Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

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Nerone fa uccidere Agrippina Minore (Tac. Ann. XIV 3-8)

Marzo 59: Nerone decide di uccidere la madre: prima tenta di far naufragare la nave su cui Agrippina faceva ritorno ad Anzio dalla Campania, dove aveva incontrato il figlio; poi, fallito il falso incidente, l’imperatore ordina a dei sicari di recarsi nella sua villa e di eliminarla.

Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico. Aureus, Roma c. 55. Ar. 7,60 g. Recto: Nero Claud(ius) Divi f(ilius) Caes(ar) Aug(ustus) Germ(anicus) imp(erator) tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul). Busti drappeggiati dell’imperatore e di sua madre, voltati a destra.

[3, 1] Igitur Nero vitare secretos eius congressus, abscedentem in hortos aut Tusculanum vel Antiatem in agrum laudare, quod otium capesseret. postremo, ubicumque haberetur, praegravem ratus interficere constituit, hactenus consultans, veneno an ferro vel qua alia vi. placuitque primo venenum. [2] sed inter epulas principis si daretur, referri ad casum non poterat tali iam Britannici exitio; et ministros temptare arduum videbatur mulieris usu scelerum adversus insidias intentae; atque ipsa praesumendo remedia munierat corpus. ferrum et caedes quonam modo occultaretur, nemo reperiebat; et ne quis illi tanto facinori delectus iussa sperneret metuebat. [3] obtulit ingenium Anicetus libertus, classi apud Misenum praefectus et pueritiae Neronis educator ac mutuis odiis Agrippinae invisus. ergo navem posse componi docet, cuius pars ipso in mari per artem soluta effunderet ignaram: nihil tam capax fortuitorum quam mare; et si naufragio intercepta sit, quem adeo iniquum, ut sceleri adsignet, quod venti et fluctus deliquerint? additurum principem defunctae templum et aras et cetera ostentandae pietati.

[4, 1] Placuit sollertia, tempore etiam iuta, quando Quinquatruum festos dies apud Baias frequentabat. illuc matrem elicit, ferendas parentium iracundias et placandum animum dictitans, quo rumorem reconciliationis efficeret acciperetque Agrippina, facili feminarum credulitate ad gaudia. [2] venientem dehinc obvius in litora (nam Antio adventabat) excepit manu et complexu ducitque Baulos. id villae nomen est, quae promunturium Misenum inter et Baianum lacum flexo mari adluitur. [3] stabat inter alias navis ornatior, tamquam id quoque honori matris daretur: quippe sueverat triremi et classiariorum remigio vehi. ac tum invitata ad epulas erat, ut occultando facinori nox adhiberetur. [4] satis constitit extitisse proditorem, et Agrippinam auditis insidiis, an crederet ambiguam, gestamine sellae Baias pervectam. ibi blandimentum sublevavit metum: comiter excepta superque ipsum collocata. iam pluribus sermonibus, modo familiaritate iuvenili Nero et rursus adductus, quasi seria consociaret, tracto in longum convictu, prosequitur abeuntem, artius oculis et pectori haerens, sive explenda simulatione, seu pe[ri]turae matris supremus adspectus quamvis ferum animum retinebat.

[5, 1] Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere. nec multum erat progressa navis, duobus e numero familiarium Agrippinam comitantibus, ex quis Crepereius Gallus haud procul gubernaculis adstabat, Acerronia super pedes cubitantis reclinis paenitentiam filii et recuperatam matris gratiam per gaudium memorabat, cum dato signo ruere tectum loci multo plumbo grave, pressusque Crepereius et statim exanimatus est: Agrippina et Acerronia eminentibus lecti parietibus ac forte validioribus, quam ut oneri cederent, protectae sunt. [2] nec dissolutio navigii sequebatur, turbatis omnibus et quod plerique ignari etiam conscios impediebant. visum dehinc remigibus unum in latus inclinare atque ita navem submergere; sed neque ipsis promptus in rem subitam consensus, et alii contra nitentes dedere facultatem lenioris in mare iactus. [3] verum Acerronia, imprudentia dum se Agrippinam esse utque subveniretur matri principis clamitat, contis et remis et quae fors obtulerat navalibus telis conficitur. Agrippina silens eoque minus agnita (unum tamen vulnus umero excepit) nando, deinde occursu lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur.

[6, 1] Illic reputans ideo se fallacibus litteris accitam et honore praecipuo habitam, quodque litus iuxta, non ventis acta, non saxis impulsa navis summa sui parte veluti terrestre machinamentum concidisset, observans etiam Acerroniae necem, simul suum vulnus adspiciens, solum insidiarum remedium esse [sensit], si non intellegerentur; [2] misitque libertum Agermum, qui nuntiaret filio benignitate deum et fortuna eius evasisse gravem casum; orare ut quamvis periculo matris exterritus visendi curam differret; sibi ad praesens quiete opus. [3] atque interim securitate simulata medicamina vulneri et fomenta corpori adhibet; testamentum Acerroniae requiri bonaque obsignari iubet, id tantum non per simulationem.

