Il generale dell’esercito romano nel I secolo a.C.

di E. GABBA, in M. SORDI (a c. di ), Guerra e diritto nel mondo greco e romano. Contributi dell’Istituto di storia antica, vol. XXVIII, Milano 2002, pp. 155-162.

Questo intervento si basa su alcuni miei lavori precedenti. Come si vedrà dai testi, io sostanzialmente farò riferimento a una serie di scritti che si collocano lungo un percorso cronologico che, pur incominciando dalla fine del IV secolo, in realtà è centrato sul I secolo a.C.

Il concetto base, che rappresenta anche la conclusione, è che la caratteristica del comandante militare romano nel I secolo a.C. è strettamente collegata con un profondo mutamento, intervenuto nella composizione della forza militare romana, che emerge con nette caratteristiche in opposizione alle situazioni precedenti. La connotazione del generale nel I secolo a.C. è, infatti, fondamentalmente militare e sta in rapporto alla situazione socio-politica dell’esercito, che è venuta acquisendo i suoi lineamenti dalla fine del II secolo a.C. e che ha modificato profondamente il rapporto precedente fra il generale e le sue truppe.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Io mi sono già occupato dell’esercito professionale che si contrappone – non in maniera totalmente drastica ma in modo molto evidente – al precedente tipo di esercito che era una milizia cittadina[1]. Il generale del I secolo non è più visto in relazione ai cittadini che si ritrovano nella milizia, dove la distinzione fra chi comanda e chi obbedisce si fonda sul riconoscimento, da parte dei cittadini militi, di una superiorità della propria classe dirigente tradizionale per virtù civiche, politiche e militari. Questo riconoscimento, che prescinde dalla divaricazione di carattere sociale – che fra IV e III secolo a.C. non è così grave come sarà poi –, è testimoniato molto bene dagli elogi degli Scipioni, cioè la messa in epigrafe di laudationes funebri, che si rivolgono al pubblico – almeno quelle del Barbato e del figlio –; in esse c’è il riconoscimento del cittadino, che esercita la sua attività e poi va a combattere nella milizia, nei confronti del suo comandante, il quale a sua volta è un cittadino di grado più elevato di cui si riconosce una certa serie di meriti[2].

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Un altro esempio curioso: in Livio IX 16, 11 ss. c’è l’elogio funebre di Papirio Cursore che fu console nel 326, 320, 319, 315, 313 e dittatore nel 310 a.C. In tale elogio si dice che il cognomen Cursor dipendeva dal fatto che costui sapeva correre molto bene, vale a dire sapeva combattere con velocità, poi si elogia la sua capacità di mangiare, di bere molto e di sopportare bene le fatiche della guerra, cioè delle caratteristiche estrinseche e tuttavia interessanti. Un altro esempio ancora è il decalogo della laudatio funebris pronunciata nel 221 a.C. dal figlio per L. Cecilio Metello (Oratorum Romanorum fragmenta, ed. E. Malcovati, IV edizione, p. 10)[3] dove si dice che Metello si vantava di aver raggiunto dieci aspetti fondamentali nella vita politico-militare, fra i quali non figurano né il favore degli dèi, né i rapporti con i suoi cives: sono esclusivamente virtù e capacità personali che sono emerse nell’esercizio della sua attività politico-militare come cittadino romano dell’oligarchia.

L’avvio al riconoscimento al generale di un potere carismatico avviene in seguito con Scipione Africano, che rappresenta però nel suo contesto storico un’eccezione[4]. Mi limito a citare l’episodio di Carthago Nova nel 209 a.C., quando si trattava di dare l’assalto a questa fortezza cartaginese in Spagna. L’episodio è circondato da un alone carismatico che sfiora la leggenda. In Polibio X 2, 2-20 e in Livio XXVI 41, 3-25 (con un discorso che però qui non interessa) la giustificazione dell’impresa militare data dal generale ai suoi soldati è il motivo dell’appoggio divino, che sarà poi tradizionalmente connesso con la personalità di Scipione; è determinante questa affermazione nel rapporto verso i militi, per convincerli che l’impresa non sia disperata e perché ritengano invece possibile compierla. A questa giustificazione si sommano altre due caratteristiche: Scipione è presentato come esempio di continenza e di disinteresse. Si tratta di un caso abbastanza isolato. La motivazione dell’appoggio divino per il comandante militare è una cosa molto diversa dagli onori divini che il mondo greco attribuisce ai generali romani che combattono in Oriente.

Littore. Statuetta, bronzo, I sec. d.C. London, British Museum.

La situazione cambia completamente nel corso del II secolo a.C. e in proposito vi sono alcuni testi assolutamente fondamentali[5]. Mi riferisco al caso di Tiberio Gracco che nel 133 a.C. presenta la sua legge agraria. Come è noto, le due fonti principali sono le Guerre Civili di Appiano I 1 e la biografia dei due fratelli Gracchi di Plutarco, riportano dei brani di discorsi che Tiberio Gracco ha tenuto (non entro nel problema complicatissimo delle fonti, ma è ammesso che questi sono frammenti fededegni). Le argomentazioni che Tiberio adduceva erano di due tipi: quelle di fronte al Senato e quelle di fronte al popolo. Quello che ci interessa è uno dei discorsi tenuti davanti al popolo, in cui Tiberio afferma che i generali, quando tengono i loro discorsi ai soldati prima della battaglia raccontano delle cose inattuali allorché sostengono che il combattimento avviene pro aris et focis: siamo al di fuori di questa mentalità, perché la maggior parte dei soldati non ha neanche la tana che hanno le bestie, né focolari, né tombe da difendere. Perciò tale discorso giustificativo non è più attuale. Naturalmente dietro a questa inattualità c’è il fatto che i ceti medi che fornivano gli adsidui sono decaduti e si sono proletarizzati; perciò non c’è più una corrispondenza fra la realtà sociale della milizia alla quale i generali si rivolgono con gli argomenti antichi e le realtà che sono invece completamente nuove.

Questo è interessante perché fornisce un altro argomento a dei ragionamenti che troviamo, più che nel testo di Tiberio, negli scritti di Sallustio. Alla base di questo nuovo modo di ragionare, cioè l’assenza di corrispondenza fra la realtà sociale e i motivi tradizionali con i quali i soldati venivano incitati alla battaglia dai loro generali, emerge un ragionamento già presente in pensatori greci anche del V e del IV secolo a.C.: combatte volentieri chi ha qualcosa da difendere; chi non ha nulla da difendere combatte semplicemente per guadagno; da qui la famosa frase di Sallustio et omnia cum pretio honesta videntur, vale a dire tutte le cose diventano onorevoli se però c’è un contraccambio[6]. Sallustio presta questa tematica – peraltro ricorrente nella sua opera – anche alla fine del II secolo a.C. con un riverbero però di situazioni successive. Comunque nel discorso di Tiberio Gracco, il generale con quelle sue giustificazioni non è più in grado di corrispondere alla realtà sociale delle sue truppe.

Nel 106 a.C., Bellum Iugurthinum di Sallustio cap. 85, su cui ha scritto anche la collega Sordi[7], è il famoso discorso di Mario dopo la sua elezione, dove ci sono nuovi motivi dell’età triumvirale (quando, cioè, scrive Sallustio, che è in polemica con l’età triumvirale ma anche con Cicerone volendo rappresentare il declino della nobiltà oligarchica, che Sallustio fa risalire appunto al periodo della guerra giugurtina). In questo discorso ci sono almeno quattro punti da tener presenti: Mario elogia i suoi mores che non dipendono dalla tradizione ma sono di buona gente contadina, esalta la sua novitas – motivo caricato di significato dall’età triumvirale –, combatte l’avaritia dei generali dell’oligarchia (par. 45) e fa balenare la speranza di preda per i soldati. Siamo quindi di fronte a una realtà nuova e, in linea con gli argomenti del discorso di Tiberio Gracco, incomincia a far capolino l’accusa di avaritia ai generali dell’oligarchia, alla quale si contrappone Mario con i suoi mores intemerati che derivano dalla sua novitas, ma c’è anche la speranza di preda. Qualunque sia l’aderenza del discorso più o meno attuale, tuttavia esso conferma i frammenti di Tiberio Gracco, vale a dire che il richiamo di valori ideali per la truppa è ormai al di fuori di ogni attualità.

La milizia cittadina che si richiamava ai valori ideali è in via di sparizione; in questo contesto avviene la teorizzazione della necessità di arruolare truppe volontarie, che sono disposte a fare tutto agli ordini del generale per essere ricompensate, e così vengono meno la difesa del patrimonio e l’amor patrio. Il prestigio del generale si va sempre più appoggiando anche a interventi della divinità. Gli dèi intervenivano nella discussione polemica sull’imperialismo romano del II secolo a.C. come motivo giustificatorio verso l’esterno: sono numerosissime le iscrizioni di II secolo in cui è presente questo tema. Ora riprendiamo il motivo già presente in Scipione dell’appoggio della divinità, che diventa motivo strumentale interno per il rapporto fra il comandante e i suoi soldati; l’esempio più tipico è quello di Silla che addirittura assunse il cognome di Felix, nel senso di «fortunato», che nell’appellativo greco di ἐπαφρόδιτος veniva ad assumere il senso di essere appoggiato da Afrodite. Il generale dalla fine del II secolo a.C. ritiene normale richiamare questi motivi carismatici come evento legittimante, che sostituisce l’ideale della difesa della patria e rappresenta anche, come sappiamo, un contesto assolutamente nuovo.

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, tenente una foglia di palma (L. Sulla).

La personalità del generale, i suoi comportamenti e i suoi rapporti con le truppe diventano oggetto di una teorizzazione, che non era mai esistita in precedenza, se non negli accenni che prima ho fatto, e questa teorizzazione si collocava verso gli anni ‘60 del I secolo a.C. e si sviluppa attraverso il confronto fra due grandi personalità: il più grande generale dell’oligarchia del tempo, L. Licinio Lucullo, e Pompeo Magno. Il confronto avviene al momento della sostituzione di Lucullo con Pompeo nella conduzione della guerra mitridatica, cioè attorno al 67-66 a.C. La fonte principale è l’orazione De imperio Cnei Pompei del 67 a.C. per la legge Manilia e i passi che vedremo rappresentano una lunga trattazione dal par. 28 al par. 48[8].

Qui si pone un altro problema: se dietro all’orazione ci sia non solo una rielaborazione del testo pronunciato, ma anche una lunga discussione sulla figura del comandante, perché il problema è affrontato anche in modo esplicito nella biografia di Lucullo di Plutarco capp. 7 e 32-35, dove c’è una lunga spiegazione del modo di comportarsi di Lucullo, di cui si riconoscono i meriti militari indiscutibili, ma si accenna anche al fatto che tutte le campagne militari da lui condotte non hanno mai rappresentato il colpo decisivo per distruggere Mitridate. Questa discussione dei comportamenti di Lucullo si basa sopra alcuni motivi ben precisi: il suo distacco fortissimo verso le truppe – egli trascurava, cioè, le ragioni di soldati che combattevano da decenni in Asia –, il suo disprezzo per le loro esigenze di remunerazione e le accuse di approfittarsi della guerra e dei bottini. La biografia di Lucullo dipende dalle Historiae di Sallustio, come dice Plutarco; sarebbe interessante vedere se il testo di Sallustio, ripreso da Plutarco, risponde all’orazione ciceroniana e se ci siano alla base delle riflessioni dello stesso Cesare.

Cicerone (De imperio Cn. Pompei, par. 28) dice: in summo imperatore quattuor has res inesse oportere, scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatem e poi spiega che con scientia rei militaris si intende che il generale deve essere competente. Questa è un’esigenza sempre più precisa anche quando la professione del generale ha un suo valore autonomo; nel IV secolo e ancora in seguito nessuno pretendeva che ci fosse una scientia rei militaris, al massimo si suppliva con un legato esperto. La virtus è il valore, il generale deve impersonare il valore militare, deve essere capace cioè di tradurre la scientia rei militaris in un’azione diretta. Poi l’auctoritas, come spiega Cicerone, significa avere autorevolezza sui soldati, allontanando da sé ogni accusa di avaritia. Infine la felicitas, cioè la fortuna: bisogna mostrare che il generale ha avuto l’appoggio degli dèi. Tutte qualità che non si ritrovano combinate in Lucullo. Ne emerge una figura di generale completamente nuova che corrisponde al nuovo rapporto che si è stabilito fra lui e le sue truppe, mentre passa del tutto in secondo piano il fatto che il generale rappresenti la res publica. Nel Bellum Hispaniense[9] si dice che un sottoufficiale, che aveva combattuto con Pompeo, passa dalla parte di Cesare perché il suo generale non aveva più avuto fortuna. Non si tratta di un “ribaltone”: semplicemente bisogna passare dalla parte di chi ha l’appoggio degli dèi. Siamo di fronte a una consapevolezza nuova.

«Minerva Giustiniani». Statua, marmo pario, seconda metà I sec. d.C. ca. dal Tempio di Minerva Medica sull’Esquilino. Roma, Musei Vaticani.

Mi sono occupato del problema in un volumetto sulle rivolte militari romane pubblicato nel 1974, dove avevo già precisato questi punti ma senza questo approfondimento. Nel De bello Gallico I 40, 12-13, al momento dello scontro militare di Cesare con Ariovisto a Vesontio (Besançon), ci sono i prodromi di una rivolta militare nella raffigurazione piena di sarcasmo che Cesare dà dei soldati e soprattutto dell’ufficialità, venuta al seguito del generale nella speranza del bottino, quando, resa nota la descrizione dei soldati di Ariovisto, si diffonde un timor panico in tutto l’esercito. Cesare interviene con questo discorso in cui chiede da quando in qua i soldati discutono col generale il diritto al comando: se il generale dà un ordine vuol dire che questo è possibile (scientia rei militaris), d’altra parte gli risulta che nei casi in cui un qualche esercito si sia rifiutato di ubbidire dipendeva dal fatto o che nelle campagne militari precedenti era mancata la fortuna (aut male re gesta fortunam defuisse) o aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam, in seguito a qualche mal fatto era legittima l’accusa di avaritia verso il generale.

Ritornano nel discorso di Cesare almeno tre dei motivi fondamentali della connotazione che doveva esserci, secondo Cicerone, nel generale. Uno è il tema dell’avaritia, l’altro è quello della fortuna, cioè dell’appoggio degli dèi, e il terzo è quello della scientia rei militaris, e poi Cesare aggiunge che suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam, cioè la sua assoluta purezza di fronte all’avaritia era dimostrata da tutta la sua vita, mentre la sua fortuna era dimostrata dallo scontro da poco concluso con gli Elvezi.

Il passo è ricco di artifizi, perché nella vita di Cesare fino ad allora appariva ben poca innocentia, ma nessuno poteva negare la sua felicitas. Si può andare più a fondo: è noto che questo discorso è stato rielaborato in Cassio Dione XXXVIII 35[10], dove è riportato il discorso di Cesare, ma è molto sbiadita l’aderenza alla rivolte dell’esercito. Ma la questione che Cesare sottace e che emerge in Cassio Dione è che i dubbi degli ufficiali erano sulla legittimità della guerra e non sulle capacità di Cesare di combattere. Tanto è vero che poi Catone propose di consegnare Cesare ai nemici, perché questi andava al di là degli obblighi che gli derivavano dal suo comando in Gallia. È interessante vedere che ci sono chiarissimi riferimenti a Lucullo; per questo dicevo poc’anzi che la figura di Lucullo è stata oggetto di una grossa discussione negli anni fra il 60 e il 50 a.C.; qui siamo nel 58 a.C., e non è passato molto tempo dal ritorno di Lucullo e dall’orazione di Cicerone.

Cesare in più parti del De bello Gallico raffigura se stesso come comandante e in più punti dichiara di essere intervenuto direttamente nello scontro quasi fisico contro l’avversario e qui si collega con un altro passo di Cicerone, il De officiis I 81 (fine 44 a.C.). Cicerone testimonia la lettura estesa del De bello Gallico di Cesare pubblicato fra il 52 e il 51 a.C. nello stesso anno in cui vengono pubblicati anche i libri del De re publica. E nel De officiis afferma: «è cosa bestiale e selvaggia scendere a combattere il nemico in mezzo alle schiere», come aveva fatto Cesare[11]. L’unico caso in cui è lecito combattere direttamente è quando lo si fa per salvarsi dalla schiavitù, cioè per difendere la libertà, che è il tema centrale del De officiis di Cicerone.

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[1] In due memorie del 1949 e del 1951, raccolte poi in GABBA E., Esercito e società nella tarda repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 1 ss.; 47 ss.

[2] GABBA E., La concezione antica di aristocrazia, «Rend. Acc. Lincei», ser. IX, 6 (1995), pp. 464-468.

[3] ID., Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., ora in ID., Del buon uso della ricchezza, Guerini, Milano 1988, pp. 27-44.

[4] ID., P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, ora in ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993, pp. 113-132.

[5] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 37-55.

[6] ID., Esercito e società, pp. 31-45.

[7] SORDI M., L’arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell’azione politica di Mario, «Athenaeum», 60 (1972), pp. 379-385; cfr. GABBA E., «Athenaeum», 61 (1973), pp. 135-136.

[8] GABBA E., Le rivolte militari dal IV secolo a.C. ad Augusto, Sansoni, Firenze 1975, pp. 23-24.

[9] Bell. Hisp. 17, 1-2. GABBA E., Le rivolte militari, pp. 73-75.

[10] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 165-168.

[11] ID., Per un’interpretazione del de officiis di Cicerone, «Rend. Acc. Lincei», ser. VIII, 34 (1979) p. 126.

Avere «occhi eruditi» a Roma

di M. PAPINI, Avere “occhi eruditi” a Roma. Arte greca – e sensi di colpa romani – nelle opere di Cicerone, in I giorni di Roma. L’età della conquista, Milano 2010, pp. 125-135).

