Il Bronzo Getty

di P. MORENO, in Storia e civiltà dei Greci (dir. R. BIANCHI BANDINELLI), vol. 6. La crisi della pólis: arte, religione, musica, Milano 1990, pp. 695-702.

Il 20 novembre 1977 il Sunday Times annunciava che un antiquario londinese aveva venduto per cinque milioni di dollari una statua in bronzo, opera di Lisippo. Due giorni dopo, la stampa americana precisava che il pezzo era stato acquistato dal Paul Getty Museum di Malibu in California. La notizia fu messa in relazione con il bronzo rinvenuto nel 1963 in Adriatico, e che aveva dato luogo in Italia ad un episodio giudiziario. Nel dicembre 1977 numerosi giornali ricostruirono la trafila che aveva portato la statua attraverso la Svizzera a Monaco di Baviera e di lì a Londra e oltreoceano.

Lisippo (attribuito). Atleta di Fano (o Bronzo Getty). L’immagine rappresenta l’opera così come fu issata dal fondale marino.

[La pubblicazione del monumento nel 1978 forniva nuovi dettagli (n.d.r.)]. Analisi ed esami tecnici hanno dimostrato che si tratta di un originale greco. Le incrostazioni marine che ricoprivano la statua al momento della scoperta, erano così spesse da far escludere la possibilità che il bronzo fosse andato a fondo con una nave veneziana, come era accaduto per il Colosso di Barletta: il naufragio deve essere avvenuto durante il trasporto dalla Grecia in Italia nella tarda età repubblicana o nel periodo imperiale. Al più tardi, si tratta del trasferimento di opere d’arte a Costantinopoli, da Roma o da Ravenna.

La conoscenza delle coordinate del luogo di rinvenimento del Bronzo Getty potrebbe portare all’identificazione del relitto, alla scoperta di altri capolavori o almeno alla ricostruzione delle circostanze del viaggio. Ma bisogna ricordare che il ritrovamento in mare di un oggetto di tanto pregio non implica necessariamente il naufragio della nave che lo trasportava. Nel mondo antico le imbarcazioni non erano in grado di superare facilmente tempeste improvvise e violente correnti. In caso di pericolo i marinai cercavano di salvare la nave e se stessi gettando a mare il carico, che era in parte sopra coperta. È questo il caso delle due statue in bronzo degli ultimi decenni del V secolo rinvenute nel 1972 al largo di Riace, sulla costa ionica della Calabria, che non erano accompagnate dalla traccia sicura dell’affondamento di una nave.

In assenza del contesto, la lettura del monumento ci offre tuttavia straordinarie sollecitazioni di carattere tecnico, iconografico e stilistico. La statua, in grandezza naturale, è infatti ben conservata: mancano solo i piedi, gli occhi, che erano inseriti in materiale policromo, parte della corona attorno al capo e l’attributo nella mano sinistra.

La preservazione dell’interno ha consentito originali osservazioni sul procedimento di fusione in bronzo a cera perduta. L’armatura era rappresentata da un bastone di legno nel busto e da canne nelle gambe e nelle braccia. Attorno all’armatura, la parte interna dell’anima era costituita da un conglomerato di ciottoli, colla, gusci di pistacchio, frammenti di ceramica e di avorio; seguiva un impasto di terra argillosa e sabbia, quindi uno strato di argilla scura. Sull’anima fu eseguito il primo abbozzo della figura in argilla fine. La cera per il modellato risulta applicata a larghe sfoglie. Una serie di chiodi di ferro erano stati inseriti nell’anima facendoli sporgere dalla superficie della cera per far presa col rivestimento esterno, così da mantenere in posizione l’anima nel momento in cui la cera fondendo avrebbe lasciato vuota l’intercapedine. L’esame del riempimento e delle impronte all’interno del bronzo ha consentito di scoprire che l’artista operò alcuni mutamenti quando già aveva terminato il modellato in cera: il braccio destro fu rialzato all’attacco con la spalla ed il collo conseguentemente allungato. Dopo la fusione, i canaletti e le parti sporgenti dei chiodi sono stati accuratamente livellati, le imperfezioni risolte con tasselli di bronzo sagomati a cuneo, la superficie ben ripulita. I capezzoli e le labbra sono rivestiti in foglia di rame rosso. il segno della finitura a cesello per mano dell’artista è avvertibile nella capigliatura.

Ricostruzione grafica del processo di fusione del bronzo a cera persa (Illustrazione da The Sculpture Park).

Le proporzioni  della figura sono molto slanciate, la muscolatura è ben sviluppata ed il leggero strato adiposo conferisce alla rappresentazione una nota di verità. I polsi sono sottili, le mani hanno dita sensibili, con piccoli polpastrelli ed unghie minute. Questo particolari aiutano ad intendere che l’età del personaggio non è ancora la piena giovinezza. Il viso conferma la stessa impressione, nel disegno acerbo della bocca e del mento. Non c’è dubbio che siamo davanti ad un ritratto, ben caratterizzato in ogni dettaglio fisionomico. Il peso del corpo cade sulla gamba destra, la sinistra è flessa all’indietro e scartata lateralmente; ne risulta l’inclinazione a sinistra del bacino, mentre il busto si raddrizza e appare deviato a destra. Con la mano destra sollevata all’altezza della fronte, il giovane mostra di avere appena collocato la corona sul capo che si volge a sinistra con fierezza. La corona è formata da un ramo d’olivo, le cui foglie erano forse argentate.

Questo elemento consente di identificare il personaggio come un atleta vincitore ad Olimpia, dove appunto il premio consisteva in una corona di olivo selvatico. Nella mano sinistra abbassata, il giovane doveva tenere un ramo di palma, anch’esso simbolo di vittoria: se ne riconosce  la traccia nell’incavo del braccio. Tenendo conto dell’età apparente, si può pensare che l’atleta fosse riuscito vincitore tra i giovani, cioè nella categoria intermedia rispetto a quelle dei ragazzi e degli adulti. La mancanza di alti elementi impedisce di sapere con sicurezza in quale specialità avesse riportato il successo, ma dando credito all’eminente realismo della rappresentazione, si può dedurre qualcosa dai caratteri fisici. In primo luogo le orecchie non sono deformate, come nei ritratti di coloro che praticavano il pugilato o il pancrazio; inoltre la relativa esilità dei polsi e delle dita farebbe escludere le gare di lancio e forse anche la conduzione di cavalli o carri, mentre la pratica della corsa troverebbe conferma nella forte muscolatura delle gambe.

Lisippo (attribuito). Atleta di Fano (o Getty Bronze). Statua, bronzo, IV secolo a.C., da Fano. Malibu, J.P. Getty Villa Museum.

