione, queste nuove emissioni ebbero una circolazione di breve durata: entro il 307 scomparvero gradualmente.
C. Aurelio Valerio Diocleziano. Argenteus, Sciscia c. 294. AR 2,879 g. Obversus: Virtus – militum. Porta turrita di un castrum con i tetrarchi intenti a prestare un solenne giuramento.
Oltre alla riforma monetaria, Diocleziano cercò di fissare un tetto massimo, imponendo un calmiere, sui salari, sui prezzi delle merci, sulle prestazioni d’opera e sui servizi in genere. Il provvedimento fu varato attraverso il cosiddetto Edictum de pretiis rerum venalium tra il novembre e il dicembre del 301, sotto il consolato di Tito Flavio Postumio Tiziano e Virio Nepoziano, a nome degli Augusti, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano e Marco Aurelio Valerio Massimiano, e i loro Caesares, Flavio Valerio Costanzo Cloro e Galerio Valerio Massimiano. Mentre la politica monetaria, perseguita per abbattere l’inflazione imperante, si limitava a introdurre nuove emissioni in sostituzione di quelle svalutate, per difendere il potere d’acquisto della moneta “buona” i tetrarchi stabilirono una relazione unica tra le singole voci di spesa e il loro valore, fissando un massimale per ogni elemento. I prezzi imposti dal decreto, dunque, furono calcolati in base al valore dell’oro (di cui una libbra corrispondeva a 72.000 denarii) e a quello dell’argento (di cui una libbra valeva 6.000 denarii), metalli il cui rapporto era di 12:1. Onde evitare confusione, è bene specificare che, dopo il crollo della monetazione argentea nel III secolo, il denarius sopravvisse come unità di calcolo nella riforma dioclezianea.
Il testo dell’Editto sui prezzi è noto, seppur in forma incompleta, dalla documentazione epigrafica, che fra Ottocento e Novecento ha restituito all’incirca 150 frammenti delle copie del rescritto, sia in latino sia in greco, provenienti per lo più dalla pars Orientis. Tra i reperti più significativi si possono menzionare, per esempio, il frammento di una stele di marmo proveniente da Platea (Achaia), contenente la copia del preambolo dell’editto (CIL III, p. 1913 = AE 1980, 66) e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene, e i lacerti di un pannello marmoreo scoperti tra i resti della facciata della basilica civile di Afrodisiade in Caria (CIL III, pp. 2208-2209 = CIL XII 69 = IAphr. 231 = ILS 642).
Calco cartaceo della copia del tariffario dell’Edictum de pretiis (CIL III, p. 1913 = AE 1890, 66 [↗], [↗]) da Platea (Achaia) [↗].
La denominazione di edictum fu ricavata dal Mommsen (1850) dalla presenza del verbo tecnico dicunt nell’esordio (praef. 4); tuttavia, nello stesso testo si fa riferimento al dispositivo anche nei termini di lex (ibid. 15) e statutum (15; 18-20). A ogni modo, si tratta di un documento complesso e per meglio comprenderlo è opportuno leggerne un passo della lunga premessa (ibid. 15), nella quale si dichiarano le ragioni e gli scopi del provvedimento:
his omnibus, quae supra conprehensa sunt, iuste ac merito | permoti, cum iam ipsa humanitas deprecari videretur, non pretia venalia rerum – neque enim fieri id iustum putatur, cum | plurimae interdum provinciae felicitate optatae vilitatis et velut quodam afluentiae privilegio glorientur – sed modum statuen|dum esse censuimus, ut, cum vis aliqua caritatis emergeret – quod dii omen averterint! – avaritia, quae velut campis quadam immensitate diffusis teneri non poter‹at›, statuti nostri finibus vel moderaturae legis terminis stringeretur.
