Frine, la bellezza sotto accusa

Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.

Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).

William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.

Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.

Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?

All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).

Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.

Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).

Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).

Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.

Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).

A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.

L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).

Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).

La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).

All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).

Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.

L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).

Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.

Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).

Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).

Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.

Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).

I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.

Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.

Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).

In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).

Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.

In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).

Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.

Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).

A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).

Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).

Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).

Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).

Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).

Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.

Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.

Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.

Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).

Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).

Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).

Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).

Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.

Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.  

Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):

Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre

di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,

avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.

Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,

ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]

e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,

a stento salvò la pelle con le lacrime.

Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).

Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.

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da LUCIANO DI SAMOSATA, Tutti gli scritti. Testo greco a fronte. Introduzione, note e apparati di D. FUSARO, traduzione di L. SETTEMBRINI, Milano 2007, pp. 964-975. Cfr. testo greco su poesialatina.it; traduzione italiana con lievi modifiche.

 

Urania, Musa dell’astronomia. Affresco, 62-79 d.C. ca. Musée Archéologique St. Raymond de Toulouse.

 

[1]    Ἀμφί τε οὐρανοῦ ἀμφί τε ἀστέρων ἡ γραφή, οὐκ αὐτῶν ἀστέρων οὐδ’ αὐτοῦ πέρι οὐρανοῦ, ἀλλὰ μαντείης καὶ ἀληθείης, ἣ δὴ ἐκ τουτέων ἐς ἀνθρώπων βίον ἔρχεται. ὁ δέ μοι λόγος οὐκ ὑποθημοσύνην ἔχει οὐδὲ διδασκαλίην ἐπαγγέλλεται ὅκως ταύτην τὴν μαντοσύνην διενεκτέον, ἀλλὰ μέμφομαι ὁκόσοι σοφοὶ ἐόντες τὰ μὲν ἄλλα ἐπασκέουσι καὶ παισὶ τοῖς ἑωυτῶν ἀπηγέονται, μούνην δὲ ἀστρολογίην οὔτε τιμέουσιν οὔτε [2] ἐπασκέουσιν. καὶ ἡ μὲν σοφίη παλαιὴ οὐδὲ νέον ἐς ἡμέας ἀπίκετο, ἀλλ’ ἔστιν ἔργον ἀρχαίων βασιλέων θεοφιλέων. οἱ δὲ νῦν ἀμαθίῃ καὶ ῥᾳθυμίῃ καὶ προσέτι μισοπονίῃ κείνοισί τε ἀντίξοα φρονέουσι καὶ εὖτ’ ἂν ἀνδράσιν ἐπικυρέωσιν ψεύδεα μαντευομένοις, ἄστρων τε κατηγορέουσιν καὶ αὐτὴν ἀστρολογίην μισέουσιν, οὐδέ μιν οὔτε ὑγιέα οὔτε ἀληθέα νομίζουσιν, ἀλλὰ λόγον ψευδέα καὶ ἀνεμώλιον, οὐ δικαίως, ἐμοὶ δοκέει, φρονέοντες· οὐδὲ γὰρ τέκτονος ἀϊδρίη τεκτοσύνης αὐτῆς ἀδικίη οὐδὲ αὐλητέω ἀμουσίη μουσικῆς ἀσοφίη, ἀλλ’ οἱ μὲν ἀμαθέες τῶν τεχνῶν, ἑκάστη δ’ ἐν ἑωυτῇ σοφή.

[3]    Πρῶτον μὲν ὦν Αἰθίοπες τόνδε τὸν λόγον ἀνθρώποισι κατεστήσαντο. αἰτίη δὲ αὐτέοισι τὰ μὲν ἡ σοφίη τοῦ ἔθνεος ‑ καὶ γὰρ τἄλλα τῶν ἄλλων σοφώτεροι Αἰθίοπες ‑ τὰ δὲ καὶ τῆς οἰκήσιος ἡ εὐμοιρίη· αἰεὶ γὰρ σφέας εὐδίη καὶ γαληναίη περικέαται, οὐδὲ τῶν τοῦ ἔτεος τροπέων ἀνέχονται, ἀλλ’ ἐν μιῇ ὥρῃ οἰκέουσιν. ἰδόντες ὦν πρῶτα τὴν σεληναίην οὐκ ἐς πάμπαν ὁμοίην φαινομένην, ἀλλὰ πολυειδέα τε γιγνομένην καὶ ἐν ἄλλοτε ἄλλῃ μορφῇ τρεπομένην, ἐδόκεεν αὐτέοισιν τὸ χρῆμα θωύματος καὶ ἀπορίης ἄξιον. ἔνθεν δὲ ζητέοντες εὗρον τουτέων τὴν αἰτίην, ὅτι οὐκ ἴδιον τῇ σεληναίῃ τὸ φέγγος, ἀλλά οἱ παρ’ ἠελίου [4] ἔρχεται. εὗρον δὲ καὶ τῶν ἄλλων ἀστέρων τὴν φορήν, τοὺς δὴ πλάνητας ἡμεῖς καλέομεν ‑ μοῦνοι γὰρ τῶν ἄλλων κινέονται ‑ φύσιν τε αὐτῶν καὶ δυναστείην καὶ ἔργα τὰ ἕκαστος ἐπιτελέουσιν. ἐν δὲ καὶ οὐνόματα αὐτέοισιν ἐπέθεσαν, οὐκ οὐνόματα, ὅκως ἐδόκεον, ἀλλὰ σημήια.