Il motivo dell’atleta che s’incorona non era nuovo nella plastica greca. Policleto lo aveva forse realizzato per primo nel tipo dell’Efebo Westmacott, anche se sul significato della figura sono sorte varie interpretazioni. La soluzione formale è comunque diversa dal Bronzo Getty. L’atleta è ancora adolescente. Il movimento delle braccia è simile, ma la figura poggia il peso del corpo sulla gamba sinistra, secondo il criterio della composizione chiastica, la testa è volta verso destra ed è fortemente inclinata, lo sguardo è diretto verso il basso e ne deriva un contenuto psicologico diverso, come di raccoglimento. Il motivo resta sostanzialmente invariato in un originale attico degli inizi del IV secolo, la statua di giovinetto che s’incorona rinvenuta ad Eleusi e custodita al Museo Nazionale di Atene: la ponderazione ed il conseguente incrocio dei rapporti di forza tra le membra sono l’eredità di Policleto, la torsione del busto è solo accennata, il volto è meno inclinato. Negli stessi anni abbiamo visto che il tipo si affermava a Sicione attraverso un dipinto di Eupompo, colui che avrebbe incoraggiato lo stesso Lisippo ad intraprendere la carriera artistica. La differenza rispetto al modello policleteo è nella posizione della testa, che nell’affresco Rospigiosi appare sollevata. Può darsi che l’originale di Eupompo, portato a Roma, abbia determinato la diffusione di questo tipo dalle lastre Campana, ai sarcofagi, fino al Capitello figurato dalle Terme di Alessandro Severo.

Il Bronzo Getty si apparenta invece alle più sicure immagini lisippee di cui disponiamo. Con l’Agias ha in comune la posizione delle gambe, l’andamento del tronco, il movimento del collo e la disposizione del braccio sinistro. Rispetto all’Alessandro con la lancia, qual è rappresentato dal bronzetto, è specularmente inverso per ogni rapporto di ponderazione, movimento e tensione: l’analogia può dirsi completa per la proiezione laterale di un braccio. Il volto rivela una stretta affinità con la serie di ritratti di atleti, che comprende la Testa barbata a Copenaghen, l’Erma di Lucus Feroniae e l’Apoxyómenos. A prescindere dalle variazioni legate al carattere e alla diversa età dei soggetti, il Bronzo Getty ha in comune con queste teste, che si datano tra il 340 e il 320, la struttura quasi cubica, l’ampia impalcatura ossea dove gli zigomi e la mascella hanno un’asciutta evidenza, la bocca piccola e semiaperta col labbro superiore mosso e arrotondato, gli occhi relativamente piccoli ed infossati sul fondo dell’orbita, con la palpebra superiore che sormonta all’esterno quella inferiore, i cuscinetti rigonfi nella parte superiore esterna della cavità oculare, la prominenza al centro della fronte. La pettinatura trova riscontro nel Ritratto di Polidamante, secondo il tipo del Museo Nazionale Romano, che Lisippo avrebbe creato intorno al 337, e soprattutto nel Ritratto in bronzo di giovane atleta da Ercolano al Museo di Napoli, dove è notevole la convergenza delle notazioni fisionomiche.

Policleto. «Efebo Westmacott». Copia romana in marmo da originale greco, 450 a.C. ca. London, British Museum.

Il nome di Lisippo rimandava già per gli antichi ad una produzione immensa e ad un’intera scuola composta dal fratello, dai figli e da altri numerosi discepoli, le cui opere talora «non si potevano distinguere da quelle del maestro» (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 67). In ogni caso, il Bronzo Getty ci restituisce per la prima volta nella sua qualità originale quanto la scienza archeologica aveva ricostruito attorno all’arte di Lisippo, attraverso la tradizione letteraria e le copie delle sue opere.

Le proporzioni della figura sono quelle che Lisippo ha posto alle origini dell’arte ellenistica, «mutando le dimensioni quadrate degli antichi» (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 65). Nella statuaria di Policleto alla gamba in riposo corrispondeva il braccio in tensione e viceversa, secondo lo schema incrociato che abbiamo visto nell’Efebo Westmacott. Lisippo spartisce invece la funzione delle membra secondo la linea mediana del corpo: se la metà sinistra è in riposo, la destra è in tensione, o viceversa; la testa è sempre rivolta dalla parte del corpo rilassata. Nel Bronzo Getty questo carattere appare con una purezza che sarebbe difficile riconoscere nelle successive creazioni ellenistiche. All’ininterrotta tensione del lato destro, che comprende la gamba portante ed il braccio che solleva la corona, fa riscontro il rilassamento del lato sinistro, dove la gamba è liberata dal peso del corpo ed il braccio abbassato asseconda il lieve peso della palma: la testa, volgendosi da questa parte, sembra trasmettere la tensione concentrata nel lato destro alle membra inerti. Da ciò deriva la provvisoria stabilità del corpo, la sua potenziale mobilità: in termini psicologici, la promessa di un nuovo cimento, quell’inquietudine che Lisippo aveva fermato nell’immagine di Alessandro. La compensazione dei movimenti, l’equilibrio dei pieni e dei vuoti, la sensazione di uno spazio ricavato in forme complementari ed armoniche, rinviano al calcolo matematico ed alla costruzione geometrica, che si praticavano a Sicione come fondamento della composizione (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 76 sg.), e che Lisippo avrebbe sviluppato, trasmettendone il gusto al figlio Euticrate (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 66). La statua è costruita con una perfetta coscienza dello spazio. La gamba portante non è rigida, ma è il perno su cui ruota la figura verso sinistra: se ne avverte la torsione nella veduta posteriore. La coscia sinistra è portata avanti, ma il piede finiva molto indietro per la profonda flessione del ginocchio, e insieme la gamba allarga l’impianto della figura spostandosi lateralmente. Il braccio destro è dislocato rispetto alla spalla non solo lateralmente, ma anche in avanti, ripiegandosi poi al gomito verso l’alto e l’interno. Il braccio sinistro è abbassato e insieme scostato dal tronco, formando con la curva rientrante del fianco una «mandorla» che dobbiamo immaginare percorsa dalle fronde vibranti della palma. Allo stesso modo, l’Eracle in riposo, nel tipo del bronzetto da Sulmona al Museo di Chieti, abbandona il braccio discosto dal fianco sinistro, contornando col gesto avvolgente della mano la pelle leonina. La completa immersione nello spazio rende l’immagine sensibile alle condizioni dell’atmosfera ed al fattore della distanza. Il bronzo offre infiniti appigli alla luce nell’articolazione delle membra, nel modellato della muscolatura, in quelle dita aperte, nelle foglie della corona. In qualche modo l’opera è volta a realizzare nella plastica gli effetti della pittura, e noi sappiamo che Lisippo era stato avviato all’arte da Eupompo (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 62), che egli usava confrontare i propri disegni con quelli di Apelle (Sinesio, Epistulae, I) e che il suo discepolo Eutichide era anche pittore (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 140).