 

70 a.C.: anno del clamoroso processo contro Gaio Verre, di famiglia non blasonata, il quale già nel compimento della sua legatio al seguito di C. Cornelio Dolabella nell’80 a.C. ad Atene aveva promosso lo scippo di gran quantità d’oro dal Partenone e in Asia aveva fatto man bassa di quadri e statue (Verrine, II 1, 45-50). Dopo la conclusione della propretura in Sicilia, conseguita nel 73 e prolungata fino al 71 a.C., varie città dell’isola, a causa delle sue plurime malversazioni, manifestarono contro di lui un furore tale da abbatterne le statue; il governatore venne così processato de pecuniis repetundis, per concussione, e Cicerone su richiesta dei Siciliani assunse il compito di accusatore. L’Actio prima iniziò il 5 agosto del 70 a.C., e, dopo un’interruzione dell’attività giudiziaria, la seconda fase fu rinviata alla metà di settembre; siccome Verre scelse la via dell’esilio volontario, all’eventuale rapida ripresa delle accuse seguì la sentenza che inflisse un’ammenda modesta all’imputato, il quale continuò a vivere tra le ricchezze a Marsiglia, dove però Antonio nel 43 a.C. lo fece proscrivere a causa del rifiuto di donargli i suoi bronzi corinzi (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 6). Al termine Cicerone redasse le Verrine, costituite dall’Actio prima e dalle cinque orazioni mai pronunciate dell’Actio secunda, ibrido tra una requisitoria e un’opera di finzione letteraria. Il quarto libro dell’Actio secunda, la De Signis, stigmatizza, in un folto dossier, le sottrazioni di opere d’arte perpetrate in Sicilia da Verre, descritto come un ignorante convinto di poter comprare tutto: un homo locuples, eruditus, sine ulla bona arte, sine humanitate, sine ingenio e sine litteris, con la pretesa di esprimere giudizi sottili e di essere il solo a intendere; peccato solo che il Graeculus di greco non sapesse neppure un parola (Verrine, II 4, 127). Così, schiavo di un’insana smania (morbus), egli derubò dei privati cittadini, Greci e Romani, e persino dei principi reali e non si fece scrupolo di carpire opere d’arte a città o a santuari circondati da profonda venerazione, senza distinguere tra privato e pubblico o profano e sacro (II 4, 2); in più, non sempre riuscì a esibire i libri contabili e a precisare le eventuali modalità d’acquisto, a differenza di generali vittoriosi come lo scrupoloso P. Servilio Vatia, console nel 79 e trionfatore nel 74 a.C., membro della giuria nel processo, il quale, sottomessa la regione dell’Isauria, annotò nei documenti pubblici numero, grandezza, aspetto e atteggiamento di tutte le statue fatte sfilare nel trionfo (II 1, 57). La scaltra argomentazione-narrazione di Cicerone, incline a mischiare il piano legale con le forti reazioni emotive dei derubati (II 4, 47; 106-115), si trasforma oggi anche in una preziosa fonte di informazioni sul frenetico mondo delle collezioni del I secolo a.C. e sulla coesistenza delle diverse valenze, non solo estetiche, veicolate da ogni opera d’arte; ad esempio, una statua di Apollo con su iscritto sulla coscia il nome di Mirone per gli Agrigentini costituiva allo stesso tempo un dono di un generale romano, un oggetto legato al culto della loro comunità, un ornamento urbano, una testimonianza di un evento vittorioso e una prova dell’alleanza con i Romani (II 4, 93). Ma Cicerone prende di mira soprattutto l’inosservanza della sanctitas e della religio da parte di Verre a causa del furto di antichi manufatti trasmessi dagli antenati, preoccupazione del resto ben avvertita in occasione del trasferimento di bottini di guerra, quando il Senato esortava il collegio dei pontefici a determinare la categoria di appartenenza di signa o altri ornamenta (sacra o profana: Livio, XXVI 34, 12; XXXVIII 44, 5). Un esempio: i due principi reali di Siria, i fratelli Antioco e Seleuco, di passaggio dalla Sicilia, non avevano ancora potuto dedicare in Campidoglio, come nelle loro intenzioni, un magnifico candelabro tempestato di gemme, perché il tempio di Giove Ottimo Massimo, dopo un incendio dell’83 a.C., non aveva ancora finito; e di quel manufatto, un dono votivo in potenza da loro consacrato già mente et cogitatione, Verre, spacciandosi per un ospite dai tratti signorili, riuscì ad appropriarsi, con il pretesto di volerlo esaminare (Verrine, II 4, 61-68).

Eros (o Thanatos). Statua, marmo pario, copia romana del II secolo d.C. da un originale di Prassitele. Roma, Musei Capitolini.

A Messina, città favorevole al governatore, risiedeva una delle sue vittime più illustri, il ricco Gaio Eio, individuo pieno di humanitas, pietas e religio, che al dibattito partecipò nella duplice veste di privato e capo-delegazione per la laudatio dell’accusato (II 4, 3-18). La sua casa, accessibile ai visitatori per tutto l’anno, costituiva un vanto per la città, tanto che i visitatori (compresi i magistrati romani) godevano del libero accesso alla raccolta fatta di splendide statue greche, ereditate dagli antenati, che egli poteva prestare: infatti, C. Claudio Pulcro durante la sua edilità curule nel 99 a.C. ottenne per pochi giorni un Cupido in marmo di Prassitele per adornare il Foro a Roma in onore degli dèi e del popolo (modo per aumentare la magnificentia degli spettacoli e per raccomandarsi le tappe future del cursus honorum), ma fu puntuale nel restituirlo. Nell’abitazione di Eio un sacrarium ospitava da una parte l’opera di Prassitele appena citata e dall’altra un Ercole in bronzo egregie factus attribuito a Mirone; due altarini davanti davano un tocco di sacralità a un impianto altrimenti più somigliante a un “museo” in miniatura; inoltre, di due Canefore, statue in bronzo, di modeste proporzioni ma eximia venustate, sostenenti sul capo un canestro con qualche oggetto sacro non meglio determinato, si sbandierava l’attribuzione a Policleto: tutti artisti di primissimo ordine – ma attenzione ai falsi! – , che consentono di istituire un parallelo con la Casa di Hermes a Delo, della seconda metà del II secolo a.C., ospitante in un vano una statua perduta di cui si conserva solo la base con la firma di Prassitele, ritenuta di fatto riferibile al IV secolo a.C. Verre dalla cappella tutti trafugò, salvo una statua lignea molto antica forse della dea Buona Fortuna, lì lasciata o perché meno stimata o per dare la parvenza di non voler eccedere nei sacrilegi: a ogni modo, è l’unica per la quale Cicerone non nomina l’artefice. Ebbene, obietta un interlocutore fittizio, Eio si lasciò sedurre da una somma elevata, ma Cicerone non ci sta e replica: le statue, come riscontrabile sui registri, furono sì vendute per seimilacinquecento sesterzi, cifra però tanto ridicola per simili capolavori da far fiutare una simulatio emptionis. Insomma, Eio non vendette le sue preziose statue volontariamente, confidava lo stesso Mamertino, indifferente al denaro e ai manufatti solo ornamentali (le Canefore): ma i simulacri degli dèi, quelli sì, egli li rivoleva assolutamente indietro.

E a che servivano le rapine? Per ornare non i monumenti pubblici, bensì le residenze di Verre, spettacolo sgradevole e non raro, purtroppo, in tempi in cui ormai «[…] l’intera Asia e l’Acaia e la Grecia e la Sicilia si sono raccolte negli spazi interni di un ristretto numero di ville» (Verrine, II 5, 127). Così due statue un tempo collocate davanti ai battenti del tempio di Hera a Samo erano finite nell’atrio, il luogo di presentazione delle virtù ancestrali, della sua domus (II 1, 61), altresì un tempo stracolma di sculture davanti alle colonne, tra gli intercolumni dei portici e in una silva (II 1, 50-51); alcune poi le aveva affidate in deposito ad amici e altre ancora offerte in dono (II 4, 36), tenue indizio da moderni commentatori considerato, assieme ad altri (produzione di vasi e tessuti preziosi realizzati in appositi laboratori), rivelatore di una presunta natura almeno in parte mercantile dell’attività di Verre quale art dealer, saltuariamente insultato da Cicerone con metafore del genere mercator cum imperio (II 4, 8; si vd. anche II 1, 60). Eppure, se così davvero fosse stato, l’Arpinate non avrebbe mancato di farne denuncia più esplicita, stante il suo punto di vista in genere polemico nei confronti della magna mercatura; più naturale, quindi, che Verre si fosse avvalso delle spoliazioni anche alla stregua di un’arma politica per procacciarsi una fitta rete di amici e familiarissimi in seno alla nobilitas: si sa, ad esempio, che nel 75 a.C. prestò statue e dipinti proprio al suo futuro difensore, Q. Ortensio Ortalo, per la celebrazione della sua edilità mediante l’abbellimento del Foro e del Comizio (II 1, 58); e quest’ultimo ricevette dal suo cliente una preziosa sfinge in bronzo (corinzio?), alla quale fu tanto legato da portarla sempre con sé in viaggio (Plinio, XXXIV 48; Quintiliano, Institutio oratoria, VI 3, 98; per Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 8, la sfinge, d’avorio, la ottenne come compenso per il suo intervento durante la discussione in cui si fissò l’ammenda; si vd. anche Plutarco, Moralia, 205b).

Danzatrice. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino.  Roma, Museo Nazionale Romano.

Per ingigantire gli indecorosi abusi di Verre Cicerone usa – e “costruisce” – dei modelli positivi attinti a un passato idealizzato, visto l’irreversibile deterioramento nel presente dell’immagine della classe politica. Spicca M. Claudio Marcello (Verrine, II 4, 115-121), conquistatore di Siracusa nel 212 a.C., la più grande e più bella di tutte le città greche. Secondo la storiografia antica l’impresa, inscrivibile nella cornice delle dispute per il prestigio tra imperatores impegnati a sfidarsi a suon di bottini di guerra sempre più fantasmagorici, sancì una svolta con la quale l’ammirazione per le arti greche si impose grazie all’importazione in massa di signa e tabulae  (donde iniziò la pessima abitudine di spogliare sacra e profana che finì per rivolgersi contro gli stessi dèi romani: Livio, XXV 40, 2-3). Plutarco (Vita di Marcello, 21) schizza un quadro affascinante di Roma come città rude e primitiva, piena di armi barbare e trofei, incapace di offrire uno spettacolo gioioso o tranquillo, un «sacro recinto del bellicosissimo Ares» per dirla con le parole di Pindaro (Pitiche, 2, 1); meno male che Marcello ingentilì l’Urbe con opere che procuravano piacere alla vista e sprigionavano bellezza (ēdonḗ) e fascino (cháris) greco; tuttavia, i più anziani, dalla mentalità conservatrice, preferivano la condotta moderata di Q. Fabio Massimo, vincitore su Taranto, che nel 209 a.C. si appagò di confiscare ricchezze e tesori e pronunciò le famose parole, da non prendere però alla lettera: «Lasciamo ai Tarantini questi dèi irritati». Sempre Plutarco fa rivivere la reazione del popolo, che, dimentico della propria indole guerriera, prese a trascorrere intere giornate immerso in discussioni su arti e artisti, dal che l’«eroe filelleno» Marcello si gloriò persino davanti ai Greci (!), fiero di avere insegnato ai Romani a onorare e ammirare le loro belle opere. Forse una storiella congegnata a distanza di tempo, ma che quei capi militari del II secolo a.C. ne subissero l’attrazione anche artistica è mostrato dal fatto che essi talvolta portarono con sé artifices dall’Asia Minore o dalla Grecia (come L. Cornelio Scipione Asiageno o M. Fulvio Nubiliore: Livio, XXXIX 22, 10; 22, 2). In modo significativo gran parte dei tesori siracusani fu destinata a ornare un santuario presso Porta Capena con due templi gemelli affiancati, votato dallo stesso Marcello nel 222 a.C. e visitato dagli stranieri proprio per l’excellentia dei suoi ornamenta, di cui però poco restava quasi due secoli dopo, ai giorni di Livio (XXV 40, 3): l’aedes Honoris et Virtutis, personificazioni di concetti cardinali, per cui le opere trafugate concorsero anche a glorificare la religione e il potere di Roma. La loro importazione non fu però indolore perché finì al centro della discussione intorno alla data di inizio della corruzione dei costumi romani, derivante dalla progressiva espansione dell’Impero secondo le ricostruzioni moralistiche di quegli eventi. Polibio (IX 10), su base però pragmatica, rimprovera ai Romani di aver tradito i principi di semplicità e compiuto un errore tattico nell’abbandonare le usanze dei vincitori per imitare i gusti dei vinti, attirandosi così sul lungo periodo il loro odio, e per cosa poi? Per prede belliche che non aggiungevano alcun lustro, anche se, continua lo storico, almeno la loro distribuzione nella specifica occasione risultò appropriata, perché gli oggetti strappati a private dimore a Roma finirono in proprietà privata, mentre gli ornamenti pubblici divennero possesso statale. Le opere siracusane vengono definite infesta signa in un discorso del 195 a.C. posto da Livio (XXXIV 4, 3-4) sulle labbra dell’arcigno difensore del mos maiorum del II secolo a.C., il celebre censore del 184 a.C., M. Porcio Catone, che sempre in quell’occasione mise in guardia dai troppi lodatori degli ornamenta di Corinto e Atene a spese delle antefisse fittili degli dèi romani, dopo aver espresso il timore che le attrattive della dissolutezza incontrate in Grecia e in Asia e i tesori regali conquistassero i Romani piuttosto che essere da loro conquistati (ma davvero si espresse con queste precise parole?). A depurare comunque l’immagine di Marcello dei tratti più scomodi provvede già Cicerone, secondo il quale egli si astenne da appropriazioni indebite a uso privato e trattò Siracusa con humanitas, senza spogliarla del tutto e senza compiere scelleratezze contro le divinità. Quale differenza da Verre, che dalla cella del locale Athenaion depredò una pugna equestris del re Agatocle (305-289 a.C.) dipinta su parecchie tabulae, non toccate da Marcello, religione impeditus, che tuttavia con la sua vittoria rese tutte le cose profana; di lì rubò anche una galleria di altri ventisette quadri con ritratti di re e tiranni della Sicilia, ammirati non solo per la maestria dei pittori, ma anche perché facevano conoscere l’aspetto e rinfrescavano il ricordo di quelle figure storiche; infine, dai battenti del tempio asportò degli stupendi soggetti cesellati in avorio e staccò finanche parecchie borchie d’oro, attratto dal peso; ecco messo a nudo il suo interesse per i valori non solo artistici ma anche venali dei manufatti. Risultato: a Siracusa una volta le guide additavano le principali opere in ciascun luogo; dopo Verre non potevano che mostrare cosa era stato portato via (Verrine, II 4, 132).

Sileno. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.

In contrasto con la sua libido Cicerone adduce poi la temperantia e l’intelligentia del distruttore di Cartagine del 146 a.C., P. Cornelio Scipione Emiliano, homo doctissimus e humanissimus, che invitò proprio gli ambasciatori delle città siciliane a identificare tra le opere d’arte confiscate quelle loro sottratte nel passato dagli stessi Cartaginesi, perché capì che siffatta bellezza fu concepita non per il lusso degli uomini, ma per l’ornamento di santuari e città (II 4, 98). E Verre invece? A Engio osò sottrarre da un santuario le offerte di quel benefattore e a Segesta rimosse dapprima una maestosa statua bronzea di Diana, lì meta di pellegrinaggio da parte dei forestieri, e in un secondo momento, per oscurare la vicenda, anche il suo alto piedistallo con l’iscrizione recante a grandi carattere sempre il nome del condottiero (II 4, 72-83).

Stesso anno decisivo per il crollo dei costumi (Plinio, XXXIII 150), ma altro conquistatore: il ferus L. Mummio, vincitore di Corinto, che dall’Acaia riportò un immane bottino e secondo un filone deformante della tradizione storiografica peccò d’ignoranza sprezzante verso l’arte. Stando a Cicerone, a Tespie in Beozia l’Eros di Prassitele, un’attrazione turistica e persino l’unico motivo per recarsi in quella città, egli non lo toccò perché consecratus (ma più avanti nel tempo ci pensarono altri Romani, tra cui prima Caligola e poi Nerone, ad arraffarlo). Di Mummio Plinio esalta altresì l’abstinentia per aver riempito Roma di statue senza tenerle per sé, tanto da lasciare senza dote la figlia (XXXIV 36); e inoltre egli fu il primo a conferire auctoritas ai quadri stranieri a Roma, il che fu degno di lode perché avvenuto nel contesto pubblico (XXXV 24), attraverso la collocazione di una tabula di Aristide, pittore tebano della seconda metà del IV secolo a.C., nel tempio di Cerere: ennesima riprova dell’intreccio arte-religione, tanto più che molti oggetti paiono di grande valore solo per il fatto di essere consacrati nei templi, dichiara sempre Plinio (praef. 19)!

In breve, un conto fu la publica magnificentia, irrinunciabile, un altro la privata luxuria, tanto insopportabile (a parole) quanto inarrestabile, sfere che la classe dirigente tentò disperatamente, ma invano, di bilanciare: la crisi del sistema fu solo ritardata, vista l’artificiosità della contrapposizione, in quanto dopotutto i vizi si diffondono al meglio proprio tramite la via pubblica (Plinio, XXXVI 5). La dissipazione e lo spreco innescati dall’aumento di ricchezza sociale inocularono nei precari equilibri interni della res publica un veleno mortale, cui già Catone provò a tener testa in diversi discorsi, noti in frammenti, che, nel condannare non l’arte greca in blocco ma i suoi usi più eversivi, trattano del lusso abitativo, del buon uso e delle legittime modalità di acquisizione delle prede belliche e della mania di esporre nelle abitazioni le statue di divinità quale suppellettile; e l’ultima apprensione non perse d’attualità negli ultimi decenni del I secolo a.C., allorché M. Vipsanio Agrippa tenne una stupenda orazione intorno alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i signa e le tabulae senza «condannarli all’esilio» nelle ville (Plinio, XXXV 26).

Fortuna huiusce diei. Testa colossale, marmo, 101 a.C. dal Tempio ‘B’ di Largo Torre Argentina. Roma, Centrale Montemartini.

Per Cicerone (Verrine, II 4, 126) chi desiderava contemplare opere d’arte di alto livello poteva visitare monumenti pubblici come: il tempio di Felicitas, votato durante la campagna militare di Spagna del 151 a.C. e costruito dopo il 146 a.C. da L. Licinio Lucullo, il quale per l’inaugurazione si fece prestare le statue da L. Mummio senza ridarle però indietro, con il pretesto che ormai erano sacre e appartenevano agli dèi – e Mummio, soprassedendo, si guadagnò una reputazione migliore: Strabone, VIII 6, 23; Cassio Dione, XXII 76, 2; il tempio della Fortuna huiusce diei, votato nel 101 a.C. dopo la vittoria sui Cimbri da Q. Lutazio Catulo, presso il quale si trovavano un’Atena e due signa palliata nientemeno che di Fidia; la porticus di Q. Cecilio Metello Macedonico, iniziata nel 146 a.C. dopo il trionfo sulla Macedonia e ospitante la turma Alexandri, asportata dal santuario di Zeus a Dion. Ma Cicerone deve anche riconoscere come per vedere i capolavori occorresse darsi da fare per essere ammessi nelle ricche ville dei signori di Tusculum, seppur con seguente riflessione: la passione di signa e tabulae viene invero meglio soddisfatta dalle persone di ceto modesto rispetto a chi ne possiede un gran numero; difatti, nella capitale la sfera pubblica abbonda di opere di ogni sorta, mentre chi le tiene segregate in ambito privato anzitutto non può averne così tante sotto gli occhi e per di più le riesce a vedere di rado, solo recandosi nella propria residenza rurale; infine, i privati inevitabilmente provano qualche rimorso (quos tamen pungit aliquid) non appena si rammentano come se le sono procurate (Tuscolane, V 102).