“A buon diritto, spinti da queste motivazioni, che sopra sono state passate in rassegna, siccome l’umanità stessa sembrava chiederlo con insistenza, abbiamo deciso di fissare non i prezzi delle merci in vendita – infatti, ciò non può avvenire nel modo giusto, poiché parecchie province di solito si vantano della felicità dei desiderati prezzi bassi e, per così dire, di un certo privilegio di abbondanza – bensì un loro tetto massimo, in modo tale che, nel caso in cui dovesse capitare una qualche carestia – che gli dèi allontanino un simile presagio! – l’avidità, la cui diffusione non poteva essere frenata, sarà costretta entro i limiti della nostra normativa e nei termini consentiti dalla legge”.
Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II secolo, da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.
Il passo mostra chiaramente la distanza ideologica del pensiero economico antico dalla moderna dottrina: l’aumento incontrollato dei prezzi e l’inflazione galoppante erano attribuiti all’avaritia di mercatores e negotiatores, che non si erano fatti scrupolo a speculare sul costo delle merci, arrivando persino a ottuplicarne il valore di mercato; non si tenevano in conto altre concause, come guerre, carestie ed epidemie, ma si addossava interamente la responsabilità della situazione al comportamento sconsiderato di una particolare categoria economico-sociale, che nel mercato aveva parte attiva. Insomma, le ragioni dell’intervento pianificato degli imperatori sembra più morale che altro. Di contro, infatti, si presumeva che in condizioni ordinarie la sovrabbondanza e il benessere procurassero non solo la felicità della popolazione ma anche la riduzione dei costi.
Allo stato attuale, è difficile formulare una valutazione complessiva di questo provvedimento, ma è comunque interessante osservare gli indicatori numerici dei prezzi calmierati, raccolti in sessantanove categorie (più un’appendice) a comporre un vero e proprio tariffario – una testimonianza utile a ricostruire il quadro economico e sociale del tempo. Vale dunque la pena di fare qualche esempio, cominciando dalle professioni (VII de mercedibus operariorum): si stabilì che un bracciante agricolo potesse ricevere fino a 25 denarii al giorno, che i lavoratori impegnati nell’artigianato (lapidarii, fabri, calcis coctores, ecc.) potessero ottenere una paga massima di 50 denarii. Secondo le disposizioni imperiali, gli oratori sive sophistae potevano incassare fino a 250 denarii al mese per ogni studente al loro seguito, mentre più contenuto era l’onorario dei grammatici (200 denarii) e dei pedagogi (50 denarii). Un avvocato, a seconda del servizio fornito ai clienti, poteva godere di una parcella fino a 250 denarii per tenere un’accusa (in postulatione) oppure fino a 1000 denarii per sostenere una difesa (in cognitione).
Frammenti di lastra marmorea iscritta (IAphr. 231) con le tariffe sui trasporti dell’Edictum de pretiis (301) da Afrodisiade (Caria). Aphrodisias Museum.
Quanto ai beni, ecco il costo massimo di alcuni generi alimentari: una libbra italica (circa poco più di 300 g) di carne di maiale ammontava fino a 12 denarii, una libbra di carne bovina valeva al massimo 8 denarii e un paio di polli era venduto a 60 denarii complessivi. Vari, a seconda della qualità e della specie, i prezzi del pesce e della verdura, come pure quelli del vino: per esempio, un sestario (circa 0,5 l) di ottimo Falerno era ceduto a 30 denarii, più del triplo del valore del comune vino da tavola (vinum rusticum). Insomma, mezzo litro di vino di qualità valeva più della paga giornaliera di un operaio agricolo.
Che l’editto non abbia conseguito i risultati auspicati è noto, dato che le sue disposizioni furono spesso ampiamente aggirate, incrementando il mercato nero. A dimostrare comunque l’importanza della prescrizione era la pesantissima sanzione prevista per i trasgressori: in caso di sovrapprezzo, contrattazioni non autorizzate o altri comportamenti illeciti, i contravventori erano puniti con la pena capitale. Nonostante le numerose condanne comminate e l’eccessivo rigore dei giudici, le merci calmierate sparirono rapidamente dal mercato, l’inflazione riprese la sua corsa e molti prodotti si vendettero sotto banco a prezzi ancora più alti, dato che i commercianti più coraggiosi si facevano pagare una sorta di indennizzo per i rischi corsi.