[7, 1] At Neroni nuntios patrati facinoris opperienti adfertur evasisse ictu levi sauciam et hactenus adito discrimine, ‹ne› auctor dubitaret‹ur›. [2] tum pavore exanimis et iam iamque adfore obtestans vindictae properam, sive servitia armaret vel militem accenderet, sive ad senatum et populum pervaderet, naufragium et vulnus et interfectos amicos obiciendo: quod contra subsidium sibi, nisi quid Burrus et Seneca? ‹expurgens› quos statim acciverat, incertum an et ante ignaros. [3] igitur longum utriusque silentium, ne inriti dissuaderent, an eo descensum credebant, ‹ut›, nisi praeveniretur Agrippina, pereundum Neroni esset. post Seneca hactenus promptius, ‹ut› respiceret Burrum ac s‹c›iscitaretur, an militi imperanda caedes esset. [4] ille praetorianos toti Caesarum domui obstrictos memoresque Germanici nihil adversus progeniem eius atrox ausuros respondit: perpetraret Anicetus promissa. [5] qui nihil cunctatus poscit summam sceleris. ad eam vocem Nero illo sibi die dari imperium auctoremque tanti muneris libertum profitetur: iret propere duceretque promptissimos ad iussa. [6] ipse audito venisse missu Agrippinae nuntium Agermum, scaenam ultro criminis parat, gladiumque, dum mandata perfert, abicit inter pedes eius, tum quasi deprehenso vincla inici iubet, ut exit‹i›um principis molitam matrem et pudore deprehensi sceleris sponte mortem sumpsisse confingeret.

[8, 1] Interim vulgato Agrippinae periculo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere. questibus votis clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec adspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. [2] Anicetus villam statione circumdat refractaque ianua obvios servorum abripit, donec ad fores cubiculi veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. [3] cubiculo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidem: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. [4] abeunte dehinc ancilla: «Tu quoque me deseris?» prolocuta respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito centurione classiario comitatum: ac si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere; non imperatum parricidium. [5] circumsistunt lectum percussores et prior trierarchus fusti caput eius adflixit. iam ‹in› morte‹m› centurioni ferrum destringenti protendens uterum «Ventrem feri!» exclamavit multisque vulneribus confecta est.

Veduta di una villa maritima. Affresco, ante 79, dalla sala n. 60 di Villa San Marco, Stabiae.

***

[3, 1] Nerone, dunque, incominciò a evitare di incontrarsi da solo con la madre e, quando lei se ne andava in campagna a Tuscolo o ad Anzio, si compiaceva con lei perché si prendeva un po’ di svago. Alla fine, considerando che la presenza di lei, in qualunque luogo ella si trovasse, era per lui pericolosa, decise di ucciderla, mostrandosi dubbioso solo sul fatto se dovesse adoperare il veleno o il ferro o qualche altro mezzo violento. In un primo momento, pensò al veleno. [2] Se, tuttavia, questo fosse stato propinato alla mensa del principe, ciò non si sarebbe potuto attribuire a una pura fatalità, dato il precedente della morte di Britannico, e, d’altra parte, sembrava difficile corrompere i servi di una donna che era vigile contro le insidie, proprio per la consuetudine di perpetrare delitti; c’era poi il fatto che Agrippina aveva assuefatto il proprio corpo con l’uso di antidoti contro i veleni. Nessuno, poi, avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un eccidio fatto a colpi di pugnale, poiché Nerone temeva che colui che fosse stato prescelto a compiere così grave misfatto potesse anche ricusarne l’incarico. [3] Gli offrì un’idea ingegnosa il liberto Aniceto, capo della flotta di stanza a Capo Miseno e precettore di Nerone fanciullo, odioso ad Agrippina, che era da lui ricambiata di pari odio. Costui informò il principe che si poteva costruire una nave, una parte della quale, in alto mare, si sarebbe aperta tramite un apposito congegno e avrebbe fatto affogare Agrippina, colta di sorpresa. Nulla più del mare offriva possibilità di disgrazie accidentali e, se Agrippina fosse stata portata via da un naufragio, chi sarebbe mai stato tanto iniquo da attribuire a un delitto ciò che i venti e le onde avevano compiuto? Il principe avrebbe poi elevato alla madre morta un tempio, degli altari e altri segni d’onore, a testimonianza del proprio affetto filiale.

