ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Durante la campagna di scavo del 1899, a Roma, l’archeologo Giacomo Boni portò alla luce il cosiddetto “Cippo del Foro” e lo associò a un frammento di Sesto Pompeo Festo, un grammatico latino di II-III secolo d.C., che riferiva:
Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romani morti destinatum, sed non usu obuenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium auum Tulli Hostilii regis.
«La pietra nera indica nel comizio un luogo funesto, che alcuni dicono destinato al sepolcro di Romolo, ma che non accadesse più che ivi si seppellisse, ma alcuni lo dicono destinato a tomba di Faustolo, suo patrigno, altri di Ostilio, avo di re Tullo Ostilio».
(Fᴇsᴛ. 𝐿.𝐿. p. 177 Lindsay)
Pianta del Comitium in età tardorepubblicana (in tratteggio più spesso la fase arcaica). Da COARELLI 1983.
La collocazione del cippo piramidale in pietra tufacea nell’area del Comitium, una zona del Foro Romano in cui, in epoca repubblicana, i cives Romani erano soliti adunarsi per eleggere i magistrati e votare le leggi, segnava un locus funestus, cioè il luogo in cui sarebbe scomparso il fondatore dell’Urbe. Lo scavo di Boni al di sotto del pavimento in marmo nero, risalente al I secolo a.C., portò alla luce un complesso monumentale molto arcaico, accessibile tramite una scaletta, costituito da una piattaforma con un altare a tre ante e a “U”, un tronco di stilobate (forse il basamento per una statua), e il cippo piramidale: quest’ultimo su ogni faccia recava un’iscrizione bustrofedica (da βουστροφηδόν, cioè «a somiglianza dei buoi che arano un campo»), in un alfabeto di derivazione greco-etrusca.
Data l’ubicazione e l’importanza del luogo, il testo inciso doveva essere destinato a un uso e a un pubblico particolari: siccome, in epoca molto antica, soltanto un’élite di cittadini sapeva leggere, l’epigrafe, per essere fruibile ai più, richiedeva la mediazione di un sacerdote-interprete e deteneva un carattere magico:
«Sia consacrato agli dèi Mani colui per colpa del quale questo termine venga rimosso. Chiunque abbia commesso impurità funerarie paghi al re, come saldo della multa, il patrimonio di famiglia. Qualora il re venisse a sapere che qualcuno transiti [per la via vicina al locus funestus], allora per voce dell’araldo, in ottemperanza a una legge pubblica, ne sequestri gli animali da strada… di chi voglia intraprendere il cammino sia la responsabilità: il re non consenta ad alcuno di intraprenderlo, se non per legittimo decreto…».
(CIL I 1)
Tutto il contesto fa pensare a una lex sacra, contenente norme e disposizioni relative alle penalità, se non addirittura alle ἀποτροπαί (“maledizioni”) da scagliare contro quanti avessero tentato di violare l’area consacrata. Non a caso, sul monumento compare la formula sakrod esed (corrispondente al latino “classico”, sacer esto). Il monito, inciso sul cippo, era reso perenne dalla pietra, rimasta esposta per cinque secoli, fino agli inizi del I secolo a.C., quando appunto l’area fu ricoperta da una pavimentazione in marmo nero. La storiografia romana di epoca repubblicana (soprattutto Livio e le sue fonti annalistiche) hanno abituato a pensare che fino alla seconda metà del V secolo a.C. i Tarquini spadroneggiassero su Roma senza legge, decidendo le sorti dei cittadini secondo il loro capriccio. Evidentemente, l’iscrizione del Lapis Niger dimostra l’esatto contrario, e cioè che almeno fin dalla metà del secolo precedente la comunità romana disponesse di un’auto-regolamentazione scritta.
Una tradizione storiografica, formatasi e perfezionatasi in un lungo periodo di tempo, pone sul 𝑚𝑜𝑛𝑠 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑢𝑠 il nucleo primario attorno al quale si sarebbe poi sviluppata Roma (Pʟᴜᴛ. 𝑅𝑜𝑚. 9, 4; Dɪᴏɴ. Hᴀʟ. 𝐴𝑛𝑡. 𝑅𝑜𝑚. I 88, 2; Aᴘᴘ. 𝑅𝑒𝑔. FF 1-9). Compreso entro un originario 𝑝𝑜𝑚𝑒𝑟𝑖𝑢𝑚 (da 𝑝𝑜𝑠𝑡+𝑚𝑜𝑒𝑟𝑖𝑢𝑚, “dietro le mura”, un confine sacrale e immaginario che delimitava la città dall’esterno), il colle era dunque considerato fin dagli albori dell’abitato come uno spazio consacrato e fortificato.
Così in epoca imperiale Tacito (Tᴀᴄ. 𝐴𝑛𝑛. XII 24, 1) avrebbe ricostruito il tracciato della città primitiva sul Palatino:
Igitur a foro boario […] sulcus designandi oppidi coeptus ut magnam Herculis aram amplecteretur; inde certis spatiis interiecti lapides per ima montis Palatini ad aram Consi, mox curias ueteres, tum ad sacellum Larum.