In breve, arduo separare pubblico e privato. Poteva così capitare che una statua finisse coinvolta in un’oscillazione continua tra i due poli, come un Ercole tunicato presso i Rostri del Foro, di cui ben tre iscrizioni consentivano di ricostruire la storia (Plinio, XXXIV 93): la prima «dal bottino del generale Lucullo» ne segnalava lo status di preda di guerra del ricchissimo trionfatore del 63 a.C., L. Licinio Lucullo (le manubiae, in proprietà pubblica, potevano essere controllate, ma senza abusarne, dai generali); la seconda «il figlio minorenne di Lucullo (M. Licinio Lucullo) l’ha dedicata per decreto del Senato» si riferiva a una sua pubblica dedicatio tra 56 e 49 a.C.; la terza «Tito Settimio Sabino edile curule restituì al pubblico dominio la statua già proprietà privata» ne implicava un ritorno al pubblico – nel 30 a.C.? – dopo un interludio privato. Non solo statue però: quattro colonne in marmo luculleo, alte circa 11, 24 metri, utilizzate per un teatro provvisorio allestito da M. Emilio Scauro, furono reimpiegate nell’atrio tetrastilo della sua enorme dimora in Palatio (Plinio, XXXVI 6) per poi essere collocate da Augusto in regia theatri del teatro di Marcello (Asconio, In Scaurianam, 45).

Il cosiddetto Tempio ‘B’ dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. alla Fortuna huiusce diei, in Largo Torre Argentina, Roma.

Torniamo a Verre, bramoso anche di manufatti di pregio, ancor più tipici della privata luxuria. Egli razziò drappi attalici (stoffe tessute con filigrana d’oro, un’invenzione asiatica), anelli d’oro e una grande tavola di cedro (mensa citrea); Plinio (XIII 92) tramanda però come lo stesso Cicerone pagò per un’analoga mensa cinquecentomila sesterzi, cifra tanto più sorprendente sullo sfondo della sua personale situazione economica non ottimale. L’appetito insaziabile del governatore fu poi solleticato dal vasellame prezioso e dalle argenterie cesellate o decorate da rilievi, talora funzionali a sacrifici: ormai da tempo era tramontata la verecundia, il pudore di comprare siffatti articoli nelle vendite pubbliche di beni regali, fine con precisione databile per Plinio (XXXIII 149) nel 132 a.C., quando Attalo III di Pergamo lasciò in eredità il regno (e tesori annessi) ai Romani, che cominciarono per loro sventura ad amare l’opulenza straniera; e ancora più lontani i giorni in cui si poteva essere estromessi dal Senato per il possesso di dieci libbre di vasellame d’argento, come accaduto nel 275 a.C. a P. Cornelio Rufino (Valerio Massimo, II 9, 4). A ogni modo, se essere esperti di argenterie equivaleva per Cicerone a trastullo (Verrine, II 4, 33), tuttavia, nota il grande erudito del I secolo a.C., M. Terenzio Varrone (De lingua Latina, VIII 16, 31), rientrava ormai anche nelle precipue qualità dell’humanitas la voglia di non avere solo servizi soltanto utili al cibo, ma anche roba bella e artistica: per un uomo assetato basta un bicchiere qualsiasi, per un uomo raffinato no, se non è bello. Il problema si poneva però quando si oltrepassava il limite del necessario.

Verre sguinzagliò ovunque due autentici cani da caccia, i fratelli Tlepolemo e Gerone, un modellatore in cera e un pittore da Cibira in Frigia, già conosciuti durante la permanenza in Asia, e arraffò, ad esempio, delle falere appartenute al tiranno di Siracusa Gerone II (270-216 a.C.), una pesante idria cesellata di Boethos, toreuta greco del III o II secolo a.C. (quale tra i diversi artisti conosciuti con tal nome?), dei bicchieri d’argento terminanti con una testina di cavallo e gli immancabili e ambitissimi vasi corinzi, dei quali era l’unico, osserva Cicerone, in grado di penetrare i segreti della composizione (Verrine, II 4, 98; a distanza di circa un secolo un altro “competente”, Trimalchione, andrà orgoglioso di conoscerne l’origine, ma in modo ridicolo: Petronio, Satyricon, 50): infatti, l’epiteto Corinthius applicato a vasi, statue e oggetti di altra sorta fu un marchio d’eccellenza in grado persino di infiammare il furor dei raffinati intenditori, tanto da essere di norma associato nei discorsi moralistici alla dismisura e al lusso (si legga però la puntualizzazione di Plinio (XXXIV 6) a proposito della lega corinzia, determinatasi per caso – si raccontava – in occasione dell’incendio di Corinto nel 146 a.C.).

Alessandro a cavallo. Statuetta, bronzo, II-I secolo a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Verre bramò poi, senza neppure averle viste, delle tazze fabbricate da Mentore, il più famoso cesellatore greco della prima metà del IV secolo a.C., del quale si diceva avesse fatto solo quattro paia di vasi (Plinio, XXXIII 154), quantunque a Roma specie nel I secolo d.C. circolassero parecchie sue opere – dei falsi? – con quotazioni stratosferiche; già alla fine del II secolo a.C. dall’oratore L. Licinio Crasso furono acquistate per centomila sesterzi due sue coppe d’argento, di cui mai osò servirsi proprio per la verecundia (Plinio, XXXIII 147): prima l’acquisto e poi il non uso, bel modo per non sporcarsi la coscienza; e con i suoi tanti triclinia aerata (Plinio, XXXIV 14), letti con appliques in bronzo, che fece? Senz’altro non si fece scrupolo ad usarli.

In assenza di vasi vistosi Verre si accontentò di spiantare i rilievi incastonati nei turiboli o nei piatti e nelle coppe per banchetti, oggetti antiquo opere e summo artificio (Verrine, II 4, 46-49; 52): così stavolta volle mostrare interesse per il valore artistico degli oggetti, non per l’argento, commenta, con sarcasmo, Cicerone. Eppure, la raccolta di tanti fregi uno scopo l’ebbe (II 4, 54). Infatti, egli impiantò un grande laboratorio nell’ex palazzo reale di Siracusa, dove raccolse e rinchiuse per otto mesi parecchi cesellatori ed esperti nella fabbricazione di vasi preziosi; essi, senza fermarsi, crearono moltissimi vasi d’oro, ben superiori al bisogno personale, ai quali furono applicati i vecchi rilievi, con precisione e abilità tali da dare l’impressione che fossero stati persino concepiti per quella destinazione. A qual fine tali pasticci? Senz’altro non per dissimularne la provenienza, ma per possedere manufatti ancor più lussuosi rispetto allo stadio iniziale! Come se non bastasse, allo stesso governatore piacque trascorrere la maggior parte della giornata in officina, indossando vesti indegne di un magistrato romano, una tunica scura di lana grezza (da schiavo/operaio) e un mantello di tipo greco, il pallium; è lampante il suo atteggiarsi alla maniera di un sovrano ellenistico, come Alessandro Magno, habitué della bottega del grande pittore Apelle (Plinio, XXXV 85), o Antioco IV, avvezzo a discutere con toreuti e altri artigiani di questioni tecniche (Polibio, XXVI 1).

Nella presentazione di Cicerone Verre è in fin dei conti un collezionista squilibrato e un po’ spaccone, infervorato di sculture e manufatti di notevole antichità, di forte valore commemorativo e/o di grandi artisti, senza cura per la loro provenienza, arrogandosi qualità d’intenditore. E Cicerone? Va premesso che per lui sono i Greci a nutrire, al di là dello zelo religioso, un’incredibile passione per oggetti invece insignificanti agli occhi dei Romani, i cui antenati, anzi, con magnanimità, permisero di tenere presso di sé le opere d’arte agli alleati quali garanzia di una vita il più possibile prospera e ai tributari (vectigalii e stipendiarii) come oblectamenta e come solacia servitutis (fonti di piacere e sollievo nella condizione di subalternità: Verrine, II 4, 134): benché le cose non stessero esattamente così, in gioco erano questioni di identità nazionale.

Satiro ebbro. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Arpinate descrive le statue in modo succinto, con un ventaglio di aggettivi ripetitivi che ne esaltano le qualità (egregius, elegans, nobilis, optimus, perfectus, praeclarus, pulcherrimus, singularis, eximia venustate, summo artificio e così via): nessun stupore, è un’orazione, non un trattato d’arte. Tuttavia, egli sa stabilire dei confronti sulla base di species, forma e pulchritudo tra diverse opere (Verrine, II 4, 129-130), anche perché ne ha visto un gran numero, benché ciò non lo abbia aiutato a farne un intenditore raffinato, e riesce a distinguere tra loro pregi o difetti, capacità in fondo obbediente a una sorta di istinto inconscio: gli uomini, infatti, possono giudicare pitture e statue, ancorché per natura forniti di un numero limitato di strumenti per la loro comprensione (intelligentia: De oratore, III 90, 195). A più riprese egli si compiace nel negare una competenza in materia, in quanto profano, idiota (Verrine, II 4, 4), strategia in parte strettamente funzionale al processo, perché si rivolge a un pubblico ancora diffidente di un’eccessiva considerazione fine a se stessa dell’arte greca, e dissimulatio volta ad accrescere per contrasto il prestigio della propria gravitas. A proposito delle statue nel sacrarium di Eio si meraviglia di avere imparato i nomi degli artisti durante la raccolta delle prove e si industria a tradire qualche impaccio nelle attribuzioni, anche quando sicure! Così si chiede per le Canefore: l’artista che le ha fatte, chi era? Risposta: ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto. Certo, uno stratagemma volto a fingere una non praeparata oratio (Quintiliano, IX 2, 61); ma, al di là degli artifici oratori, Cicerone, pur al corrente delle valutazioni delle opere d’arte sul mercato, con la misura del loro valore proporzionale alla libido nutrita per esse, non rientrava affatto nella schiera dei fanatici studiosi, intellegentes o elegantes che del collezionismo facevano il loro unico scopo di vita. In breve: nel campo delle arti figurative egli non è né competente né ignorante, la sua è un’attitudine non da peritus ma da “dilettante”, conscio del piacere da esse suscitato, che però può pericolosamente trasformarsi in un intrattenimento privo di utilitas. Un parallelo si può istituire per certi versi con il rapporto ambivalente con la cultura greca, distintivo secondo Cicerone dei suoi maestri, gli oratori L. Licinio Crasso e Marco Antonio, ben coscienti delle insidie del bilinguismo, positivo solo se sfruttato al fine dell’affermazione della romanità e non per una sua mera assimilazione alla grecità: l’uno, esperto di greco, voleva comunque dare l’impressione di disprezzare i Greci a favore della saggezza dei concittadini, mentre l’altro addirittura ne negava la conoscenza, malgrado si fosse tanto appassionato a dotti dibattiti durante una permanenza ad Atene e a Rodi (De oratore, II 1, 3-4).

Come si comportò l’Arpinate nell’ornamento delle sue ville (ben sette ne possedette, oltre a quella di Arpino ereditata dal padre)? Esse solo in parte continuarono a essere dotate di parti funzionali alla produzione e rappresentarono soprattutto luoghi di un otium raffinato e propizio alla studio o rifugi in periodi di dolore o forzato allontanamento dall’impegno pubblico: uno spazio esistenziale alternativo ai negotia della burrascosa arena politica, impossibile però da lasciarsi del tutto alle spalle, tanto più se lì tendevano comunque a riversarsi masse di clienti (ad Atticum, II 14, 2; V 2, 2). Dimore e ville lussuose con l’indebolimento dell’autorità senatoria e con l’espansione della sfera dell’otium si ridussero sempre più a simboli di affermazione personale, tanto che i senatori, come poté rimarcare Catone Uticense durante un dibattito sulla pena da applicare ai complici di Catilina, le avevano sempre apprezzate, insieme ai signa e alle tabulae, persino più del bene della Repubblica (Sallustio, De Catilinae coniuratione, 52, 5). La profusione di spese sfociò così in una gara sfrenata, cui solo gli incendi per fortuna potevano porre un limite: ad esempio, se nel 78 a.C. non v’era abitazione più bella di quella di Marco Lepido, nel giro di soli trentacinque anni nella graduatoria delle case più sontuose essa era scesa persino sotto il centesimo posto, tanto si erano incrementate le spese regali, la quantità dei marmi e le opere dei pittori (Plinio, XXXVI 109-110). Nell’opera De officiis (I 39, 139-140), scritta proprio ai giorni del boom del lusso (44 a.C.), nel momento del profondo rinnovamento delle residenze del Palatino ben tangibile anche nella documentazione archeologica, Cicerone al riguardo dell’aedificatio privata giustifica il bisogno di una casa di rappresentanza all’altezza della dignitas e di un homo honoratus et princeps e dunque abbastanza ampia per accogliere ospiti e clienti, ma senza troppo sfarzo, nel rispetto della giusta misura, e fa appello al senso di responsabilità dei principes civitatis, chiamati a fornire un simile modello per gli altri, cavalieri o liberti, che tendono a imitarli (si vd. anche De legibus, III 13, 30-31), in ossequio a un modello di etica sociale poi assimilato dall’ideologia augustea. A ogni modo, alla luce delle condizioni di generale agiatezza e delle possibilità di “bella vita”, era in fondo inutile continuare a riproporre l’antica virtù della più rigida continenza, ormai anacronistica e introvabile persino nelle carte, se non in quelle ingiallite, e la realtà, seppur intrisa di vizio, consentiva comunque delle scelte positive e graduate, senza dover rendersi insensibili ai piaceri: questa la constatazione di Cicerone nella cornice di una nuova e disinvolta “proposta educativa” per la gioventù esposta nel 56 a.C. (Pro M. Caelio, 40).

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ed egli come si regolò per par suo? L’abitazione urbana, acquisita alla fine del 62 a.C., gli costò la somma di tre milioni e mezzo di sesterzi, spesa esorbitante ma necessaria per dare visibilità allo status raggiunto – fu eletto console nel 63 a.C. – , mentre una domus davvero contrassegnata da mediocritas sul Quirinale e un po’ demodé la possedette piuttosto l’amico T. Pomponio Attico, che, malgrado il cospicuo patrimonio, si distinse più per il buon gusto e disprezzò falsi beni come pavimenti marmorei o soffitti a cassettoni (De legibus, II 1, 2): non a caso, egli, elegans, non magnificus, splendidus, non sumptuosus (Cornelio Nepote, Vita Attici, 13, 5), non fu un membro della nobilitas e si astenne dalla vita politica attiva, stomacato dalle sue degenerazioni.

La casa a due piani di Cicerone si trovava sulla pendice settentrionale del Palatino, verso le Carinae, in un’area vicinissima al Foro e naturalmente in bella vista (in conspectu prope totius urbis), esigenza, questa, avvertita dai domini a tal punto che M. Livio Druso nei primi anni del I secolo a.C. pretese una dimora parimenti in Palatio edificata in maniera tale che tutti potessero vedere quello che il proprietario svolgeva all’interno, contrariamente ai progetti iniziali dell’architetto (Velleio Patercolo, 2, 14). L’abitazione dell’Arpinate possedeva una palaestra (ad Atticum, II 4, 7), un’ambulatio, un laconicum (quest’ultimo ambiente adibito al bagno secco tipico della palestra: ad Atticum, IV 10, 2) e horti (ad Quintum fratrem, III 1, 14); le ultime tre componenti sono assicurate almeno a partire dalla restituzione sotto forma di villa urbana, seguita al saccheggio e alla demolizione di una sua parte a opera del vicino, l’avventuriero P. Clodio Pulcro, il quale, approfittando dell’esilio di Cicerone nel 58 a.C., volle allargarsi per abitare alla grande e superare laxitate et dignitate le domus di tutti gli altri (Pro domo sua, 116); e lo stesso Pulcro comprò poi nel 52 a.C. anche la già citata casa sul Palatino di M. Emilio Scauro per la cifra record di quattordici milioni e ottocentomila sesterzi (Plinio, XXXVI 103).

Dall’epistolario tra il 68 e il 65 a.C. con Attico, di stanza ad Atene, si apprendono parecchi dettagli sull’acquisizione di opere d’arte per la villa prediletta, comperata da Cicerone nel 68 a.C. e già appartenuta a Silla, a L. Lutazio Catulo, console del 78 a.C., e a L. Vettio, in quella Tusculum piena di palazzi “regali” (Strabone, V 3, 12) dove egli ama ambientare i propri dialoghi, ma dove c’era da competere con parecchi principes civitatis, amanti particolarmente della pittura. Per eccitare la plebe, nel 67 a.C. il tribuno A. Gabinio in contionibus si servì a mo’ di aiuto visuale di una pittura a illustrazione dei fasti della villa di L. Licinio Lucullo (Pro P. Sexto, 93; peccato però che quella in costruzione dello stesso Gabinio risultasse talmente grande da farla apparire come un tugurium); Lucullo fu comunque uno dei maggiori collezionisti di quadri tanto da avere acquistato ad Atene per due talenti la copia di un’opera, La venditrice di ghirlande, del pittore greco del IV secolo a.C., Pausia di Sicione (Plinio, XXXV 125). Il già citato oratore Ortensio nella propria villa di Tusculum intorno a una tabula di un altro pittore sempre del IV secolo a.C., Cidia, rappresentante gli Argonauti e pagata centocinquantaquattomila sesterzi, fece costruire un tempietto (Plinio, XXXV 130); e sempre Ortensio nel 55 a.C. dissuase Pompeo e Crasso, promotori di una lex sumptuaria, dall’aprire una contraddizione tra la proposta e il loro tenore di vita (Cassio Dione, XXXIX 37, 2). Infine, nella villa tuscolana di M. Emilio Scauro furono portati tutti gli oggetti rimasti della decorazione del teatro provvisorio – perché destinato a durare un solo mese – montato nel 58 a.C. durante la sua edilità, nel quale esibì tremila statue di bronzo tra trecentosessanta colonne di una scena a tre piani, stoffe attaliche, dipinti e altri arredi; e quando gli schiavi in rivolta la bruciarono, se ne andarono in fumo trenta milioni di sesterzi (Plinio, XXXVI 115-116); plausibile che diversi quadri fossero stati da lui comprati a Sicione, la patria della pittura, costretta a vendere all’asta tutte le tabulae del patrimonio pubblico per riscattare un debito (Plinio, XXXV 127).