Mappa astronomica. Decorazione del soffitto della tomba di Senenmut, 18a Dinastia (c. 1473 a.C.) da Deir el-Bahri.

 

[5]    Ταῦτα μὲν ὦν Αἰθίοπες ἐν τῷ οὐρανῷ ἐπέβλεψαν, μετὰ δὲ γείτοσιν οὖσιν Αἰγυπτίοισιν ἀτελέα τὸν λόγον παρέδοσαν, Αἰγύπτιοι δὲ παρὰ σφέων ἐκδεξάμενοι ἡμιεργέα τὴν μαντικὴν ἐπὶ μέζον ἤγειραν, μέτρα τε τῆς ἑκάστου κινήσιος ἐσημήναντο καὶ ἐτέων ἀριθμὸν καὶ μηνῶν καὶ ὡρέων διετάξαντο. καὶ μηνῶν μὲν σφίσι μέτρον ἡ σεληναίη καὶ ἡ ταύτης ἀναστροφὴ ἐγένετο, ἔτεος [6] δὲ ἠέλιος καὶ ἡ τοῦ ἠελίου περίφορος. οἱ δὲ καὶ ἄλλα ἐμήσαντο πολλὸν μέζω τουτέων· ἐκ γὰρ δὴ τοῦ παντὸς ἠέρος καὶ ἀστέρων τῶν ἄλλων ἀπλανέων τε καὶ εὐσταθέων καὶ οὐδαμὰ κινεομένων δυώδεκα μοίρας ἐτάμοντο τοῖσι κινεομένοισι, καὶ οἰκία … ζῷα ἐόντα ἕκαστον αὐτῶν ἐς ἄλλην μορφὴν μεμιμέαται, τὰ μὲν ἐνάλια, τὰ δὲ ἀνθρώπων, τὰ δὲ θηρῶν, τὰ δὲ πτηνῶν, τὰ δὲ κτηνέων.

[7]    Ἀπὸ τέω δὴ καὶ ἱερὰ τὰ Αἰγύπτια πολυειδέα ποιέεται· οὐ γὰρ πάντες Αἰγύπτιοι ἐκ τῶν δυώδεκα μοιρέων πασέων ἐμαντεύοντο, ἄλλοι δὲ ἀλλοίῃσι μοίρῃσιν ἐχρέοντο, καὶ κριὸν μὲν σέβουσιν ὁκόσοι ἐς κριὸν ἀπέβλεπον, ἰχθύας δὲ οὐ σιτέονται ὁκόσοι ἰχθύας ἐπεσημήναντο, οὐδὲ τράγον κτείνουσιν ὅσοι αἰγόκερων ᾔδεσαν, καὶ οἱ ἄλλοι τὰ ἄλλα ὡς ἕκαστοι ἱλάσκονται. ναὶ μὴν καὶ ταῦρον ἐς τιμὴν τοῦ ἠερίου ταύρου σεβίζονται, καὶ ὁ Ἆπις αὐτοῖς χρῆμα ἱερώτατον τὴν χώρην ἐπινέμεται καί οἱ ἐκεῖ μαντήιόν γε ἀνατιθέασιν σημήιον τῆς ἐκείνου τοῦ ταύρου μαντικῆς.

