Confronto fra i Romani e Alessandro Magno (Liv. IX 17-18)

Nel libro IX, all’interno del proprio resoconto sulla seconda guerra sannitica (326-304), dopo aver narrato, a due anni dalla scomparsa di Alessandro Magno, l’umiliazione subita dai Romani alle Forche Caudine (321) e la rivincita a Lucera (320), ottenuta dal console Lucio Papirio Cursore, che sottopose i Sanniti al medesimo disonore, Livio elogia il comandante romano e, compiendo una digressione, si spinge ad affermare che Cursore avrebbe potuto tener testa persino all’invincibile sovrano macedone, se mai questi, già vincitore su Dario III e conquistatore dell’Oriente, avesse volto le proprie armi contro l’Italia e l’Occidente. Lo storico, perciò, analizza in maniera ampia ogni possibilità, stabilendo un continuo confronto tra Alessandro e i generali romani, forse in risposta allo storico greco Timagene di Alessandria: questi, nel suo trattato Βασιλεῖς (I re), aveva criticato l’espansionismo romano e aveva ipotizzato che il re macedone, se non fosse morto prematuramente, avrebbe soggiogato anche l’Urbe.

Il discorso di Livio, perciò, si ricollega ai concetti già esposti nella Praefatio, nella quale aveva insistito sul carattere provvidenziale e benefico dell’egemonia romana: il vero protagonista della narrazione liviana appare il popolo romano, che l’autore vede «come mirabile creazione collettiva, come vero popolo eletto» (Paratore).

L’intento dello storico patavino è quello di dimostrare la superiorità del popolo romano su qualsiasi altra gente e sostiene che, se anche esso si fosse scontrato con Alessandro Magno, sarebbe uscito vincitore; dopodiché egli passa in rassegna una serie di elementi che hanno dato grande lustro al Macedone e afferma che non erano inferiori a lui tanti condottieri romani; infine, spiega che la fama di Alessandro divenne ancor più grande perché morì giovane, durante la sua parabola ascendente, prima di subire i colpi di una sorte contraria.

Alessandro a cavallo. Statuetta, bronzo, II-I secolo a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nihil minus quaesitum a principio huius operis uideri potest quam ut plus iusto ab rerum ordine declinarem uarietatibusque distinguendo opere et legentibus uelut deuerticula amoena et requiem animo meo quaererem; tamen tanti regis ac ducis mentio, quibus saepe tacitus cogitationibus uolutaui animum, eas euocat in medium, ut quaerere libeat quinam euentus Romanis rebus, si cum Alexandro foret bellatum, futurus fuerit. Plurimum in bello pollere uidentur militum copia et uirtus, ingenia imperatorum, fortuna per omnia humana maxime in res bellicas potens; ea et singula intuenti et uniuersa sicut ab aliis regibus gentibusque, ita ab hoc quoque facile praestant inuictum Romanum imperium. Iam primum, ut ordiar ab ducibus comparandis, haud equidem abnuo egregium ducem fuisse Alexandrum; sed clariorem tamen eum facit quod unus fuit, quod adulescens in incremento rerum, nondum alteram fortunam expertus, decessit. Vt alios reges claros ducesque omittam, magna exempla casuum humanorum, Cyrum, quem maxime Graeci laudibus celebrant, quid nisi longa uita, sicut Magnum modo Pompeium, uertenti praebuit fortunae? Recenseam duces Romanos, nec omnes omnium aetatium, sed ipsos eos cum quibus consulibus aut dictatoribus Alexandro fuit bellandum, M. Valerium Coruum, C. Marcium Rutulum, C. Sulpicium, T. Manlium Torquatum, Q. Publilium, Philonem, L. Papirium Cursorem, Q. Fabium Maximum, duos Decios, L. Volumnium, M’. Curium? Deinceps ingentes sequuntur uiri, si Punicum Romano praeuertisset bellum seniorque in Italiam traiecisset. Horum in quolibet cum indoles eadem quae in Alexandro erat animi ingeniique, tum disciplina militaris, iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum uenerat. Ita reges gesserant bella, ita deinde exactores regum Iunii Valeriique, ita deinceps Fabii, Quinctii, Cornelii, ita Furius Camillus, quem iuuenes ii quibus cum Alexandro dimicandum erat senem uiderant. Militaria opera pugnando obeunti Alexandro – nam ea quoque haud minus clarum eum faciunt – cessisset uidelicet in acie oblatus par Manlius Torquatus aut Valerius Coruus, insignes ante milites quam duces, cessissent Decii, deuotis corporibus in hostem ruentes, cessisset Papirius Cursor illo corporis robore, illo animi! Victus esset consiliis iuuenis unius, ne singulos nominem, senatus ille, quem qui ex regibus constare dixit unus ueram speciem Romani senatus cepit! Id uero erat periculum, ne sollertius quam quilibet unus ex his quos nominaui castris locum caperet, commeatus expediret, ab insidiis praecaueret, tempus pugnae deligeret, aciem instrueret, subsidiis firmaret! Non cum Dareo rem esse dixisset, quem mulierum ac spadonum agmen trahentem inter purpuram atque aurum oneratum fortunae apparatibus suae, praedam uerius quam hostem, nihil aliud quam bene ausus uana contemnere, incruentus deuicit. Longe alius Italiae quam Indiae, per quam temulento agmine comisabundus incessit, uisus illi habitus esset, saltus Apuliae ac montes Lucanos cernenti et uestigia recentia domesticae cladis, ubi auunculus eius nuper, Epiri rex Alexander, absumptus erat.