Un esemplare dalla coppia dei “Corridori”. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Frattanto, mentre le residenze brillavano sempre più dei colori delle tabulae greche, che succedeva alla Repubblica? Si stava perdendo, proprio come un dipinto antico, di cui non ci si preoccupava di ravvivare né le tinte originarie né il disegno né le linee di contorno (Cicerone, De re publica, V 1).

Per il proprio Tusculanum l’Arpinate allestì delle installazioni battezzate con nomi greci evocativi dell’universo del ginnasio, tra cui uno xystus (quest’ultimo nell’accezione romana un ambulacro scoperto, mentre secondo la denominazione greca era un portico per le esercitazioni degli atleti durante l’inverno: Vitruvio, VI 7, 5), il Lyceum con annessa biblioteca e, su una terrazza più bassa, l’Academia: le ultime due dovevano consistere in peristili, lunghi porticati con un vasto giardino, ben adatti per lo svolgimento di conversazioni filosofiche e letterarie. Si delinea insomma il quadro quasi di una villa philosopha a rimprovero dell’insania di altre ville, per parafrasare le parole dello stesso Cicerone relative a quella del fratello Quinto a Laterium, non priva però di piacevoli abbellimenti, come le statue di palliati che tra gli intercolumni sembravano fare i giardinieri e vendere l’edera sparsa ovunque dal decoratore del giardino (ad Quintum fratrem, III 21, 5: 54 a.C.). Al desiderio del recupero dei simboli della tradizione culturale greca contribuì anche l’amore di Cicerone per Atene – la Grecia allo stato puro –, dove ebbe modo di risiedere per sei mesi durante un viaggio d’istruzione del 78-79 a.C., come dimostra il suo progetto di realizzarvi poi qualche monumentum, tanto da proporre la costruzione di un propylon per l’Accademia (ad Atticum, VI 1, 26); e siccome i suoi posti un tempo frequentati da illustri e ammirati ingegni costituivano dei luoghi di memoria colmi di una vis admonitionis stimolante la loro imitazione e non una pretta curiosità antiquaria, se ne comprende il perché dell’evocativo e virtuale “trapianto” all’interno degli spazi romani, dove si poteva persino “imitare” la letteratura. Infatti, nel De oratore di Cicerone composto nel 55 a.C. e ambientato nel Tusculanum di L. Licinio Crasso, gli interlocutori si siedono sotto un platano per imitare l’atteggiamento di Socrate nel Fedro di Platone, sdraiato sull’erba sotto un albero per pronunciare le parole ispirate da un dio, con la differenza, non da poco, che nel nuovo scenario romano era ormai possibile godere del comfort di sedili e cuscini (I 7, 28); e nel Brutus (24), terminato nel 46 a.C., i protagonisti conversano in un praticello propter Platonis statuam, forse all’interno di un peristilio nella casa sul Palatino di Cicerone.

L’Arpinate preme su Pomponio Attico (ad Atticum, I 5, 7; I 6, 2) perché gli procuri, oltre a una biblioteca, anche degli ornamenti scultorei adatti per diversi ambienti: desidera degli ornamenta da ginnasio (gymnasióde: l’espressione può includere statue tanto di atleti quanto di divinità o eroi); si rallegra al solo pensiero di ricevere quanto prima delle erme in marmo pentelico con teste di bronzo; pretende statue conformi: al luogo (ginnasio e xystus), alla sua passione e al gusto (elegantia) di Attico; ammette così di esser preso da un tale studius (passione) da meritare quasi una nota di biasimo (I 8, 2); attende con ansia i signa di Megara, pagati ventiquattromilaquattrocento sesterzi a un certo L. Cincio, e le erme e richiede altre cose che ad Attico appaiono il più possibile idonee per l’Accademia (I 9, 2); ordina la spedizione per nave delle sue statue e delle erme di Eracle e lo prega di nuovo di trovargli qualcosa di adeguato a una palestra e a un ginnasio, nonché dei bassorilievi da includere nell’intonaco dell’atrio secondario e due puteali con figure (I 10, 3); prova piacere a leggere quel che l’amico scrive su una Hermathena, ornamento a puntino per l’Accademia, perché, se Hermes si addice a tutti i ginnasi, Minerva, dea della sapienza, dà particolare lustro al suo impianto, e dice poi che gli sarà grato se riuscirà ad adornare quel luogo anche con altri pezzi in grande quantità (I 4, 3); e l’erma non solo riesce a delectare Cicerone, ma trova anche una collocazione sì adeguata che l’intero ginnasio sembra trasformarsi in un dono votivo (anáthema) in onore di quella dea (I 1, 5) con la quale egli intrattiene un rapporto strettissimo (è, infatti, la consigliera delle sue decisioni: Pro domo sua, 144) e che richiama l’Accademia di Atene, contenente appunto un santuario di Atena; la struttura si ammanta dunque di un’aurea religiosa, altra scappatoia per addolcire la contraddizione tra un modello di vita improntato alla salvaguardia, per quanto non ottusa, del mos maiorum e l’esigenza di vivere all’altezza del proprio rango sociale.

Athena Promachos. Statua, marmo bianco, I secolo a.C. dal tablinium della Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per riepilogare, Cicerone, benché non privo di un entusiasmo di cui quasi si vergogna, non è “maniaco” come Verre, delega le scelte all’amico, dei soggetti si interessa in modo generico ed è piuttosto sensibile alla loro capacità, in congruità con l’ambiente, di creare una determinata atmosfera; reclama non capolavori di artisti celebri ma l’acquisto del più ampio numero possibile di opere (quam plurima: ad Atticum, I 8, 2) e a buon prezzo (I 3, 2). Queste, in definitiva, le virtuose ricette per procurarsi un’“arte ambientale” al servizio di aspirazioni culturali e per evitare ogni senso di colpa.

E in caso di infrazione della regola della conformità al contesto? Cicerone si seccava. Difatti, in una sua lettera del 46 a.C. (?) all’amico M. Fabio Gallo, al cui gusto di uomo in omni iudicio elegantissimus era solito affidarsi (ad familiares, 7, 23), rende conto di un affare infelice. Costui gli aveva acquistato a un prezzo esagerato da un certo C. Avianio Evandro quattro-cinque statue di piccole proporzioni, ritenute degne del suo gusto e in grado di delectare, tra cui delle baccanti carine (pulchellae); quanto ad Avianio Evandro, deve essere lo stesso scultore – e toreuta – assai attivo ad Atene negli anni cinquanta; di lì si trasferì al seguito di Antonio ad Alessandria (36 a.C.) e fu poi portato a Roma sotto Augusto nel 30 a.C.; e nel tempio di Apollo del Palatino gli fu affidato il restauro della testa di una statua di Diana scolpita da Timoteo (Plinio, XXXVI 32). A ogni modo, l’Arpinate si lamenta del paragone istituito a sproposito da Gallo con un gruppo di muse di Metello (venduto sub hasta?), che comunque non avrebbe mai considerato confacente a tanto prezzo – anche se appropriato per una biblioteca –, mentre le baccanti non costituivano un soggetto conforme alla propria casa, tanto più visto il suo vezzo di comprare statue per la palestra ad similitudinem gymnasiorum; egli, oltretutto, le baccanti le conosceva benissimo e le aveva spesso viste ad Atene, per cui, se le avesse desiderate per davvero, non avrebbe mancato di istruirlo in merito. In aggiunta, Cicerone deplora anche un altro acquisto, una statua di Marte, poco adatta per un fautore della pace come lui, mentre invece si dichiara disponibile a prendere un trapezophorum qualora Gallo, deciso a tenerselo, avesse cambiato idea. Transazione del tutto sballata pertanto, ma il ritardo nel pagamento lasciava aperto un minimo spiraglio per scaricare il gruppetto delle sgradite sculture a Damasippo (lo stesso interlocutore di Orazio nelle Satyrae, 2, 3, commerciante d’arte divenuto insanis a forza di acquistare vecchie statue) o a uno come lui.

Ora, sebbene a Cicerone le baccanti non piacessero, esse di fatto rientravano nell’offerta tesa a soddisfare la famelica domanda dei soggetti dionisiaci destinati a un frequente impiego “decorativo” nei giardini delle ville romane a partire dall’epoca tardo-repubblicana, mentre Dioniso e satiri scarseggiavano invece nelle dimore di Delo.

Dioniso. Erma, bronzo, 80 a.C. ca. dal relitto di Mahdia. Alaoui, Musée Nationale.

Ad esempio, nella Casa del Fauno di Pompei dal tardo II secolo a.C. sul bordo dell’impluvio dell’atrio principale danzava la statuetta di bronzo di un satiro, mentre l’incontro erotico sempre di un satiro con una menade era inscenato su un emblema musivo del cubicolo 28. Del carico commerciale del relitto di Mahdia (Tunisia), nell’insieme ben esemplificativo delle richieste degli acquirenti romani a cavallo tra il II e il I secolo a.C., faceva parte sì di un’erma, in bronzo, ma di Dioniso, firmata sull’attacco del braccio destro da Boeto di Calcedonia, scultore e toreuta della prima metà del II secolo a.C., peraltro già usata e trasportata quindi per un riutilizzo.

Vale poi la pena di menzionare un complesso di sculture di modulo inferiore al vero da un villa di Fianello Sabino nel Lazio, per lo più riferibili al periodo tra il II e il I secolo a.C.: in virtù del materiale, in prevalenza marmo “grechetto” – forse pario – , se ne è postulata la provenienza quasi in un’unica fornitura da una o più botteghe di Delo, attivissime proprio in tale periodo anche nella produzione dei bronzi, attribuzione congetturabile anche per i diversi triclinia aerata dal relitto di Mahdia – e il Gaio Eio delle Verrine è stato identificato con un C. Heius T. f. Libo, magister di un collegio religioso attestato nell’isola. Tra i rinvenimenti di Fianello Sabino spicca una statuetta di menade con pelle di pantera in atto di incedere (anch’essa pulchella?) forse parte di un unico corteo dionisiaco assieme a un sileno e a una danzatrice acefala. Lo stesso nucleo, testimone in chiave formale di un ampio spettro di scelte adattate ai temi, contiene anche ornamenti più in linea con un ambiente “ginnasiale” e perciò con i gusti di Cicerone: un giovane lottatore, un altro fanciullo impegnato forse in una performance sportiva e un Eracle con clava; inoltre, una piccola doppia erma barbata, con il volto di Demostene ancora riconoscibile (abbinato a Eschine?), riporta alla mente la presenza di una imago in bronzo del grande oratore attico insieme alle immagini degli antenati nella villa di Tusculum di M. Giunio Bruto (De oratore, 31, 110). Infine, sempre da Fianello Sabino derivano altri manufatti marmorei, tra cui sei rari esemplari di lussuose lucerne a forma di corona a otto fiammelle, le quali, affini per la peculiare forma a tipologie in uso in santuari, potevano spargere un’aria sacrale: un po’ alla maniera dei candelabri in marmo, altra categoria di manufatti “inventata” per il mercato romano, della quale, non a caso, sempre il relitto di Mahdia conteneva almeno cinque esemplari prodotti in serie all’interno di atelier ateniese del II –I secolo a.C., e un po’ anche alla maniera degli altarini del sacrarium di Eio.

Un satiro e una ninfa. Mosaico pavimentale dal cubiculum 28 della Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Immagini attinenti al tiaso dionisiaco e al mondo della palestra abbondano anche tra i tanti reperti scultorei da diversi ambienti nella Villa dei Papiri di Ercolano, inquadrabili tra il terzo quarto del I secolo a.C. e, in numero minore, gli ultimi anni di vita del complesso: senza comporre un “programma” leggibile in termini troppo rigidi, tra di essi, caratterizzati da una forte eterogeneità dei modelli formali, si annoverano repliche di originali greci e creazioni ex novo, affiancate con pari dignità; e non manca neppure Atena, sotto forma di una promachos in marmo pentelico, dal cosiddetto tablinium, secondo un tipo arcaizzante elaborato proprio nel I secolo a.C. e trasmesso anche dai frammenti di un altro esemplare dall’area dell’acropoli di Atene. Siccome alla formazione di ogni collezione, per quanto nell’insieme standardizzata, dovette contribuire anche qualche scelta più personalizzata, è concepibile che Cicerone non sarebbe stato troppo interessato a quei ritratti dei sovrani ellenistici esposti in gran copia nella Villa dei Papiri accanto ai volti di filosofi e poeti, attraverso i quali il proprietario poté mirare quasi alla ricreazione di una corte dinastica e all’associazione con grandi personaggi carismatici del passato, modelli di riferimento per i protagonisti della vita pubblica e militare dell’ultima generazione della Repubblica. Di certo i ritratti greci vennero amati non tanto per le loro qualità artistiche quanto piuttosto per la fama dei personaggi: sintomatico il comportamento nel 56 a.C. di Catone Uticense in missione a Cipro per annettere l’isola a Roma e confiscare i beni di Tolomeo, in quanto si astenne dal vendere una sola statua, quella del fondatore della scuola stoica, Zenone, non perché sedotto dal bronzo o dall’arte, ma perché immagine di un filosofo (Plinio, XXXIV 92).

È inappurabile se l’ornamento del Tusculanum, come non escludibile, prevedesse repliche di celebri originali greci; ma si può stabilire a quali grandi scultori andasse la preferenza di Cicerone grazie a plurimi brani che instaurano delle analogie tra retorica e arti visive, sempre con la dovuta premessa: queste ultime sono mediocres, di ordine minore. Egli ama quindi il ristretto canone degli artisti del V secolo a.C., del calibro di Policleto e Fidia, scelta scontata perché la loro eccellenza fu comunemente riconosciuta nell’antichità: secondo una visione storico-artistica già tardo-ellenistica, di impostazione classicistica, le statue del primo, almeno a suo parere, risultavano iam plane perfecta perché perfezionarono un processo di progressivo avvicinamento alla veritas, avviato sin dall’inizio del V secolo a.C. (Brutus, 70; con tale brano si imparenta poi un più articolato passo di Quintiliano – XII 10, 7-9 – , che attinge alla medesima fonte greca); e il secondo viene elogiato in quanto nello scolpire lo Zeus di Olimpia o l’Atena del Partenone ebbe insita nella mente una perfetta immagine di bellezza in grado di indirizzare la sua mano nell’attuazione concreta (De oratore, II 8-9), evidente riflesso di un’altra teoria estetica, quella della phantasia, sottintendente una visione idealistica del processo creativo, stavolta non limitato alla mimesi della natura, ed elaborata forse già nel II-I secolo a.C. sulla base di spunti platonici, aristotelici o stoici.

Dinasta ellenistico (forse Eumene II di Pergamo). Busto, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Cicerone ha idee ancora più chiare nel campo della pittura, l’arte che più riesce a dilettarlo (ad familiares, VI 23, 3). I gusti sono tanti: poiché un criterio per un giudizio assoluto non v’è, qualcuno ama le pitture rozze e qualcuno quelle più nitide, vivaci e piene di luce (De oratore, XI 36); ma nel De oratore (III 25, 98) il protagonista, Crasso, rileva come le pitture nuove che appaiono più brillanti (floridiora) per pulchritudo e varietas dei colori, attirino sì al primo sguardo, ma senza saper dilettare a lungo, mentre si rivela forte l’attrazione del colore rozzo e antiquato delle tabulae antiche. In sostanza, nella pittura – e non solo – conviene il senso della misura (De oratore, XXII 73). Tra i pittori greci Cicerone loda i grandi nomi del V secolo a.C., Zeusi, Polignoto, Timante e le formae e i liniamenta di coloro che usarono un sistema tetracromatico (a quattro colori), mentre vede la piena maturità coincidente con la fase finale del IV secolo a.C. (Ezione, Nicomaco, Protogene, Apelle: Brutus, 70). Indubbio è che il suo Tusculanum, pur senza poter ostentare tabulae greche originali al pari delle ville “rivali”, poté almeno vantare una pittura romana di argomento storico immortalante uno dei suoi precedenti proprietari, Silla, in atto di ricevere la corona ossidionale da parte dell’esercito nella sua funzione di legato contro i Marsi, episodio occorso nel 149 a.C. (Plinio, XXII 12).

Chiunque sia solo un poco “umano” non può non conoscere l’eccellenza di Prassitele, asserisce Varrone in un brano riportato da Aulo Gellio in Noctes Atticae (XIII 17), il quale spiega come “umano” significhi qui l’essere dotato di una certa cultura e dottrina, consistenti anche nella conoscenza, dai libri e dalla storia, di chi fosse Prassitele, e come l’humanitas implichi un’educazione nelle arti liberali; e con l’humanitas di Varrone dovette armonizzarsi anche il possesso di un’opera in marmo Gli amorini alati in atto di giocare con una leonessa di uno scultore da lui tanto stimato e attivo nella prima metà del I secolo a.C., Arcesilao, familiaris probabilmente di M. Licinio Lucullo (Plinio, XXXVI 41). Chissà, forse anche questo tema “rococò”, il cui schema è rappresentato su tre quadretti musivi, di cui uno da Anzio del I secolo a.C., non sarebbe stato molto apprezzato da Cicerone, ma non era questo il punto; piuttosto era da stolti provare uno smodato piacere per statue, quadri, argenterie cesellate, vasi corinzi e magnifici palazzi. Così, nel figurarsi uno dei sedicenti principes civitatis come inebetito davanti a un quadro di Ezione o ad una statua di Policleto, egli afferma (Paradoxa stoicorum, V 2, 36-38): «anche senza porre la domanda di come e da dove ti sia procurato tali capolavori, quando ti vedo fermo a gridare lodi e ad ammirarli, ti considero un servo di tali quisquilie, amabili sì, ma riducibili a trastulli da ragazzi (oblectamenta puerorum)».

Ciononostante, egli stesso deve alla fine confessare di avere «occhi eruditi», perché nessuno ormai poteva più sfuggire al processo di acculturazione visiva prodotto dall’appropriazione e dalla diffusione delle opere greche: niente di male, a patto però di non farsene troppo abbindolare.

La campagna mitridatica di L. Licinio Lucullo

di A. Frediani, I grandi generali di Roma antica. Gli uomini che impressero il loro marchio sulle conquiste, sulle battaglie e sulle guerre della Repubblica e dell’Impero, Roma 2003. pp. 185-211.