«Dal mercato dei buoi […] si cominciò a segnare il solco dei limiti della città, fino a comprendere il grande altare di Ercole; in un tempo successivo, a partire da quel punto si posero a intervalli cippi di pietra lungo le pendici del Palatino fino all’altare di Conso, e più tardi fino alle Curie Vecchie, quindi fino al sacello dei Lari».
L’area così delimitata da quattro vertici sarebbe stata identificata come 𝑅𝑜𝑚𝑎 𝑄𝑢𝑎𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎, realizzata da Romolo stesso con l’uso dell’aratro.
Il “Muro di Romolo” (Studio Inklink).
La tradizione conserva, inoltre, anche il nome di alcune porte più antiche: 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛𝑎 (𝑜 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛𝑢𝑙𝑎), verso il Foro, 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑀𝑢𝑔𝑜𝑛𝑖𝑎, verso la Velia, e 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝐼𝑎𝑛𝑢𝑎𝑙𝑖𝑠.
A questa tradizione storiografica l’archeologia ha portato sia in passato sia in tempi più recenti alcune singolari conferme: l’abitato antico, ricostruibile grazie ai solchi e ai fori dei pali di fondazione delle capanne sul tufo dell’altura, e i resti di fortificazione alle pendici nord-occidentali del colle. Quest’ultima scoperta, avvenuta grazie alle campagne di scavo condotte da Andrea Carandini negli ultimi decenni del XX secolo, ha avuto una vasta eco mondiale e le notizie relative al cosiddetto “muro di Romolo” hanno occupato uno spazio considerevole nella stampa nazionale e internazionale. Sulle scoperte del Palatino esistono due interpretazioni opposte: una prima, che si potrebbe definire “minimalista”, che rilegge i resti come relativi alla fortificazione dell’antico abitato (il più importante nucleo di quella che sarebbe stata in seguito la città); e una seconda, più “estrema”, avanzata dagli stessi scavatori, i quali riconoscono nell’opera la prova esauriente di un atto di fondazione urbana: una conferma, praticamente, della storicità della leggenda.
La tradizione storiografica romana e greca, che riassume e sintetizza la narrazione delle origini, sancirebbe così l’importanza del 𝑚𝑜𝑛𝑠 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑢𝑠 nella formazione dell’Urbe. Sul piano geografico, non potrebbe effettivamente trovarsi un luogo più adatto di questo colle per un insediamento stabile: l’altura era morfologicamente meno accidentata e impervia rispetto al 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑖𝑢𝑚, per esempio; ma, al tempo stesso, più arretrato rispetto al Tevere. Non stupisce dunque che nelle memorie leggendarie (e, a quanto è sembrato, archeologiche) del colle risalgano a ben più addietro della già mitica età romulea. Nonostante numerose incertezze, aporie e lacune, il quadro demografico precedente l’età urbana nell’area di Palatino, Velia e Foro è confermato dall’evidenza archeologica.
Palatino, mura romulee. Porta Mugonia (sezione ricostruttiva, in A. CARANDINI, 2007).
Particolare importanza hanno avuto nella ricostruzione i rinvenimenti nell’area del Foro romano, pure limitati a una zona molto circoscritta. Qui, insieme a resti di abitato, è noto un sepolcreto in uso dal IX secolo fino alla prima metà circa dell’VIII, quando cessarono le sepolture di individui adulti: l’area sarebbe stata in seguito utilizzata come insediamento, mentre la “città dei morti” sarebbe stata trasferita sull’Esquilino. Mentre l’abitato del Palatino andava sviluppandosi, il settore nord-occidentale della città sarebbe stato occupato, stando alla tradizione, dai Sabini e dal loro re Tito Tazio. Proprio dall’accordo tra i due capi, Romolo e Tazio, si sarebbe poi sviluppata l’Urbe vera e propria. La tradizione restituisce, dunque, l’immagine di una comunità sorta con una notevole componente “geminata”, latina e sabina (elemento, sovente scartato dalla critica moderna). La questione della “sabinità” della Roma più antica è tuttavia molto forte nella tradizione arcaica: tra i 𝑟𝑒𝑔𝑒𝑠 dopo Romolo si sarebbero alternati esponenti delle due stirpi.
Quello che la leggenda tramanda in maniera più o meno favolistica può forse essere compreso in una prospettiva storica più complessa, che rende probabile una graduale immissione di elementi sabini sul territorio latino.
di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 129-135.
Nella memoria dei Romani Quinto Ennio rimase impresso come uno dei poeti arcaici più degni di venerazione. La sua opera restò infatti nei secoli successivi il simbolo di un’epoca – quella dello scontro politico e militare tra Roma e il mondo ellenico – e l’emblema di un approccio orgogliosamente romano, di confronto ma non di subalternità nei riguardi della cultura greca. Ennio fu un poeta estremamente influente, dunque: molte sue innovazioni marcarono la storia successiva di alcuni tra i più importanti generi letterari coltivati a Roma; senza di lui e senza l’opera riconosciuta come il suo capolavoro poetico, gli Annales, non si potrebbe più capire la storia dell’epica celebrativa romana, che sarebbe culminata con Virgilio; e se non si avesse conoscenza delle tragedie di Ennio, mancherebbe un tassello importante per comprendere alcuni sviluppi tipicamente romani del genere teatrale.
Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Una vita per la poesia
Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina della regione chiamata dai Romani Calabria (cioè l’area più meridionale dell’odierna Puglia). Dunque, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, anche Ennio non era latino ma proveniva da una zona di cultura italica fortemente grecizzata. Sembra inoltre molto probabile che egli abbia trascorso gli anni fondamentali della sua formazione nella città italiota di Taranto. Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204, quasi settant’anni dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse l’attività di insegnante, ma presto (entro il 190) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie.
Nel 189-187 egli accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne nei suoi versi la campagna militare contro la coalizione dei popoli e delle città raccolti nella Lega Etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò, infatti, un’opera intitolata Ambracia, molto probabilmente una tragedia praetexta. Nel seguito della sua vita Ennio fu protetto e favorito dalla nobile famiglia di Nobiliore nonché dalla casata degli Scipiones, entrando a far parte del loro “circolo”. Risale all’ultima fase della sua vita la fatica, senz’altro vastissima, degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio morì a Roma nel 169. Già in vita gli furono tributati grandi onori e, per questo, l’orgoglio per la propria fama e il presentimento dell’immortalità si incontrano spesso nella sua opera.
Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Dritto: Hercules | Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.
La produzione letteraria
Gli inizi poetici di Ennio, come si è visto, si posero nel segno del teatro. In questo campo egli fu poeta fecondo, con una produzione che non rimase confinata agli anni giovanili, ma si estese lungo l’arco di tutta la sua vita (la tragedia Thyestes, infatti, è databile al 169, l’anno della sua scomparsa). Restano, tuttavia, i titoli di circa venti tragedie coturnatae e un numero insolitamente ricco di brevi citazioni tratte dai drammi, per un totale di circa quattrocento versi. I temi delle tragedie enniane sono soprattutto quelli del ciclo troiano: Alexander, Andromacha aechmalotis, Hecuba, Iphigenia, Medeaexul, ecc. Gli studiosi antichi conoscevano, di Ennio, anche due commedie, la Caupuncula [L’ostessa] e il Pancratiastes [Il lottatore], ma per questa parte della sua produzione il poeta era ritenuto un minore; in effetti, fu l’ultimo autore latino a praticare insieme tragedia e commedia.
L’opera che gli diede immensa celebrità nel mondo romano, e grazie alla quale ancora oggi egli resta un autore molto importante, furono gli Annales, il primo poema latino in esametri. In essi Ennio narrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi. Dei diciotto libri originari restano attualmente quattrocento trentasette frammenti, per un totale di circa seicento versi. Se si escludono i testi comici, il poema enniano è dunque l’unica opera latina di età medio-repubblicana della quale è possibile farsi un’idea di una qualche ampiezza.
Di Ennio sono attestate anche alcune opere minori, delle quali si può leggere poco, ma che meritano comunque menzione perché molte di esse hanno avuto un seguito nella letteratura latina. Gli Hedyphagètica [Il mangiar bene] erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela, vissuto nel IV secolo a.C. Se essi, come tutto fa pensare, furono composti prima degli Annales, si tratterebbe della prima opera latina in esametri attestata. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già il verso scelto, che era quello di Omero e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. Se è così, gli Hedyphagètica avevano probabilmente affinità con un’altra opera di Ennio, le Saturae, primo esempio di un genere che avrebbe avuto larga fortuna nella poesia latina, fino a Orazio e oltre. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri e in metri diversi, è largamente congetturale.
Altri testi di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante: l’Euhèmerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina; l’Epicharmus, in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del grande poeta comico greco Epicarmo, vissuto nel V secolo.
Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.
Le tragedie: il gusto per il patetico e il grandioso
Benché Ennio abbia acquistato l’immortalità poetica attraverso gli Annales, che sono la sua opera fondamentale, furono le tragedie a garantirgli nell’immediato la maggiore affermazione letteraria. Il motivo di questo successo va senza dubbio ricercato nella capacità del poeta di sviluppare una forma tragica sempre più in grado di collocarsi con dignità a fianco dei classici greci. Per quanto è possibile osservare dai frammenti superstiti, il carattere innovativo delle tragedie di Ennio rispetto alla tragedia greca va individuato nella netta accentuazione dell’elemento patetico e spettacolare: si tratta di visioni, apparizioni, orride descrizioni, in cui il poeta dà prova di una fantasia visionaria che sembra anticipare certi esiti del teatro moderno. Questa predilezione per le rappresentazioni a effetto sembra essere stata una cifra stilistica comune della tragedia latina arcaica: a differenza di quanto sarebbe accaduto in età imperiale, quando i drammi sarebbero stati concepiti espressamente per la recitazione nelle sale da lettura, le tragedie di Ennio (come pure quelle di Accio e Pacuvio) erano scritte per essere rappresentate sulla scena, ed è certo che la spettacolarità dell’allestimento doveva essere una sicura garanzia di successo e popolarità. Un frammento, tratto dall’Alcmeo (Scaenica, vv. 27-30 Vahlen, apud Cɪᴄ. de orat. III 217), porta in scena l’incubo del matricida Alcmeone, da cui l’opera trae il titolo, tormentato dalle Furie materne. Si tratta di un bell’esempio della predilezione di Ennio per i momenti di maggiore pathos e per la rappresentazione degli sconvolgimenti dell’animo e della mente.
unde haec flamma oritur?