[4, 1] La trovata geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dato che Nerone celebrava presso Baia le Quinquatria. Là attrasse Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori delle madri e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe stata diffusa la voce di una riconciliazione e Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per quelle cose che suscitano piacere. [2] Nerone, poi, sulla spiaggia mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio e, avendola presa per mano, l’abbracciò e l’accompagnò a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. [3] Era là ancorata fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore per la madre: Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere nottetempo per celare il piano. [4] È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni di affetto del figlio cancellarono in lei ogni timore; accolta affabilmente, fu fatta collocare al posto d’onore. Con i più svariati discorsi, ora con tono di vivace familiarità, ora con atteggiamento più serio, come se volesse metterla a parte di più importanti questioni, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnarla all’imbarco, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la finzione, o perché, guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire, sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.

[5, 1] Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dèi prepararono una notte tranquilla, piena di stelle e un placido mare. La nave non aveva ancora percorso lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi familiari, Crepereio Gallo, che stava presso il timone, e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso, a un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio, morto sul colpo. Agrippina e Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. [2] Nel parapiglia generale, non si effettuò neppure l’apertura dell’imbarcazione, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve allora necessario inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo loro possibile, in un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo, anche perché gli altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. [3] Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a urlare che era lei Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva riportato una sola ferita alla spalla), dapprima a nuoto, poi con una barchetta da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al lago Lucrino, rientrò nella sua villa.

[6, 1] Qui, ripensando alla lettera piena d’inganno con la quale era stata invitata, agli onori con i quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, si era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie fosse quello di fingere di non aver capito. [2] Mandò, perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio, che, per la benevolenza degli dèi e per un caso fortuito, si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso alla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, poiché, per il momento, lei aveva bisogno di tranquillità. [3] Frattanto, affettando in piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l’ordine di ricercare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.

[7, 1] Nerone, intanto, in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese, invece, che Agrippina si era salvata con una lieve ferita, avendo, tuttavia, corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno al mandante dell’insidia. [2] Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un minuto all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando i servi sia eccitando alla sollevazione i soldati sia appellandosi al Senato e al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto egli avrebbe avuto contro di lei, se non ricorrendo a Burro e a Seneca? Perciò, fece subito chiamare l’uno e l’altro che, forse, erano già prima al corrente della vicenda. [3] Stettero a lungo in silenzio, per non pronunciare vane parole di dissuasione o, forse, perché pensavano che la cosa fosse giunta a un punto tale che, se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente morire. Dopo qualche momento, Seneca in questo soltanto si mostrò più deciso, in quanto, scambiandosi un’occhiata con Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio. [4] Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico, non avrebbero certo osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. [5] Costui, senza alcun indugio, chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone s’affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’Impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corse subito via e condusse con sé i soldati deliberati a eseguire gli ordini. [6] Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo, messaggero inviato da Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se l’avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.

[8, 1] Frattanto, essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse accaduto per caso, a mano a mano che si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Alcuni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri ancora scendevano in mare, per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piena di grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; una gran moltitudine s’affollò sul lido con lumi e, come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero incontro per rallegrarsi con lei, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. [2] Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle e, abbattuta la porta e fatti trascinare via i servi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, poiché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati. [3] Nella stanza c’erano un piccolo lume e una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno, se veramente la sua sorte fosse stata felice; non c’era che quel deserto rotto da urla improvvise, indizi di suprema sciagura. [4] Quando anche l’ancella si mosse per andarsene, Agrippina nell’atto di volgersi a lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», scorse Aniceto, in compagnia del trierarca Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi, allora, a lui gli dichiarò che, se era venuto per vederla, annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se, poi, fosse lì per compiere un delitto, ella non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. [5] I sicari circondarono il letto e primo il trierarca la colpì in testa con un bastone. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla, protendendo il grembo, gridò: «Colpisci al ventre!»; e cadde trafitta da molte ferite.

(trad. it. di B. Ceva, Milano, BUR, 2011)

Trireme romana. Affresco, ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Una delle pagine più famose degli Annales di Tacito e insieme uno degli esempi meglio riusciti di storiografia tragica è il racconto del matricidio di Agrippina, preceduto dal fallimento di un rocambolesco naufragio appositamente organizzato. Nerone, oppresso dalla presenza della madre, decide di eliminarla e, scartate le opzioni dell’avvelenamento e dell’accoltellamento, decide, su proposta del liberto Aniceto, di far costruire una nave dotata di un congegno che provochi lo sganciamento di parte dello scafo e, di conseguenza, il naufragio di Agrippina. Il finto incidente viene organizzato nei minimi particolari, ma, al momento di affondare il natante, quelli fra l’equipaggio all’oscuro di tutto ostacolano il successo dell’impresa. Acerronia, liberta e compagna di viaggio dell’imperatrice madre, per sollecitare i soccorsi proclama a gran voce di essere lei Agrippina, ma, contro ogni sua aspettativa, viene massacrata a colpi di remi. Agrippina, intanto, contusa e ferita, riesce ad allontanarsi mettendosi in salvo a nuoto e, raccolta da una barca da pesca, viene riportata a riva.