Questa disponibilità allo spazio e alla luce, che dà alla figura i connotati della vita e della realtà storica, non è d’altra parte incontrollata. Secondo il giudizio pliniano (Naturalis Historia, XXXIV, 65), «l’espressività è serbata fin nei minimi particolari» con un continuo controllo. Il mutamento degli assi della figura e la varietà degli effetti di luce sono ricondotti all’unità dalla cura con cui l’autore ha valorizzato i motivi di continuità plastica da una sezione all’altra delle membra e del tronco. È difficile dire quanto si sia allontanato per questo dal modello naturale. Ma certe incidenze di luce che dai tendini alla mano guizzano all’avambraccio e fin quasi alla spalla, dalle gambe all’addome, o dal petto al collo lunghissimo, ci parlano del superamento del vero per la realizzazione di un programma formale. Quando Lisippo affermava di rappresentare gli uomini non quali sono, ma quali sembra che siano (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 65), traduceva infatti la formulazione aristotelica della poesia, come quella che crea le immagini delle cose non come sono, ma come sembra al poeta che possano essere (Aristotele, Poetica, 1460b, 10). Una componente intellettualistica è la ragione dell’ambiguità che avvertiamo di fronte al Bronzo Getty tra il modello naturale e lo schema entro il quale la figura è stata condotta. Quando Lisippo aveva dichiarato di riconoscere come proprio maestro il Doriforo, intendeva appunto che la creazione dipende non solo dalla natura, ma anche dalle precedenti operazioni artistiche (Cicerone, Brutus 296).

Policleto, Figura maschile stante (detta «doriforo»). Statua, copia di età romana in marmo dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Qual è dunque nel Bronzo Getty il motivo sotteso alla visione del vincitore di Olimpia? Perché il giovinetto ci appare in qualche modo trasfigurato? L’atleta che s’incorona nello schema lisippeo non è isolato. La stele di Plauzio al Museo di Nizza, proveniente dal Pireo e riferibile al II secolo, mostra il defunto come atleta nel medesimo schema del Bronzo Getty, con la palma nella sinistra. Un’altra stele incompiuta del Museo Nazionale di Atene conferma la fortuna del tipo nel primo secolo dell’impero. Dalle Terme di Faustina a Mileto proviene infine una statua di marmo pario del Museo di Istanbul che rappresenta una perfetta replica del tipo a tutto tondo. È indicativo che la figura sia sostenuta da un’Erma di Eracle, come allusione all’atleta per antonomasia. Attorno al 300 i didracmi d’argento di Eraclea in Magna Grecia mostrano infatti un tipo di Eracle giovane che s’incorona analogo al Bronzo Getty per la ponderazione, il gesto delle braccia ed il movimento della testa: nella sinistra è la clava abbassata, mentre la pelle di leone annodata per le zampe sul petto ed agitata attorno alla figura ne accentua i valori pittorici. Un secolo più tardi il tipo statuario di Eracle che s’incorona appare sui tetradracmi d’argento di Demetrio I re della Battriana in uno schema ancor più vicino al Bronzo Getty, perché la figura è nuda, e la pelle di leone è raccolta sul braccio sinistro dove la clava è tenuta nella medesima posizione della fronda di palma. Una statuetta in marmo italico e la figura di Eracle in un rilievo votivo con dedica alle Ninfe, entrambi ai Musei Vaticani, confermano la continuità di questo tipo di Eracle in età imperiale. Anche la figura che s’incorona nello schema policleteo si ritrova come Eracle in una statuetta ad Oxford, ma le testimonianze più antiche che abbiamo osservato mostrano che il tipo è nato per il soggetto atletico e solo secondariamente è stato adottato per figure mitologiche e personificazioni, come il Pan sulle monete dei Bruzzi nel III secolo e l’Eros Enagónios della prima metà del II secolo. Al contrario, le monete di Eraclea mostrano che la figura che s’incorona nello schema lisippeo ha una fortuna parallela nel soggetto mitico e in quello atletico. Potremmo così fornire una spiegazione iconologica alla sensazione che la statua, nella sua apparente naturalezza, fosse intesa non tanto alla celebrazione di un comune cittadino, ma all’esaltazione dell’esponente di una famiglia che avesse un ruolo politico. Il Bronzo Getty potrebbe rappresentare il momento originale dell’impatto del soggetto storico con l’immagine eroica, un’iniziale ipotesi.

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Articoli recenti sulla vicenda del Bronzo Getty:

http://www.cultura.marche.it/PortalDefault.aspx?Area=Info&cset=id=1355,fn=ENTRY_ShowInfoDetails,idInfo=3010,idNode=850

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/11_Novembre/14/panza.shtml

http://www.corriere.it/cultura/10_febbraio_11/confiscata-statua-lisippo_367805aa-1704-11df-a022-00144f02aabe.shtml

http://www.ilgiornale.it/news/lisippo-conteso-gip-ordina-confisca-negli-usa-getty-museum.html

http://www.artemagazine.it/archeologia/16158/perche-la-cassazione-tace-sul-bronzo-di-fano-al-getty/

http://www.ilrestodelcarlino.it/fano/cronaca/2014/02/25/1031196-lisippo-cassazione-procuratore-confisca.shtml

Il mito del classico

di F. Gualdoni, in Arte classica, Milano 2007, pp. 7 sgg.

Nel 1503 il papa Giulio II Della Rovere incarica Donato Bramante di incorporare nel Palazzo Vaticano il contiguo casino del Belvedere: l’ampio cortile è destinato a ospitare una collezione esemplare di sculture antiche, e a divenire ben presto celebre in Europa come il “Cortile delle statue”. La scelta fa parte del progetto papale di stabilire il carisma del proprio potere radicandolo nel passato più illustre. Il colle Vaticano stesso era in antico luogo di vaticini etruschi, poi sacro ad Apollo; dalla finestra aperta sulla parete del Parnaso di Raffaello qualche anno dopo si vedranno le sculture antiche del Belvedere, in continuità tra antico e moderno; il corridoio che porta al cortile recherà incise le parole virgiliane della Sibilla Cumana «Procul este, profani» (“State lontani, profani”) e le sibille affiancheranno i profeti nella Sistina di Michelangelo… è tale sovranità sacrata, in cui l’antico si proietta nell’attualità e in un potere che si vuole universale, che da subito celebrano Francesco Albertini nel suo Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis, 1510, e Andrea Fulvio in Antiquaria Urbis, 1513, oggi documenti preziosi, allora veri e propri manifesti di cultura e potere. È, questo, il momento culminante della mitizzazione dell’arte classica, e contemporaneamente l’avvio della riscoperta e dello studio dell’arte greca e romana. In effetti, nessuna vicenda storico-artistica presenta, nella cultura occidentale, uno scambio così fitto, duraturo e reciprocamente stimolante tra costituzione di un modello culturale e conoscenza storica dei suoi presupposti.

Già nella Roma repubblicana, forte della conquista della Magna Grecia, della Sicilia e della stessa madrepatria greca, compiuta nel 146 a.C., la cultura dell’oraziano «Graecia capta ferum victorem cepit» (“La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore”) diventa allo stesso tempo moda e modello, gusto e paradigma: classicus è sinonimo del meglio, dell’oggetto di imitazione e di ispirazione costante, pena la deriva dalla qualità suprema e insuperabile, pena la lontananza dalla bellezza assoluta.