Un macellaio (Tib. Giulio Vitale) e il suo servo (Marco). Rilievo sepolcrale con iscrizione (CIL VI 9501), marmo, c. metà del II secolo. Roma, Villa Albani.
A proposito degli effetti negativi delle misure dioclezianee parla Lattanzio nel suo De mortibus persecutorum, la fonte più polemica nei confronti della persona e dell’operato dell’imperatore. Nonostante la tradizione storiografica ricordi Diocleziano come un grande riformatore e restauratore, pur con tutti gli errori, i fallimenti e le contraddizioni, l’apologeta lo presenta non solo come un empio e sanguinario persecutore di cristiani ma anche come un uomo debole, pieno di vizi e pessimo governante; ne denuncia il malgoverno, a causa del quale trionfano illegalità, prepotenza e arbitrio, e lo accusa di essere responsabile perfino della crisi economica del cinquantennio precedente. Quanto all’Editto sui prezzi, il prosatore cristiano rinfaccia all’imperatore gli effetti e le modalità di attuazione (Lactant. De mort. pers. 7, 6-7):
idem cum variis iniquitatibus immensam faceret caritatem, legem pretiis rerum venalium statuere conatus est; tunc ob exigua et vilia multus sanguis effusus, nec venale quicquam metu apparebat, et caritas multo deterius, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur.
“E siccome le sue malefatte avevano prodotto un’enorme inflazione, egli cercò di fissare per legge i prezzi delle merci; al che avvenne che per cose insignificanti e senza valore il sangue scorresse a fiumi, il timore faceva sparire tutte le merci e l’inflazione subì una forte impennata, finché la legge per forza di cose non decadde, non prima di aver provocato la morte di tante persone”.
Come gli interventi in ambito monetario, dunque, anche l’Edictum de pretiis alla lunga si rivelò un fallimento: la crescita del mercato nero assunse forme così vistose e il meccanismo sanzionatorio divenne tanto insostenibile da costringere le autorità imperiali ad abrogare il provvedimento e ritornare al mercato libero.
I quattro tetrarchi con le loro famiglie. Bassorilievo su fregio, marmo, inizi IV secolo. Salonicco, Arco di Trionfo di Galerio.
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Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque intorno alla metà del III secolo in Africa, fu allievo di Arnobio e divenne anch’egli maestro di retorica. Insegnò retorica latina in Bitinia, a Nicomedia, dove si trovava all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano, che lo costrinsero a lasciare l’insegnamento: a Nicomedia, infatti, Lattanzio si era convertito al Cristianesimo. Nel 317 fu scelto da Costantino come precettore per il figlio, Crispo, e si recò in Gallia per assolvere questo compito. Morì dopo il 324.
Sono completamente perduti gli scritti del periodo pagano, cioè un Symposium, un Hodoeporicum, con la descrizione in versi del viaggio dall’Africa alla Bitinia, ed un trattato grammaticale. Del periodo successivo sono perdute anche le Lettere, in otto libri, e ci rimangono invece sei opere. De opificio Dei, scritto fra il 303 e il 305, sulla perfetta armonia della natura e sull’immortalità dell’anima, che Lattanzio difende con convinzione. Divinae institutiones, in sette libri, dedicate a Costantino, che furono iniziate nel 304 e completate nel 314, ma con aggiunte degli anni fra il 322 e il 324: i primi due libri sono contro il paganesimo, il III contro la filosofia, il IV sul Cristo, il V e il VI sulla teologia cristiana, il VII sul giudizio universale e il destino delle anime. Del 314 è un’Epitome che riassume e rielabora le Divinae institutiones. Dello stesso anno è il De ira Dei, sulla necessità che Dio si adiri contro i malvagi per dimostrare il suo amore verso i buoni. De mortibus persecutorum, del 315, con aggiunte del 320, che ricorda le drammatiche morti di quanti hanno perseguitato i Cristiani. Il carme De ave phoenice è, infine, un’elegia sulla fenice, simbolo di Cristo, la cui attribuzione a Lattanzio resta incerta.