Mentre Agrippina fa ritorno a casa, nella sua villa nei pressi del Lago Lucrino, pur resasi conto dei terribili propositi di suo figlio, decide di fingere di non avere sospetto alcuno, Nerone, impaurito dalle reazioni della potente madre, convoca d’urgenza Burro e Seneca, i suoi più fidati consiglieri e tutori. È chiaro a tutti che Agrippina vada eliminata prima che sia lei a muovere all’attacco! Il liberto Aniceto si assume l’onere di eseguire materialmente il matricidio. Intanto, l’arrivo del liberto di Agrippina, Agermo, giunto a portare al princeps un messaggio della madre, viene colto a pretesto dall’imperatore per mettere in scena un falso attentato contro la propria persona: mentre il latore è intento a recapitargli il messaggio, Nerone getta ai piedi di quello una spada, affinché tutti credano che Agrippina abbia mandato quell’uomo per assassinare il figlio. Quindi, ordina l’immediata esecuzione della madre, affinché assomigli a un suicidio.

La scena dell’azione si sposta nuovamente nella villa dell’imperatrice-madre, dove ella era stata portata dopo essere stata tratta in salvo. L’Augusta matrona si trova da sola nel suo cubiculum: accanto a lei soltanto un’ancella, che presto l’abbandonerà terrorizzata, non appena il ritardo di Agermo renderà evidente la sorte della padrona. Il lettore è accompagnato da Tacito all’interno della stanza di Agrippina, in una suspence crescente, ne condivide l’angoscia e il turbamento. Alla fine, Aniceto e i suoi sicari arrivano e, fatta irruzione nella casa, allontanati i servi, la uccidono con randelli e spade senza pietà.

Il racconto del matricidio è seguito da una serie di pettegolezzi che rendono ancor più torbido l’atto criminale. Tacito riferisce le voci secondo le quali Nerone avrebbe fatto apprezzamenti sulla bellezza della madre, alla vista del suo cadavere, e racconta l’episodio di Mnestere, un liberto della donna, che si trafisse con un pugnale alla vista della pira funebre; probabilmente, insinua l’autore, per amore dell’antica padrona. In linea con le tendenze della storiografia tragica, non manca neanche il riferimento a una profezia dei Caldei sulla fine di Agrippina per mano del figlio, cui la donna avrebbe risposto: “Mi uccida, purché imperi!”.

Gustav Wertheimer, Il naufragio di Agrippina.

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Riferimenti bibliografici:

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L’eruzione del Vesuvio e la morte di Plinio il Vecchio (Plin. Ep. VI 16, 4-20)

La lettera 16 del VI libro è indirizzata a Tacito, il famoso storico al quale Plinio si vanta di essere affine per interessi culturali, stile di vita e notorietà ([…] cum tot vinculis nos studia, mores, fama […] constringant, VII 20). L’argomento dell’epistola è l’eruzione del Vesuvio del 79, durante la quale era morto il grande naturalista Plinio il Vecchio, zio di Plinio. Di quella fine più o meno gloriosa Tacito chiede notizia all’amico, il quale tra il 106 e il 107 scrive questa e un’altra missiva (VI 20), con il dichiarato intento di offrire materiali al destinatario allora impegnato nella composizione delle sue Historiae. Si trattava dunque di un atto di cortesia, ma forse Plinio, ingenuamente vanitoso, nutriva anche il desiderio che dal resoconto di questi fatti drammatici, Tacito traesse spunto per nominarlo nelle Historiae. Una speranza, questa, che Plinio aveva confessato candidamente in un’altra lettera dell’anno 107: «Caro Tacito, io predìco […] che le tue opere storiche saranno immortali; perciò, maggiormente desidero (te lo confesso ingenuamente!) avervi posto» (VII 33, 1). Ma Tacito non esaudì questo voto.