In quel tempo, in seno alle cerchie ellenizzanti che prime danno vita al nucleo sorgivo della cultura classica, la Grecia delle arti è già, più che una realtà storica un’idea sconfinante nel sogno, il bisogno di un modello che incontra i propri riscontri, piegandoli al proprio desiderio. La vivente arte ellenistica e Fidia, Zeusi e Lisippo, vi si amalgamano in un unico orizzonte ideale, del quale il primato di Atene è mito nel mito, ed entro il quale s’intessono nozioni effettive e desideri tutti nuovi che da quel mito traggono garanzia. Così, nel I secolo d.C., ne scrive Plinio il Vecchio nei libri XXXIV-XXXVI della Naturalis Historia, prima ampia trattazione che rappresenta ancor oggi una fonte preziosa di informazione e un materiale straordinario di riflessione; così si desume dalla Periegesi della Grecia di Pausania, erudito greco del II secolo d.C.

L’umanesimo che marca il trapasso dal Medioevo al Rinascimento si radica esattamente in quel mito, raddoppiandolo con il mito congenere della grandezza di Roma antica, e con il desiderio di rinnovarne i fasti. Atene e Roma incarnano, dal Rinascimento a oggi, il culmine definitivo della bellezza e della grandezza: sarà Edgar Allan Poe, in To Helen, a sintetizzare tutto ciò nel distico celeberrimo «To the glory that was Greece, / And the grandeur that was Rome» (“Alla gloria che fu la Grecia, / Alla grandiosità che fu Roma”).

Statua dell'Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Musée du Louvre
Ermafrodito dormiente. Statua, copia romana in marmo di II secolo da un originale di età ellenistica. Restauri di David Larique (1619), riadattamento di Gian Lorenzo Bernini (1620). Paris, Musée du Louvre.

È l’umanesimo a rileggere e rielaborare, ben più che filologicamente, l’idea dell’antichità come antichità classica. Ed è l’umanesimo, tra Venezia e Roma, a offrirci i primi esempi significativi di collezionismo e studio delle antichità greche e romane. Nei gabinetti antiquari degli intellettuali dell’epoca si accumulano, pur in assenza di qualsiasi prospettiva storica e sistematica, monete e vasi, bronzetti e frammenti scultorei e architettonici dell’antico, a comporre delle Wunderkammern, le eclettiche ed esotiche stanze di meraviglie allora in voga, sempre più specialistiche.

Possedere questi oggetti significa poterli studiare, ma allo stesso tempo – com’è da sempre nella ragione stessa del collezionare – partecipare della loro sacralità, facendosi irradiare dal loro potere carismatico. L’oggetto antico, l’oggetto classico, proietta sul possessore le proprie virtù: dunque, lo rende partecipe della medesima grandezza e bellezza della quale è portatore, testimoniandone allo stesso tempo l’eccellenza nei confronti della società.

Non è un caso, in questa prospettiva, che i papi più sensibili e arguti del XV secolo facciano delle raccolte di antichità lo strumento di una renovatio Romae che si vuole allo stesso tempo restituzione della città alla sua grandezza urbana e monumentale, e rifondazione ideologica di un’unità di tipo imperiale garantita dall’eredità atavica: concetto, questo, che avrà in seguito lunga e controversa fortuna, sino al Fascismo.

Lupa Capitolina. Originale etrusco del V secolo a.C. modificato nel '500 con l'aggiunta dei gemelli. Bronzo, Musei Capitolini
Lupa Capitolina. Statua, bronzo, originale etrusca del V secolo a.C. con aggiunta cinquecentesca dei Gemelli. Roma, Musei Capitolini.

Già nel cuore del Quattrocento papa Paolo II Barbo raccoglie un’importante collezione di antichità nel romano Palazzo di Venezia. Dopo di lui, sarà Sisto IV Della Rovere, nel 1471, a donare un gruppo fondamentale di sculture fino a quel momento collocate davanti al Patriarchio lateranense – rappresentando così proprio la continuità tra la Roma imperiale e il potere temporale della Chiesa – alla città e a farle collocare al Palazzo dei Conservatori, primo nucleo dei Musei Capitolini, i quali possono ben vantare il titolo di primo museo pubblico della storia: la Lupa (alla quale nel Cinquecento sono state aggiunte le figure di Romolo e Remo), lo Spinario, il Camillo, il Costantino, simboleggiano la nuova Roma che, grazie al papato, torna agli antichi fasti di prima città del mondo. È poi con Alessandro VI Borgia che l’attività di scavo di antichità, sino a quel momento sporadica, prende a farsi sistematica, a partire dai primi ritrovamenti alla Villa Adriana di Tivoli: sarà un suo discendente, Ippolito II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia, a dare un impulso determinante agli scavi di Tivoli intorno al 1550, assistito dal dotto Pirro Ligorio.

Negli stessi anni, non meno intensa è l’opera di studio, imitazione e reinvenzione del classico da parte delle nuove generazioni artistiche. Esemplare è il caso della corte mantovana dei Gonzaga, dove la passione antiquaria è alla base del progetto dello studiolo di Isabella d’Este, in cui il collezionismo d’antichità si incrocia con le invenzioni classiche di Andrea Mantegna e con le copie, le citazioni e le reinvenzioni scultoree di Pier Jacopo Alari Bonacolsi, che gli valgono l’appellativo di “l’Antico”: questi, tra l’altro, darà anche precoce testimonianza dell’uso di intervenire con restauri estetizzanti sulla scultura classica, firmando a Roma un intervento sui Dioscuri del Quirinale.

L’effetto del Cortile del Belvedere sulla cultura europea è dirompente. La chiave di lettura non è, tuttavia, quella del riconoscimento dell’antico, bensì la sua equivalenza immediata nel contemporaneo: non si tratta di conoscere l’altro distante, ma di inglobare, quasi in una forma di amorevolmente feroce cannibalismo, il modello e nutrirsene per creare l’arte del presente, dotata di pari prestigio e senso della bellezza.

Che Michelangelo assuma il Laocoonte (l’opera che Plinio definiva «tra tutti i dipinte e le sculture, il più degno di ammirazione»), scoperto nel 1506 e subito collocato al Belvedere, a modello anatomico, identificandovisi al punto che, in tempi recenti, si è potuto addirittura sostenere – in modo peraltro del tutto fallace – che egli ne sia l’inventore stesso; che Bramante indica una vera e propria gara per realizzarne modelli per la fusione in bronzo, tra i quali Raffaello giudica quello di Jacopo Sansovino come il più meritevole; che poco più di dieci anni più tardi la copia marmorea eseguita da Baccio Bandinelli – il quale risiede e ha studiato al Belvedere stesso, così come Bramante, Sansovino, l’orafo Caradosso, e per un certo periodo Leonardo – sia ambita da Francesco I di Francia; che due repliche bronzee figurino da subito nella “grotta” di Isabella d’Este: tutto ciò, oltre ai risarcimenti diversi e alle varianti che di replica in replica rendono appassionante la vicenda iconografica dell’opera, dice quanto l’antico, testualmente o per elaborazione concettuale, sia argomento vivo del dibattito artistico cinquecentesco, e altrettanto quanto il possesso di un exemplum classico abbia valore carismatico presso le maggiori corti europee.

Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Sarà ancora Michelangelo, d’altronde, a dare la propria impronta alla re-mitizzazione del classico con la collocazione in Campidoglio della Statua equestre di Marco Aurelio a far da perno concettuale, su un nuovo basamento, alla sistemazione di tutta la piazza. E va ricordato che i suoi Prigioni saranno esposti un secolo dopo nella collezione del cardinal Richelieu fianco a fianco alle sculture antiche.