†incede incede† adsunt; me expetunt.
fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc uim quae me excruciat.
caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.
Donde si leva questa fiamma?
Corri, corri! Avanzano, s’avventano.
Aiuto! Scaccia da me questo malanno, quest’assalto avvampante che mi strazia!
Cinte di cerulee serpi irrompono, mi serrano con faci ardenti!
(trad. di C. Marchesi – G. Campagna)
Alcmeone uccide la madre Erifile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Sirico, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Secondo il mito greco, Alcmeone era figlio di Anfiarao, re di Argo, e di Erifile. Quando la donna costrinse lo sposo a partecipare alla guerra contro la città di Tebe (un riflesso della quale si ha nella tragedia eschilea I sette contro Tebe), Anfiarao, sapendo che vi avrebbe trovato la morte, comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo: egli avrebbe dunque dovuto uccidere la madre e compiere una seconda spedizione contro Tebe. Il che, puntualmente, accadde. Tuttavia – come emerge anche da questo frammento enniano – Alcmeone dovette subire la persecuzione delle Furie (divinità vendicatrici dei delitti di sangue, corrispondenti alle greche Erinni, che si ritrovano nella saga dell’Orestea di Eschilo) e si recò esule in vari luoghi della Grecia per purificarsi del matricidio. Ma, nonostante i ripetuti tentativi in tal senso, venne infine ucciso dai figli di Fegeo, re di Psofi.
Un altro frammento enniano, tratto dall’Alexander (Scaenica, vv. 63-71 Vahlen, apud Cɪᴄ. Div. 1, 66), si sofferma sulla profezia di Cassandra, l’inascoltata profetessa, figlia di Priamo. La visione profetica, relativa alla caduta di Troia, è di raffinata struttura e di vivo effetto, stravolta com’è nel suo ordine logico e cronologico: prima l’immagine dell’incendio e del sangue simboleggiata e suscitata dalla fiaccola, poi l’invasione dell’armata nemica e, infine, la causa prima della rovina, il giudizio di Paride e la conseguente venuta a Troia di Elena (Lacedaemonia mulier), premio offerto da Venere al giudice che le aveva dato vittoria sulle dee rivali.
adest, adest fax obuoluta sanguine atque incendio,
multos annos latuit, ciues, ferte opem et restinguite.
iamque mari magno classis cita
texitur, exitium examen rapit:
adueniet, fera ueliuolantibus
nauibus complebit manus litora.
eheu uidete:
iudicauit inclitum iudicium inter deas tris aliquis:
quo iudicio Lacedaemonia mulier, Furiarum una adueniet.
Ecco, ecco la fiaccola avvolta di sangue e di fuoco!
Per molti anni rimase nascosta: portate aiuto, cittadini, spegnetela!
E già sul mare una veloce flotta
si allestisce e con sé porta uno sciame di sventure.
Giungerà qui un’armata di guerra
e navi con le vele al vento riempiranno i lidi!
Ahimè, guardate:
un uomo ha giudicato le tre dee col celebre giudizio:
per quel giudizio giungerà qui una donna spartana, una delle Furie!
Cassandra (al centro) predice la caduta di Troia. Priamo stringe tra le braccia Paride (sinistra). Ettore assiste alla scena (destra). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La profezia di Cassandra inverte completamente la consueta successione degli eventi che portano alla guerra e alla caduta della città. All’inizio del frammento (vv. 63-64) l’abitato è già presentato come dato alle fiamme per mano dei Greci. Quindi, secondo un cammino a ritroso, vengono richiamati i momenti dell’allestimento della flotta greca e, implicitamente, dell’approdo sui lidi della Troade (vv. 65-68). Solo alla fine (vv. 69-71) la profetessa evoca gli antefatti della guerra, connessi con il giudizio di Paride, che tra Giunone, Minerva e Venere scelse di attribuire la palma della bellezza a quest’ultima, in cambio dell’amore di Elena.
Ora, questo frammento e quello precedente costituiscono un bell’esempio delle rappresentazioni a tinte forti tipiche della tragedia latina arcaica. Al tono profetico si mescolano infatti parole dense di significato, che orientano nettamente la descrizione in senso macabro. Soprattutto in questo, al v. 63 la fiaccola che prefigura la fine di Troia è descritta come avvolta da sangue e fuoco (fax obuoluta sanguine atque incendio). Ai vv. 67-68 l’armata achea è definita fera… manus, che letteralmente vale «feroce manipolo (di uomini)». Al v. 71 Elena, causa della guerra, è equiparata a una delle Furie, terribili e vendicative entità rappresentate come donne alate dai capelli intrecciati di serpi e con in mano una torcia o una frusta. Al v. 67 Ennio definisce le navi ueliuolantes. Si tratta dell’unico esempio, in tutta la letteratura latina, dell’aggettivo composto ueliuolans, letteralmente «che vola con le vele», che è dunque, per usare una locuzione tecnico-retorica, un hàpax legòmenon. A quanto si sa, Ennio, che prediligeva la coniazione di aggettivi composti, sentiti come caratteristici dello stile poetico elevato, introdusse nella poesia latina anche ueliuolus (due esempi, sempre in riferimento alle navi), poi ripreso da Lucrezio, Virgilio e Ovidio.