Ms. Schøyen 1369 (1420-1430). Pagina manoscritta miniata dalle Divinae institutiones I di Lattanzio.
Benché sia allievo di Arnobio, Lattanzio, soprattutto nelle sue prime e maggiori opere, è un pensatore sistematico, assai equilibrato, lontano dagli eccessi del maestro sia per l’argomentazione sia per lo stile: tradizionalmente paragonato a Cicerone, Lattanzio procede con periodi ampi e ben articolati, non ama le battute ad effetto, si affida ad un ragionamento coinvolgente e abbastanza pacato. Se il De opificio Dei risente ancora di un’impostazione filosofica che rinvia alle scuole di pensiero classiche, e soprattutto allo stoicismo, e mostra solo qua e là tratti più definitivi di Cristianesimo, le Divinae institutiones ambiscono invece ad essere un libro fondamentale di sistemazione della dottrina cristiana, così come le molte institutiones composte nella tarda antichità su vari argomenti, e soprattutto sul diritto. Altro problema è se Lattanzio sia riuscito o meno a delineare il quadro organico che si era proposto, e se l’acume della sua riflessione sia paragonabile a quello dei grandi pensatori cristiani greci o, tra i latini, di un Agostino. Non c’è dubbio che Lattanzio sia un attento filologo, uno studioso pieno di scrupolo, assai più che un filosofo originale o un creatore di teorie; ma si deve, in più, cogliere l’importanza dell’operazione da lui compiuta nel trasportare l’apologetica dal piano della disputa passionale a quello dell’analisi razionale. Lattanzio studia il politeismo cercandone le radici nella divinizzazione di grandi uomini defunti, esplorando una linea di continuità del sapere antico a quello moderno; tende quindi a ridurre le contrapposizioni ad un criterio di evoluzione, dall’errore alla verità, dalla filosofia alla fede.
Lattanzio rompe così con la tradizione apologetica di Tertulliano, ancora tanto presente in Arnobio, e, in coerenza col programma costantiniano, tende a presentare un Cristianesimo egemone perché capace di arricchirsi del meglio della cultura antica. Il Cristianesimo diventa quasi il frutto naturale della sapientia classica: non deve perciò incutere paura, e può senza troppi problemi divenire la nuova religione di Roma. La conferma degli antichi valori, riproposti senza eccessive modificazioni alla luce della nuova fede, un’ispirazione «liberale» profondamente coerente con il pacato classicismo dello stile, una prospettiva di salvezza che passa attraverso una fine del mondo non più catastrofica, ma descritta con i colori dell’età dell’oro, sono un chiaro segnale di quanto sia cambiato il mondo occidentale nei dieci anni che vanno dalle persecuzioni di Diocleziano all’editto di Costantino.
Ritratto (probabile) di Lattanzio. Affresco, IV sec. d.C.
Anche le due opere dal titolo più severo e vendicativo, il De ira Dei e il De mortibus persecutorum, non contraddicono questo quadro. Il primo testo conferma l’equilibrio del mondo, attraverso la punizione divina per i malfattori, e finisce in realtà con l’essere consolatorio più che minaccioso; il secondo, quello apparentemente più lontano dalle posizioni di Lattanzio, tanto che si è spesso dubitato della sua autenticità, si inserisce altrettanto bene nel programma costantiniano, ma da un altro punto di vista e secondo le linee di un altro genere letterario, quello storiografico. Gli imperatori si dividono in due categorie: quelli che hanno tollerato o aiutato il Cristianesimo e quelli che l’hanno perseguitato. Questi ultimi sono gli imperatori malvagi, che hanno fatto male allo Stato e hanno giustamente subito la punizione divina, mentre i primi sono gli imperatori buoni, e fra tutti il migliore è Costantino. Sono così poste le condizioni per il sorgere di una storiografia religiosa in lingua latina, e nello stesso tempo si fornisce un contributo alla creazione del mito di Costantino, simbolo del rapporto fra potere e Chiesa.