Possedere originali, possedere repliche, possedere copie d’après. Con una gradazione infinita di differenze, è tra queste tre pulsioni che si gioca la vicenda dell’arte classica.

Parallele alle collezioni capitoline, ulteriormente arricchite a partire dal 1566, e a quelle papali, si formano cospicue collezioni private, tra le quali spiccano la Cesi, la Cesarini, la Della Valle, cui inoltrandoci nei due secoli successivi altre se ne affiancheranno, fondamentali per la storia artistica, dalla Medici alla Farnese, dalla Ludovisi alla Borghese, dalla Giustiniani alla Odescalchi, dalla Pamphili alla Albani, seguendo i saliscendi delle fortune delle grandi casate aristocratiche.

Collezionismo, d’altronde, significa anche mercato. A questo proposito, tiene conto  ricordare che proprio per l’acquisto del Laocoonte si scatena una feroce contesa nella quale Giulio II deve risolversi a far valere il proprio potere, ma anche  che, per tutto il Seicento e il Settecento, saranno più l’iconografia e la fama delle opere, piuttosto che la loro qualità intrinseca, a determinarne il prezzo: né è inusuale che siano esponenti della stessa casata nobiliare che colleziona a farsi protagonisti del mercato, reperendo, comprando e vendendo, come accadrà agli Albani.

Agesandro, Atanodoro e Polidoro (Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana del I secolo d.C. da un originale bronzeo del 150 a.C. ca.
Agesandro, Atanodoro e Polidoro (o Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana in marmo di I secolo da un originale bronzeo del 150 a.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

È proprio la spinta del mercato a espandere rapidamente anche l’attività di restauro dei pezzi antichi ritrovati. Il concetto di restauro come restituzione e completamento dell’opera, da allora assai diffuso, nasce, oltre che dall’assenza di una consapevolezza filologica, anche dalla labilità dei confini, tipica del tempo, tra arte contemporanea e arte antica. La famiglia Della Porta annovera scultori, mercanti (autori di importanti vendite alla collezione Borghese) e restauratori, e sarà uno dei suoi esponenti, Guglielmo, a por mano all’Ercole Farnese.

Dai primi del Seicento si rendono protagonista di tale tipo di restauri (che meglio descrive il termine francese rénovation) molti autori, anche di primo piano. Nel 1609 Nicolas Coridier restaura le Tre Grazie e altre opere della collezione Borghese, e un decennio dopo sarà Gian Lorenzo Bernini, reduce dal successo della Capra Amaltea scambiata per antica, a rielaborare l’Ermafrodito per il mecenate Scipione Borghese, restaurandolo e aggiungendovi il materasso.

Di lì a poco, nel 1626, un altro astro del firmamento scultoreo, Alessandro Algardi, assumerà l’esclusiva dei restauri delle opere antiche della collezione Ludovisi, succedendo a Ippolito Buzio: nel 1633 alle sue mani sarà affidato anche il ripristino delle centoventidue sculture acquistate a Roma dal cardinal Richelieu, prima del loro trasferimento in Francia.

Alla metà del secolo addirittura vi è chi cerca di stabilire pionieristicamente le norme per il restauro. Si tratta di Orfeo Boselli, le cui Osservazioni della scoltura antica, 1642-1663, hanno il carattere di vero e proprio trattato. Tant’è. Ancora per molti decenni, e sino all’affermarsi della consapevolezza storica moderna, il restauro sarà vissuto come una forma di creatività e di ricreazione, tale da condizionare in modo decisivo il formarsi dell’idea di classico così come poi verrà normata da Winckelmann e dai suoi seguaci.

Laddove non si acquisiscano originali – pratica che, nel primo Seicento, raggiunge un tal grado di intensità da far imporre, nel 1624, severe restrizioni all’esportazione di opere antiche da Roma, e da render necessaria per gli scavi di una licentia extraendi da parte del Camerlengo del papa – è ritenuto necessario presso le corti e l’aristocrazia internazionale, in Francia al pari che in Inghilterra e in ambito tedesco, ottenere calchi e repliche fedeli. Perso il Laocoonte di Baccio Bandinelli (che perverrà alle raccolte medicee), e solo parzialmente risarcito con la copia dello Spinario eseguita da Benvenuto Cellini e donatagli nel 1540 da Ippolito II d’Este, l’italianizzante Francesco I invia a Roma il fedele Primaticcio per far eseguire calchi delle maggiori sculture classiche, dalle quale trarre bronzi per Fontainbleau. Sono, questi calchi, i capostipiti di una vera e propria industria dei gessi e delle copie che, nel volgere di pochi decenni, dilagherà per tutta l’Europa, riproducendo con relativa fedeltà modelli iconografici e suggestioni stilistiche che, con il passar del tempo, assumeranno un valore ideologico fortissimo, sino al costituirsi delle collezioni di modelli nell’ambito delle accademie e delle scuole d’arte.

In ogni caso, il primo originale classico a lasciare Roma per la Francia sarà la Diana cacciatrice, copia romana di un originale del IV secolo a.C., donata nel 1554 da papa Paolo IV Carafa a Enrico II, e subito, a sua volta, oggetto di repliche. Giusto un secolo dopo, nel 1649, sarà Diego Velásquez ad affrontare un viaggio romano per provvedere di calchi la corte di Filippo IV di Spagna.

Il Seicento è, in generale, il secolo della diffusione internazionale di un numero di originali, di copie e di stampe di traduzione tale da omologare una sorta di visione del classico in cui sono indistinguibili – né, d’altronde, importa distinguere – il tratto originale dall’interpretazione posteriore, lo stile dalla stilizzazione. D’altronde, la mancanza di distinzione tra severità dell’arte antica d’epoca più alta e drammaticità dell’ellenistica, tra formalismo greco e realismo romano, in quel momento accomunati nell’unico ideale classico, colma lo iato tra persistenze classiciste e folate barocche che contraddistingue il dibattito artistico del secolo, garantendo a entrambe le posizioni i necessari quarti di nobiltà.

Da segnalare è inoltre, in questo periodo, il diffondersi di una vera e propria moda del classico in Inghilterra e in Francia. Oltremanica, pioniere e santone della riscoperta dell’antico è Lord Arundel, leggendario collezionista che nel suo viaggio italiano del 1613-1614 conduce con sé il pupillo Inigo Jones, primo grande architetto classicista in Inghilterra, e nella cui raccolta confluiscono ben centosessantacinque pezzi antichi. Nel secolo successivo, collezionista principe sarà Charles Townley. In Francia a fianco delle raccolte reali (le sculture dei giardini di Versailles sono una sorta di fior fiore dell’arte classica, in copia) si segnalano quelle di Richelieu, che arriva a possedere quattrocento pezzi originali, e del cardinal Mazzarino. Nel 1666 viene istituita su iniziativa di Lebrun e Colbert l’Académie de France a Roma: il Prix de Rome, grazie al quale i migliori tra i giovani pittori e scultori vengono inviati a Roma a formarsi nel confronto diretto con l’antico, durerà sino al 1968.