Bacco in forma di grappolo d’uva, Agathodaimon (serpente) e il Vesuvio. Affresco, ante 79 d.C. ca. dalla Casa del Centenario (Pompei, IX, 8, 3-6). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sebbene Plinio narri eventi ai quali ha partecipato di persona e lui stesso ribadisca – novello Tucidide – che il suo racconto si fonda sull’autopsia o su notizie di prima mano, tuttavia, l’attendibilità documentaria del reportage è condizionata dall’intento artistico, che induce l’autore a uniformare la narrazione a modelli letterari illustri. Inoltre, si tratta del resoconto di fatti accaduti venticinque anni prima, quando lo scrittore aveva solo diciott’anni; dunque, eventi forse già prima descritti e rimaneggiati più volte in conformità con la poetica pliniana: «Potrai rivedere ciò che hai scritto, dopo aver lasciato trascorrere del tempo, conservare molte cose, ancor più sopprimerne, altre sviluppare, altre riscrivere» (VII 9, 5). Alla domanda se e quanto l’edonismo verbale pliniano e tutto l’armamentario retorico abbiano condizionato la narrazione della tremenda catastrofe, Marcello Gigante risponde così: «Si può affermare che alcuni aspetti della realtà abbiano eccitato l’estro inventivo e solleticato il gusto letterario e abbiano piegato il genere epistolare, nato, secondo Cicerone, per informare gli assenti, a nuove aperture e nuovi rischi strutturali. Le due lettere […] sono dei saggi epistolari più che lettere storiche». Del resto, Plinio dice di non voler scrivere «lettere da scolaro o, come si dice, scritte per esercitazione» (IX 2, 3), ma lettere «che abbiano qualche argomento non basso né volgare, né limitato agli interessi privati» (III 20, 11). E certo l’argomento delle due lettere era tutt’altro che meschino o meramente circoscritto alla dimensione privata, sia per la grandiosità e la rilevanza sociale della catastrofe (l’imperatore Tito in persona, nell’anno 80, si recò a visitare i luoghi colpiti) sia per l’autorevolezza di Plinio il Vecchio, che vi trovò la morte. Le lettere, dunque, se anche non trattano fatti di sicura rilevanza storica, rappresentano tuttavia, in particolare la VI 16, «un passo verso la storia, un saggio epistolare accuratamente costruito, con lo sguardo al di là dell’effimero e del contingente» (M. Gigante).

Secondo Gigante, la VI 16 è «la lettera per la storia», in contrapposizione alla VI 20 che è «la lettera per la cronaca». La rilevanza storica della 16 risiede nel fatto che in essa, non solo si rende omaggio a un modello familiare soddisfacendo l’orgoglio del clan, ma si celebra l’exitus glorioso di un vir illustris, cioè un evento che merita di essere consegnato alla storia, al pari degli honesti exitus delle vittime della tirannide imperiale riferiti da Tacito negli Annales (XVI 16): «Non posso ignorare queste morti […]. Ai posteri degli uomini famosi almeno questo sia dato: che […] conservino il ricordo di quegli uomini nella narrazione delle ore estreme della loro vita».

I legami tra la lettera e la produzione letteraria degli exitus, in auge in età imperiale, implicano che l’attendibilità dei fatti narrati sia «condizionata dal modello letterario dell’exitus, in cui la preoccupazione di edificare un monumento […] non può coincidere con lo scrupolo più proprio dello storico» (M. Gigante). E tuttavia il testo pliniano, al di là della sua evidente letterarietà, conserva una «verità» forte, dà il senso dell’esperienza vissuta, al punto che si può ancora in parte condividere questa valutazione di A. Salvatore: «La lettera è un piccolo capolavoro di cronistoria: la tensione drammatica è nelle cose e nel succedersi degli eventi, fotografati e narrati, pur a distanza di tanti anni, con un’essenzialità e un’evidenza di stile che danno alla pagina il sapore di un esemplare e avvincente reportage. L’interesse scientifico e la curiosità naturalistica di Plinio il Vecchio sembrano rivivere e pulsare ancora nella precisione con cui è descritta la stupefacente nube vulcanica».

John Martin, Distruzione di Pompei ed Ercolano. Olio su tela, 1821.