È interessante osservare che i due temi conduttori del De mortibus (trionfalismo della Chiesa ed esaltazione di Costantino) sono presenti, con assai più ampio respiro, nell’opera del contemporaneo di lingua greca Eusebio di Cesarea; in quegli stessi anni, con la sua Historia Ecclesiastica, egli apriva al genere storiografico una prospettiva nuova, nella quale la Chiesa e le sue vicende si facevano centro di interesse per la narrazione.
di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.
[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 115–42, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.
Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.
Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 71–72).
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».
Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.
Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.
Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).
Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 3–4).
Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).
Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).
Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 3–4; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.
Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 5–6).
Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.
L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.
Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.
Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.
Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.
Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.
Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).
Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.
L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).
Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).
Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.
Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.
In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).
Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditusreligionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.
Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 114–42, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.
Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.
Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.
Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.
di Lattanzio, Come muoiono i persecutori (De mortibus persecutorum), introduzione, traduzione e note a cura di M. Spinelli, Roma 2005, 123-127.
[1] Licinius vero accepta exercitus parte ac distributa traiecit exercitum in Bithyniam paucis post pugnam diebus et Nicomediam ingressus gratiam deo, cuius auxilio vicerat, retulit ac die Iduum Iuniarum Constantino atque ipso ter consulibus de resituenda ecclesia huius modi litteras ad praesidem datas proponi iussit:
[2] «Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere. [3] Itaque hoc consilium salubri ac recticissima ratione ineundum esse credidimus, ut nulli omnino facultatem abnegendam putaremus, qui vel observationi Christianorum vel ei religioni mentem suam dederet quam ipse sibi aptissimam esse sentiret, ut possit nobis summa divinitas, cuius religioni liberis mentibus obsequimur, in omnibus solitum favorem suum benivolentiamque praestare. [4] Quare scire dicationem tuam convenit placuisse nobis, ut amotis omnibus omnino condicionibus quae prius scriptis ad officium tuum datis super Christianorum nomine <continebantur, et quae prorsus sinistra et a nostra clementia aliena esse> videbantur, <ea removeantur. Et> nunc libere ac simpliciter unus quisque eorum, qui eandem observandae religionis Christianorum gerunt voluntatem citram ullam inquietudinem ac molestiam sui id ipsum observare contendant. [5] Quae sollicitudini tuae plenissime significanda esse credidimus, quo scires nos liberam atque absolutam colendae religionis suae facultatem isdem Christianis dedisse. [6] Quod cum isdem a nobis indultum esse pervideas, intellegit dicatio tua etiam aliis religionis suae vel observantiae potestatem similiter apertam et liberam pro quiete temporis nostri <esse> concessam, ut in colendo quod quisque delegerit, habeat liberam facultatem. <Quod a nobis factum est ut neque cuiquam> honori neque cuiquam religioni <detractum> aliquid a nobis <videatur>. [7] Atque hoc insuper in persona Christianorum statuendum esse censuimus, quod, si eadem loca, ad quae antea convenire consuerant, de quibus etiam datis ad officium tuum litteris certa antehac forma fuerat comprehensa, priore tempore aliqui vel a fisco nostro vel ab alio quocumque videntur esse mercati, eadem Christianis sine pecunia et sine ulla pretii petitione, postposita omni frustratione atque ambiguitate restituant; [8] qui etiam dono fuerunt consecuti, eadem similiter isdem Christianis quantocius reddant; etiam vel hi qui emerunt vel qui dono fuerunt consecuti, si petiverint de nostra benivolentia aliquid, vicarium postulent, quo et ipsis per nostram clementiam consulatur. Quae omnia corpori Christianorum protinus per intercessionem tuam ac sine mora tradi oportebit. [9] Et quoniam idem Christiani non [in] ea loca tantum ad quae convenire consuerunt, sed alia etiam habuisse noscuntur ad ius corporis eorum id est ecclesiarum, non hominum singulorum, pertinentia, ea omnia lege quam superius comprehendimus, citra ullam prorsus ambiguitatem vel controversiam isdem Christianis id est corpori et conventiculis eorum reddi iubebis, supra dicta scilicet ratione servata, ut ii qui eadem sine pretio sicut diximus restituant, indemnitatem de nostra benivolentia sperent. [10] In quibus omnibus supra dicto corpori Christianorum intercessionem tuam efficacissimam exhibere debebis, ut praeceptum nostrum quantocius compleatur, quo etiam in hoc per clementiam nostram quieti publicae consulatur. [11] Hactenus fiet, ut, sicut superius comprehensum est, divinus iuxta nos favor, quem in tantis sumus rebus experti, per omne tempus prospere successibus nostris cum beatitudine publica perseveret. [12] Ut autem huius sanctionis <et> benivolentiae nostrae forma ad omnium possit pervenire notitiam, prolata programmate tuo haec scripta et ubique proponere et ad omnium scientiam te perferre conveniet, ut huius nostrae benivolentiae [nostrae] sanctio latere non possit».