Il gusto di Ennio per la sperimentazione linguistica, che caratterizza il suo stile, è riconoscibile, tra l’altro, nell’invenzione di aggettivi composti (quelli che diventeranno un marchio stilistico della lingua poetica latina). Ennio li modellò sugli “aggettivi doppi”, cari alla lingua elevata della poesia greca. Già Aristotele, infatti, aveva fatto notare che una delle caratteristiche principali della lingua della poesia greca solenne era l’uso di composti; intendeva riferirsi a quelle formazioni linguistiche prodotte dall’unione di due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, quasi centauri formati da due corpi diversi. È appunto questa immagine con cui li definisce Quintiliano (Inst. I 5, 65), e duobos quasi corporibus coalescunt («risultano formati come se consistessero di due corpi insieme»).
In quanto espressioni in cui due concetti sono riuniti in una sola parola, i composti risultano particolarmente appropriati nei linguaggi che hanno bisogno di mezzi fortemente espressivi, vale a dire soprattutto nella lingua viva del popolo e nella lingua intensa dei poeti, due forme di linguaggio che spesso paradossalmente si incontrano. Per quanto riguarda il parlato, si possono citare molte forme popolari frequenti nelle commedie arcaiche, soprattutto quelle di Plauto, che ama inventare espressioni ingiuriose vivaci: per esempio, multiloqua et multibiba… anus (Cist. v. 149: «una vecchia chiacchierona e ubriacona»). Quanto al linguaggio della poesia elevata, i composti più conformi allo spirito della lingua latina sembrano essere stati quelli che hanno un elemento verbale nel secondo membro (del tipo omnipotens, horrisonus), e soprattutto quelli in -fer-, -ger- e -cola, antichi temi verbali (fero, gero, colo), che per il loro uso frequente erano di fatto ridotti quasi a suffissi (come frugifer, «fruttifero, ferace, fertile»; armiger, «armato»; coelicola, «abitatore del cielo, divinità»). Di Ennio si può citare come buon esempio un verso degli Annales (v. 198 Skutsch = 181 Vahlen): bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes («forti-in-guerra sono più che forti-in-senno»), dove di grande efficacia espressiva è anche la “rima” (o meglio l’omeoteleuto, cioè una uguale fine di parola). In Annales, v. 593 Skutsch oratores doctiloqui («gli ambasciatori abili a parlare»), il composto doctiloquus è invenzione enniana, anche se già Plauto aveva prodotto forme analoghe, come blandiloquus, «che parla in modo carezzevole», falsiloquus, stultiloquus. Molti sono i composti che appaiono come calchi di aggettivi doppi greci consacrati dalla grande poesia: così Annales, v. 554 Skutsch contremuit templum magnum Iouis altitonantis, «tremò il grande recinto (= il cielo) di Giove che tuona dall’alto», dove l’aggettivo altitonans riproduce il corrispondente greco βαρυβρεμέτης; così ancora Annales, v. 76 Skutsch genus altiuolantum, «la stirpe degli uccelli», dove altiuolans ricalca il greco ὑψιπετήεις. Questa innovazione introdotta da Ennio fu assai rilevante per la lingua poetica romana: l’uso dei composti diventò uno dei principali elementi capaci di differenziare la lingua poetica da quella della prosa letteraria. I composti, infatti, adatti per la loro forma a riempire lunghi versi e a offrire ampie possibilità di effetti fonici, furono un importante mezzo di espressività e insieme un vero e proprio marchio dello stile elevato.
Dunque, il gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano, quali il terrore e la paura, la grande commozione, sono tutti elementi tipici di questo linguaggio teatrale che si avviò, sul modello tracciato da Ennio, a diventare tipico della poesia tragica latina. Su questa scia, infatti, si sarebbero posti in seguito i più importanti tragediografi: Pacuvio e Accio prima, e poi Seneca.
A questo proposito, vale la pena di citare un brano come il “cantico di Andromaca”, tratto dall’omonima Andromacha aechmalotis, che rappresenta un caso esemplare degli effetti di commozione propri della tragedia arcaica; ancora ai tempi di Cicerone, esso costituiva un pezzo di bravura per i più celebri attori, che sapevano sfruttare i toni altamente patetici caratteristici della situazione tragica del monologo, quali il disperato ricordo della patria lontana e distrutta e il dolore per la nuova condizione di servitù (Scaenica vv. 86-99):
quid petam praesidi aut exequar? quoue nunc
auxilio exili aut fugae freta sim?
arce et urbe orba sum: quo accedam? quo applicem?
cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent,
Dove chiedere protezione o dove cercarla? Adesso, in quale
esilio trovare aiuto, in quale la fuga?
Sono stata privata della città e della rocca: dove mi aggrapperò? Dove piegherò le ginocchia? Per me non ci sono più altari dei padri in patria, esse giacciono infrante e disperse,
i templi incendiati dalle fiamme, bruciacchiate si levano alte le pareti
deformate e con le travi contorte.
O padre, o patria, o casa di Priamo,
sacra dimora chiusa da altisonanti cardini!
Io ti vidi ergerti nello sfarzo orientale,
coi soffitti a cassettoni tutti intarsiati,
regalmente adorna d’oro e d’avorio.