Così, mentre ancora la sensibilità artistica non fa alcuna distinzione tra classicità effettiva e trasognato ideale classico, cosicché può accadere che François Girardon, scultore prediletto di Luigi XIV, nel 1684 trasformi la statua mutila scoperta nel 1651 ad Arles in una Venere con braccia, specchio e pomo, una svolta ulteriore al mito del classico è impressa dall’affermarsi e dal diffondersi della moda del Grand Tour.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La cultura del Grand Tour prende avvio dalla pubblicazione in Inghilterra nel 1670, e subito dopo in Francia, nel Voyage of Italy, or a Complete Journey through Italy di Richard Lassels, di lì a poco, 1691, affiancato da resoconti come il Nouveau Voyage d’Italie di François-Maximilien Misson. Si tratta di un vero e proprio pellegrinaggio, compiuto da aristocratici e intellettuali, nei luoghi del classico: Firenze, Venezia, ma soprattutto Roma e Tivoli, e di lì a poco il Mezzogiorno, l’antica Magna Grecia e la Sicilia. Un effetto moltiplicatore esercita, su tale voga, l’avvio degli scavi sistematici, deciso dai Borbone, di Ercolano, 1738, e Pompei, 1748, asseverati nel 1757 dalla pubblicazione del primo volume delle Antichità di Ercolano. Moda nella moda, per lunghi decenni un “gusto pompeiano” circolerà tra gli ambienti intellettuali, e non solo, d’Europa. Va ricordato peraltro che, prima di quelle date, solo le cosiddette Nozze Aldobrandini, scoperte nel 1606, erano documento significativo della pittura romana.

Sempre meno mere elencazioni di mirabilia, tali opere letterarie e grafiche sono vere e proprie esperienze conoscitive, in cui il pittoresco e l’esotico lasciano luogo a una repertoriazione agguerrita di dati storici e artistici, che tra Settecento e Ottocento consentirà il diffondersi, a mezzo stampa, di una messe iconografica imponente, e di alcuni non banali tentativi di comprensione sistematica dei materiali.

Attorno al fenomeno del Grand Tour si coagula inoltre una ulteriore ondata collezionistica, in cui alla pittura di paesaggio e alla moda dei capricci pittorici con rovine si affianca un fitto scambio di materiali originali, legalmente o illegalmente esportati, soprattutto in Inghilterra e in area tedesca. Ancora una volta a far da padrone è, in questo ambito, la figura dell’artista, che a un tempo svolge la funzione di restauratore e di mercante. È il caso di Giovan Battista Piranesi, restauratore e mercante oltre che autore di fondamentali incisioni documentarie e d’invenzione di antichità e monumenti; di Bartolomeo Cavaceppi, collezionista, restauratore e catalogatore, cui si deve l’importante repertorio Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite…, 1769-1772, attivo nella cerchia del cardinale Alessandro Albani e alla base della collezione Torlonia; di Vincenzo Pacetti, incaricato tra l’altro del restauro e dell’ordinamento della collezione Giustiniani. È il caso, soprattutto, di Gavin Hamilton, esempio perfetto del nuovo vento di moda classicheggiante che spira in Inghilterra, dalla quale si trasferisce a Roma nel 1756: buon pittore, è soprattutto archeologo e mercante delle proprie scoperte. Più che di un mero gusto esotico, il Grand Tour è padre, s’è detto, del maturare di un atteggiamento antiquario consapevole dell’importanza di una conoscenza diretta, verificata, delle opere antiche.

Nel 1722 i pittori inglesi Jonathan Richardson padre e figlio pubblicano Account of Some of the Statues, Bas-Reliefs, Drawings, and Pictures in Italy, in cui la filosofia diaristica del voyage comincia a trasformarsi in una documentazione sistematica e accurata, con implicazioni storico-artistiche in nuce.

Nel 1734 sono «dei gentlemen che avevano viaggiato in Italia», secondo le parole di Richard Chandler, a fondare a Londra la Dilettanti Society, emula della Society of Antiquaries of London nata nel 1718, che ha lo scopo di finanziare e patrocinare viaggi di studio che dall’Italia meridionale si estendono infine al mondo greco, sino a quel momento trascurato in quanto considerato parte di un Oriente d’umore esotico. Tra il 1769 e il 1800 Chandler pubblica le Antiquities of Ionia e nel 1776 i Travels in Greece. Prima di lui, James Stuart e Nicholas Revett, sempre su iniziativa dei Dilettanti, lavorano a The Antiquities of Athens, edite dal 1762, riproduzioni grafiche accurate, rigorosamente misurate, delle rovine d’Atene, e in particolare dell’Acropoli. Negli stessi anni, peraltro, Julien-David Leroy pubblica a Parigi Les Ruines des plus beaux monuments de la Grèce, 1758, di intento affine.

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Musée du Louvre
Leocare, Diana cacciatrice. Statua, copia romana in marmo di un originale greco di IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Sulla scia di questo approccio positivo e metodologicamente orientato si muovono anche due nobili siciliani, Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, al quale si devono la costituzione di un vero museo «publicae utilitati / patriae decori / studiosorum commodo», inaugurato dal principe nel 1758 nel suo palazzo in Catania, e un Viaggio per tutte le antichità di Sicilia e Calabria, 1781; e Gabriele Lancillotto Castelli principe di Torremuzza, il quale redige nel 1764 l’Idea di un tesoro che contenga una generale raccolta di tutte le antichità di Sicilia, preziosa e precoce intuizione sistematica.

Ben poco tali tentativi hanno a che fare con esperimenti enciclopedici ancora compilatori, come L’Antiquité expliquée, 1719-1724, di Bernard de Montfaucon, e come il Recueil d’antiquités égyptiennes, grecques, étrusques et romaines di Anne Claude Philippe de Tubières, conte di Caylus, i cui sette tomi, usciti tra il 1752 e il 1767, sono responsabili del diffondersi di un antico indiscriminato come fattore di moda imitativa.

È in questo clima, e forte di un nutrimento filosofico altrove assente, che irrompe la figura cruciale nella conoscenza e nello studio dell’antico. Johann Joachim Winckelmann, fondatore della moderna storia dell’arte e dell’archeologia, è colui che elabora il primo autentico tentativo di comprensione e di sistemazione dell’arte antica, soprattutto greca, e che allo stesso tempo conferisce dignità intellettuale proprio al mito del classico.

Trasferitosi a Roma nel 1755 e divenuto bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, Winckelmann è autore dei fondamentali scritti Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura), 1755, e Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte nell’antichità), 1764.

L’opera d’arte deve, per lui, essere sottoposta ad analisi testuali e comparative, che ne facciano emergere i rapporti con il contesto ambientale, storico e culturale in cui fu prodotta, grazie al quale definirne i caratteri estetici. È, per la prima volta, un’idea di arte in prospettiva storica. Carattere tipico dell’arte greca – che peraltro Winckelmann studia e differenzia dalla romana, sebbene basandosi solo su materiali romani – è il perfetto dominio delle passioni e del disordine, quella «nobile semplicità e serena grandezza» derivante ai Greci dalla bellezza etica e civile che ne fece i campioni della libertà. La bellezza dunque è bellezza insieme fisica e morale, una sorta di condizione sorgiva e, in Grecia, naturale: è a quella condizione primigenia che il Rinascimento si è avvicinato, a quella ancora l’arte deve tendere, in un’imitazione che superi il mero aspetto formale. E per vero Anton Raphaël Mengs, sodale e artista preferito da Winckelmann, ben più al classicismo raffaellesco che al «gusto greco» guarda, nella sua copiosa produzione.