[8]    Οὐ μετὰ πολλὸν δὲ καὶ Λίβυες ἐπέβησαν τοῦ λόγου· καὶ γὰρ τὸ Λιβύων μαντήιον τὸ Ἄμμωνος, καὶ τοῦτο ἐς τὸν ἠέρα καὶ ἐς τὴν τούτου σοφίην ἵδρυτο, παρ’ ὃ τὸν Ἄμμωνα καὶ οὗτοι κριοπρόσωπον [9] ποιέονται. ἔγνωσαν δὲ τούτων ἕκαστα καὶ Βαβυλώνιοι, οὗτοι μέν, λέγουσιν, καὶ πρὸ τῶν ἄλλων, ἐμοὶ δὲ δοκέει, πολλὸν ὕστερον ἐς τούτους ὁ λόγος ἀπίκετο.

[10]    Ἕλληνες δὲ οὔτε παρ’ Αἰθιόπων οὔτε παρ’ Αἰγυπτίων ἀστρολογίης πέρι οὐδὲν ἤκουσαν, ἀλλὰ σφίσιν Ὀρφεὺς ὁ Οἰάγρου καὶ Καλλιόπης πρῶτος τάδε ἀπηγήσατο, οὐ μάλα ἐμφανέως, οὐδὲ ἐς φάος τὸν λόγον προήνεγκεν, ἀλλ’ ἐς γοητείην καὶ ἱερολογίην, οἵη διανοίη ἐκείνου. πηξάμενος γὰρ λύρην ὄργιά τε ἐποιέετο καὶ τὰ ἱερὰ ἤειδεν· ἡ δὲ λύρη ἑπτάμιτος ἐοῦσα τὴν τῶν κινεομένων ἀστέρων ἁρμονίην συνεβάλλετο. ταῦτα Ὀρφεὺς διζήμενος καὶ ταῦτα ἀνακινέων πάντα ἔθελγεν καὶ πάντων ἐκράτεεν· οὐ γὰρ ἐκείνην τὴν λύρην ἔβλεπεν οὐδέ οἱ ἄλλης ἔμελε μουσουργίης, ἀλλ’ αὕτη Ὀρφέος ἡ μεγάλη λύρη, Ἕλληνές τε τάδε τιμέοντες μοίρην ἐν τῷ οὐρανῷ ἀπέκριναν καὶ ἀστέρες πολλοὶ καλέονται λύρη Ὀρφέος.

Orfeo musico. Mosaico, II sec. d.C. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

 

Ἢν δέ κοτε Ὀρφέα ἴδῃς ἢ λίθοισιν ἢ χροιῇ μεμιμημένον, μέσῳ ἕζεται ἴκελος ἀείδοντι, μετὰ χερσὶν ἔχων τὴν λύρην, ἀμφὶ δέ μιν ζῷα μυρία ἕστηκεν, ἐν οἷς καὶ ταῦρος καὶ ἄνθρωπος καὶ λέων καὶ τῶν ἄλλων ἕκαστον. εὖτ’ ἂν ἐκεῖνα ἴδῃς, μέμνησό μοι τουτέων, κοίη ἐκείνου ἀοιδή, κοίη δὲ καὶ ἡ λύρη, κοῖος δὲ καὶ ταῦρος ἢ ὁκοῖος λέων Ὀρφέος ἐπαΐουσιν. ἢν δὲ τὰ λέγω αἴτια γνοίης, σὺ δὲ καὶ ἐν τῷ οὐρανῷ δέρκεο ἕκαστον τουτέων.

[11]    Λέγουσιν δὲ Τειρεσίην ἄνδρα Βοιώτιον, τοῦ δὴ κλέος μαντοσύνης πέρι πολλὸν ἀείρεται, τοῦτον τὸν Τειρεσίην ἐν Ἕλλησιν εἰπεῖν ὅτι τῶν πλανεομένων ἀστέρων οἱ μὲν θήλεες οἱ δὲ ἄρρενες ἐόντες οὐκ ἴσα ἐκτελέουσιν· τῷ καί μιν διφυέα γενέσθαι καὶ ἀμφίβιον Τειρεσίην μυθολογέουσιν, ἄλλοτε μὲν θῆλυν ἄλλοτε δὲ ἄρρενα.