[𝟒] [Mio zio] si trovava a Miseno, e svolgeva di persona il proprio incarico di comandante della flotta. Il 24 agosto, verso l’ora settima (: 13.00), mia madre lo informò che era apparsa una nube insolita per grandezza e aspetto. [𝟓] Egli, dopo aver preso il sole e fatto un bagno, aveva spilluzzicato qualcosa sul divano ed si era immerso nella lettura; si fece portare i calzari, raggiunse un luogo che permettesse di osservare bene quel fenomeno. Si stava sollevando una nuvola – era difficile per chi era distante individuare da quale monte, si seppe poi che si trattava del Vesuvio –, la cui forma potrebbe essere paragonata a un pino più che a qualsiasi altra pianta. [𝟔] Difatti, una volta proiettatasi in alto con una sorta di lunghissimo tronco, si allargava come se si ramificasse: perché, a mio modo di vedere, sollevata da un’improvvisa corrente ascensionale, rimasta priva di sostegno o addirittura collassata sotto il proprio peso dopo che questa era scemata, essa andava svanendo sfilacciandosi, a tratti immacolata, a tratti torbida e chiazzata, secondo che avesse sollevato terra o cenere. [𝟕] A un erudito qual era mio zio l’evento parve importante e meritevole di essere osservato da più vicino. Si fece allestire una liburna: mi offrì di andare insieme con lui, se ne avessi avuto voglia; risposi che preferivo studiare e, per l’appunto, mi aveva dato lui stesso da scrivere. [𝟖] Stava uscendo di casa, quando ricevette un biglietto di Rettina, la moglie di Tascio, atterrita dal pericolo incombente (la sua villa sorgeva infatti a ridosso del Vesuvio e non c’era via di scampo se non per nave); lo scongiurava di tirarla fuori da una situazione tanto rischiosa. [𝟗] Allora, cambiò idea e ciò che aveva intrapreso con lo spirito dello studioso lo affrontava con quello dell’eroe! Fece mettere in mare delle quadriremi; s’imbarcò lui stesso per soccorrere non solamente Rettina, ma tanti altri, visto che l’amenità di quella costa la rendeva densamente popolata. [𝟏𝟎] Si affrettò nel luogo da cui gli altri fuggono, mantenendo rotta e timone proprio in direzione del pericolo, impavido a tal punto da dettare e annotare tutti gli sviluppi, tutte le manifestazioni di quel cataclisma così come si presentava ai suoi occhi. [𝟏𝟏] Ormai sulle navi pioveva cenere, che si faceva più calda e densa via via che avanzavano; ormai vi cadevano anche pomici e pietre scure, carbonizzate e fessurate dal fuoco; ormai una secca di recente formazione e il materiale franato dalla montagna impediva l’approdo. Incerto per un po’ se invertire la rotta, al timoniere che lo sollecitava in tal senso, replicò prontamente: «La fortuna aiuta gli audaci! Punta verso la casa di Pomponiano!». [𝟏𝟐] Questa si trovava a Stabia, nella parte opposta del Golfo (il mare si addentra con un susseguirsi di insenature nella costa curvata a semicerchio); là, benché il pericolo non si prospettasse ancora imminente, se pure fosse evidente e vista la sua evoluzione sempre più prossimo, Pomponiano aveva fatto imbarcare le sue masserizie, pronto alla fuga non appena il vento contrario si fosse placato. Questo invece era assai favorevole a mio zio, che, sospinto a riva, abbracciò l’amico in preda all’agitazione, lo confortò, lo rassicurò e, per mitigarne l’inquietudine con la propria imperturbabilità, si fece condurre nella stanza da bagno; dopo essersi lavato, si mise a tavola e cenò di buon umore o (cosa altrettanto encomiabile) apparentemente di buon umore. [𝟏𝟑] Nel frattempo dal monte Vesuvio rilucevano in più punti fiamme parecchio estese e vasti incendi, il cui luminoso bagliore era esaltato dalle tenebre della notte. Lo zio, per esorcizzare la paura, sosteneva che si trattasse di fuochi lasciati accesi dai contadini in preda al panico e casolari in fiamme abbandonati al loro destino. Poi andò a riposarsi e dormì di un autentico sonno; infatti, coloro che si aggiravano davanti alla soglia udivano il suo respiro, piuttosto greve e rumoroso, corpulento com’era. [𝟏𝟒] Ma, intanto, il cortile d’accesso al suo alloggio, colmo di cenere mista a pomici, si era già talmente alzato di livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato in camera, non sarebbe più potuto uscirne. Destato, uscì e raggiunse Pomponiano e tutti gli altri che erano rimasti svegli. [𝟏𝟓] Insieme valutarono se convenisse rimanere al coperto o avventurarsi all’esterno. Le case infatti tremavano a causa di scosse frequenti e di forte intensità e, quasi divelte dalle loro fondamenta, davano l’impressione di oscillare ora da una parte ora dall’altra per poi riassestarsi. [𝟏𝟔] All’aperto c’era sempre da temere la pioggia di pomici, per quanto leggere e porose, ma il raffronto tra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo. E se in mio zio prevalse ragione su ragione, negli altri prevalse paura su paura. Postisi sulla testa dei cuscini, li assicurarono con degli asciugamani; questo servì da difesa contro ciò che cadeva dall’alto. [𝟏𝟕] Altrove faceva ormai giorno, lì regnava invece una notte più scura e fitta di qualsiasi altra notte, benché attenuata da parecchie fiaccole e da lucerne di vario tipo. Si decise di raggiungere la spiaggia e verificare da vicino se a quel punto il mare consentisse di salpare; ma questo rimaneva ancora pericolosamente ostile. [𝟏𝟖] Là, coricato su un lenzuolo steso a terra, mio zio si fece portare due volte dell’acqua fresca e bevve. Ma ecco che le fiamme e il puzzo di zolfo che le preannunciava misero gli altri in fuga e lui in agitazione. [𝟏𝟗] Appoggiandosi a due servetti si alzò in piedi, ma subito ricadde: per quel che posso supporre io, il fumo particolarmente denso gli aveva ostruito la respirazione e occluso i polmoni, che aveva cagionevoli di natura, deboli e spesso infiammati. [𝟐𝟎] Quando tornò la luce del giorno (il terzo da quello che lui aveva visto per ultimo), il suo corpo fu rinvenuto integro, illeso e con indosso gli abiti con cui si era vestito: l’aspetto esteriore somigliava a quello di un uomo che dormiva più che a quello di un morto.