Al di là delle ramificazioni di dibattito culturale che faranno di Winckelmann il patrono del neoclassicismo in via d’affermazione (Denis Diderot sostiene peraltro che bisogna «peindre comme on parlait à Sparte», dove con il «dipingere come si parlava a Sparta» intende il mito classico come etica eroica della pittura), soprattutto le sue riflessioni sullo stile e sul metodo indicano il mutato approccio in termini di cultura archeologica. Da subito, ad esempio, una diversa sensibilità nei confronti del contesto in cui le opere si inseriscono, e del quale lo scavo e il prelievo indiscriminato rappresentano delle lacerazioni, affiora tanto nelle riflessioni di Cavaceppi, amico dello studioso tedesco, sia, che soprattutto, in quelle successive di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, le cui Lettres à Miranda, redatte nel 1796, rappresentano una denuncia lucida e appassionata contro la rimozione dei capolavori dal loro contesto originario da parte di Napoleone.

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Marmo, 1621. Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Gruppo scultoreo, marmo, 1621. Roma, Galleria Borghese.

Tra i resoconti illustrati di fine Settecento vanno ricordati ancora, per il loro impatto in termini di diffusione iconografica, il Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicilie, in cinque volumi e 411 tavole, 1781-1786, di Jean-Claude Richard Abbé de Saint-Non, che si avvale delle indicazioni di Dominique Vivant Denon, il quale sarà direttore dei Musei di Francia in età napoleonica, e Travels in the Two Sicilies in the Years 1777, 1778, 1770 and 1780, di Henry Swinburne, 1783. Di intento più metodologicamente schiarito è Reise durch Sicilien und Grossgriechenland (Viaggio in Sicilia e Magna Grecia), di Johann Hermann von Riedesel, 1771, la cui dedica all’amico Winckelmann indica una ben precisa collocazione culturale.

Tuttavia gli eventi degli ultimi decenni del secolo sono di segno differente. Mentre, nello stretto ambito della produzione artistica e in quello del gusto, il goût grec indica forme accentuatissime di idealizzazione e di reinterpretazione (si pensi al successo ottenuto da John Flaxman con le sobrie e composte illustrazioni per l’Iliade, 1793, e l’Odissea, 1795; si pensi alla scultura canoviana), sul piano della conoscenza è proprio il modello museale, erede ed emulo del collezionismo papale e aristocratico, a prevalere su ogni ragionamento di contesto e di studio comparativo.

Il British Museum, inaugurato a Londra nel 1759, nel 1772 si arricchisce della collezione di vasi greci e di oggetti classici. Ma è soprattutto il Louvre, nell’epoca che segna il trapasso dalla Rivoluzione all’impero napoleonico, a incarnare esemplarmente il concetto di museo di paradigmi storici, di modelli eccellenti il cui valore civile sia educativo verso il popolo, e carismatico per il regnante.

Nel 1791 un decreto dell’Assemblea destina la residenza reale del Louvre alla «riunione di tutti i monumenti delle scienze e delle arti»: aperto due anni dopo, gratuito, esso è visitabile sempre dagli artisti, e il fine settimana dal pubblico. L’ascesa di Napoleone coincide con il trascolorare del senso civile dell’operazione, e con l’imporsi esclusivo del modello imperiale. Nel 1796, a conclusione della campagna d’Italia, tra le clausole d’armistizio Napoleone impone la cessione di cento opere, scelte discrezionalmente tra le collezioni italiane, da trasferire al Louvre. L’operazione ha un valore ideologico straordinario, implicando simbolicamente e concretamente il passaggio dall’eredità culturale dell’antica Grecia e del retaggio imperiale romano a Parigi.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese.

Aperto il 9 novembre 1800 nel vecchio appartamento di Anna d’Austria, il Musée des Antiques eredita dalle collezioni romane anche i criteri di ordinamento, affidati a Ennio Quirino Visconti, già conservatore a Roma del Museo Capitolino e figlio di quel Giovan Battista Antonio Visconti cui si deve la riorganizzazione del Museo Pio-Clementino in Vaticano, peraltro assai caratterizzato anche architettonicamente in senso classico dagli interventi di Michelangelo Simonetti. Frutto del soggiorno parigino del Visconti saranno anche studi fondamentali come Iconographie grecque, 1808-11, e il primo volume di una Iconographie romaine, 1817.

Nel 1807 Napoleone arricchisce ulteriormente il museo con l’acquisizione di molte opere della collezione Borghese, grazie al legame di parentela stabilito dalla sorella Paolina, moglie di Camillo Borghese. Quando nel 1815, alla caduta dell’imperatore, i suoi bottini di guerra verranno restituiti ai legittimi proprietari, sarà Antonio Canova a occuparsi delle antichità italiane: i Cavalli di San Marco, giunti a Venezia dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204, tornano nella città lagunare, e le collezioni vaticane, capitoline e medicee vengono reintegrate.

Per effetto imitativo, il Langravio Federico II tra il 1769 e il 1779 fa edificare il Museum Fridericianum a Kassel, su progetto dell’architetto Simon Louis du Ry, di cultura neopalladiana, e Ludovico I di Baviera immagina di fare di Monaco l’«Atene tedesca», commissionando nel 1815 a Leo von Klenze la costruzione della Glyptothek, che si inaugurerà nel 1830. Il gioiello della sua collezione, che nei primi anni del secolo si arricchisce notevolmente, è il frontone del tempio di Aphaia a Egina, che nel 1812, secondo l’uso invalso, lo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen, di lunghe frequentazioni romane, sottopone a restauro.

Il 1830 è anche l’anno dell’inaugurazione dell’Altes Museum di Berlino, voluto da Federico Guglielmo III e progettato dal grande architetto Karl Friedrich Schinkel. È in questi musei e nel loro citare elementi del tempio greco, a cominciare del frontone e dalle colonne, che si afferma il paradigma, poi divenuto stereotipo, del museo come tempio, come luogo sacro dell’arte e della sua celebrazione.

Sarà nella seconda metà del secolo, dopo il 1871, che una serie sistematica di scavi archeologici, in cui ragioni scientifiche e motivi di competizione coloniale con Francia e Inghilterra si intersecano strettamente, arricchirà notevolmente i musei berlinesi, a partire dall’Altare di Pergamo, scavato tra 1878 e 1886. A segnare la prima metà dell’Ottocento sono due fattori, l’incremento cospicuo delle conoscenze e il maturare di una più salda consapevolezza storica.