Alessandro Magno ritratto come Helios. Busto, marmo, copia romana da originale di età ellenistica (III-II sec. a.C.). Roma, Musei Capitolini.

Fin dal principio di quest’opera niente può sembrare che io mi sia allontanato più del dovuto dallo schema della narrazione e di cercare, avviando l’opera con la varietà degli argomenti, quasi delle piacevoli digressioni per i lettori e un po’ di riposo per il mio spirito; eppure, il ricordo di un re e di un condottiero così grande suscita quelle meditazioni silenziose con le quali ho spesso occupato la mente, così da invogliarmi a indagare quale sarebbe stata la sorte dello Stato romano, se si fosse combattuto contro Alessandro. Sembra che in guerra contino moltissimo il numero e il valore dei soldati, la capacità dei comandanti e la fortuna, che influenza tutte le circostanze umane, ma soprattutto nelle vicende belliche; tali fattori, sia che li si consideri singolarmente, sia tutti quanti insieme, assicurano che la supremazia di Roma, come non fu vinta da altri re e da altri popoli, così non lo sarebbe stata facilmente neppure da Alessandro. Per prima cosa, dal confronto fra i condottieri, non nego certo che egli fosse un comandante eccelso; ma lo rende tuttavia più illustre il fatto che egli fu solo, e che morì giovane, nel crescere della sua potenza, senza aver ancora sperimentato l’avversa fortuna. Per non parlare di altri famosi sovrani e comandanti, validi esempi di umane vicende, che cos’altro se non una lunga vita espose Ciro, che i Greci esaltano con grandi lodi, così come in questi ultimi tempi Pompeo Magno, ai mutamenti della fortuna? Dovrei forse passare in rassegna i condottieri romani, e non tutti quelli di ogni epoca, ma appunto quei consoli e dittatori – Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio Rutulo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Decii, Lucio Volumnio, Manio Curio – contro i quali avrebbe dovuto misurarsi Alessandro? Seguono poi altri grandi uomini, se egli avesse combattuto contro Cartagine prima che contro Roma, e se fosse passato in Italia più vecchio. In qualsivoglia di questi uomini non solo c’era la stessa disposizione d’animo e d’ingegno che in Alessandro, ma soprattutto la disciplina militare, tramandata di padre in figlio fin dalle origini dell’Urbe, era giunta a una forma di scienza regolata da tutta una serie di norme. Così avevano condotto le guerre i re, così poi coloro che li avevano cacciati, i Giunii e i Valerii, così successivamente i Fabii, i Quinctii, i Cornelii, così Furio Camillo, che quei giovani i quali avrebbero dovuto combattere contro Alessandro avevano conosciuto da anziano.