Tutto questo io vidi preda delle fiamme,
e la vita violentemente tolta a Priamo,
e l’altare di Giove insozzato di sangue!
Georges-Antoine Rochegrosse, Andromaca. Olio su tela, 1883.
Gli Annales: finalità e composizione dell’opera
Gli Annales garantirono al poeta grande fama in virtù dell’argomento affrontato: la celebrazione della storia di Roma. Gli intenti laudativi dovevano, del resto, essere fondamentali in tutta la sua produzione: il poeta in precedenza aveva composto un poema dal titolo Scipio in lode di Scipione Africano e la tragedia Ambracia per ricordare la vittoria di Nobiliore. In particolare, il caso dell’Ambracia è sintomatico e, in qualche modo, fece epoca. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia “di corte”: presso le regge dei dinasti greci orientali (ad Alessandria, Pella, Antiochia, Pergamo, ecc.) risiedevano artisti che celebravano – spesso in narrazioni epiche – le gesta dei loro sovrani. Poesia ed encomio erano strettamente saldati. Così, Ennio, partecipando alla campagna di Nobiliore come poeta “al seguito” e poi componendo una tragedia per celebrarne l’impresa, non fece che ripetere quel modello. Difatti, Catone protestò vivacemente contro quell’iniziativa, che ai suoi occhi costituiva un atto di propaganda personale. Ennio, invece, doveva vedere la propria poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva così da un lato a Omero, dall’altro alla recente tradizione epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Nella parte più tarda della sua carriera Ennio dovette concepire il grandioso progetto di una laudatio che si allargasse a tutta la storia di Roma, raccontata in un unico poema epico: gli Annales, appunto. L’opera risultò, per ampiezza e concezione, assai più vasta di quei poemi ellenistici scritti in lode dei sovrani. Per ricchezza di struttura, il precedente più prossimo era certamente il Bellum Poenicum di Nevio, che però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio, invece, decise di narrare la sua materia senza stacchi e in ordine cronologico. Rispetto a Nevio, un’importante novità fu la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi omerici, originariamente un continuum indiviso di versi.
Il titolo Annales voleva richiamarsi alle raccolte degli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi che i pontifices maximi, membri del più autorevole collegio sacerdotale dell’Urbe, erano soliti redigere anno per anno. Anche l’opera enniana era condotta secondo una scansione cronologica progressiva, “dalle origini ai giorni nostri”; ma non bisogna pensare che il poeta trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Se, da un lato, lasciava un certo spazio alle antiche leggende sulle origini di Roma, dall’altro, mostrandosi assai più selettivo di uno storico, Ennio prediligeva quasi esclusivamente gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna: per lui era ovviamente la guerra l’interesse di un poeta epico ed era la guerra l’attività in cui si mostrava la virtus romana.
Secondo le ricostruzioni degli studiosi, alle origini leggendarie della città erano dedicati i primi libri dell’opera. Al contrario di Nevio, che aveva narrato probabilmente in un excursus il solo viaggio di Enea da Troia all’Italia, come una sorta di “premessa” al racconto della guerra punica, in Ennio le leggende sulla fondazione dovevano essere esposte in una forma narrativa continua e più sistematica. Nel poema enniano trovava così per la prima volta una sistemazione coerente tutto quel patrimonio mitico propriamente quiritario, che voleva dare lustro e dignità anche alle origini storiche dell’Urbe, ammantandole di un velo leggendario e riconducendole all’opera degli dèi e degli eroi del mito. Questa rivendicazione della nobiltà del passato della città era ideologicamente molto importante, nel momento in cui la potenza di Roma si avviava a dominare su tutto il Mediterraneo e la cultura romana tentava di affiancarsi a quella greco-ellenistica, con il suo vastissimo patrimonio mitologico.
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).
L’investitura poetica
Riguardo agli Annales sembra che Ennio avesse progettato inizialmente un poema in quindici libri, che si sarebbe concluso con il trionfo di Fulvio Nobiliore, il suo protettore, e forse con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio alle Muse. Per motivi non del tutto chiari, però, Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario, probabilmente per aggiornare l’opera con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane. Il suo poema rimase comunque contrassegnato da due grandi proemi, al libro I e al libro VII, punti in cui il poeta prendeva direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo far poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (v. 1 Skutsch = Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum («O Muse, che col vostro passo l’alto Olimpo calcate»). Dopodiché, con un’invenzione molto più audace, Ennio raccontava di un sogno, in cui gli era apparsa l’ombra di nientemeno che Omero, il capofila di tutti i poeti epici, il quale gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui, nel poeta romano Quinto Ennio (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): … somno leni placidoque reuinctus / … uisus Homerus adesse poeta («… preso da un dolce e calmo sonno /… apparve di fronte a me Omero, il poeta»). In questo modo, Ennio si presentava come il “sostituto” vivente di colui che, a giudizio degli antichi, era stato il più grande poeta di tutti i tempi.
Nel proemio al VII libro l’autore dava più spazio alle divinità della poesia (vv. 206-210 Skutsch = 213-217 Vahlen): … scripsere alii rem / uersibus quos olim Fauni uatesque canebant, / cum neque Musarum scopulos… / … nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. nos ausi reserare… («… altri scrissero di storia / con i versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati, / quando né le rocce delle Muse… / e quando, prima di me, non c’era neppure qualcuno che professasse il culto della parola. / Noi osammo aprire…»).