[12]    Ἀτρέος δὲ καὶ Θυέστεω περὶ τῇ πατρωίῃ βασιληίῃ φιλονεικεόντων ἤδη τοῖσιν Ἕλλησιν ἀναφανδὸν ἀστρολογίης τε καὶ σοφίης τῆς οὐρανίης μάλιστ’ ἔμελεν, καὶ τὸ ξυνὸν τῶν Ἀργείων ἄρχειν ἔγνωσαν ἑωυτῶν ὅστις τοῦ ἑτέρου σοφίην προφερέστερος. ἔνθα δὴ Θυέστης μὲν τὸν κριὸν σφίσιν τὸν ἐν τῷ οὐρανῷ σημηνάμενος ἐπέδειξεν, ἀπὸ τέω δὴ ἄρνα χρύσεον Θυέστῃ γενέσθαι μυθολογέουσιν. Ἀτρεὺς δὲ τοῦ ἠελίου πέρι καὶ τῶν ἀντολέων αὐτοῦ λόγον ἐποιήσατο, ὅτι οὐκ ἐς ὁμοίην φορὴν ἠέλιός τε καὶ ὁ κόσμος κινέονται, ἀλλ’ ἐς ἀντίξοον ἀλλήλοις ἀντιδρομέουσιν, καὶ αἱ νῦν δύσιες δοκέουσαι, τοῦ κόσμου δύσιες ἐοῦσαι, τοῦ ἠελίου ἀντολαί εἰσιν. τάδε εἰπόντα βασιλέα μιν Ἀργεῖοι ἐποιήσαντο, καὶ μέγα κλέος ἐπὶ σοφίῃ αὐτοῦ ἐγένετο.

[13]    Ἐγὼ δὲ καὶ περὶ Βελλεροφόντεω τοιάδε φρονέω· πτηνὸν μέν οἱ γενέσθαι ὡς ἵππον οὐ μάλα πείθομαι, δοκέω δέ μιν ταύτην τὴν σοφίην μετέποντα ὑψηλά τε φρονέοντα καὶ ἄστροισιν ὁμιλέοντα ἐς οὐρανὸν οὐχὶ τῷ ἵππῳ ἀναβῆναι ἀλλὰ τῇ διανοίῃ.

[14]    Ἴσα δέ μοι καὶ ἐς Φρίξον τὸν Ἀθάμαντος εἰρήσθω, τὸν δὴ κριῷ χρυσέῳ δι’ αἰθέρος ἐλάσαι μυθέονται. ναὶ μέντοι καὶ Δαίδαλον τὸν Ἀθηναῖον· ξείνη μὲν ἡ ἱστορίη, δοκέω γε μὴν οὐκ ἔξω ἀστρολογίης, ἀλλά οἱ αὐτὸς μάλιστα ἐχρήσατο καὶ [15] παιδὶ τῷ ἑωυτοῦ κατηγήσατο. Ἴκαρος δέ, νεότητι καὶ ἀτασθαλίῃ χρεόμενος καὶ οὐκ ἐπιεικτὰ διζήμενος ἀλλὰ ἐς πόλον ἀερθεὶς τῷ νῷ, ἐξέπεσε τῆς ἀληθείης καὶ παντὸς ἀπεσφάλη τοῦ λόγου καὶ ἐς πέλαγος κατηνέχθη ἀβύσσων πρηγμάτων, τὸν Ἕλληνες ἄλλως μυθολογέουσιν καὶ κόλπον ἐπ’ αὐτῷ ἐν τῇδε τῇ θαλάσσῃ Ἰκάριον εἰκῆ καλέουσιν.

[16]    Τάχα δὲ καὶ Πασιφάη, παρὰ Δαιδάλου ἀκούσασα ταύρου τε πέρι τοῦ ἐν τοῖς ἄστροισι φαινομένου καὶ αὐτῆς ἀστρολογίης, ἐς ἔρωτα τοῦ λόγου ἀπίκετο, ἔνθεν νομίζουσιν ὅτι Δαίδαλός μιν τῷ ταύρῳ ἐνύμφευσεν.

 

Dedalo presenta a Pasifae la vacca di legno. Affresco pompeiano, dalla Casa dei Vettii.

 