Sì, proprio un Manlio Torquato o un Valerio Corvo, se gli si fossero trovati di fronte in campo aperto, avrebbero ceduto ad Alessandro, che in battaglia si addossava i compiti militari – anche questo lo rende non meno illustre! – loro che erano insigni combattenti prima che generali! Avrebbero ceduto proprio i Decii, che si gettarono sulle schiere nemiche, dopo essersi votati alla morte, avrebbe ceduto un Papirio Cursore con quella gagliardia di corpo e di spirito! Si sarebbe proprio lasciato sopraffare dagli accorgimenti di un giovane quel Senato, per non nominare tutti a uno a uno, di cui si fece un esatto concetto solo colui il quale disse che il Senato romano era un consesso di re! C’era davvero pericolo che egli sapesse, con maggior destrezza di uno qualsiasi degli uomini che ho ricordato, scegliere il luogo per accamparsi, provvedere ai rifornimenti, premunirsi dalle insidie, scegliere il momento adatto per attaccar battaglia, schierare l’esercito, rafforzarlo con le milizie ausiliarie! Avrebbe detto che non aveva a che fare con un Dario, il quale si trascinava dietro uno stuolo di femminucce e di eunuchi, in mezzo alla porpora e all’oro, carico degli apparati della propria fortuna, una preda piuttosto che un degno avversario, e che egli aveva vinto senza spargere sangue, senza osare altro che disprezzare opportunamente quelle vanità. Ben diverso gli sarebbe parso l’aspetto dell’Italia da quello dell’India, che egli attraversò gozzovigliando con un esercito di ubriachi, alla vista delle gole dell’Apulia, dei monti della Lucania, delle tracce ancor recenti del disastro familiare, là dove poco prima era stato ucciso suo zio, Alessandro, re dell’Epiro.

Legionari romani in formazione. Bassorilievo, pietra calcarea, da Glanum. Fourvière, Musée gallo-romain.

Insomma, esaltando il popolo romano, Livio ricorda la grandezza di tanti condottieri capitolini non meno degni di ammirazione del Macedone: questi, per quanto grande, rimane comunque un solo individuo, la cui grandezza ha avuto una durata limitata nella Storia, cioè quella della sua vita; il popolo romano, invece, combatte da molti secoli e questo spiega come la sorte non potesse essere sempre dalla sua parte.

Et loquimur de Alexandro nondum merso secundis rebus, quarum nemo intolerantior fuit. Qui si ex habitu nouae fortunae nouique, ut ita dicam, ingenii quod sibi uictor induerat spectetur, Dareo magis similis quam Alexandro in Italiam uenisset et exercitum Macedoniae oblitum degenerantemque iam in Persarum mores adduxisset. Referre in tanto rege piget superbam mutationem uestis et desideratas humi iacentium adulationes, etiam uictis Macedonibus graues nedum uictoribus, et foeda supplicia et inter uinum et epulas caedes amicorum et uanitatem ementiendae stirpis. Quid si uini amor in dies fieret acrior? Quid si trux ac praeferuida ira? – nec quicquam dubium inter scriptores refero – nullane haec damna imperatoriis uirtutibus ducimus? Id uero periculum erat, quod leuissimi ex Graecis qui Parthorum quoque contra nomen Romanum gloriae fauent dictitare solent, ne maiestatem nominis Alexandri, quem ne fama quidem illis notum arbitror fuisse, sustinere non potuerit populus Romanus; et aduersus quem Athenis, in ciuitate fracta Macedonum armis, cernente tum maxime prope fumantes Thebarum ruinas, contionari libere ausi sunt homines, id quod ex monumentis orationum patet, aduersus eum nemo ex tot proceribus Romanis uocem liberam missurus fuerit! Quantalibet magnitudo hominis concipiatur animo; unius tamen ea magnitudo hominis erit collecta paulo plus decem annorum felicitate; quam qui eo extollunt quod populus Romanus etsi nullo bello multis tamen proeliis uictus sit, Alexandro nullius pugnae non secunda fortuna fuerit, non intellegunt se hominis res gestas, et eius iuuenis, cum populi iam octingentesimum bellantis annum rebus conferre. Miremur si, cum ex hac parte saecula plura numerentur quam ex illa anni, plus in tam longo spatio quam in aetate tredecim annorum fortuna uariauerit? Quin tu homines cum homine, [et] duces cum duce, fortunam cum fortuna confers? Quot Romanos duces nominem quibus nunquam aduersa fortuna pugnae fuit? Paginas in annalibus magistratuumque fastis percurrere licet consulum dictatorumque quorum nec uirtutis nec fortunae ullo die populum Romanum paenituit. Et quo sint mirabiliores quam Alexander aut quisquam res, denos uicenosque dies quidam dictaturam, nemo plus quam annum consulatum gessit; ab tribunis plebis dilectus impediti sunt; post tempus ad bella ierunt, ante tempus comitiorum causa reuocati sunt; in ipso conatu rerum circumegit se annus; collegae nunc temeritas, nunc prauitas impedimento aut damno fuit; male gestis rebus alterius successum est; tironem aut mala disciplina institutum exercitum acceperunt. At hercule reges non liberi solum impedimentis omnibus sed domini rerum temporumque trahunt consiliis cuncta, non sequuntur. Inuictus ergo Alexander cum inuictis ducibus bella gessisset et eadem fortunae pignora in discrimen detulisset; immo etiam eo plus periculi subisset quod Macedones unum Alexandrum habuissent, multis casibus non solum obnoxium sed etiam offerentem se, Romani multi fuissent Alexandro uel gloria uel rerum magnitudine pares, quorum suo quisque fato sine publico discrimine uiueret morereturque.