Ora, il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le Camenae dell’arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso – così lo definisce Ennio – cantato da «Fauni e vati», il verso dal passato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Lui, Ennio, era il primo poeta dicti studiosus, cioè “filologo”, “cultore della parola”. In altri termini, il primo che poteva pretendere di stare alla pari con i contemporanei poeti greci, gli alessandrini, che praticavano un’arte per pochi, raffinata ed erudita, curatissima nella forma. Sicuramente Ennio, nell’affermare orgogliosamente la propria priorità tra i Romani, poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia epica.
Un generale tiene una contio davanti alle sue truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.
Uno stile all’insegna della sperimentazione
Dato il carattere di estrema frammentarietà in cui è giunta l’opera di Ennio, del suo stile si rischia di farsi un’idea distorta. Ciò dipende in gran parte – come avviene regolarmente per i poeti romani arcaici – dalla tipologia delle fonti che lo riportano. A citare Ennio, infatti, sono per lo più grammatici e filologi tardo-antichi, studiosi spesso – anche se non sempre – più interessati a raccogliere dalla letteratura dei secoli passati esempi di stranezze e particolarità linguistiche che non casi di normalità. Così, l’immagine che si ha di Ennio epico è quella di un autore che adotta uno stile quasi sperimentale, arditamente innovatore. Egli accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò persino, della lingua ellenica, caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino-italico, addirittura alcune desinenze. Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei (per esempio, Āfrĭcă tērrĭbĭlī trĕmĭt hōrrĭdă tērră tŭmūltu e ōllī rēspōndīt rēx Ālbāī Lōngāī; in entrambi i casi appare evidente una motivazione stilistica per la scelta del ritmo); e insieme, il suo stile è ricco di figure di suono (com’era tipico della tradizione indigena dei carmina), che a volte sottolineano il pathos della situazione con esiti veramente felici.
In alcuni casi, il procedimento raggiunge l’esasperazione, come nel famigerato verso (104 Skutsch = 109 Vahlen) o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti («o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!»), dalla fortissima insistenza onomatopeica, sottolineata dall’ininterrotta serie dattilica; o ancora in quest’altro verso, in cui Ennio escogita una parola come taratantara per riprodurre il suono di una tromba militare (v. 451 Skutsch = 140 Vahlen): at tuba terribili sonitu taratantara dixit («con terribile suono la tromba fece udire il suo taratatà»).
Molte innovazioni introdotte da Ennio ebbero un grande futuro nella letteratura latina successiva: la ripresa dell’esametro dattilico greco fece storia, ma non fu l’unica conquista. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e per l’uso delle cesure. Se i suoi esametri possono comunicare una certa impressione di durezza per il lettore moderno, è perché è possibile confrontarli con quelli, più fluidi, di Virgilio o Ovidio. Ma non bisogna dimenticare che Ennio è stato il primo ad adattare la lingua latina a questa forma metrica, senza avere alcun modello davanti a sé: è lui il creatore di una tradizione letteraria.
T. Vettio Sabino. Denario, Roma 70 a.C. Ar. 4,05 gr. Dritto: Sabinus, testa nuda barbata di Tito Tazio verso destra con di fronte l’espressione S(enatus) C(onsulto).
I destini dell’epica a Roma: Ennio e i suoi successori
Ennio restò per molti secoli il “poeta nazionale” romano, esercitando con i suoi Annales un’enorme influenza su tutta la produzione epica successiva. Il discorso epico, dopo di lui, fu interpretato come discorso panegirico, celebrativo; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un poema che non rinuncia a essere celebrazione (del nuovo ordine augusteo), ma che è soprattutto una complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra.
Ennio fu il cantore della virtus individuale, eroica: a differenza di quanto accadeva nelle opere di Nevio e di Catone, gli Annales erano affollati di condottieri (imperatores, duces), ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta avrebbe saputo renderli immortali, si badi bene, non solo per le loro abilità guerresche, ma anche per quelle di pace. Questo filone avrebbe avuto un enorme seguito ed esiti non necessariamente disprezzabili. Un elegante poeta come il neoterico Varrone Atacino scrisse il Bellum Sequanicum, poema sulle campagne condotte da Cesare in Gallia; e compose un’opera epica a contenuto storico anche Cicerone, il De consulatu suo. Il genere, così concepito, avrebbe continuato a vivere a lungo, sopravvivendo anche all’Eneide, che pure avrebbe battuto una strada del tutto diversa. Molti Romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi; e molti illustri protettori avranno incoraggiato questi esercizi, che erano adatti ad amplificare, in una cornice epica e trasfigurante, le più recenti imprese di generali che erano anche capi politici. Fino a tutta l’età imperiale, insomma, la poesia epico-storica continuò a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere.
***
Bibliografia:
E. Bᴀᴅɪᴀɴ, 𝐸𝑛𝑛𝑖𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 ℎ𝑖𝑠 𝐹𝑟𝑖𝑒𝑛𝑑𝑠, in O. Sᴋᴜᴛsᴄʜ (ed.), 𝐸𝑛𝑛𝑖𝑢𝑠, Genéve 1972, 151-208
M. Bᴇᴛᴛɪɴɪ, 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖 𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑒 𝑠𝑢 𝐸𝑛𝑛𝑖𝑜, Pisa 1979.