[13] His litteris propositis etiam verbo hortatus est, ut conventicula <in> statum pristinum redderentur. Sic ab eversa ecclesia usque ad restitutam fuerunt anni decem, menses plus minus quattuor.
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Costantino. Testa colossale, bronzo, IV sec. d.C. Roma, Museo del P. zzo dei Conservatori.
[1] Licinio da parte sua ricevette in resa una parte dell’esercito [di Massimino], la distribuì [fra le proprie truppe] e pochi giorni dopo la battaglia trasferì l’armata in Bitinia. Entrato in Nicomedia rese grazie a Dio, cui doveva la vittoria, e il 13 giugno – console per la terza volta insieme a Costantino – ordinò di rendere pubblica una lettera inviata al governatore sulla reintegrazione della Chiesa[1]. Eccone il testo:
[2] «Io, Costantino Augusto, come pure io, Licinio Augusto, ci siamo riuniti felicemente in Milano per trattare di tutte le questioni che riguardano il bene e la sicurezza pubblici. E fra tutti gli altri provvedimenti da varare a vantaggio della maggioranza delle persone abbiamo ritenuto doveroso regolare prima di tutto quelli relativi al rispetto della divinità, concedendo sia ai Cristiani sia a tutti la libera possibilità di seguire la religione che ognuno si è scelta; in questo modo tutto quello che c’è di divino nella sfera celeste potrà riconciliarsi e cooperare con noi e con tutti quelli che dipendono dalla nostra autorità. [3] Perciò abbiamo creduto, con spirito salutare e rettissimo, di dover prendere questa decisione: non si dovrà [più] negare questa libertà assolutamente a nessuno che abbia aderito in coscienza alla religione dei Cristiani, o a quella che abbia ritenuto la più adatta a sé; così la suprema divinità, al culto della quale ci inchiniamo [pure noi] con animo libero, potrà accordarci in tutte le circostanze il suo continuo favore e la sua benevolenza[2].
[4] Pertanto, conviene che la Vostra Eccellenza sappia che abbiamo deciso di annullare senza eccezione tutte le restrizioni già notificate per iscritto a codesto ufficio e aventi per oggetto il nome dei Cristiani, e di abrogare altresì le disposizioni che possano apparire contrarie ed estranee alla Nostra Clemenza, permettendo [da] ora [in avanti] – a chiunque voglia osservare la religione dei Cristiani – di farlo senz’altro con assoluta libertà, senza essere disturbato e molestato[3]. [5] Abbiamo creduto di dover comunicare per esteso alla tua sollecitudine queste decisioni, perché tu sappia che noi abbiamo concesso ai suddetti Cristiani la facoltà libera e incondizionata di praticare la loro religione[4]. [6] Vedendo quello che abbiamo concesso ai [Cristiani] stessi, la Tua Eccellenza comprende che una possibilità ugualmente libera e incondizionata di professare la propria religione è stata riconosciuta pure agli altri, come esige la nostra era di pace, sicché ognuno abbia il pieno diritto di prestare il culto che si è scelto. E questo lo abbiamo deciso perché deve risultare chiaro che da parte nostra non si è voluta arrecare la minima violazione a nessun culto e a nessuna religione[5].