Scena dalla battaglia di Pidna. Rilievo, marmo, II sec. a.C. dal monumento di L. Emilio Paolo, a Delfi

E parliamo di un Alessandro non ancora travolto dai successi, che a nessuno diedero alla testa più che a lui. Ché, se lo si giudica dal suo modo di comportarsi nella prospera sorte e, per così dire, dal suo nuovo atteggiamento, che aveva assunto dopo le vittorie, egli sarebbe venuto in Italia più simile a un Dario che a un Alessandro e vi avrebbe condotto un’armata dimentica della Macedonia e già tralignata per effetto dei costumi persiani. Rincresce di dover riferire quando si parla di un re così grande la sfarzosa trasformazione dell’abbigliamento, il desiderio di veder la gente prosternarsi in inchini, insopportabili ai Macedoni quand’anche fossero vinti, e a maggior ragione quand’erano vintori, i crudeli supplizi, l’uccisione degli amici durante le gozzoviglie e i banchetti, la vanità di mentire la stirpe. E se il vizio del bere fosse divenuto di giorno in giorno più forte, se fosse divenuta truce e ardente la sua ira – e su ciò che io riferisco non v’è alcun dubbio fra gli storici – ? Dobbiamo ritenere che tali pecche non offuschino minimamente le doti di un generale? Sì, c’era proprio pericolo, come vanno dicendo i più vanesi fra i Greci, i quali contro il popolo romano plaudono perfino alla gloria dei Parti, che i Romani non potessero sostenere la maestà del nome di Alessandro, che io credo non fosse noto a loro neppure per fama! C’era proprio pericolo che, mentre ad Atene, in una città soggiogata dalle armi dei Macedoni, vi furono degli uomini che osarono parlare liberamente contro di lui, come risulta dai loro discorsi che si conservano ancora, contro di lui non fosse capace di levare liberamente la propria voce nessuno fra i tanti illustri personaggi di Roma!

Per quanto grande si possa concepire quest’uomo, la sua rimarrà tuttavia la grandezza di un singolo individuo, acquistata in poco più di dieci anni di fortuna; e coloro che esaltano questa sorte per il fatto che il popolo romano, se non fu vinto in alcuna guerra, tuttavia lo fu in molte battaglie, mentre Alessandro in nessuna battaglia ebbe sorte avversa, non comprendono che essi paragonano le imprese di un uomo, e per di più giovane, con quelle di un popolo che fa la guerra da otto secoli. Possiamo meravigliarci se, contandosi più secoli dalla nostra parte che anni dalla sua, la fortuna è stata più varia in così lungo periodo di tempo che nel corso di tredici anni? Perché non si confrontano gli uomini con l’uomo, i condottieri con il condottiero, la fortuna con la fortuna? Quanti comandanti romani potrei nominare, che in combattimento non ebbero mai contraria la sorte! Si possono scorrere negli annali e nei fasti dei magistrati elenchi di consoli e di dittatori del cui valore e della cui fortuna il popolo romano non ebbe di che lamentarsi in nessun giorno. E perché essi destino maggiore ammirazione di Alessandro o di alcun altro re, dirò che alcuni ressero la dittatura per dieci o venti giorni, nessuno il consolato per più di un anno; le leve erano impedite dai tribuni della plebe; andarono in guerra in ritardo, furono richiamati in anticipo per i comizi; l’anno trascorse nel momento dello sforzo decisivo; fu loro di danno ora la temerarietà, ora l’incapacità del collega; dovettero ereditare gli insuccessi dei predecessori; presero in consegna eserciti inesperti o mal addestrati. Invece i monarchi – per Ercole! – non soltanto sono liberi da ogni impedimento, ma, padroni della situazione e delle circostanze, anziché adattarsi agli eventi, tutti li dominano con le loro decisioni. Alessandro avrebbe dunque combattuto invitto con comandanti invitti e avrebbe corso gli stessi pericoli della sorte; avrebbe anzi affrontato un rischio tanto maggiore, in quanto i Macedoni avrebbero avuto unicamente Alessandro, che non solo si sarebbe trovato esposto a numerosi pericoli, ma vi sarebbe anche andato incontro spontaneamente, mentre vi sarebbero stati molti Romani pari ad Alessandro per gloria o per grandezza di imprese, ciascuno dei quali poteva, secondo il proprio destino, vivere e morire senza danno per lo Stato.