 

Tra i luogotenenti nei quali Silla ripose in ogni frangente la maggiore fiducia va annoverato un uomo il cui nome, oggi, sale alla mente anche dei meno acculturati, quando si trovano in presenza di un sontuoso desco: Lucio Licinio Lucullo. È curioso, in effetti, che uno dei migliori comandanti in un’epoca che, pure, di generali in gamba ne produsse parecchi, carente in ambizione, diplomazia e spregiudicatezza, semmai, più che in capacità strategiche e coraggio, abbia lasciato in ambito militare una traccia di sé solo negli addetti ai lavori, consegnando il proprio nome ai posteri solo per quella piccola, ultima parte della sua vita in cui egli fece sfoggio di essere un ostentato gaudente. Invece, per quanto riguarda il periodo in cui ebbe modo di distinguersi come condottiero, il protagonista di questa digressione tra i “grandissimi” Mario e Silla, Cesare e Pompeo, si è saputo costruire una notevole reputazione bellica, anche se l’epoca dei grandi talenti in cui ha vissuto lo ha premiato meno di quanto avrebbe ottenuto anche solo mezzo secolo prima o dopo. Lucullo non nasce soldato, in base a quel poco che possiamo evincere dalle scarne notizie forniteci dai cronisti a proposito della prima parte della sua esistenza; ma nasce bene, molto bene, da una famiglia che, per parte di padre, aveva dato un console alla res publica durante la guerra in Spagna, mentre da parte di madre, per quanto riguarda i personaggi di prestigio, c’era solo l’imbarazzo della scelta, trattandosi dei Metelli. Cicerone, che fu suo intimo amico, ci dice che Lucullo trascorse la giovinezza dedicandosi all’attività forense, ma sappiamo che partecipò con Silla, in qualità di tribunum militum, alla guerra sociale, che ebbe termine allo scoccare dei suoi trent’anni; dovrebbe essere stato proprio lui quell’unico ufficiale che seguì con decisione il suo comandante quando questi decise di entrare manu militari a Roma. Per quanto non citato nelle fonti – lo stesso Silla non gode di ampio spazio nei racconti relativi a quel conflitto –, Lucullo dovette essere coinvolto nel conflitto italico in ampia misura, se ai tempi di Plutarco giravano ancora copie di una sua Storia della guerra sociale in greco, scritta per scommessa.
E di nuovo con Silla lo troviamo nell’87 a.C., in partenza per l’Asia minore come quaestor del grande condottiero nella guerra mitridatica: questore, ovvero, l’uomo di fiducia del capo, il suo coordinatore ed organizzatore. Per i veri e propri episodi marziali il generale preferiva servirsi di gente più esperta, ma a Lucullo furono riservati ruoli di supporto di non poco momento: a lui e al fratello Marco fu affidata la direzione della zecca, e il questore ebbe il suo bel daffare nel trasformare in denaro contante quanto Silla gli aveva ordinato di confiscare ai santuari greci, come Epidauro ed Olimpia – per Delfi gli mancò il coraggio, e dovette pensarci personalmente Silla, assai più privo di scrupoli –, coniando monete d’oro e d’argento, dette “luculliane”, che non si limitarono ad avere corso solo in tempo di guerra. Durante l’assedio di Atene, poi, venne il momento per un compito più operativo. «Padrone della terraferma, ma tagliato fuori dai rifornimenti»[1], a causa della superiorità marittima di Mitridate, Silla aveva bisogno di navi per assicurarsi i collegamenti e le vettovaglie, e il questore fu chiamato a procurargliene: la prima scelta era l’Egitto, Stato virtualmente cliente di Roma, o meglio, da sempre propenso a profondere ricchezze nei confronti dei capitolini per orientarne la politica in senso non aggressivo verso la terra dei faraoni; in subordine, Lucullo avrebbe potuto battere gli antichi centri della Fenicia, o arrangiarsi con quel che trovava da requisire.

L. Licinio Lucullo. Busto, marmo, I sec. a.C. S. Pietroburgo, Hermitage Museum
L. Licinio Lucullo. Busto, marmo, I sec. a.C. Sankt-Peterburg, Hermitage Museum.

Con una piccola flottiglia di cinque vascelli, secondo Plutarco, su una nave che cambiava di continuo per non farsi scoprire, secondo Appiano, il nostro Lucullo fece tappa dapprima a Creta, che seppe trarre dalla parte dei Romani, e poi a Cirene, dove pare che abbia lasciato una costituzione, illuminato dai suoi insigni e dotti accompagnatori, il poeta Archia e il filosofo Antioco di Ascalona. Arrivato ad Alessandria dopo aver subito un devastante attacco da parte dei pirati, fu trattato dal faraone Tolomeo IX Sotere Latiro con onori spropositati, senza che però il monarca, in attesa di capire da quale parte spirasse il vento, si sbilanciasse con un’aperta alleanza. Così, Lucullo se ne tornò indietro con uno smeraldo di immenso valore, dono personale del faraone, ma senza navi, che dovette procurarsi lungo la costa siriaca, per poi sostare a Cipro, dove le forze di Mitridate lo aspettavano «in agguato dietro i promontori»[2]; se la cavò con uno stratagemma, facendo tirare in secco l’intera flotta e fingendo di voler svernare sull’isola, per poi invece salpare con poche navi al primo vento favorevole, navigare a vele spiegate di notte ed ammainate di giorno, e raggiungere la fedele Rodi. Da tempo i Rodii ottemperavano alla loro alleanza con Roma compensando con il loro rapporto le deficienze della sua flotta, e anche in questo caso non poterono tirarsi indietro, fornendo un consistente contingente di naviglio; e non furono gli unici, perché qualche nave Lucullo la ottenne anche da altre due città che riuscì a staccare dall’alleanza con Mitridate, Cos e Cnido, utilizzandone i vascelli per una serie di spedizioni contro alcuni centri dell’Egeo che sostenevano il Ponto. A questo punto il questore si vide arrivare una richiesta d’aiuto da parte di Fimbria, il quale stava mettendo in grandi difficoltà Mitridate, che aveva bloccato a Pitane, a ridosso di Pergamo. Il ragionamento del feroce legato non faceva una grinza: lui aveva isolato il re da terra e, se Lucullo avesse fatto altrettanto dal mare con la sua flotta, il sovrano sarebbe stato spacciato; «nessuno avrebbe riportato maggior gloria – affermava Fimbria – di chi gli avesse sbarrato la strada e se ne fosse impadronito mentre tentava di fuggire. Se lui, Fimbria, lo avesse respinto dalla terraferma e Lucullo lo avesse cacciato dal mare la vittoria sarebbe stata di loro due e i Romani non avrebbero tenuto in alcun conto i tanto vantati successi di Silla ad Orcomeno e a Cheronea»[3].

Ma a quei tempi l’appartenenza ad un partito o ad una corrente, a Roma, contava di più dell’interesse comune, e Lucullo non se la sentì di abbandonare la causa sillana, né, forse, di rischiare la sua flotta in uno scontro con quella nemica, largamente superiore; pertanto non si mosse, lasciando a Mitridate la possibilità di fuggire a Mitilene. Inoltre, un uomo come Fimbria, selvaggio, truculento, mariano fino al midollo, non poteva che attirare il disprezzo di un aristocratico come Lucullo, che per carattere non era neanche propenso a turarsi il naso per pura ambizione. Ci fu tuttavia uno scontro navale davanti alla Troade, favorevole al romano, e un altro, nato da una singolar tenzone tra ammiraglie, vicino l’isola di Tenedo, sempre da quelle parti, altrettanto positivo per le armi romane; si trattò degli ultimi combattimenti prima della pace di Dardano, poco prima della quale Lucullo si ricongiunse nel Chersoneso a Silla, che se l’era dovuta cavare da solo. In sostanza, non bisogna aver paura di dire che la missione del questore si era rivelata un vero fallimento, risultando inutile alla causa di Silla e, con il suo rifiuto a Fimbria, all’intera causa romana. Tuttavia, fu a Lucullo che Silla, nel partire alla volta dell’Italia per trarre la sua vendetta sui mariani, si rivolse per ottenere dall’Asia la corresponsione dell’enorme multa imposta alla provincia. E, come afferma Plutarco, «in un incarico così pesante e ingrato, si comportò non solo con onestà e giustizia, ma anche con mitezza»[4], tanto che alcune comunità – ad esempio Delo, Tiatira e Sinnada – finirono per onorarlo come patrono. Pare che il questore abbia applicato un calmiere per i tassi d’interesse, a favore dei provinciali che si rovinavano per estinguere il debito, del 12%, in un’epoca in cui i tassi a ridosso del 50% erano la norma. Anche questa, d’altronde, era una precisa scelta di campo, perché la sua iniziativa ledeva in modo significativo gli interessi dei pubblicani, ovvero degli appaltatori, appartenenti a quella classe di cavalieri le cui esigenze Mario aveva sempre assecondato; Lucullo si arroccava così entro il fortilizio della sua classe aristocratica, manifestando una decisa opposizione a qualsiasi compromesso con quella categoria di nuovi ricchi che determinava ormai il corso della politica romana ed escludeva chi non teneva conto dei loro interessi, a meno che non avesse la forza, il carisma e la mancanza di scrupoli di un Silla, ad esempio. Era, questa, una delle due caratteristiche che avrebbero impedito a Lucullo di “fare carriera”; l’altra, era la sua incapacità di assecondare le aspirazioni dell’altra grande forza della res publica, ovvero l’esercito, e su di essa torneremo: per ora, sia sufficiente considerare che il nostro condottiero avrà cercato di limitare la protervia dei soldati nel fruire dell’acquartieramento nelle abitazioni dei provinciali, secondo quanto deliberato da Silla.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II sec. d.C. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum
Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II sec. d.C. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Il proquestore trovò anche il modo di testare la sua abilità di comandante in capo in occasione della ribellione di Mitilene, l’odierna Lesbo, i cui abitanti vinse in una battaglia campale, bloccando subito dopo la città per mare con la sua flotta. Facendo mostra di un’astuzia che lo avrebbe molto aiutato in seguito, nelle sue prime vittorie da console, evitò le lungaggini di un assedio simulando una ritirata in pieno giorno, per poi tornare la notte stessa a ridosso dell’abitato; i Mitilenesi, festanti, ritennero che fosse l’occasione buona per darsi al saccheggio dell’accampamento romano apparentemente deserto, e si riversarono fuori dalle mura senza alcuna cautela: in tal modo non poterono far altro che soccombere all’attacco dei legionari, che fecero un gran numero di prigionieri e qualche centinaio di morti.

 

Mitridate

 

In Oriente Lucullo rimase fino all’80 a.C., quando tornò a Roma per ritrovarsi edile insieme al fratello, che aveva voluto attendere perché anche lui raggiungesse l’età minima per conseguire la carica. I due Luculli si resero grandemente accetti al popolo allestendo – uno dei compiti connessi all’edilità – giochi sontuosi e spettacoli, nei quali fu introdotto il combattimento tra tori ed elefanti. L’anno seguente fu la volta della pretura, incarico il cui prestigio fu accresciuto dalla contemporanea morte di Silla, che lasciò un testamento nel quale si dichiarava Lucullo tutore del figlio, con tanto di dedica sulle Memorie. Con un tale biglietto di presentazione, il consolato sembrava un obiettivo facilmente conseguibile: dopo uno o più anni di propretura in Africa, infatti, Lucullo lo ottenne, nel 74 a.C., insieme ad un personaggio di secondo piano, Marco Aurelio Cotta.

Mitridate VI Eupatore. Statere, Pergamo 88-87 a.C. Au. 8, 45 gr. Recto: testa diademata, voltata a destra del sovrano.
Mitridate VI Eupatore. Statere, Pergamo 88-87 a.C. Au. 8, 45 gr. Recto: testa diademata, voltata a destra del sovrano.

Ma in quel momento non era tanto il consolato ad essere importante, bensì la conduzione di una nuova guerra contro Mitridate, il quale mirava ad espandersi a Occidente ai danni della Bitinia filoromana, il cui re, Nicomede IV, per fargli dispetto, poco prima di morire aveva diseredato i figli e lasciato a Roma il proprio regno. Così, quando il consueto, ottuso sorteggio assegnò a Cotta – che non aveva alcuna esperienza bellica – la Bitinia e a Lucullo – che aveva acquisito la sua reputazione militare proprio in Oriente – la Gallia Cisalpina, il nostro condottiero si diede a brigare per ottenere il comando del collega; contemporaneamente, morì anche il governatore della Cilicia, Lucio Ottavio, la cui provincia era un ottimo trampolino di lancio per colpire Mitridate.

Gli intrighi di Lucullo, che anche le fonti più favorevoli non si preoccupano di celare ma solo di attenuare, si spinsero fino alle aperte blandizie nei confronti di Precia, una matrona che aveva l’unico merito di essere la donna di Publio Cornelio Cetego, un tribuno della plebe di quelli tosti, che in quel momento, nonostante avesse un passato da mariano, era in grado di determinare con il suo beneplacito o la sua opposizione alle leggi il corso della politica a Roma. Questi era piuttosto favorevole a Pompeo, che stava combattendo in Spagna contro il generale mariano Sertorio, ma infine la determinazione di Lucullo riuscì a vincere la sua naturale avversione nei confronti di un sillano della prima ora e il console ebbe la Cilicia e l’Asia nonché – com’era ovvio, poiché l’unico altro comandante di rango in circolazione era nella penisola iberica –, la conduzione della guerra contro il re del Ponto; l’unico fastidio che Lucullo dovette sobbarcarsi fu di dover accettare la collaborazione di Cotta, che ebbe l’incarico di reperire la flotta tra gli alleati e di sorvegliare con essa gli stretti. Al comandante fu assegnata una legione, che si sarebbe riunita alle due di Fimbria che stazionavano in Asia al comando del vecchio luogotenente di Silla, Murena, e ad altre due con cui Servilio Isaurico si stava adoperando per eliminare l’endemico pericolo dei pirati; si trattava, in tutto, di 30.000 effettivi di fanteria e 2.000 di cavalleria.

Se pure non ne aveva il carattere, possiamo esser certi che fin da allora Lucullo aveva ben chiaro nella sua mente il disegno di diventare un grande condottiero, forse per riscattare la relativa povertà, fino ad allora, del suo curriculum militare, così come avverrà per Crasso in occasione della disgraziata impresa partica. Ecco cosa dice il suo amico Cicerone, esagerando parecchio in ogni senso, a proposito di questa nuova fase della sua vita:

 

[…] Inviato dal Senato alla guerra contro Mitridate, non solo superò le generali previsioni fatte sul suo valore, ma anche la fama di quanti lo avevano preceduto. E ciò fu tanto più sorprendente, in quanto non ci si aspettava affatto una gloriosa prestazione in campo militare da uno come lui, che aveva impegnato la giovinezza nell’attività forense e trascorso il lungo periodo della questura nella pace, in Asia, mentre Murena conduceva la guerra nel Ponto. Ma l’incredibile grandezza del suo ingegno fece sì ch’egli non sentisse la mancanza di quella disciplina dell’esperienza, che non si può insegnare. Pertanto, dopo aver consumato tutto il tempo del viaggio e quello della navigazione, parte consultando gli esperti, parte leggendo storie di imprese militari, giunse in Asia generale fatto, lui che era partito da Roma senza alcuna esperienza di cose militari[5].

 

L’impresa pareva fatta apposta per consegnare ai posteri la fama di chi l’avesse compiuta: il prossimo teatro di guerra erano gli stessi territori che avevano costituito lo scenario entro cui Alessandro Magno aveva consacrato se stesso all’eternità; il nemico, un mostruoso despota che si era reso responsabile del massacro di ben 80.000 Romani, per il quale l’intero popolo capitolino reclamava vendetta, sembrava fatto su misura per rendere immortale il Romano che lo avesse battuto. Il nuovo comandante che si presentò ai soldati «ormai corrotti dall’ozio e dagli agi e dai Fimbriani, come venivano chiamati, divenuti intrattabili per lunga abitudine all’indisciplina», era di pasta diversa rispetto a quelli che lo avevano preceduto: «quella, a quanto pare, era la prima volta che si trovavano di fronte un vero capo, perché fino ad allora erano stati solo strumento di demagogia per dei comandanti che cercavano esclusivamente di compiacerli»[6]. Lucullo si accingeva infatti ad affrontare l’arduo compito che lo aspettava aggiungendovi un ulteriore motivo di complicazione, gestendo cioè in modo del tutto anacronistico il suo rapporto con la truppa: niente privilegi, niente facilitazioni; nessun agio che non appartenesse strettamente alla vita di campo, nessuna gratificazione che esulasse quelle previste dalla manualistica militare; una radicale controtendenza rispetto all’atteggiamento comune a tutti i comandanti dell’epoca, da un quarto di secolo a questa parte, dai più grandi ai mediocri.

Graham Sumner, Soldati romani in Oriente (II-I secolo a.C.)
Soldati romani in Oriente (II-I sec. a.C.). Illustrazione di G. Sumner.

L’avversario che Lucullo stava per affrontare era un uomo che aveva cercato di trarre partito dalla lezione che gli aveva inflitto Silla; non si trattava più dell’incauto smargiasso che aveva mandato orde eterogenee di improvvisati soldati allo sbaraglio contro le collaudate armate romane. Consapevole che il possesso della provincia d’Asia e, ora, anche della Bitinia, dava ai Romani il controllo totale degli stretti e lo confinava intorno al Ponto Eusino, Mitridate

 

si curò dunque dei preparativi come se stesse decidendo il tutto per tutto. Per il resto dell’estate e per tutto l’inverno tagliò legname, allestì navi e armi, distribuì due milioni di medimni di grano [78.000 tonnellate] lungo le coste. Oltre alle forze che aveva già, vennero a lui come alleati i Calibi, gli Armeni, gli Sciti, i Tauri, gli Achei, gli Eniochi, i Leucosiri e quanti, presso il fiume Termodonte, occupano le terre dette “delle Amazzoni”. Queste furono le forze che, oltre alle sue, si congiunsero in Asia. Quanto all’Europa, furono con lui le tribù sauromate dei Basilidi, degli Iazigi e dei Coralli, quelle dei Traci che abitano lungo l’Istro, presso il Rodope e l’Emo, e inoltre i Bastarni, il popolo più bellicoso di tutti[7].

 

Plutarco, dal canto suo, precisa:

 

[…] proibì le grida minacciose dei barbari nelle diverse lingue, armi e suppellettili d’oro e di pietre preziose che costituivano un ricco bottino per i vincitori e non servivano certo a dare coraggio a chi le possedeva; al loro posto fece costruire spade di foggia romana e scudi pesanti preoccupandosi di raccogliere cavalli ben allenati invece che riccamente bardati. Così mise insieme centoventimila fanti, disposti secondo la formazione romana, e circa sedicimila cavalieri, senza contare le quadrighe falcate in numero di cento. Allestì inoltre navi senza più baldacchini dorati, bagni per le concubine e ginecei lussuosi, ma piene di armi da difesa e da attacco e di rifornimenti vari[8].

Nicomede IV di Bitinia. Tetradramma, Nicomedia, 94-74 a.C. ca. AR 14, 59 gr. Recto: Testa diademata del sovrano, voltata a destra.
Nicomede IV di Bitinia. Tetradramma, Nicomedia, 94-74 a.C. ca. AR 14, 59 gr. Recto: Testa diademata del sovrano, voltata a destra.