Da un lato, più di frequente le campagne di scavo si estendono verso la Grecia di madrepatria e il Vicino Oriente – oltre che, dopo le campagne napoleoniche, l’Egitto – per incrementare lo studio delle opere originali in situ e per aumentare parallelamente la quantità dei materiali collezionistici, pubblici e privati. Sino alla fine del Settecento, il repertorio di opere conosciute, nella quasi totalità di provenienza italiana, aveva nutrito un mito classico fatto di repliche e di imitazioni, oltre che di un’accentuata attenzione iconografica. Di ciò è documento eloquente uno degli ultimi tentativi eruditi del tempo, il Musée de Sculpture antique et moderne, contenant una suite de planches au trait relatives à la partie technique de la sculpture…, monumentale opera in 13 volumi che il conte di Clarac e Alfred Maury pubblicano tra il 1826 e il 1853. Solo gli scavi – e tecniche di scavo non improvvisate, non volte solo alla ricerca del capolavoro – secondo la nuova consapevolezza possono portare significative evoluzioni negli studi e nella conoscenza. In effetti, se si eccettua l’identificazione di una copia marmorea del Discobolo di Mirone, nel 1781, l’ampliamento della conoscenza dell’arte greca è merito tutto delle campagne del primo Ottocento. Dal 1801 Edward Daniel Clarke, archeologo e viaggiatore, compie un periplo della Grecia, riportandone una raccolta di circa 2000 pezzi: i suoi marmi antichi entreranno nella collezione del Fitzwilliam Museum di Cambridge.

Nel 1806 Thomas Bruce, più conosciuto come Lord Elgin, porta in Inghilterra dalla Grecia parte del fregio, 15 metope e 17 figure frontonali del Partenone, una Cariatide e una colonna dell’Eretteo, che passano nel 1816 al governo britannico ed entrano al British Museum. Ambasciatore a Costantinopoli, egli non solo ottiene i preziosi reperti ateniesi, ma promuove intense campagne di scavo nell’Attica e a Egina, nelle Cicladi e a Salamina. Nel 1812 si effettuano gli scavi del tempio di Apollo a Figalia-Bassae: i rilievi verranno portati in Inghilterrra – perverranno al British Museum – da Charles Robert Cockerell, geniale archeologo che aveva preso parte anche agli scavi di Egina, riconoscendo precocemente tracce di colore sull’architettura. Nel 1820 l’isola di Melos restituisce l’Afrodite, subito passata al Louvre; nello stesso anno, il duca di Luynes scava il tempio di Apollo Liceo a Metaponto, e lo pubblica con Debacq nel 1833. Del 1829 sono gli scavi francesi al tempio di Zeus a Olimpia, e del 1835 gli scavi sistematici dell’Acropoli di Atene.

Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre
Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Altro fattore è lo studio dei materiali, iniziando a prescindere dal modello intellettuale e algido di una grecità immaginata, e per certi versi sognata. L’interrogazione delle opere e dei siti procede con piglio sempre più metodologicamente schiarito, e consente di aprire fronti d’indagine sino a quel punto mai immaginati. Non più nella logica del Grand Tour, che vi conduce nel 1787 Wolfgang Goethe, il soggiorno a Selinunte nel 1822 degli inglesi Samuel Angell e William Harris porta allo scavo del tempio C e al ritrovamento delle metope del tempio F. Al di là del loro tentativo, fallito, di trasferire illegalmente materiali a Londra, la scoperta rivela al mondo una verità a quel tempo sconvolgente, la presenza del colore nella scultura e nell’architettura greca. Il loro percorso si incrocia con quello di Jacques Ignace Hittorff, che negli stessi anni studia con Karl Ludwig von Zanth i templi di Agrigento, Segesta e Selinunte per ritrovarci tracce di colore.

In effetti, sin dai rilievi ateniesi di Stuart e Revett l’argomento era stato più volte sollevato da coloro che avevano avuto esperienza dell’architettura e della scultura greca di madrepatria. Ma ciò contraddiceva il pensiero dominante della castità cromatica dell’arte classica, e non venne per decenni preso in seria considerazione; peraltro, i restauri e le puliture, oltre che le procedure necessarie per trarre calchi dagli originali, contribuivano non poco a «ripulire» gli antichi marmi.

Il tema viene affrontato in modo esplicito da Quatremère de Quincy in Le Jupiter Olympien, 1814, e ciò rilancia in modo decisivo la questione. Angell e Harris pubblicano le loro scoperte selinuntine nel 1826, Hittorff e Zanth danno alle stampe l’anno dopo il fondamentale Architecture antique de la Sicile: quando nel 1851 pubblicheranno Restitution du temple d’Empédocle à Sélinonte, ou l’architecture polychrome chez les Grecs, redatto nel 1830, la nuova cognizione sarà faticosamente accettata dalle cerchie colte d’Europa. Quanto sconvolgente sia, sul piano della coscienza dell’antico, tale novità, è detto dalle polemiche che nel 1836-37 accompagnano i lavori della commissione, ufficialmente insediata, incaricata di stabilire se anche i marmi Elgin fossero originariamente colorati. Della commissione fanno parte, Hittorff, Thomas Leverton Donaldson e Cockerell: nonostante le conoscenze scientifiche ormai maturate, la conclusione è che non fossero dipinte. Ancora a quelle date, dunque, forte è l’influenza del vecchio concetto winckelmanniano, secondo cui il bianco delle sculture è ideale per qualificare il rapporto dei volumi e delle superfici con la luce: quasi che il fantasma della purezza originaria sia ancor più forte della certezza oggettiva. E forte è la proiezione continua dell’oggi sul desiderio del classico: Canova e Thorvaldsen sono paradigmi classici, infine, non meno di Fidia.

Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il miglior omaggio agli studi di questi autori sarà, nel 1868, un quadro, ovvero ancora una creazione d’arte che riflette sul classico: Lawrence Alma-Tadema in Phidias and the Frieze of Parthenon, ora al museo di Birmingham, riproduce il fregio completamente colorato. In ogni caso, dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste, sino agli inizi del secolo nuovo, a una sorta di doppio binario. Da un lato, è la prosecuzione del mito classico nelle fattezze dello studio iconografico e della purezza plastica, che si arricchisce di nuove identificazioni: nel 1849 è riconosciuta una copia marmorea dell’Apoxiomenos di Lisippo, nel 1863 una copia del Doriforo di Policleto, nel 1864 viene scoperta la Nike di Samotracia. Il suo tenace permanere è, in realtà, ormai solo il risultato di un classicismo che intride di sé la cultura ottocentesca – e con essa l’architettura, e molta della pittura – in una sorta di conservatorismo che scambia la relatività del proprio gusto per omaggio all’immortalità, e della cui opacità è testimone l’accademismo artistico. Dall’altro si trova il fronte della ricerca archeologica vera e propria, che giunge infine a pensare se stessa come disciplina autonoma e autorevole, non più debitrice del gusto corrente e sottratta alla contiguità con il dibattito artistico e filosofico. È questo fronte, alla fine dell’Ottocento, a dare l’avvio all’archeologia moderna e allo studio autonomo dell’arte antica.

Resta una considerazione. Per una bizzarria della storia quando Filippo Tommaso Marinetti, nel manifesto futurista del 1909, afferma che «un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia», per contrapporsi al mito museificato del classico sceglie l’esempio di una delle sculture più «giovani», e più incolpevoli, tra quante hanno fatto nascere e poi trascolorare il mito del classico.