Il generale dell’esercito romano nel I secolo a.C.

di E. GABBA, in M. SORDI (a c. di ), Guerra e diritto nel mondo greco e romano. Contributi dell’Istituto di storia antica, vol. XXVIII, Milano 2002, pp. 155-162.

Questo intervento si basa su alcuni miei lavori precedenti. Come si vedrà dai testi, io sostanzialmente farò riferimento a una serie di scritti che si collocano lungo un percorso cronologico che, pur incominciando dalla fine del IV secolo, in realtà è centrato sul I secolo a.C.

Il concetto base, che rappresenta anche la conclusione, è che la caratteristica del comandante militare romano nel I secolo a.C. è strettamente collegata con un profondo mutamento, intervenuto nella composizione della forza militare romana, che emerge con nette caratteristiche in opposizione alle situazioni precedenti. La connotazione del generale nel I secolo a.C. è, infatti, fondamentalmente militare e sta in rapporto alla situazione socio-politica dell’esercito, che è venuta acquisendo i suoi lineamenti dalla fine del II secolo a.C. e che ha modificato profondamente il rapporto precedente fra il generale e le sue truppe.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Io mi sono già occupato dell’esercito professionale che si contrappone – non in maniera totalmente drastica ma in modo molto evidente – al precedente tipo di esercito che era una milizia cittadina[1]. Il generale del I secolo non è più visto in relazione ai cittadini che si ritrovano nella milizia, dove la distinzione fra chi comanda e chi obbedisce si fonda sul riconoscimento, da parte dei cittadini militi, di una superiorità della propria classe dirigente tradizionale per virtù civiche, politiche e militari. Questo riconoscimento, che prescinde dalla divaricazione di carattere sociale – che fra IV e III secolo a.C. non è così grave come sarà poi –, è testimoniato molto bene dagli elogi degli Scipioni, cioè la messa in epigrafe di laudationes funebri, che si rivolgono al pubblico – almeno quelle del Barbato e del figlio –; in esse c’è il riconoscimento del cittadino, che esercita la sua attività e poi va a combattere nella milizia, nei confronti del suo comandante, il quale a sua volta è un cittadino di grado più elevato di cui si riconosce una certa serie di meriti[2].

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Un altro esempio curioso: in Livio IX 16, 11 ss. c’è l’elogio funebre di Papirio Cursore che fu console nel 326, 320, 319, 315, 313 e dittatore nel 310 a.C. In tale elogio si dice che il cognomen Cursor dipendeva dal fatto che costui sapeva correre molto bene, vale a dire sapeva combattere con velocità, poi si elogia la sua capacità di mangiare, di bere molto e di sopportare bene le fatiche della guerra, cioè delle caratteristiche estrinseche e tuttavia interessanti. Un altro esempio ancora è il decalogo della laudatio funebris pronunciata nel 221 a.C. dal figlio per L. Cecilio Metello (Oratorum Romanorum fragmenta, ed. E. Malcovati, IV edizione, p. 10)[3] dove si dice che Metello si vantava di aver raggiunto dieci aspetti fondamentali nella vita politico-militare, fra i quali non figurano né il favore degli dèi, né i rapporti con i suoi cives: sono esclusivamente virtù e capacità personali che sono emerse nell’esercizio della sua attività politico-militare come cittadino romano dell’oligarchia.

L’avvio al riconoscimento al generale di un potere carismatico avviene in seguito con Scipione Africano, che rappresenta però nel suo contesto storico un’eccezione[4]. Mi limito a citare l’episodio di Carthago Nova nel 209 a.C., quando si trattava di dare l’assalto a questa fortezza cartaginese in Spagna. L’episodio è circondato da un alone carismatico che sfiora la leggenda. In Polibio X 2, 2-20 e in Livio XXVI 41, 3-25 (con un discorso che però qui non interessa) la giustificazione dell’impresa militare data dal generale ai suoi soldati è il motivo dell’appoggio divino, che sarà poi tradizionalmente connesso con la personalità di Scipione; è determinante questa affermazione nel rapporto verso i militi, per convincerli che l’impresa non sia disperata e perché ritengano invece possibile compierla. A questa giustificazione si sommano altre due caratteristiche: Scipione è presentato come esempio di continenza e di disinteresse. Si tratta di un caso abbastanza isolato. La motivazione dell’appoggio divino per il comandante militare è una cosa molto diversa dagli onori divini che il mondo greco attribuisce ai generali romani che combattono in Oriente.