Ancora una volta, nella primavera del 73 Mitridate assunse decisamente l’iniziativa, non con una provocazione ma secondo criteri militari razionali. Dichiarandosi campione del figlio di Nicomede, invase la Bitinia per metterlo sul trono, e allo stesso tempo inviò un esercito al comando di Diofanto, in Cappadocia, per sbarrare a Lucullo la strada per il Ponto. Il primo guaio, per i Romani, fu che le popolazioni asiatiche, vessate dai pubblicani, lo accolsero con favore; il secondo fu l’ottusità di Cotta, che accettò battaglia con Mitridate senza attendere il ricongiungimento con le forze del collega. Quest’ultimo, infatti, avanzava verso il fiume Sangario con l’obiettivo di prendere alle spalle il re del Ponto, giunto nella regione di Calcedonia, sulla sponda asiatica del Bosforo, mentre Cotta lo bloccava di fronte. Mitridate puntava a sconfiggere i due eserciti separatamente, e provocò immediatamente a battaglia Cotta, che ebbe il torto di accettare; il console rimediò una sconfitta devastante per terra, con migliaia di perdite, e una ancora più decisiva via mare, dove il prefetto Rutilio Nudo si fece incendiare una parte della flotta, mentre il rimanente, sessanta vascelli, gli veniva letteralmente portato via al traino dalle navi dell’avversario.

Cotta finì assediato a Calcedonia e il re, proseguendo nella sua strategia di evitare di essere preso tra due fuochi, rimase nei pressi della città a soprintenderne il blocco, e inviò una parte delle sue truppe contro l’altro console, al comando di Marco Mario, un luogotenente di Sertorio che il valoroso generale proscritto gli aveva mandato dalla Spagna. Lucullo si trovò di fronte quest’ultimo esercito nei pressi del lago Ascanio, in località Le Otrie, ma quella che si prospettava come la sua prima battaglia campale non ebbe luogo: pare che una meteora sia caduta proprio tra i due schieramenti mentre si accingevano al combattimento e i rispettivi comandanti, considerandolo un cattivo auspicio, rinunciarono allo scontro. D’altronde, Lucullo era già orientato a dare avvio alla campagna con una tattica alla “Fabio Massimo”:

 

Lucullo, pensando che nessuna riserva umana di rifornimenti e nessuna ricchezza avrebbe mai potuto nutrire a lungo le migliaia di uomini di Mitridate, per di più avendo il nemico schierato di fronte, fece chiamare a sé uno dei prigionieri. Anzitutto gli domandò quanti compagni dormissero in tenda con lui e poi quanti viveri erano rimasti nella sua tenda quando era stato catturato. Dopo che l’uomo ebbe risposto, lo congedò e ne interrogò un secondo e poi un terzo, ponendo a tutti le medesime domande. Infine, confrontando la quantità di viveri disponibile col numero dei soldati, arrivò alla conclusione che entro tre o quattro giorni le provviste nemiche sarebbero venute meno. E quindi, a maggior ragione, si confermò nella decisione di prendere tempo. Intanto ammassò dentro l’accampamento grandi quantità di viveri: così, circondato dall’abbondanza, poteva attendere le ristrettezze nelle quali sarebbe venuto a trovarsi il suo avversario[9].

 

Per Mitridate, dunque, era vitale procurarsi una sicura base di collegamento tra la propria flotta e l’esercito, per assicurarsi una via protetta per i rifornimenti. Toccò a Cizico, l’unica città della costa dell’Ellesponto ancora fedele ai Romani e uno dei centri più floridi dell’Asia Minore, essere prescelta quale successivo obiettivo del re pontico. Espugnarla non era impresa di poco conto: a parte la grande ricchezza di vettovaglie, macchine da difesa ed armi di vario genere, che i cittadini tenevano in tre rispettivi magazzini, la città sorgeva su un’isola collegata alla terraferma da una lingua di terra, era difesa da massicce mura divise da un’altura, il monte Dindimo, e dotata di due porti. Ma Mitridate aveva con sé 50.000 fanti e 400 navi, con i quali le pose il blocco per terra e per mare, e soprattutto il tessalo Niconide, grande esperto di macchine ossidionali. Presa posizione sul monte Adrastea, di fronte alla città, il sovrano fece circondare l’obiettivo con un doppio muro e un fossato, con terrapieni su cui dispose macchine d’ogni sorta: torri, testuggini dotate di ariete, una elepoli di quasi diciotto metri, «da cui si levava un’altra torre che con le catapulte vomitava pietre e vari proiettili»[10]; sul mare, due quinqueremi attaccate ospitavano una torre dalla quale, una volta vicina alle mura, usciva un ponte azionato da un meccanismo. Mitridate obbligò quindi 3.000 Ciziceni che aveva catturato alla battaglia di Calcedonia a schierarsi sotto le mura e a supplicare i concittadini di arrendersi, ma Pisistrato, il comandante della città, tenne duro e non si fece commuovere.

Roma in Oriente (74 a.C.)

Appiano descrive nei particolari i primi tentativi del re di prendere la città, dapprima mediante il marchingegno sulle navi, la cui efficacia fu scongiurata dagli assedianti mediante il getto di fuoco e pece, dopo che soli quattro uomini erano riusciti a salire sulle mura, poi con un massiccio assalto poliorcetico da terra, contro il quale i Ciziceni si produssero in una fiera difesa: «Spezzavano gli arieti con pietre o li piegavano con l’aiuto di corde o ne smorzavano la forza con stuoie di lana, rimediavano ai proiettili incendiari con acqua ed aceto, agli altri proiettili toglievano la forza con stoffe interposte davanti o con tele penzolanti»[11]. Una parte del muro crollò, ma gli assedianti non fecero in tempo ad approfittarne perché esso fu ricostruito la notte stessa, e non ebbero più modo di riprovarci, a causa del forte vento che, in seguito, distrusse gran parte dei macchinari.

Lucullo arrivò solo in un secondo momento nei pressi della città assediata, e sulle prime la sua armata fu scambiata dai Ciziceni per un contingente di rinforzo dello sterminato esercito pontico; ogni dubbio dei cittadini fu fugato quando, nottetempo, arrivò da loro a nuoto un messaggero, dopo una traversata di sette miglia nel lago che collegava il mare alla città «tenuto a galla da due otri, aggrappato all’asticella che li univa e remigando con i piedi sott’acqua»[12]. L’accampamento, grazie alla collaborazione di un proscritto romano pentito, fu posto su un’altura a sud della città, in una posizione che permetteva all’esercito consolare di ostacolare le vie di comunicazione e di rifornimento di Mitridate, costringendo il re «a subire quello che stava facendo»[13]. Ben presto il sovrano, anche a causa dell’approssimarsi dell’inverno, si trovò a corto di viveri, ma della carestia imperante tra le sue truppe nessuno osò informarlo, fino a quando non si verificò anche un’epidemia tra i soldati che, pare, erano ridotti a cibarsi d’erba, e perfino di interiora umane.

Cavalleria pontica. Illustrazione di J.D. Cabrera Peña.
Cavalleria pontica. Illustrazione di J.D. Cabrera Peña.

Mitridate si risolse quindi a liberarsi della cavalleria e delle bestie da soma, nonché «dei fanti a cui poteva rinunciare», che fece partire verso ovest mentre Lucullo era impegnato nella conquista di un castello nei dintorni della città assediata. Ma al console non sfuggì la faccenda, e tornato nottetempo all’accampamento, prese con sé una legione e parte della cavalleria dandosi all’inseguimento del contingente pontico in ritirata. La neve e il gelo lo obbligarono a lasciare per strada molti dei suoi, tuttavia gli riuscì di arrivare a contatto dei nemici con un numero di uomini sufficiente a sterminarli mentre attraversavano un fiume, forse il Kokasu: pare che le donne della vicina città di Apollonia abbiano avuto tutto l’agio di spogliare e depredare le migliaia di cadaveri che giacevano lungo le rive del corso d’acqua, mentre Lucullo, alla sua prima battaglia campale – in realtà non più di un tiro al bersaglio – se ne tornava alla base con oltre 20.000 prigionieri.

Per Mitridate la faccenda di Cizico si stava rivelando un fiasco. Il re aveva costruito dei terrapieni che collegavano il monte Dindimo alle mura della città, con lo scopo di arrivare a minare queste ultime, ma furono gli assediati a farli crollare, insieme alle macchine che vi aveva piazzato sopra; per giunta, i suoi uomini erano ormai talmente provati da non riuscire neanche ad opporsi alle sempre più frequenti sortite dei difensori. Pertanto, decise che era tempo di svincolarsi, e salpò con la sua flotta alla volta di Pario, dove arrivò con solo una parte del naviglio, distrutto da una tempesta, lasciando il suo accampamento al saccheggio dei Ciziceni; «Lucullo, spettatore dell’altrui disfatta senza perdite proprie, ottenne così un nuovo genere di vittoria»[14].

Fallì anche il tentativo del sovrano di mettere i bastoni tra le ruote a Lucullo, inviando nell’Egeo il proprio ammiraglio Aristonico con un gran quantitativo di denaro per corrompere i legionari “fimbriani”, la cui fama giustificava un simile proposito: il suo messo fu infatti tradito e consegnato allo stesso console. L’esercito pontico, invece, si ritirò per terra alla volta di Lampsaco, ma fu sorpreso da Lucullo sul Granico, il fiume della Misia divenuto celebre per la prima vittoria di Alessandro sui Persiani; il generale aggredì i 30.000 effettivi di fanteria che il re aveva affidato a Mario ed Erme e ne fece strage, completando il suo successo, forse, con una seconda battaglia, sull’Esopo: almeno così si possono conciliare le diverse ubicazioni indicate dalle fonti.

A Cizico, Lucullo fu accolto come un trionfatore, e pare che in suo onore siano stati anche istituiti dei giochi, i Lucullea. Ma il condottiero non poteva permettersi di riposare sugli allori, come gli fece notare la dea Afrodite apparsagli in sogno: c’era da ripulire il mare dalle flottiglie sparse di Mitridate, e non esitò ad attaccare tredici quinqueremi nei pressi del promontorio del Sigeo, definito dalle fonti “porto degli Achei” in ricordo della guerra di Troia; in questa occasione, i vascelli finirono nelle sue mani e cadde il comandante Isidoro, celebre pirata passato al servizio di Mitridate, che aveva dato filo da torcere ai Romani nel tratto di mare tra Creta e Cilicia.

Ma il vero colpaccio il condottiero lo fece poco dopo, intercettando una flotta di 50 navi al comando di Mario, del paflagone Alessandro e dell’eunuco Dionisio. All’avvicinarsi della flotta romana, costoro riuscirono a riparare su un’isola nei pressi di Lemno, probabilmente Chryse – dove Filottete era stato morso da un serpente –, e a tirare in secco le navi. In questo modo, si tenevano fuori dalla portata di tiro dei Romani, e Lucullo si risolse ad aggirare l’isola facendo sbarcare un contingente di fanti sul lato opposto; la pressione di questi ultimi spinse gli avversari a imbarcarsi nuovamente, solo per vedersi precluso il mare aperto dalla flotta capitolina. Finì che i Pontici furono massacrati dal tiro concentrico da terra e dal mare, Mario giustiziato, Dionisio ed Alessandro scovati in una grotta e riservati per il trionfo (ma l’eunuco si uccise col veleno).

Le gratificazioni di Cizico e queste vittorie navali incrementarono, e di molto, la fiducia in se stesso del comandante romano, al punto da indurlo a rifiutare uno stanziamento di diciotto milioni di denari e l’invio di una flotta da parte del Senato: una decisione che non si spiega se non con la sua volontà di fugare ogni dubbio sulle difficoltà di sconfiggere una volta per tutte Mitridate, dimostrando di avere la situazione sotto controllo. Ma per quanto disastrosi fossero gli esiti delle sue imprese, il re se la cavava sempre; sfuggì per un pelo a Lucullo in Bitinia, e raggiunse il Ponto valendosi di un passaggio su una bireme dei pirati, dopo che un’altra tempesta gli aveva inflitto più perdite di quelle propinategli dai Romani.

Stele funeraria di Matricone, figlio di Promatione. Rilievo, marmo, I sec. a.C. ca. Istanbul, Museo Archeologico Nazionale
Banchetto funebre. Stele funeraria di Matricone, figlio di Promatione, marmo, I sec. a.C. ca. da Calcedone. Istanbul, Arkeoloji Müzesi.

Il rifiuto di rinforzi da parte del proconsole appare tanto più ingiustificato ove si consideri che nessuno, a Roma, voleva un’altra pace negoziata come quella stipulata da Silla, e lo stesso Lucullo era sempre più solleticato dalle prospettive che si aprivano all’artefice di un’eventuale espansione romana verso Oriente. Non a caso, la sua mossa successiva fu l’invasione del Ponto e l’inseguimento di Mitridate, mentre Cotta puntava su Eraclea e il luogotenente Triario si occupava della flotta di collegamento con la Spagna. Sulle prime, si trattò di una marcia dura, tra le devastazioni della Bitinia, che obbligò il condottiero a valersi dell’apporto di 30.000 Galati come portatori di frumento; poi con la buona stagione, nel corso del 72 a.C., una volta entrati in territori non vessati dalla guerra, oltre l’Halys, i Romani reperirono ogni ben di dio: bovini, suini e schiavi si trovarono in abbondanza, al punto che, «delle altre prede, i soldati non sapevano cosa farne, anzi alcuni le abbandonavano, altri le lasciavano deperire; infatti, avendone tutti una grande quantità, non vi era possibilità di venderle a nessuno»[15].

Tuttavia i legionari trovarono il modo di lamentarsi con il loro comandante, che tendeva ad accordarsi con le città che incontrava lungo il tragitto, limitandosi a devastarne il territorio circostante, invece di espugnarle con la forza e gratificare così i suoi soldati del conseguente bottino. E tanto fecero, i soldati, che Lucullo dovette rinunciare al suo proposito di economizzare forze e risorse e concesse loro l’assedio di due centri importanti, Amiso, residenza reale, e Temiscira, sul Termodonte, nel pieno del territorio che, secondo gli antichi, aveva ospitato il regno delle Amazzoni, da una delle quali la città aveva preso il nome. Sfortunatamente per i Romani, dalle donne guerriere gli abitanti di Temiscira avevano ereditato la combattività, e l’esercito di Lucullo s’impelagò in un assedio dalle difficoltà inopinate. Secondo quanto riferisce Appiano,

 

I soldati che fronteggiavano Temiscira fecero avanzare torri contro il nemico, crearono dei terrapieni e scavarono gallerie così grandi che sotto terra ci furono scontri massicci. I Temisciri dall’alto scavarono condotti contro i Romani, e contro i lavoratori gettavano orsi e altre fiere e sciami d’api[16].

 

Nel complesso, comunque, la marcia era più lenta del lecito, e in seguito varrà a Lucullo una serie di accuse di aver favorito il nemico per prolungare la guerra e, quindi, il proprio comando. Allora, il proconsole così ribatteva alle lamentele dei soldati:

 

Proprio questo – rispondeva – io voglio e cerco di ottenere indugiando, che Mitridate ridiventi grande e raccolga forze in grado di combattere, in modo che allora ci attenda a battaglia e non fugga più al nostro avanzare. Non vedete che ha alle spalle una regione immensa e deserta? E vicino si erge la catena del Caucaso, con montagne altissime e gole profonde, sufficienti a nascondere non uno ma diecimila re che vogliano evitare il combattimento[17].

 

C’era poi la questione dell’Armenia. Vi regnava un tizio, Tigrane, che si faceva chiamare “re dei re”, per aver espanso il proprio regno, al suo avvento al trono poco più che minuscolo, inglobando Cilicia, Fenicia, Siria e sottraendo ai ben più potenti Parti ampi settori come la Mesopotamia settentrionale e l’Atropatene; per giunta, aveva sposato la figlia di Mitridate e, se questi si fosse trovato in forti difficoltà, riteneva Lucullo, avrebbe finito per tirarsi dietro anche il genero, costringendo i Romani ad affrontare una pericolosa coalizione. Insomma, Lucullo procedeva nella sua guerra, ma senza fare arrabbiare troppo il suo avversario, che intanto si era fermato a Cabira, nell’Armenia minore a nord del Lico, dove aveva radunato l’ennesimo esercito, composto da 40.000 fanti e 4.000 cavalieri, al comando dei suoi generali Tassile e Diofanto. Era venuto il momento dello scontro campale, e Lucullo lasciò Licinio Murena, figlio del luogotenente di Silla, a continuare l’assedio ad Amiso, muovendo con tre legioni alla volta del Lico attraverso le montagne, continuamente spiato dalle postazioni avanzate del re, che comunicavano con le retrovie mediante l’accensione di fuochi.

Scuola di Bryaxis o di Timoteo, Amazzonomachia. Bassorilievo, marmo pentelico, metà IV sec. a.C. ca. da un fregio funerario. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Scuola di Bryaxis o di Timoteo, Amazzonomachia. Bassorilievo, marmo pentelico, metà IV sec. a.C. ca. da un fregio funerario. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Con la sua netta superiorità nella cavalleria, Mitridate cercò subito lo scontro in pianura e, dopo un primo combattimento nel quale i cavalieri romani ebbero la peggio, Lucullo si guardò bene dall’accettarne altri, puntando piuttosto ad aggirare lo sbarramento montano che si ergeva davanti a lui. Ci riuscì con l’aiuto di una guida locale, guadagnando una solida posizione in alto – «da cui se voleva combattere poteva raggiungere il nemico e se preferiva starsene tranquillo gli era possibile rimanere al coperto da un attacco»[18] –, che aveva l’unico e non indifferente neo di permettere a Mitridate di tagliare ai Romani le vie di comunicazione con la Cappadocia. Seguirono giornate piuttosto dense di avvenimenti, con varie scaramucce, durante le quali il comandante capitolino inflisse umilianti punizioni ai soldati che si erano resi responsabili di fughe durante gli scontri. Ci fu anche un tentativo di assassinarlo da parte di un sicario che aveva finto di aver litigato con il re per poter essere ricevuto dal proconsole in privato; ma l’attendente di quest’ultimo impedì all’assassino di entrare nella tenda del comandante, per il solo fatto che questi stava dormendo: come asserisce Plutarco, il sonno, che ha ucciso molti generali, salvò Lucullo. Infine, la situazione di stallo fu decisa da uno dei contingenti incaricati di assicurare i rifornimenti con la Cappadocia, comandato da tale Adriano, che secondo le fonti sterminò praticamente fino all’ultimo uomo le forze mandategli contro da Mitridate, 2.000 cavalieri e 4.000 fanti al comando di Menemaco e Mirone.