[17]    Εἰσὶν δὲ οἳ καὶ κατὰ μέρεα τὴν ἐπιστήμην διελόντες ἕκαστοι αὐτῶν ἄλλα ἐπενοήσαντο, οἱ μὲν τὰ ἐς τὴν σεληναίην, οἱ δὲ τὰ ἐς Δία, οἱ δὲ τὰ ἐς ἠέλιον συναγείραντες, δρόμου τε αὐτῶν πέρι [18] καὶ κινήσιος καὶ δυνάμιος. καὶ Ἐνδυμίων μὲν [19] τὰ ἐς τὴν σεληναίην συνετάξατο, Φαέθων δὲ τοῦ ἠελίου δρόμον ἐτεκμήρατο, οὐ μέν γε ἀτρεκέως, ἀλλ’ ἀτελέα τὸν λόγον ἀπολιπὼν ἀπέθανεν. οἱ δὲ τάδε ἀγνοέοντες Ἠελίου παῖδα Φαέθοντα δοκέουσιν καὶ μῦθον ἐπ’ αὐτέῳ οὐδαμὰ πιστὸν διηγέονται. ἐλθόντα γάρ μιν παρὰ τὸν Ἠέλιον τὸν πατέρα αἰτέειν τὸ τοῦ φωτὸς ἅρμα ἡνιοχέειν, τὸν δὲ δοῦναί τέ οἱ καὶ ὑποθέσθαι τῆς ἱππασίης τὸν νόμον. ὁ δὲ Φαέθων ἐπειδὴ ἀνέβη τὸ ἅρμα, ἡλικίῃ καὶ ἀπειρίῃ ἄλλοτε μὲν πρόσγειος ἡνιόχεεν, ἄλλοτε δὲ πολλὸν τῆς γῆς ἀπαιωρούμενος· τοὺς δὲ ἀνθρώπους κρύος τε καὶ θάλπος οὐκ ἀνασχετὸν διέφθειρεν. ἐπὶ τοῖσι δὴ τὸν Δία ἀγανακτέοντα βαλεῖν πρηστῆρι Φαέθοντα μεγάλῳ. πεσόντα δέ μιν αἱ ἀδελφαὶ περιστᾶσαι πένθος μέγα ἐποίεον, ἔστε μετέβαλον τὰ εἴδεα, καὶ νῦν εἰσιν αἴγειροι καὶ τὸ ἤλεκτρον ἐπ’ αὐτῷ δάκρυον σταλάουσιν. οὐχ οὕτω ταῦτα ἐγένετο οὐδὲ ὅσιον αὐτοῖσι πείθεσθαι, οὐδὲ Ἠέλιος παῖδα ἐποιήσατο, οὐδὲ ὁ παῖς αὐτῷ ἀπέθανεν.

[20]    Λέγουσιν δὲ καὶ ἄλλα Ἕλληνες πολλὰ μυθώδεα, τοῖσι ἐγὼ οὐ μάλα τι πείθομαι. κῶς γὰρ δὴ ὅσιον πιστεῦσαι παῖδα Αἰνείην τῆς Ἀφροδίτης γενέσθαι καὶ Διὸς Μίνω καὶ Ἄρεος Ἀσκάλαφον καὶ Αὐτόλυκον Ἑρμέω; ἀλλ’ οὗτοι ἕκαστος αὐτέων θεοφιλέες ἐγένοντο καὶ σφίσι γεινομένοισι τῷ μὲν ἡ Ἀφροδίτη, τῷ δὲ ὁ Ζεύς, τῷ δὲ ὁ Ἄρης ἐπέβλεψαν. ὁκόσοι γὰρ δὴ ἀνθρώποισι ἐν τῇ γενεῇ ταύτῃ οἰκοδεσποτέουσι, οὗτοι ὅκως τοκέες ἑωυτοῖσι πάντα ἰκέλους ἐκτελέουσιν καὶ χρόην καὶ μορφὴν καὶ ἔργα καὶ διανοίην, καὶ βασιλεὺς μὲν ὁ Μίνως Διὸς ἡγεομένου, καλὸς δὲ Αἰνείης Ἀφροδίτης βουλήσει ἐγένετο, κλέπτης δὲ Αὐτόλυκος, ἡ δέ οἱ κλεπτικὴ ἐξ Ἑρμέω ἀπίκετο.

[21]    Οὐ μὲν ὦν οὐδὲ τὸν Κρόνον Ζεὺς ἔδησεν οὐδὲ ἐς Τάρταρον ἔρριψεν οὐδὲ τὰ ἄλλα ἐμήσατο ὁκόσα ἄνθρωποι νομίζουσιν, ἀλλὰ φέρεται γὰρ ὁ Κρόνος τὴν ἔξω φορὴν πολλὸν ἀπ’ ἡμέων καί οἱ νωθρή τε ἡ κίνησις καὶ οὐ ῥηιδίη τοῖσιν ἀνθρώποισιν ὁρέεσθαι. διὸ δή μιν ἑστάναι λέγουσιν ὅκως πεπεδημένον. τὸ δὲ βάθος τὸ πολλὸν τοῦ ἠέρος Τάρταρος καλέεται.

Capra (Amaltea). Testa (dettaglio), bronzo, 120-100 a.C. ca. Cleveland, Museum of Art.