[7] Inoltre, per quanto riguarda i Cristiani, abbiamo ritenuto di dover fissare anche un’altra disposizione. I luoghi dove essi avevano in precedenza l’abitudine di riunirsi, e che nelle lettere inviate in passato alla tua amministrazione erano descritti in modo dettagliato, dovranno essere restituiti senza pagamento e senza nessuna richiesta d’indennizzo, evitando ogni frode e ogni equivoco, da parte di quelli che risultano averli acquistati in epoca precedente dal patrimonio statale o da chiunque altro. [8] Anche quelli che abbiano ricevuto in dono [tali proprietà] devono restituirle al più presto ai Cristiani; e se gli acquirenti o chi ha ricevuto donazioni richiederanno qualcosa alla Nostra Benevolenza si rivolgano al vicario, perché dia loro soddisfazione in nome della Nostra Clemenza. È tuo compito inderogabile che tutti questi beni vengano restituiti senza esitazione alla comunità dei Cristiani[6].
[9] E poiché gli stessi Cristiani si sa che possedevano non solo i luoghi per le loro abituali riunioni ma anche altri, appartenenti di diritto alla loro comunità, cioè alle chiese e non a singole persone, ordinerai di restituirli tutti ai Cristiani, ossia alla loro comunità e alle loro chiese, secondo la procedura sopraesposta, senza nessun equivoco o contestazione. Vale solo la riserva enunciata prima: chi restituirà questi beni gratuitamente, come abbiamo detto, potrà contare su un risarcimento dalla Nostra Benevolenza. [10] In tutti questi adempimenti sarà tuo dovere assicurare alla suddetta comunità dei Cristiani il tuo sostegno più fattivo, in modo che il Nostro Ordine venga eseguito al più presto, e in questa faccenda grazie alla Nostra Clemenza sia tutelata la tranquillità pubblica. [11] Solo a queste condizioni si ripeterà quel che si è visto prima: cioè il favore divino da noi sperimentato in circostanze così importanti continuerà a propiziare in ogni occasione i nostri successi, per la prosperità di tutti. [12] Ma per fare in modo che tutti possano essere informati del contenuto di questa nostra generosa ordinanza conviene che tu promulghi le suddette disposizioni con un tuo editto[7], affiggendolo ovunque e facendolo conoscere a tutti: così queste nostre decisioni, suggerite dalla Nostra Benevolenza, non potranno rimanere ignorate».
[13] Alla pubblicazione di questa lettera [Licinio] accompagnò le sue esortazioni verbali, perché le comunità [cristiane] fossero riportate alla loro condizione precedente[8]. Così, dalla distruzione della Chiesa alla sua restaurazione erano trascorsi dieci anni e circa quattro mesi.[9]
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Due Augusti. Bassorilievo, porfido, inizi IV sec. d.C. Roma, Musei Vaticani.
Note:
[1] Costantino e Licinio si erano incontrati a Milano ai primi del 313. In quell’occasione avevano concertato e redatto insieme ai loro collaboratori ed esperti il documento che stiamo per leggere (noto come “editto di Milano”), volto a legittimare e risarcire la Chiesa cristiana e i suoi adepti, perseguitati durante l’ultimo decennio. Dopo la messa a punto del provvedimento i due imperatori molto probabilmente lo avevano inviato al governatore di Bitinia, dove la persecuzione era divampata ed era stata particolarmente dura, e anche alle autorità delle altre province. Ora, entrato vincitore e imperatore a Nicomedia, Licinio si affretta a rendere pubblico il testo del documento (13 giugno 313). In realtà, come si vede non si tratta però di un edictum sul tipo di quello di Galerio, bensì di una circolare (litteras) inviata per l’esecuzione alle autorità competenti, e quindi a queste già nota nei contenuti. Tale natura tecnico-giuridica del provvedimento si confermerà a più riprese durante la lettura del testo. Infine si noti per inciso che pure il cosiddetto “editto di Milano” finisce per diventare in un certo qual modo un “secondo editto di Nicomedia”, in quanto pubblicato come si è appena visto (in questo caso non da Costantino ma da Licinio) nel capoluogo di Bitinia almeno tre mesi dopo la sua redazione e prima emanazione in Occidente.