Littore. Statuetta, bronzo, I sec. d.C. London, British Museum.

La situazione cambia completamente nel corso del II secolo a.C. e in proposito vi sono alcuni testi assolutamente fondamentali[5]. Mi riferisco al caso di Tiberio Gracco che nel 133 a.C. presenta la sua legge agraria. Come è noto, le due fonti principali sono le Guerre Civili di Appiano I 1 e la biografia dei due fratelli Gracchi di Plutarco, riportano dei brani di discorsi che Tiberio Gracco ha tenuto (non entro nel problema complicatissimo delle fonti, ma è ammesso che questi sono frammenti fededegni). Le argomentazioni che Tiberio adduceva erano di due tipi: quelle di fronte al Senato e quelle di fronte al popolo. Quello che ci interessa è uno dei discorsi tenuti davanti al popolo, in cui Tiberio afferma che i generali, quando tengono i loro discorsi ai soldati prima della battaglia raccontano delle cose inattuali allorché sostengono che il combattimento avviene pro aris et focis: siamo al di fuori di questa mentalità, perché la maggior parte dei soldati non ha neanche la tana che hanno le bestie, né focolari, né tombe da difendere. Perciò tale discorso giustificativo non è più attuale. Naturalmente dietro a questa inattualità c’è il fatto che i ceti medi che fornivano gli adsidui sono decaduti e si sono proletarizzati; perciò non c’è più una corrispondenza fra la realtà sociale della milizia alla quale i generali si rivolgono con gli argomenti antichi e le realtà che sono invece completamente nuove.

Questo è interessante perché fornisce un altro argomento a dei ragionamenti che troviamo, più che nel testo di Tiberio, negli scritti di Sallustio. Alla base di questo nuovo modo di ragionare, cioè l’assenza di corrispondenza fra la realtà sociale e i motivi tradizionali con i quali i soldati venivano incitati alla battaglia dai loro generali, emerge un ragionamento già presente in pensatori greci anche del V e del IV secolo a.C.: combatte volentieri chi ha qualcosa da difendere; chi non ha nulla da difendere combatte semplicemente per guadagno; da qui la famosa frase di Sallustio et omnia cum pretio honesta videntur, vale a dire tutte le cose diventano onorevoli se però c’è un contraccambio[6]. Sallustio presta questa tematica – peraltro ricorrente nella sua opera – anche alla fine del II secolo a.C. con un riverbero però di situazioni successive. Comunque nel discorso di Tiberio Gracco, il generale con quelle sue giustificazioni non è più in grado di corrispondere alla realtà sociale delle sue truppe.

Nel 106 a.C., Bellum Iugurthinum di Sallustio cap. 85, su cui ha scritto anche la collega Sordi[7], è il famoso discorso di Mario dopo la sua elezione, dove ci sono nuovi motivi dell’età triumvirale (quando, cioè, scrive Sallustio, che è in polemica con l’età triumvirale ma anche con Cicerone volendo rappresentare il declino della nobiltà oligarchica, che Sallustio fa risalire appunto al periodo della guerra giugurtina). In questo discorso ci sono almeno quattro punti da tener presenti: Mario elogia i suoi mores che non dipendono dalla tradizione ma sono di buona gente contadina, esalta la sua novitas – motivo caricato di significato dall’età triumvirale –, combatte l’avaritia dei generali dell’oligarchia (par. 45) e fa balenare la speranza di preda per i soldati. Siamo quindi di fronte a una realtà nuova e, in linea con gli argomenti del discorso di Tiberio Gracco, incomincia a far capolino l’accusa di avaritia ai generali dell’oligarchia, alla quale si contrappone Mario con i suoi mores intemerati che derivano dalla sua novitas, ma c’è anche la speranza di preda. Qualunque sia l’aderenza del discorso più o meno attuale, tuttavia esso conferma i frammenti di Tiberio Gracco, vale a dire che il richiamo di valori ideali per la truppa è ormai al di fuori di ogni attualità.