Conoscendo la facilità allo scoramento dei propri improvvisati soldati, il re cercò di non dar peso al disastro, ma Adriano lo servì a puntino sfilando davanti al suo accampamento ed ostentando sia il grano che i nemici non erano riusciti a sottrargli sia il bottino guadagnato dallo scontro; come previsto, ciò gettò nel panico più completo l’esercito pontico, che si diede ad una fuga caotica nella quale trovò la morte il generale Dorilao, sconfitto ad Orcomeno da Silla, e fu travolto lo stesso sovrano, che faticò a trovare un cavallo. Il re riuscì a sottrarsi all’inseguimento dei Romani solo perché uno dei suoi muli addetti al trasporto dell’oro finì nelle loro mani, e costoro si fermarono a lungo per disputarsi il prezioso carico. Finì per riparare dal genero, dando ordine di far uccidere tutte le sue mogli e sorelle, che vivevano a Farnacia, prima che cadessero nelle mani dei nemici.

Lucullo si spinse nell’inseguimento del re fino a Taularia, sulla riva settentrionale del Lico, dove Mitridate aveva stipato parte dei suoi tesori, e poi se ne tornò indietro fino ad Amiso, che ancora resisteva, mietendo qualche conquista lungo la via, nella cosiddetta Armenia Minore e dalle parti di Temiscira. Ad Amiso il greco Callimaco svolgeva lo stesso ruolo che era stato di Archimede a Siracusa un secolo e mezzo prima, e i Romani si trovarono a mal partito davanti alle sue macchine belliche. Il condottiero riuscì infine a sorprenderlo promuovendo un attacco nell’ora che abitualmente assegnava al riposo dei suoi soldati, e ciò gli valse la conquista di un tratto di mura, alla quale seguì la fuga dello stesso comandante; questi, però, non intendeva far fare bottino ai Romani, e se ne andò appiccando ovunque il fuoco, che i legionari non si curarono di spegnere, affannandosi invece nel saccheggiare quanto più possibile prima che l’incendio distruggesse tutto. Si dice che Lucullo deprecò la propria sorte, che non gli aveva consentito di emulare Silla, il quale aveva conquistato Atene senza distruggerla, e si dedicò alla ricostruzione della città.

Seguì un periodo di tregua tra il 71 e il 70 a.C., durante il quale il proconsole, stabilitosi ad Efeso, attese che il suo inviato presso Tigrane, il cognato Appio Claudio Pulcro, gli guadagnasse la consegna di Mitridate; nel frattempo, concentrò la propria attenzione all’amministrazione della provincia, che senza il suo occhio vigile era divenuta preda di veri e propri estorsori, i quali riducevano in schiavitù quanti si erano rivolti a loro per farsi prestare i soldi dei tributi, senza riuscire a restituire il denaro, a causa degli altissimi tassi d’interesse. «Ma ciò che avveniva prima – riporta Plutarco – era ancora peggiore, perché venivano torturati con tratti di corda, aculei e cavalletti, d’estate esposti ai raggi del sole, e d’inverno immersi nel fango o nel ghiaccio: così la schiavitù finiva per apparire loro come una liberazione, un beneficio»[19]. L’imposizione, da parte del governatore, di tassi che non superassero il 12% annuo, e la sua volontà di conservare ai debitori una gran parte del loro reddito, gli guadagnò la gratitudine delle popolazioni – gratificate anche di ludi, feste, gare atletiche e competizioni gladiatorie –, meno utile, in verità, dell’ostilità che montò nei suoi confronti a Roma tra quanti erano legati ai “capitalisti” che speculavano in Oriente.

Battaglia di Tigranocerta, 69 a.C.
Battaglia di Tigranocerta, 69 a.C.

 

Tigrane e l’invasione dell’Armenia

 

La stasi bellica finì quando Appio Claudio tornò dal suo comandante senza buone notizie. Tigrane aveva un’alta concezione di sé, tanto da tenersi sempre accanto come attendenti ben quattro re, che gli correvano davanti a piedi quando lui andava a cavallo e lo circondavano quando era sul trono; sebbene detestasse Mitridate, tanto da costringerlo ad una lunga anticamera prima di accordarsi con lui, si era risentito della sicumera dell’inviato romano e del fatto che Lucullo, nella sua lettera, lo avesse chiamato solo “re” e non “re dei re”, e aveva rifiutato la consegna del suocero. Il condottiero non se l’aspettava proprio, a quanto pare: «si domandò con meraviglia – afferma Plutarco – come mai l’Armeno, se aveva intenzione di attaccare i Romani, non avesse cercato la collaborazione di Mitridate, quando questi era al colmo della sua potenza, unendo le sue truppe a quelle ancora forti del re invece di lasciarlo a logorarsi, e cominciasse la guerra non con così esili speranze di successo, affiancandosi a chi non era più nemmeno capace di reggersi in piedi»[20]. Era tempo di riprendere a combattere, e Lucullo partì nuovamente alla volta del Ponto, assalendo la città natale del re, Sinope, difesa da una guarnigione di Cilici che opprimeva la popolazione greca. I difensori che non si erano dati alla fuga furono massacrati e la popolazione trattata con i guanti bianchi, per assicurarsi le retrovie sicure – perfino il figlio di Mitridate, Macarete, si propose come alleato – in vista dell’invasione dell’Armenia, cui il proconsole diede avvio all’inizio del 69, in piena stagione invernale, con due legioni e 500 cavalieri. L’impresa non era guardata con favore praticamente da nessuno:

 

Sembrava a tutti un pazzo temerario poiché voleva gettarsi, senza prospettive di salvezza, in mezzo a popoli bellicosi che disponevano di una cavalleria di decine di migliaia di unità, in un paese vasto, attraversato da fiumi profondi, cinto da monti sempre coperti di neve. Perciò i suoi soldati, già poco disciplinati, lo seguivano malvolentieri, pronti a ribellarsi. A Roma i demagoghi della plebe sbraitavano accusando pubblicamente Lucullo di passare di guerra in guerra, senza alcun vantaggio per la città, al solo scopo di non deporre più le insegne del comando e di continuare ad arricchirsi sui rischi della comunità, e col tempo costoro riuscirono nel loro intento[21].

 

Il passaggio dell’Eufrate, che sancì l’inizio della campagna, avvenne sotto i migliori auspici, rivelandosi più facile del previsto perché, nonostante il fiume fosse in piena e ciò presupponesse la costruzione di un ponte di barche, il suo livello scese improvvisamente – come se si volesse prostrare davanti a un essere superiore, secondo quanto interpretarono gli abitanti del luogo – permettendo il passaggio delle truppe. Ai soldati non fu consentito né il saccheggio delle campagne né l’assedio delle città – «avanzava chiedendo ai barbari solo ciò che era necessario», afferma Appiano[22] –, durante il cammino fino alla catena del Tauro, alla quale i Romani arrivarono senza che Tigrane avesse l’idea dell’avanzata nemica. Pare che, dopo aver visto rotolare la testa del primo malcapitato disfattista che era venuto ad annunciare al re l’avvicinamento di Lucullo, nessun altro avesse osato tenere il sovrano armeno al corrente della marcia del proconsole, finché al successivo informatore non fu assegnato un esercito con l’ordine tassativo «di ricondurre vivo il capo romano e di schiacciare tutti gli altri». Mitrobarzane, così si chiamava il temerario, si avvicinò ai Capitolini mentre stavano allestendo l’accampamento, ma non seppe approfittarne, perché Lucullo gli mandò contro il proprio luogotenente Sestilio con un contingente di fanti e 1.600 cavalieri; nacque uno scontro nel quale cadde lo stesso comandante armeno, e alla sua morte seguì l’immediata dispersione delle sue forze.

Soldati di Mitridate VI del Ponto. Illustrazione di Á. García Pinto.
Soldati di Mitridate VI del Ponto. Illustrazione di Á. García Pinto.

La sconfitta fu sufficiente ad indurre Tigrane ad abbandonare la sua capitale Tigranocerta, situata ad est del Tigri, ma solo per essere sorpreso da Murena in una strettoia tra le montagne, dove i suoi uomini, costretti a procedere quasi in fila indiana, furono uccisi o fatti prigionieri dai Romani; il re fu tra quanti riuscirono a svincolarsi, ma il suo esercito perse tutte le salmerie. La «città che Tigrane aveva fondato in onore di se stesso» divenne il successivo obiettivo dei Romani, che la posero sotto assedio. E doveva trattarsi di una roccaforte spettacolare, secondo quanto ci racconta Appiano degli allestimenti del re armeno:

 

Lì fece venire gli uomini migliori comminando la confisca di tutti i beni che essi non avessero portato con sé. Circondò la città con mura di cinquanta cubiti, ai cui piedi pose molte stalle per i cavalli; fece costruire nel sobborgo la reggia e grandi parchi, molte riserve di caccia e laghi; nei paraggi fece erigere anche una possente fortezza[23].

 

L’assedio fu avviato da Sestilio, che circondò la città e la fortezza di un fossato, accompagnato da macchine da lancio, e fece scavare gallerie per arrivare a minare le mura. Lucullo era convinto che il re, borioso ed impulsivo, non avrebbe esitato a venire in soccorso alla sua città, offrendogli battaglia campale che il proconsole cercava prima che il tempo logorasse le sue forze. In effetti, le sole esitazioni di Tigrane furono dovute ai suggerimenti di Mitridate, che gli inviava lettere su lettere per scongiurarlo di puntare piuttosto a tagliare i rifornimenti dei Romani valendosi della superiorità e della mobilità della cavalleria, e di Tassile, il generale pontico che lo stesso Mitridate aveva inviato al genero. Sulle prime, il sovrano armeno parve attenersi ai consigli del suocero, ma quando iniziarono ad affluire al suo cospetto effettivi in quantità industriale – le fonti variano da un minimo di 70.000 ad un massimo di 700.000 uomini –, tra le popolazioni che abitavano l’area tra il Golfo Persico e il Mar Caspio, egli si convinse che Mitridate volesse privarlo di una vittoria certa per pura invidia, e mosse verso i Romani senza neanche aspettare l’altro monarca, lamentandosi perfino, pare, di dover affrontare il solo Lucullo e non, diceva, i comandanti romani tutti.

D’improvviso, Lucullo si trovò stretto tra la città assediata e lo sterminato esercito del re, che si era accampato in una vasta pianura presso l’affluente del Tigri, Niceforio, per permettere alla potenza dei suoi cavalieri corazzati di sprigionare tutta la sua efficacia. «Alcuni dei suoi ufficiali consigliavano a Lucullo, che stava tenendo un consiglio di guerra sull’imminente battaglia, di rinunciare all’assedio e di muovere contro Tigrane, altri lo ammonivano di guardarsi bene dal lasciarsi alle spalle tanti nemici. Egli rispose che, preso separatamente, né l’uno né l’altro consiglio era buono, ma buoni diventavano tutti e due combinati insieme»[24]. Dopo aver partecipato in prima persona alle varie fasi dell’assedio, scampando ripetutamente ai tiri degli arcieri dagli spalti o alle colate di nafta versate contro le macchine da lancio, il condottiero lasciò dunque la responsabilità del blocco alla città a Murena, cui diede 16.000 uomini, e se ne portò dietro 14.000, suddivisi in 10.000 fanti, mille arcieri e frombolieri, 3.000 cavalieri. Quando il suo misero esercito apparve al re, che secondo Livio disponeva di forze venti volte superiori, questi ingaggiò una gara di battute canzonatorie con i suoi generali, vincendola con la celebre frase: «se vengono come ambasciatori sono molti, se invece vengono come combattenti, pochi!». Né la protervia venne meno all’alba del giorno seguente, quando vide i legionari marciare lungo il fiume che divideva i due schieramenti, quello armeno a oriente, quello romano a occidente.

Poiché Lucullo stava puntando verso un tratto guadabile situato in corrispondenza di un punto in cui il corso d’acqua curvava a gomito, parve a Tigrane che i Romani, seguendone l’andamento, marciassero verso ovest, ovvero che si ritirassero. Ma Tassile gli fece notare che «quegli uomini, quando sono in marcia, non usano indossare vesti smaglianti e portare gli scudi ben lucidati e gli elmetti scoperti, come ora che hanno tolto le armi dai foderi di cuoio; quel luccichio significa che essi si accingono a combattere e che stanno marciando contro il nemico»[25].

Solo allora Tigrane si svegliò dal suo torpore e, mentre i primi legionari si accingevano a guadare il fiume, diede ai propri generali l’ordine di schierarsi a battaglia, mantenendo per sé il centro, affidando l’ala sinistra al re degli Adiabeni, e la destra, resa più potente dalla presenza dei cavalieri catafratti, «come murati nelle loro armature», al re dei Medi. Che fosse il 6 ottobre ce lo fa capire il riferimento che Plutarco fa alle perplessità dei comandanti romani, che avrebbero preferito differire l’attacco ad un altro giorno che non fosse l’infausto anniversario del massacro di Arausio, dove mezzo secolo prima decine di migliaia di capitolini avevano trovato la morte per mano dei Cimbri; dicendosi convinto di poter rendere fausto anche quel giorno, Lucullo passò il fiume e marciò alla volta del nemico: «indossava una splendente corazza d’acciaio a squame ed un mantello a frange, e roteando in mano la spada nuda faceva segno di attaccare subito i nemici, forniti di archi a lunga gittata, per eliminare, avanzando velocemente, la distanza utile al lancio»[26].

Tigrane II d'Armenia. Tetradramma, Tigranocerta 80-68 a.C. c., AR 15, 31 gr. Recto: Busto diademato e drappeggiato del sovrano; la tiara è decorata con una stella fra due aquile.
Tigrane II d’Armenia. Tetradramma, Tigranocerta 80-68 a.C. c., AR 15, 31 gr. Recto: Busto diademato e drappeggiato del sovrano; la tiara è decorata con una stella fra due aquile.

Il racconto della battaglia differisce alquanto in Plutarco e Appiano, tanto da renderli difficilmente conciliabili; proveremo a seguire il primo, che sembra più informato. A mettere paura ai Romani erano soprattutto i catafratti. Costoro attendevano i nemici schierati su un pianoro che costituiva la sommità di un’altura; ma l’ascesa non presentava grandi difficoltà, e il comandante capitolino, mentre conduceva all’attacco un migliaio di uomini, ordinò alla sua cavalleria di Traci e Galati di aggirare gli avversari sui fianchi e di mettere fuori uso le lunghe lance dei cavalieri corazzati, senza le quali essi non avrebbero potuto né offendere né difendersi. I suoi uomini, nel frattempo, giunti a contatto con i temuti cavalieri, ebbero l’ordine di concentrarsi sugli stinchi e sulle cosce, laddove non arrivava l’armatura. Per la cronaca, Appiano afferma invece che i cavalieri romani attirarono in avanti i nemici simulando una ritirata, e Lucullo, appostatosi con la fanteria alle spalle degli avversari con una manovra nascosta di aggiramento, li sorprese mentre erano sparpagliati su un ampio fronte all’inseguimento dei fuggitivi. In ogni caso, subito il panico si diffuse tra le file armene, e quegli ammassi di ferraglia fecero precipitosamente marcia indietro finendo addosso alla propria fanteria, scompaginandone i ranghi, «così che tutte quelle decine di migliaia di uomini furono sconfitti senza che si vedesse una sola ferita, senza far scorrere una goccia di sangue»[27].

Seguì un massacro dei fuggitivi, tanto più efficace in quanto Lucullo aveva proibito ai soldati di fermarsi a far bottino, «cosicché i Romani passarono accanto a bracciali e collane ammazzando, finché non calò la notte»[28]; pare che le vittime dell’esercito armeno siano ammontate a 100.000 anime, mentre i Romani ebbero solo un centinaio di feriti e cinque morti, tanto che essi stessi «si vergognavano e si deridevano a vicenda per aver dovuto usare le armi contro simili schiavi». Il re se la cavò fuggendo immediatamente dopo la collisione dei due eserciti, liberandosi della corona che pose piangendo sul capo del figlio, il quale la diede a sua volta a uno schiavo, che finì nelle mani di Lucullo.

Dal canto suo Mitridate, che aveva imparato a sue spese quanto cauto e prudente fosse Lucullo, non si era affrettato a venire in soccorso al genero, convinto che la battaglia non avesse ancora avuto luogo. Fu con grande stupore, pertanto, che trovò lungo il cammino soldati feriti e disarmati, prima di scovare Tigrane, derelitto e senza alcun milite intorno; una volta insieme, i due sovrani ripresero a fare ciò che avevano fatto ripetutamente fino ad allora: ovvero arruolare nuovi soldati. Per Lucullo, intanto, era un gioco da ragazzi espugnare Tigranocerta, grazie anche alla ribellione dei mercenari greci, che sgominarono i commilitoni di altra etnia e permisero ai Romani di valicare le mura. Il tesoro di Tigrane che il condottiero vi trovò fu sufficiente a sovvenzionarlo per il resto della guerra senza gravare sulle finanze dello Stato, e ad arricchirlo tanto da permettergli in vecchiaia quello stile sontuoso per cui sarebbe divenuto famoso più che per le sue imprese militari; ce ne fu anche per i soldati, d’altronde, cui fu permesso di saccheggiare a piacimento, gratificandoli pure con quasi un migliaio di dracme ciascuno, che costituivano il bottino della battaglia.

Regno di Armenia, 64 a.C. ca.
Regno di Armenia, 64 a.C. ca.

 

Dietro l’angolo, ora, c’era il terzo grande regno mediorientale, quello dei Parti, che avrebbe costituito la spina nel fianco per Roma nei tre secoli a venire. Ci furono dei contatti diplomatici tra Lucullo e il loro sovrano Arsace, per stipulare un’alleanza, ma pare che non se ne fece nulla. Anzi, sembra che il proconsole avesse intenzione di attaccare anche la Partia, ma che i soldati, provati dalla lunga serie di campagne, si siano opposti; così, il condottiero si risolse a proseguire l’impresa armena, che d’altronde era ben lungi dall’essere conclusa. La marcia riprese nell’anno 68 a.C., oltre il Tauro, dove la carenza di grano, non ancora maturo, fu compensata dal saccheggio dei villaggi stipati di viveri per Tigrane il quale, dal canto suo, piuttosto scoraggiato, aveva delegato il comando e l’allestimento di un nuovo esercito al suocero; questi aveva arruolato in fretta e furia tutti gli Armeni atti alle armi, per scegliere poi i migliori 70.000 fanti e 35.000 cavalieri e farli istruire dai suoi soldati. Sulle prime, l’intento di Lucullo era di costringere
il re a una nuova, decisiva battaglia campale; ma poi, visto che al di là di alcune scaramucce con alcuni reparti armeni i Romani non riuscivano ad andare, il proconsole decise di puntare sull’altra, più antica capitale del regno, Artassata, che si diceva fondata da Annibale ai tempi in cui era consigliere di Antioco III di Siria.