 

[22]    Μάλιστα δ’ ἔκ τε Ὁμήρου τοῦ ποιητέω καὶ τῶν Ἡσιόδου ἐπέων μάθοι ἄν τις τὰ πάλαι τοῖς ἀστρολογέουσιν ὁμοφωνέοντα. εὖτ’ ἂν δὲ τὴν σειρὴν τοῦ Διὸς ἀπηγέηται καὶ τοῦ Ἠελίου τὰς βόας, τὰ δὴ ἐγὼ ἤματα εἶναι συμβάλλομαι, καὶ τὰς πόλιας τὰς ἐν τῇ ἀσπίδι Ἥφαιστος ἐποιήσατο καὶ τὸν χορὸν καὶ τὴν ἀλωήν … τὰ μὲν γὰρ ὁκόσα ἐς τὴν Ἀφροδίτην αὐτῷ καὶ τοῦ Ἄρεος τὴν μοιχείην λέλεκται, καὶ ταῦτα ἐμφανέα οὐκ ἄλλοθεν ἢ ἐκ τῆσδε τῆς σοφίης πεποιημένα· ἡ γὰρ δὴ ὦν Ἀφροδίτης καὶ τοῦ Ἄρεος ὁμοδρομίη τὴν Ὁμήρου ἀοιδὴν ἀπεργάζεται. ἐν ἄλλοισι δὲ ἔπεσι τὰ ἔργα ἑκάστου αὐτῶν διωρίσατο, τῇ Ἀφροδίτῃ μὲν εἰπών,

ἀλλὰ σύ γ’ ἱμερόεντα μετέρχεο ἔργα γάμοιο·

τὰ δὲ τοῦ πολέμου,

ταῦτα δ’ Ἄρηι θοῷ καὶ Ἀθήνῃ πάντα μελήσει.

[23]    Ἅπερ οἱ παλαιοὶ ἰδόντες μάλιστα μαντηίῃσιν ἐχρέοντο καὶ οὐ πάρεργον αὐτὴν ἐποιέοντο, ἀλλ’ οὔτε πόλιας ᾤκιζον οὔτε τείχεα περιεβάλλοντο οὔτε φόνους ἐργάζοντο οὔτε γυναῖκας ἐγάμεον, πρὶν ἂν δὴ παρὰ μάντεων ἀκοῦσαι ἕκαστα. καὶ γὰρ δὴ τὰ μαντήια αὐτέοισι οὐκ ἔξω ἀστρολογίης ἦν, ἀλλὰ παρὰ μὲν Δελφοῖς παρθένος ἔχει τὴν προφητείην σύμβολον τῆς παρθένου τῆς οὐρανίης, καὶ δράκων ὑπὸ τῷ τρίποδι φθέγγεται ὅτι καὶ ἐν τοῖσιν ἄστροισι δράκων φαίνεται, καὶ ἐν Διδύμοις δὲ μαντήιον τοῦ Ἀπόλλωνος, ἐμοὶ δοκέει, καὶ τοῦτο ἐκ τῶν ἠερίων Διδύμων ὀνομάζεται.

[24]    Οὕτω δὲ αὐτοῖσι χρῆμα ἱρότατον ἡ μαντοσύνη ἐδόκεεν, ὥστε δὴ Ὀδυσσεὺς ἐπειδὴ ἔκαμεν πλανεόμενος, ἐθελήσας ἀτρεκὲς ἀκοῦσαι περὶ τῶν ἑωυτοῦ πρηγμάτων, ἐς τὸν Ἀΐδην ἀπίκετο, οὐκ “ὄφρα ἴδῃ νέκυας καὶ ἀτερπέα χῶρον” ἀλλ’ ἐς λόγους ἐλθεῖν Τειρεσίῃ ἐπιθυμέων. καὶ ἐπειδὴ ἐς τὸν χῶρον ἦλθεν ἔνθα οἱ Κίρκη ἐσήμηνεν καὶ ἔσκαψεν τὸν βόθρον καὶ τὰ μῆλα ἔσφαξεν, πολλῶν νεκρῶν παρεόντων, ἐν τοῖσι καὶ τῆς μητρὸς τῆς ἑωυτοῦ, τοῦ αἵματος πιεῖν ἐθελόντων οὐ πρότερον ἐπῆκεν οὐδενί, οὐδὲ αὐτῇ μητρί, πρὶν Τειρεσίην γεύσασθαι καὶ ἐξαναγκάσαι εἰπεῖν οἱ τὸ μαντήιον· καὶ ἀνέσχετο διψῶσαν ὁρέων τῆς μητρὸς τὴν σκιήν.