R.A. Bʀᴏᴏᴋs, 𝐸𝑛𝑛𝑖𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛 𝑇𝑟𝑎𝑔𝑒𝑑𝑦, New York 1981.
in G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato, vol. 2: L’età augustea, Milano 2010, pp. 516-517.
Durante la guerra scoppiata in seguito al rapimento delle loro donne, i Sabini, guidati da re Tito Tazio, riescono a impossessarsi del Campidoglio grazie al tradimento di Tarpeia, che apre loro le porte della cittadella.
[5] Nouissimum ab Sabinis bellum ortum multoque id maximum fuit; nihil enim per iram aut cupiditatem actum est, nec ostenderunt bellum prius quam intulerunt. [6] consilio etiam additus dolus. Sp. Tarpeius Romanae praeerat arci. huius filiam uirginem auro corrumpit Tatius ut armatos in arcem accipiat; aquam forte ea tum sacris extra moenia petitum ierat. [7] accepti obrutam armis necauere, seu ut ui capta potius arx uideretur seu prodendi exempli causa ne quid usquam fidum proditori esset. [8] additur fabula, quod uolgo Sabini aureas armillas magni ponderis brachio laeuo gemmatosque magna specie anulos habuerint, pepigisse eam quod in sinistris manibus haberent; eo scuta illi pro aureis donis congesta. [9] sunt qui eam ex pacto tradendi quod in sinistris manibus esset derecto arma petisse dicant et fraude uisam agere sua ipsam peremptam mercede.
L. Titurio Sabino. Denarius, Roma, 89 a.C. Ar. 3,98 gr. Obverso: Tarpeia inginocchiata, vista di fronte, fra due guerrieri, in procinto di ucciderla. Legenda in exergo: L[ucius] Tituri[us].
L’ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti, non agirono sotto l’impulso del risentimento e dell’ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla guerra. Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene corrotta con dell’oro da Tazio e costretta a far entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l’idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data. La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro braccialetti d’oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al posto dell’oro fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi. Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo che li volesse tradire, l’uccisero proprio con il compenso che aveva chiesto.
(trad. di G. Reverdito)
I guerrieri sabini scagliano i loro scudi su Tarpeia. Bassorilievo, marmo pentelico, I sec. d.C. dal Fregio della Basilica Aemilia. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.
di Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. I (libri I-II), tr. it. C. Moreschini, Milano, BUR, 2013, pp. 238-241.
Romolo, con il capo velato, traccia il mundus con l’aratro (illustrazione di P. Brocato)
[…] Romulum Remumque cupido cepit in iis locis, ubi expositi ubique educati erant, urbis condendae. et supererat multitudo Albanorum Latinorumque; ad id pastores quoque accesserant, qui omnes facile spem facerent parvam Albam, parvum Lavinium prae ea urbe, quae conderetur, fore. intervenit deinde his cogitationibus avitum malum, regni cupido, atque inde foedum certamen, coortum a satis miti principio. quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut dii, quorum tutelae ea loca essent, auguriis legerent, qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt.
Priori Remo augurium venisse fertur, sex vultures, iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. vulgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset “Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea!”, interfectum. ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata. Palatium primum, in quo ipse erat educatus, muniit. sacra diis aliis Albano ritu, Graeco Herculi, ut ab Euandro instituta erant, facit […].
Lotta fra Romolo e Remo (illustrazione di P. Connolly).
“[…] Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti ed allevati. Sovrabbondava infatti la popolazione degli Albani e dei Latini, e ad essi per di più si erano aggiunti i pastori, sì che tutti senz’altro speravano che sarebbe stata piccola Alba, piccola Lavinio, in confronto alla città che si voleva fondare. S’insinuò poi tra queste considerazioni quel male ereditario che è la cupidigia di regnare, e in conseguenza di ciò nacque l’indegna contesa originata da motivi piuttosto futili. Poiché erano gemelli, e non valeva dunque come criterio risolutivo il rispetto dovuto all’età, affinché gli dèi sotto la cui protezione erano quei luoghi indicassero con segni augurali chi doveva dare il nome alla nuova città, chi dopo averla fondata doveva regnarvi, Romolo, per prendere gli auspici, occupò come luogo d’osservazione il Palatino; Remo l’Aventino.
Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei avvoltoi; e poiché, quando ormai l’augurio era stato annunziato, se n’erano offerti alla vista di Romolo il doppio, le rispettive schiere li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano d’aver diritto al regno per la priorità nel tempo, gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti quindi a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia. È più diffusa la tradizione secondo la quale Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura: che per questo egli sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo anche con le parole, avrebbe aggiunto: “Così, d’ora in poi, perisca chiunque altro varcherà le mie mura!”. Pertanto Romolo ebbe da solo il potere; fondata la città, essa ebbe nome dal suo fondatore. Innanzitutto fortificò il Palatino, dov’egli era stato allevato. Offrì sacrifici agli altri dèi secondo il rito albano, ad Ercole secondo quello greco, così com’erano stati istituiti da Evandro […]”.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.