Fu allora che Tigrane, che ad Artassata aveva tutta la sua famiglia, si risolse a fermarlo, attestandosi con le truppe che era riuscito a racimolare sul fiume Arsania, l’affluente più orientale dell’Eufrate. Il suo nuovo esercito era dotato di una cospicua cavalleria, nella quale spiccavano gli abilissimi arcieri nomadi, del popolo dei Mardi, e i lancieri iberi, una popolazione del Caucaso meridionale che godeva fama di grande coraggio. Lucullo aveva ormai all’attivo diverse vittorie contro quei due re tronfi e vanesi, e fin dall’inizio non ebbe dubbi sull’esito della battaglia. Schierò dodici coorti oltre il fiume, sulla sponda settentrionale occupata dagli Armeni, disponendo in una lunga linea gli altri legionari, per evitare di essere accerchiato.

Ogni fonte fornisce un resoconto della battaglia diverso dagli altri, o forse racconta una battaglia diversa. Pare che ci sia stato un primo impatto tra cavalleria romana ed Iberi, con questi ultimi in rotta quasi subito. Mentre la cavalleria romana si dava al loro inseguimento, Tigrane lanciò contro lo schieramento capitolino il resto della sua cavalleria, che compì una serie di assalti senza riuscire a sfondare, a causa del pronto intervento della fanteria a supporto dei settori sottoposti a pressione. Tuttavia, ogni volta che indietreggiavano, i Mardi infliggevano più danni di quanti ne subissero, grazie alla loro abilità di tiratori: «le ferite erano dolorose e di difficile guarigione: essi usavano frecce a doppia punta, adattate in modo tale da procurare una morte immediata, sia che rimanessero confitte nelle carni, sia che venissero estratte: infatti la seconda punta, essendo di ferro e non fornendo alcun appiglio all’estrazione, rimaneva confitta»[29]. Lucullo fu sufficientemente pronto a richiamare indietro i suoi cavalieri e ad ordinar loro di attaccare la guardia del corpo del re, costituita da Atropateni. Anche costoro si diedero alla fuga, cui seguì quella di tutto l’esercito, coronata da un inseguimento dei capitolini che durò tutta la notte, «finché i Romani si stancarono non solo di uccidere, ma anche di far prigionieri e portar via ricchezze e bottino di ogni genere»[30]. La via per la “Cartagine armena” pareva aperta. Si era a settembre, e nulla lasciava presagire ciò che sarebbe successo.

Infatti,

Sopraggiunsero violente bufere, gran parte del territorio si coprì di neve, e poi, tornato il sereno, subentrarono gelo e brinate; perciò i cavalli trovarono difficoltà ad abbeverarsi e ad attraversare guadi perché rischiavano di tagliarsi i garretti con la crosta di ghiaccio che si rompeva. Inoltre la maggior parte del territorio era coperta di boschi, tagliata da gole strette ed infestate di paludi: così i soldati erano continuamente bagnati; durante le marce si inzuppavano di neve e la notte dovevano accamparsi su un terreno molle. Per pochi giorni dopo la battaglia essi seguirono il loro generale, poi cominciarono ad opporsi[31].

 

Di fronte alla prospettiva di un ammutinamento, Lucullo fu costretto a riportare indietro le sue truppe, che una volta ad ovest del Tauro, presero la via per la Migdonia, fertile regione della Mesopotamia nella quale campeggiava la città di Nisibi, dove il fratello del re, Gura, custodiva altri immensi tesori. Si imponeva un assedio, anche se, sfortunatamente, si scoprì che a capo delle difese c’era quello stesso Callimaco che aveva fatto vedere i sorci verdi ai Romani ad Amiso; per giunta, in questa circostanza egli si poteva valere di una doppia cinta di mura con in mezzo un fossato, che costituiva un baluardo pressoché invalicabile. Anche se Plutarco afferma che la città cadde subito, fonti apparentemente più informate, come Cassio Dione, ci riferiscono che l’impresa durò fino all’inverno. Pare che nel corso di una notte tempestosa, approfittando della scarsa sorveglianza degli Armeni, Lucullo abbia ordinato un attacco in più punti al muro esterno; avuta ragione dei pochi difensori, i Romani avrebbero quindi avuto la possibilità di colmare il fossato e quindi di passare al secondo muro, ancor più scarsamente difeso. Una volta in città, il condottiero trattò la resa con Gura, che si era asserragliato nella rocca, e vi svernò, usando intransigenza solo nei confronti di Callimaco,
che mise in ceppi «per fargli pagare il fio del fuoco che aveva appiccato ad Amiso, distruggendo la città e togliendo a lui la possibilità e la gloria di mostrare ai Greci la sua generosità»[32].

Anahit. Testa, bronzo, IV sec. a.C. ca., da Erez (Armenia)
Anahit. Testa, bronzo, IV sec. a.C. ca., da Erez (Armenia).

 

Un esito deludente

Ma il vento stava cambiando, soprattutto per l’esasperazione dei soldati, alcuni dei quali, in servizio da sedici anni, avevano superato la durata massima della ferma, ma anche per l’incapacità, da parte di Lucullo, di guadagnarsi le loro simpatie e il loro favore.

 

Fino a quel momento la fortuna aveva seguito Lucullo e, per così dire, combattuto al suo fianco; da allora in avanti, però, quasi che il vento favorevole fosse venuto meno, egli dovette affrontare tutto forzatamente, e fu ostacolato da ogni parte. Sebbene continuasse a mostrare il coraggio e la magnanimità di un grande generale, le sue azioni non ottennero più né fama né favore, anzi poco mancò che per le sventure che gli capitarono non perdesse anche la gloria già conquistata[33].

 

Spocchioso con gli avversari politici o con gli esponenti di altre classi sociali, il condottiero non era meno altezzoso nei confronti dei suoi uomini, «considerando come una diminuzione di prestigio e di autorità qualsiasi concessione fatta ai soldati per compiacerli». Da quando era giunto in Asia, i legionari non avevano passato un solo inverno tra quattro mura, ma sempre sotto una tenda, in marcia o davanti ad una città assediata; a Roma, poi, lo accusavano di prolungare la guerra con il solo intento di arricchirsi: «non gli bastava – dicevano – aver conquistato la Cilicia, l’Asia, la Bitinia, la Paflagonia, la Galazia, il Ponto e l’Armenia fino al fiume Fasi, ora saccheggiava la reggia di Tigrane, come se fosse stato mandato a spogliare e non a vincere il re»[34].

Sul malcontento dei soldati fece leva suo cognato Publio Clodio, facinoroso sobillatore, “ribelle per natura”, secondo Cassio Dione, tra i più pervicaci della storia di Roma, il quale si sentiva defraudato di comandi che riteneva di meritare, e che usò tutto il suo eloquio per convincere i soldati che non valeva più la pena seguire Lucullo. Anche a Roma, da tempo, si invocava un avvicendamento del comando, tanto che nel dicembre del 68, il tribuno della plebe Aulo Gabinio riuscì a far approvare la lex Gabinia, per la quale le province di Bitinia e Ponto furono assegnate ad Acilio Glabrione; pertanto, i legionari si predisposero a svernare senza alcuna intenzione di combattere ancora – nonostante Mitridate stesse recuperando i territori persi nel Ponto –, «aspettando che da un giorno all’altro arrivasse Pompeo o qualche altro comandante a sostituire Lucullo»[35].

A dire il vero, una serie di sconfitte subite nel Ponto dai luogotenenti del proconsole permisero a Lucullo di convincere i soldati a seguirlo; ma il condottiero non arrivò in tempo per impedire la disfatta di Valerio Triario, che perse ben 7.000 uomini, 150 centurioni e 24 tribuni in una sola battaglia, nella quale lo stesso Mitridate per poco, a causa di un’emorragia per una ferita alla coscia, non ci rimise la vita. Al comandante romano non rimase che intraprendere una nuova marcia contro Tigrane, per impedirgli un ricongiungimento con le truppe pontiche; ma almeno quelli che erano stati con Fimbria, ovvero quelli in servizio da più tempo, si rifiutarono di procedere, «dicendogli che erano già stati congedati con tanto di decreto e che lui, Lucullo, non poteva più dare ordini, perché le province erano state assegnate ad altri».

 

Non vi fu nulla, anche di indecoroso, che Lucullo non lasciasse intentato. Andò tenda per tenda con aria dimessa e con occhi pieni di lacrime a parlare ai soldati uno ad uno, prendendone alcuni perfino per mano; ma essi respinsero le loro dimostrazioni d’affetto, gettandogli ai piedi i portamonete vuoti e gli ingiunsero di combattere da solo contro quei nemici contro i quali lui solo si arricchiva[36].

 

I suoi sforzi valsero a poco. I cosiddetti “fimbriani” decisero di rimanere fino all’estate del 67, ma senza combattere, a meno che non venissero attaccati. Fu un ben triste epilogo per un condottiero che aveva dato tante valide prove di sé: Lucullo, «li tenne con sé, senza costringerli ad agire, senza più condurli a combattere, accontentandosi solo che non se ne andassero, lasciando che Tigrane scorrazzasse per la Cappadocia e Mitridate ricominciasse a riempirsi d’orgoglio, quel Mitridate che nella sua lettera al Senato diceva di aver debellato definitivamente[37]». Quando arrivò la commissione di dieci uomini, da lui richiesta per dare una sistemazione amministrativa, secondo la consuetudine, ai paesi conquistati, costoro constatarono non solo che quelle regioni erano ben lungi dall’essere un saldo possesso romano, ma anche che «Lucullo non era neanche padrone di se stesso, anzi veniva deriso ed insultato dai suoi stessi soldati[38]». Subito dopo i legionari con la ferma scaduta se ne andarono e, pochi mesi dopo, reduce da due trionfi, a furor di popolo Pompeo era in Asia, pronto a rilevare il comando della guerra contro Mitridate e il governo delle province di Bitinia, Asia e Cilicia.

Peter Connolly, Tribuno romano
Ufficiale romano di età repubblicana (II-I sec. a.C.). Illustrazione di P. Connolly.

 

L’incontro per le consegne tra i due comandanti viene descritto da diverse fonti e, sebbene i due rimanessero in discreti rapporti negli anni successivi, si trattò di un episodio denso di tensione, recriminazioni, perfino insulti, anche perché i personaggi facilmente si prestavano ad accuse di venalità l’uno, di ambizione l’altro: anzi, per dirla con Velleio Patercolo, «nessuno dei due poteva essere imputato di mendacio dall’altro dal quale era accusato»[39]. Comunque, poiché Pompeo deliberò che tutti i soldati passassero al suo servizio, pena la confisca dei beni, alla fine dell’incontro Lucullo si ritrovò con soli 1.600 uomini – presumibilmente i più poveri, che non avevano nulla da perdere, come afferma Appiano – da portare con sé a Roma per il trionfo: «a tal punto – afferma Plutarco – Lucullo mancava, o per la sua stessa indole o per cattiva sorte, del primo e più grande requisito di un generale, la capacità di farsi amare dai soldati»[40].

Né maggiori simpatie il generale seppe riscuotere a Roma, se non tra l’aristocrazia, poiché dovette attendere ben tre anni dal suo arrivo in città nell’estate del 66 a.C., per celebrare il trionfo, cui molti si opponevano accusandolo, sostanzialmente, di aver provocato un mucchio di guerre senza averne conclusa una. E non si tratta di un’accusa del tutto priva di fondamento; solitamente, a Roma i trionfi si concedevano a chi avesse concluso vittoriosamente una guerra, non a chi lasciava a qualcun altro l’opera incompiuta – sebbene ragioni di opportunità politica, come nel caso di Metello nella guerra giugurtina, talvolta giustificassero il contrario. Non v’è dubbio che Lucullo avesse concluso la sua lunga campagna «in maniera incerta e non decisiva»[41], come afferma Appiano; tuttavia, aveva dimostrato di essere un grande e valoroso generale, come attesta Plutarco:

 

I più grandi generali romani lodarono moltissimo Lucullo per essere riuscito a sgominare i due re più famoso e potenti con due tattiche opposte: la rapidità e la lentezza; infatti con una strategia dilatoria e di logoramento fiaccò Mitridate quando era al colmo delle sue forze, e con azioni rapidissime sgominò Tigrane. Insomma, egli fu tra i pochi comandanti di tutti i tempi che usarono l’indugio nell’agire e l’audacia nel difendersi[42].

 

Ma ciò non bastava per portare a Roma quelle conquiste che da tempo costituivano il fondamento stesso della sua politica. Serviva anche essere, e soprattutto a quei tempi, un grande comandante, per creare nei soldati quella coesione, quella sinergia necessarie per condurre in porto qualsiasi impresa d’ampio respiro;

 

egli pretendeva troppo da loro, era inavvicinabile, severo nell’assegnazione dei servizi, implacabile nel punire; non sapeva convincere le persone con la persuasione, né guadagnarsele con la clemenza, né trarle a sé con le onorificenze o col denaro: cose necessarie in tutti i casi e specialmente quando si ha a che fare con una moltitudine di uomini, e per giunta con una moltitudine armata. Per questo i soldati, finché le cose andarono bene e poterono far bottino che compensasse i pericoli, gli ubbidirono; quando però vennero le sconfitte e sentirono la paura al posto delle speranze, non si curarono più di lui. La prova si ha nel fatto che Pompeo, messo alla testa di questi stessi uomini, non ebbe a notare in essi alcun segno di ribellione. Tanta è la differenza che passa tra un uomo e un altro[43].

 

Non meno carente era Lucullo come stratega, ove si consideri che, più di una volta, si addentrò in territorio nemico senza aver assunto le informazioni necessarie ad assicurarsi una marcia nella quale le difficoltà di ordine climatico e logistico fossero ridotte al minimo. L’incompletezza di Lucullo come condottiero, d’altronde, si rivelò tale anche in Lucullo come politico, allorché nell’ultimo periodo della sua esistenza, quando il partito aristocratico contava su di lui come campione contro l’intraprendenza del ceto equestre e lo strapotere di Pompeo, egli preferì ritirarsi a vita privata e farsi notare, piuttosto, per il modo ostentato in cui si godeva le sue immense ricchezze.

Ad ogni modo, il trionfo ci fu, nel 63 a.C., sotto il consolato del suo amico Cicerone, e anche se non fu dei più fastosi, si distinse per alcune caratteristiche peculiari degli altri cortei del genere: la ricca messe di armi e macchine da guerre nemiche esposte nel circo Flaminio, la sfilata dei cavalieri catafratti e dei carri falcati, le centodieci navi dal rostro di bronzo, una statua colossale di Mitridate con uno scudo tempestato di pietre preziose: il tutto, coronato da un banchetto cui partecipò la città intera, durante il quale furono offerte, secondo Plinio, centomila brocche di vino.

In seguito, solo «brindisi e banchetti, baldorie e fiaccolate e divertimenti di ogni sorta[44]», ma anche «la costruzione di edifici sontuosi, di ambulacri e bagni», nei sette anni che gli rimanevano da vivere, prima che una sclerosi celebrale – che qualcuno insinua gli sia stata involontariamente indotta da un liberto che gli somministrava una pozione per aumentare il suo affetto nei propri confronti – lo rendesse incapace di intendere e di volere. Non aveva vinto le guerre che aveva intrapreso, ma aveva lasciato a Pompeo il solo compito di raccogliere i frutti della sua opera, come un giocatore di calcio che dribbla gran parte della squadra avversaria servendo un pallone d’oro all’attaccante, che questi non può che mettere in porta. Infatti,

 

Tigrane e Mitridate, dopo le sconfitte subite ad opera di Lucullo, non tentarono più altre imprese. Mitridate, debole e ormai fiaccato dalle precedenti lotte, non osò neanche per una volta mostrare il suo esercito a Pompeo al di fuori del vallo e, alla fine, fuggito, riparò nel Bosforo dove morì; l’altro, Tigrane, nudo e disarmato, si gettò ai piedi di Pompeo e, toltosi dal capo il diadema, glielo gettò davanti, lusingandolo così con l’offerta di ciò che aveva già adornato il trionfo di Lucullo[45].

 

E se qualcuno ha dei dubbi sul diritto di Lucullo ad essere presente in quest’opera, sia sufficiente il consuntivo formulato nei suoi confronti da Plutarco:

 

Fu il primo dei Romani a valicare il Tauro con un esercito; di più: attraversò il Tigri, e sotto gli occhi del re espugnò ed incendiò le regge dell’Asia, Tigranocerta e Cabira, Sinope e Nibisi, conquistò nuove terre fino al Fasi, a nord, fino alla Media a est e fino al Mar Rosso a sud, grazie all’aiuto dei re arabi; annientò le forze dei re, dei quali gli mancò solo di catturare i corpi, perché quelli si rifugiavano in zone desertiche, tra foreste impervie e impraticabili[46].

L. Licinio Lucullo. Testa, marmo, seconda metà del I sec. a.C. dal tempio di Serapide, Sinope (Turchia)
L. Licinio Lucullo (?). Testa, marmo, seconda metà del I sec. a.C. dal tempio di Serapide, Sinope (Turchia).

 

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Bibliografia aggiuntiva:

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[1] Plut. Luc. 2.

[2] Plut. Luc. 3.

[3] Ibid.

[4] Plut. Luc. 4.

[5] Cic. Academ. Prior. 2, 1-3.

[6] Plut. Luc. 7.

[7] App. Mitr. 69.

[8] Plut. Luc. 7.

[9] Plut. Luc. 8.

[10] App. Mitr. 73.

[11] App. Mitr. 74.

[12] Oros. VI 2, 14.

[13] Ibid.

[14] Oros. VI 2, 20.

[15] Plut. Luc. 14.

[16] App. Mitr. 78.

[17] Plut. Luc. 14.

[18] Plut. Luc. 15.

[19] Plut. Luc. 20.

[20] Plut. Luc. 23.

[21] Plut. Luc. 24.

[22] App. Mitr. 84.

[23] App. Mitr. 85.

[24] Plut. Luc. 27.

[25] Ibid.

[26] Plut. Luc. 28.

[27] Ibid.

[28] App. Mitr. 85.

[29] Cassio Dio XXXVI 5.

[30] Plut. Luc. 31.

[31] Plut. Luc. 32.

[32] Ibid.

[33] Plut. Luc. 33.

[34] Ibid.

[35] Plut. Luc. 34.

[36] Plut. Luc. 35.

[37] Ibid.

[38] Ibid.

[39] Vell. Paterc. II 33.

[40] Plut. Luc. 36.

[41] App. Mitr. 91.

[42] Plut. Luc. 38.

[43] Cassio Dio XXXVI 16.

[44] Plut. Luc. 39.

[45] Plut. Luc. 46.

[46] Ibid.