[25]    Λακεδαιμονίοισι δὲ Λυκοῦργος τὴν πολιτείην πᾶσαν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ διετάξατο καὶ νόμον σφίσιν ἐποιήσατο μηδαμὰ … μηδὲ ἐς πόλεμον προχωρέειν πρὶν τὴν σεληναίην πλήρεα γενέσθαι· οὐ γὰρ ἴσην ἐνόμιζεν εἶναι τὴν δυναστείην αὐξανομένης τῆς σεληναίης καὶ ἀφανιζομένης, [26] πάντα δὲ ὑπ’ αὐτῇ διοικέεσθαι. ἀλλὰ μοῦνοι Ἀρκάδες ταῦτα οὐκ ἐδέξαντο οὐδὲ ἐτίμησαν ἀστρολογίην, ἀνοίῃ δὲ καὶ ἀσοφίῃ λέγουσιν καὶ τῆς σεληναίης ἔμμεναι προγενέστεροι.

Eugène Delacroix, Licurgo consulta la Pizia. Olio su tela, 1835-45 c.

 

[27]    Οἱ μὲν ὦν πρὸ ἡμῶν οὕτω κάρτα ἦσαν φιλομάντιες, οἱ δὲ νῦν, οἱ μὲν αὐτέων ἀδύνατα εἶναι λέγουσιν ἀνθρώποισι τέλος εὕρασθαι μαντικῆς· οὐ γὰρ εἶναί μιν οὔτε πιστὴν οὔτε ἀληθέα, οὐδὲ τὸν Ἄρεα ἢ τὸν Δία ἐν τῷ οὐρανῷ ἡμέων ἕνεκα κινέεσθαι, ἀλλὰ τῶν μὲν ἀνθρωπηίων πρηγμάτων οὐδεμίην ὤρην ἐκεῖνοι ποιέονται οὐδ’ ἔστιν αὐτέοισιν πρὸς τάδε κοινωνίη, κατὰ σφέας δὲ χρείῃ τῆς περιφορῆς [28] ἀναστρέφονται. ἄλλοι δὲ ἀστρολογίην ἀψευδέα μέν, ἀνωφελέα δὲ εἶναι λέγουσιν· οὐ γὰρ ὑπὸ μαντοσύνῃ ἀλλάσσεσθαι ὁκόσα τῇσι μοίρῃσι δοκέοντα ἐπέρχεται.

[29]    Ἐγὼ δὲ πρὸς τάδε ἄμφω ἐκεῖνα ἔχω εἰπεῖν, ὅτι οἱ μὲν ἀστέρες ἐν τῷ οὐρανῷ τὴν σφετέρην εἱλέονται, πάρεργον δὲ σφίσι τῆς κινήσιος τῶν κατ’ ἡμέας ἕκαστον ἐπιγίγνεται. ἢ ἐθέλεις ἵππου μὲν θέοντος καὶ ὀρνίθων καὶ ἀνδρῶν κινεομένων λίθους ἀνασαλεύεσθαι καὶ κάρφεα δονέεσθαι ὑπὸ τῶν ἀνέμων τοῦ δρόμου, ὑπὸ δὲ τῇ δίνῃ τῶν ἀστέρων μηδὲν ἄλλο γίγνεσθαι; καὶ ἐκ μὲν ὀλίγου πυρὸς ἀπορροίη ἐς ἡμέας ἔρχεται, καὶ τὸ πῦρ οὐ δι’ ἡμέας καίει τι οὐδέ οἱ μέλει τοῦ ἡμετέρου θάλπεος, ἀστέρων δὲ οὐδεμίην ἀπορροίην δεχόμεθα; καὶ μέντοι τῇ ἀστρολογίῃ τὰ μὲν φαῦλα ἐσθλὰ ποιῆσαι ἀδύνατά ἐστιν οὐδὲ ἀλλάξαι τι τῶν ἀπορρεόντων πρηγμάτων, ἀλλὰ τοὺς χρεομένους τάδε ὠφελέει· τὰ μὲν ἐσθλὰ εἰδότας ἀπιξόμενα πολλὸν ἀπόπροσθεν εὐφρανέει, τὰ δὲ φαῦλα εὐμαρέως δέχονται· οὐ γάρ σφισιν ἀγνοέουσιν ἐπέρχεται, ἀλλ’ ἐν μελέτῃ καὶ προσδοκίῃ ῥηίδια καὶ πρηέα ἡγεῖται. τάδε ἀστρολογίης πέρι ἐγὼν ὑπολαμβάνω.