Louis Figuier, La morte di Plinio il Vecchio. Incisione, 1866.

L’importanza dell’Ep. VI 16 (e dell’altra, l’Ep. VI 20) supera il valore letterario e abbraccia quello scientifico, tanto da aver spinto i vulcanologi a definire “pliniane” le eruzioni esplosive come quella che ebbe per protagonista il Vesuvio nel 79 d.C. Le lettere di Plinio il Giovane, infatti, costituiscono i primi documenti storici nei quali sono descritti molti dei fenomeni connessi a un evento di questo tipo e, insieme con i risultati prodotti da oltre due secoli di scavi archeologici, consentono di ricostruire le tragiche tappe che portarono alla totale distruzione di Pompei, Oplontis (od. Torre Annunziata), Stabiae (od. Castellamare di Stabia) ed Ercolano.

Il complesso vulcanico Somma-Vesuvio è formato da un edificio più vecchio, il monte Somma (chiamato erroneamente dagli antichi mons Vesuvius e menzionato nella sua vera identità solo dal V secolo), e da un cono di formazione più recente, il Vesuvio appunto, che ha vissuto alterni periodi costruttivi fino al 1944, anno in cui è iniziata la quiescenza che perdura tuttora. Quando il magma avvia il processo di risalita verso la superficie, l’eruzione vulcanica è anticipata da fenomeni precursori, quali terremoti, deformazioni del suolo e conseguente liberazione di gas sotterranei. Plinio racconta che molti giorni prima dell’eruzione si erano verificate alcune scosse sismiche, ma, data la loro frequenza in Campania, esse non avevano destato preoccupazione né particolare interesse tra gli abitanti (VI 20, 3).

Nella mattina del 24 agosto (o 24 ottobre) il magma, attraverso una o più esplosioni, si aprì la strada verso la superficie. Intorno all’01:00 del pomeriggio l’aumento della pressione dei gas creò una colonna eruttiva composta da vapori, particelle di magma e frammenti di roccia. Plinio ne paragona l’aspetto a un pino, perché, come se fosse sorretta da un tronco, essa si slanciava verso l’alto per poi ricadere allargandosi in forma di rami; la nube era ora bianca ora sporca in base a ciò che portava con sé, terra o cenere (VI 16, 5-6). Ebbe così inizio la fase principale dell’eruzione, detta in senso stretto “pliniana”.

Verso le 20:00 il tasso eruttivo diminuì e il collasso della colonna diede origine a una prima serie di colate piroclastiche di ceneri e pomici. Oplontis ed Ercolano furono investite. Plinio scrive che lungo le pendici del Vesuvio si formarono strisce di fuoco e incendi che illuminavano il buio della notte (VI 16, 13). Dopo l’apparente rallentamento, la nube iniziò nuovamente ad alzarsi per raggiungere, all’incirca in piena notte, la sua massima altezza (32 km) e con essa anche la portata eruttiva toccò il valore massimo.

Albert Bierstadt, Il Monte Vesuvio a mezzanotte. Olio su tela, 1869. Birmingham Museum of Art.

Tra l’01:00 e le 06:00 del mattino seguente la colonna fu scossa da pulsazioni che provocarono la formazione di nuove colate piroclastiche. Questa volta Oplontis e Ercolano furono letteralmente sepolte, mentre Pompei fu investita da porzioni di colate più diluite. In tutta l’area circumvesuviana si susseguirono violente scosse di terremoto, che sembrarono sradicare gli edifici dalle fondamenta e resero ogni cosa fortemente instabile (VI 16, 15). Con il collasso definitivo della colonna terminò la fase “pliniana”. Il nostro autore racconta che la presenza di nubi grigie oscurò la luce del giorno e che, per effetto dei movimenti tellurici, il mare sembrò ripiegarsi su se stesso, abbandonando sulla spiaggia molti animali marini morti (VI 20, 9).

Intanto, la riduzione della pressione dei gas nel condotto e nella camera magmatica accentuò i cedimenti delle pareti di quest’ultima e il serbatoio geotermico subì una decompressione: i fluidi in esso contenuti passarono nella camera e si ebbe una nuova violenta eruzione. L’innalzamento della colonna eruttiva fu quindi di breve durata e, una volta collassata, diede origine a un flusso piroclastico, simile a un’onda, che si espanse a grande velocità, depositando pomici e frammenti di roccia solida. Seguirono colate di cenere più dense. La camera magmatica, svuotata, collassò e in superficie si formò una vasta depressione (caldera). Un’ultima esplosione generò una nube che raggiunse Pompei e Stabia: fu questo, presumibilmente, il momento in cui Plinio il Vecchio perse la vita (VI 16, 18-19). L’epistolografo afferma che a Miseno il paesaggio, coperto dalla cenere, aveva mutato aspetto e sembrava imbiancato dalla neve (VI 20, 18-19). Con una serie di scosse sismiche, l’evento eruttivo volse al termine, dopo aver lasciato dietro di sé un ampio ma indefinito numero di vittime, cadute sotto la pioggia di pomici e colate piroclastiche, schiacciate dal crollo degli edifici, straziate dall’asfissia.