[2] Questa preoccupazione nutrita dall’autorità civile romana di poter contare sul consenso e sulle preghiere dei Cristiani, e quindi sul sostegno del loro Dio per il benessere dell’imperatore e dello Stato, era già presente nell’analoga disposizione promulgata da Galerio.
[3] Come si vede, la prima parte dell’editto (o, meglio, del mandatum) di Costantino-Licinio ha un carattere negativo, contenendo il ritiro e l’abrogazione di tutti i divieti, le censure e le misure restrittive nei confronti dei Cristiani, decise o adottate o inasprite durante i periodi di persecuzione.
[4] È il passo più esplicito, nuovo e storicamente importante di tutto il decreto: ai Cristiani è riconosciuto d’ora in avanti il diritto di abbracciare e professare liberamente e senza restrizioni il proprio credo religioso. Il Cristianesimo diventa ufficialmente, de iure – non solo de facto come in passato, nei periodi precedenti in cui non c’erano state persecuzioni anti-cristiane – religio licita, culto ammesso e rispettato dallo Stato.
[5] Tolleranza, libertà e diritti riconosciuti al Cristianesimo vanno estesi a ogni altra religione coltivata e praticata all’interno della società romana. Pure questa posizione – più che a una logica squisitamente moderna di libertà, uguaglianza e omogeneità di condizione e trattamento di fronte alla legge – si deve all’interesse da parte dello Stato e dell’autorità di assicurarsi il favore e il sostegno di divinità e potenze onorate da tutte le religioni.
[6] Dopo l’annullamento della legislazione anti-cristiana e il riconoscimento della liceità del Cristianesimo, il provvedimento prevede e ordina un risarcimento morale e concreto a beneficio dei Cristiani già perseguitati, attraverso il totale ripristino e la restituzione piena e gratuita (salvo eventuale rimborso – se richiesto – concesso dalla pubblica autorità, non dai Cristiani) di sedi, beni e proprietà sottratti loro illegalmente e con violenza durante le persecuzioni.
[7]Programmate tuo. Si è tradotto «con un tuo editto», ma evidentemente in questo caso non si tratta di un “editto” come quello galeriano di Nicomedia, cioè di un decreto governativo emanato direttamente dalla suprema autorità. Programma (parola greca che significa «proclama», «avviso pubblico», «editto» e simili) è l’atto esecutivo spettante all’autorità amministrativa e periferica – i governatori delle province o funzionari di pari livello – chiamata a rendere pubbliche e divulgare le decisioni politico-governative dell’imperatore, eventualmente chiarendole, interpretandole e corredandole di disposizioni pratiche, aggiuntive o esecutive, ove necessario e, naturalmente, in assoluta coerenza con la lettera e lo spirito della legge imperiale.
[8] Cioè alla situazione anteriore al 23 febbraio del 303, inizio della persecuzione dioclezianea, oltre dieci anni prima. Le “esortazioni verbali” dell’imperatore alle autorità e ai funzionari responsabili mostrano che la volontà politica di finirla con le persecuzioni e di ridare libertà ai Cristiani era forte e assoluta, e Licinio in questo caso era – al momento – in totale accordo con Costantino. Ma di lì a qualche mese la fine di questa intesa e la nuova guerra fra i due colleghi indurrà Licinio a riprendere per qualche tempo in Oriente le azioni contro i Cristiani: sarà la prima recrudescenza persecutoria dopo l’editto di Milano e prima dei provvedimenti anti-cristiani di Giuliano l’Apostata, una cinquantina d’anni più tardi.
[9] Dal 23 febbraio del 303 al 13 giugno 313, quando l’ultimo persecutore e rivale degli imperatori filo-cristiani, Massimino Daia, era stato sconfitto e messo in fuga da Licinio, per cui si era aperta la via all’applicazione anche in Oriente dei provvedimenti di tolleranza già decisi e fissati da Costantino e Licinio a Milano pochi mesi prima.
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