La milizia cittadina che si richiamava ai valori ideali è in via di sparizione; in questo contesto avviene la teorizzazione della necessità di arruolare truppe volontarie, che sono disposte a fare tutto agli ordini del generale per essere ricompensate, e così vengono meno la difesa del patrimonio e l’amor patrio. Il prestigio del generale si va sempre più appoggiando anche a interventi della divinità. Gli dèi intervenivano nella discussione polemica sull’imperialismo romano del II secolo a.C. come motivo giustificatorio verso l’esterno: sono numerosissime le iscrizioni di II secolo in cui è presente questo tema. Ora riprendiamo il motivo già presente in Scipione dell’appoggio della divinità, che diventa motivo strumentale interno per il rapporto fra il comandante e i suoi soldati; l’esempio più tipico è quello di Silla che addirittura assunse il cognome di Felix, nel senso di «fortunato», che nell’appellativo greco di ἐπαφρόδιτος veniva ad assumere il senso di essere appoggiato da Afrodite. Il generale dalla fine del II secolo a.C. ritiene normale richiamare questi motivi carismatici come evento legittimante, che sostituisce l’ideale della difesa della patria e rappresenta anche, come sappiamo, un contesto assolutamente nuovo.

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, tenente una foglia di palma (L. Sulla).

La personalità del generale, i suoi comportamenti e i suoi rapporti con le truppe diventano oggetto di una teorizzazione, che non era mai esistita in precedenza, se non negli accenni che prima ho fatto, e questa teorizzazione si collocava verso gli anni ‘60 del I secolo a.C. e si sviluppa attraverso il confronto fra due grandi personalità: il più grande generale dell’oligarchia del tempo, L. Licinio Lucullo, e Pompeo Magno. Il confronto avviene al momento della sostituzione di Lucullo con Pompeo nella conduzione della guerra mitridatica, cioè attorno al 67-66 a.C. La fonte principale è l’orazione De imperio Cnei Pompei del 67 a.C. per la legge Manilia e i passi che vedremo rappresentano una lunga trattazione dal par. 28 al par. 48[8].

Qui si pone un altro problema: se dietro all’orazione ci sia non solo una rielaborazione del testo pronunciato, ma anche una lunga discussione sulla figura del comandante, perché il problema è affrontato anche in modo esplicito nella biografia di Lucullo di Plutarco capp. 7 e 32-35, dove c’è una lunga spiegazione del modo di comportarsi di Lucullo, di cui si riconoscono i meriti militari indiscutibili, ma si accenna anche al fatto che tutte le campagne militari da lui condotte non hanno mai rappresentato il colpo decisivo per distruggere Mitridate. Questa discussione dei comportamenti di Lucullo si basa sopra alcuni motivi ben precisi: il suo distacco fortissimo verso le truppe – egli trascurava, cioè, le ragioni di soldati che combattevano da decenni in Asia –, il suo disprezzo per le loro esigenze di remunerazione e le accuse di approfittarsi della guerra e dei bottini. La biografia di Lucullo dipende dalle Historiae di Sallustio, come dice Plutarco; sarebbe interessante vedere se il testo di Sallustio, ripreso da Plutarco, risponde all’orazione ciceroniana e se ci siano alla base delle riflessioni dello stesso Cesare.

Cicerone (De imperio Cn. Pompei, par. 28) dice: in summo imperatore quattuor has res inesse oportere, scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatem e poi spiega che con scientia rei militaris si intende che il generale deve essere competente. Questa è un’esigenza sempre più precisa anche quando la professione del generale ha un suo valore autonomo; nel IV secolo e ancora in seguito nessuno pretendeva che ci fosse una scientia rei militaris, al massimo si suppliva con un legato esperto. La virtus è il valore, il generale deve impersonare il valore militare, deve essere capace cioè di tradurre la scientia rei militaris in un’azione diretta. Poi l’auctoritas, come spiega Cicerone, significa avere autorevolezza sui soldati, allontanando da sé ogni accusa di avaritia. Infine la felicitas, cioè la fortuna: bisogna mostrare che il generale ha avuto l’appoggio degli dèi. Tutte qualità che non si ritrovano combinate in Lucullo. Ne emerge una figura di generale completamente nuova che corrisponde al nuovo rapporto che si è stabilito fra lui e le sue truppe, mentre passa del tutto in secondo piano il fatto che il generale rappresenti la res publica. Nel Bellum Hispaniense[9] si dice che un sottoufficiale, che aveva combattuto con Pompeo, passa dalla parte di Cesare perché il suo generale non aveva più avuto fortuna. Non si tratta di un “ribaltone”: semplicemente bisogna passare dalla parte di chi ha l’appoggio degli dèi. Siamo di fronte a una consapevolezza nuova.

«Minerva Giustiniani». Statua, marmo pario, seconda metà I sec. d.C. ca. dal Tempio di Minerva Medica sull’Esquilino. Roma, Musei Vaticani.