Anonimo incisore, Morte di Plinio il Vecchio. Incisione, 1880.

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Decio, l’imperatore che morì in battaglia

Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.

Decio. Busto, marmo lunense, 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.

L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.

P. Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.

Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.

Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.

C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.

Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).

Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.

Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].

Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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Domizia Longina

Domizia Longina, nata fra il 50 e il 55 d.C. da Cn. Domizio Corbulone e Cassia Longina, sposò in prime nozze L. Elio Plauzio Lamia Eliano. Nel 70 fu costretta dal giovane Domiziano, secondo figlio di Vespasiano, a divorziare dal marito e a sposarsi con lui: dalla relazione ne nacque un figlio, T. Flavio, che però morirà prematuramente non prima dei dieci anni. Quando il cognato Tito venne a mancare, nell’81, Domiziano gli successe al principato e Domizia assurse al rango di Augusta.

Il nuovo principe era un uomo particolarmente geloso, e quando venne a sapere da alcune voci che la moglie lo stesse tradendo con un noto mimo, un certo Paride, fece arrestare e uccidere quest’ultimo e allontanò la sposa, mettendola sotto custodia. Secondo Cassio Dione (67, 3, 1), fu determinante l’intervento L. Giulio Urso, stretto collaboratore di Domiziano, nel sottrarre la donna all’esecuzione pretesa dal marito per il presunto adulterio. La vicenda si consumò fra l’82 e l’83, e in quel periodo l’imperatore pare che avesse intessuto una relazione amorosa con la giovane nipote, Giulia, figlia di Tito, dalla quale avrebbe avuto un figlio, se non l’avesse costretta ad abortire (cosa che la uccise).

Riappacificatosi in seguito con Domizia, la fece richiamare a corte, ripristinandone il rango e l’autorità. Negli anni successivi il principe divenne sempre più sospettoso e malfidente verso tutti, famigliari e collaboratori più intimi compresi, condannando a morte tutti coloro che credeva fossero sleali nei suoi confronti.

T. Flavio Domiziano. Busto, marmo, fine I secolo. Roma, Musei Capitolini.

Secondo Cassio Dione (67, 15, 4), Domizia trovò il proprio nome iscritto in una lista di sospetti; così portò il documento ai prefetti del pretorio T. Flavio Norbano e T. Petronio Secondo. Insieme architettarono una congiura e il 18 settembre 96 d.C. insieme al liberto Stefano, al segretario Partenio e alcuni altri, assassinarono l’imperatore. Domizia morì fra il 126 e il 130 d.C. Le venne dedicato un tempio a Gabii, come attesta un’iscrizione ivi rinvenuta nel 1792 (CIL 14, 2795 [p. 493] = ILS 272 = AE 2000, +251).

Fra i bronzi rinvenuti a Brescia nel 1826, nell’intercapedine tra il tempio capitolino e il colle Cidneo retrostante, in uno è ritratta una donna di età matura, con volto pieno, dalla caratteristica pettinatura tipica della moda di Roma nella seconda metà del I secolo d.C. La maggior parte degli studiosi è concorde nell’identificarvi il volto di Domizia Longina, moglie di Domiziano. Indubbiamente il ritratto deve essere coevo al suo principato (81-96 d.C.), durante il quale nelle acconciature femminili si usava applicare una sorta di toupet formato da riccioli a chiocciola sulla parte frontale del capo, mentre nella parte posteriore della nuca i capelli venivano raccolti in sottili trecce disposte a formare uno chignon.

Domizia Longina. Testa, bronzo, fine I sec. d.C. ca. dall’intercapedine del tempio capitolino. Brescia, Museo di S. Giulia.

La testa è alta 40 cm e doveva appartenere a una statua, come suggeriscono la presenza di un frammento di veste visibile sul collo e la frattura sul lato posteriore, dovuta al distacco violento dal resto del corpo. È realizzato con la tecnica della fusione a cera persa e dimostra una buona qualità di esecuzione: non si vedono, infatti, le tracce lasciate dal processo di fusione e i dettagli sono stati abilmente lavorati a freddo con strumenti diversi, come si evince dalle ciocche dei capelli e dalle trecce. Gli occhi sono stati realizzati in avorio e le iridi in pietra dura, mentre le ciglia sono state tracciate a freddo. Il reperto si trova oggi conservato a Brescia, presso il Museo di S. Giulia.

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