Mi sono occupato del problema in un volumetto sulle rivolte militari romane pubblicato nel 1974, dove avevo già precisato questi punti ma senza questo approfondimento. Nel De bello Gallico I 40, 12-13, al momento dello scontro militare di Cesare con Ariovisto a Vesontio (Besançon), ci sono i prodromi di una rivolta militare nella raffigurazione piena di sarcasmo che Cesare dà dei soldati e soprattutto dell’ufficialità, venuta al seguito del generale nella speranza del bottino, quando, resa nota la descrizione dei soldati di Ariovisto, si diffonde un timor panico in tutto l’esercito. Cesare interviene con questo discorso in cui chiede da quando in qua i soldati discutono col generale il diritto al comando: se il generale dà un ordine vuol dire che questo è possibile (scientia rei militaris), d’altra parte gli risulta che nei casi in cui un qualche esercito si sia rifiutato di ubbidire dipendeva dal fatto o che nelle campagne militari precedenti era mancata la fortuna (aut male re gesta fortunam defuisse) o aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam, in seguito a qualche mal fatto era legittima l’accusa di avaritia verso il generale.

Ritornano nel discorso di Cesare almeno tre dei motivi fondamentali della connotazione che doveva esserci, secondo Cicerone, nel generale. Uno è il tema dell’avaritia, l’altro è quello della fortuna, cioè dell’appoggio degli dèi, e il terzo è quello della scientia rei militaris, e poi Cesare aggiunge che suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam, cioè la sua assoluta purezza di fronte all’avaritia era dimostrata da tutta la sua vita, mentre la sua fortuna era dimostrata dallo scontro da poco concluso con gli Elvezi.

Il passo è ricco di artifizi, perché nella vita di Cesare fino ad allora appariva ben poca innocentia, ma nessuno poteva negare la sua felicitas. Si può andare più a fondo: è noto che questo discorso è stato rielaborato in Cassio Dione XXXVIII 35[10], dove è riportato il discorso di Cesare, ma è molto sbiadita l’aderenza alla rivolte dell’esercito. Ma la questione che Cesare sottace e che emerge in Cassio Dione è che i dubbi degli ufficiali erano sulla legittimità della guerra e non sulle capacità di Cesare di combattere. Tanto è vero che poi Catone propose di consegnare Cesare ai nemici, perché questi andava al di là degli obblighi che gli derivavano dal suo comando in Gallia. È interessante vedere che ci sono chiarissimi riferimenti a Lucullo; per questo dicevo poc’anzi che la figura di Lucullo è stata oggetto di una grossa discussione negli anni fra il 60 e il 50 a.C.; qui siamo nel 58 a.C., e non è passato molto tempo dal ritorno di Lucullo e dall’orazione di Cicerone.

Cesare in più parti del De bello Gallico raffigura se stesso come comandante e in più punti dichiara di essere intervenuto direttamente nello scontro quasi fisico contro l’avversario e qui si collega con un altro passo di Cicerone, il De officiis I 81 (fine 44 a.C.). Cicerone testimonia la lettura estesa del De bello Gallico di Cesare pubblicato fra il 52 e il 51 a.C. nello stesso anno in cui vengono pubblicati anche i libri del De re publica. E nel De officiis afferma: «è cosa bestiale e selvaggia scendere a combattere il nemico in mezzo alle schiere», come aveva fatto Cesare[11]. L’unico caso in cui è lecito combattere direttamente è quando lo si fa per salvarsi dalla schiavitù, cioè per difendere la libertà, che è il tema centrale del De officiis di Cicerone.

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[1] In due memorie del 1949 e del 1951, raccolte poi in GABBA E., Esercito e società nella tarda repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 1 ss.; 47 ss.

[2] GABBA E., La concezione antica di aristocrazia, «Rend. Acc. Lincei», ser. IX, 6 (1995), pp. 464-468.

[3] ID., Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., ora in ID., Del buon uso della ricchezza, Guerini, Milano 1988, pp. 27-44.

[4] ID., P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, ora in ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993, pp. 113-132.

[5] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 37-55.

[6] ID., Esercito e società, pp. 31-45.

[7] SORDI M., L’arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell’azione politica di Mario, «Athenaeum», 60 (1972), pp. 379-385; cfr. GABBA E., «Athenaeum», 61 (1973), pp. 135-136.

[8] GABBA E., Le rivolte militari dal IV secolo a.C. ad Augusto, Sansoni, Firenze 1975, pp. 23-24.

[9] Bell. Hisp. 17, 1-2. GABBA E., Le rivolte militari, pp. 73-75.

[10] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 165-168.

[11] ID., Per un’interpretazione del de officiis di Cicerone, «Rend. Acc. Lincei», ser. VIII, 34 (1979) p. 126.