***

Intorno al cielo, intorno agli astri è questo scritto: non proprio intorno agli astri né proprio intorno al cielo, ma alla divinazione e alla verità che da essi viene nel mondo. Con questo discorso io non voglio dare precetti né spacciare insegnamenti su come si possa venire in fama per questa divinazione, ma biasimo coloro che, pur essendo sapienti, tutt’altro studiano, di tutt’altro ragionano con tutti, e la sola astrologia né pregiano né studiano. Eppure questa è antica sapienza, né venne da poco fra noi, ma è opera di antichi re cari agli dèi. I moderni per ignoranza, per dappocaggine e per infingardaggine ancora tengono opinione contraria a quelli; e quando incappano in indovini bugiardi, accusano gli astri, sprezzano l’astrologia e la credono una sciocchezza, un’impostura, un vento di parole vane. La quale opinione a me non pare giusta: difatti, non perché il falegname sbaglia, dirai che l’arte sua non valga; non perché il flautista stona, allora la musica non è buona; ma è l’artefice quello ignorante, mentre l’arte per se stessa è sapiente.

Statua del vecchio (forse un indovino). Marmo, 454 a.C. ca. opera del ‘Maestro di Olimpia’, dal frontone orientale del Tempio di Zeus Olimpico. Museo Archeologico di Olimpia.

 

Per primi tra gli uomini a istituire questa dottrina furono gli Etiopi, sia perché essi sono un popolo ingegnoso e in molte cose ne sanno più degli altri, sia perché essi abitano in un paese felice, dove il cielo è sempre sereno e tranquillo, non vi è diversità di stagioni, ma sempre la stessa temperatura. Vedendo dunque la Luna non apparire sempre la stessa, ma variare aspetto e prendere ora una forma ora un’altra, parve loro una cosa degna di meraviglia e di considerazione. Così, messisi a indagare, ne trovarono la spiegazione, e cioè che la sua luce non è sua propria, ma le viene dal Sole. Inoltre, trovarono il moto degli altri astri, che noi chiamiamo “pianeti”, perché essi soli tra i corpi celesti a muoversi, e la loro natura e potenza e le opere che ciascuno di essi compie. E posero loro dei nomi, e non a caso – come pareva, beninteso – , ma simbolici.

E questo nel cielo osservarono gli Etiopi: poi agli Egiziani, loro vicini, trasmisero imperfetta quest’arte. Gli Egiziani, infatti, ricevuta da quelli mezza fatta la divinazione, la ingrandirono di più, misurarono e segnarono il moto di ciascun astro e ordinarono il numero degli anni, dei mesi, delle ore. Misura del mese fu per loro la Luna e il suo rinnovamento; dell’anno il Sole e il suo giro. Un’altra cosa ancora immaginarono molto maggiore di questa: di tutto l’aere e degli altri astri che non si muovono e sono fissi tagliarono dodici parti per i pianeti e a ciascuna di esse assegnarono un animale, che figurarono di diversa specie: dove furono pesci, dove uomini, dove belve, dove volatili, dove giumenti.

Va da sé, allora, che la religione egiziana esprime diverse specie di riti, dacché non tutti gli Egiziani da tutte e dodici le parti facevano i loro pronostici: invero, c’era chi usava di una e chi di un’altra; infatti, adorano l’ariete quelli che riguardavano nell’ariete, non mangiano pesci quelli che simboleggiarono nei pesci, non uccidono il capro quelli che onorarono il capricorno; e ciascuno a suo modo, secondo la sua divozione. Adorano anche il toro in onore del toro celeste, e Api è cosa santissima per loro – va pascolando per il paese – e gli hanno eretto un tempio dov’è un oracolo, segno della divinazione del toro celeste.

Lisimaco. Tetradramma, Magnesia al Menandro 305-281 a.C. ca. Ar. 17, 19 gr. Dritto: testa diademata di Alessandro divinizzato, con le corna di Ammone.

 

Dopo non molto anche i Libi vennero a quest’arte: e il libico oracolo di Ammone fu anch’esso trovato a imitazione del cielo e della sapienza celeste, in quanto che fanno Ammone con la faccia di ariete. Tutte queste cose furono conosciute dai Babilonesi ed essi – dicono – prima degli altri: ma a me pare che molto di poi giunse quest’arte a loro.

I Greci né dagli Etiopi né dagli Egizi appresero l’astrologia: ma fu Orfeo, figlio di Eagro e di Calliope, il primo che insegnò loro queste cose, non apertamente, né divulgò quest’arte, ma la chiuse negli incantesimi e nella religione, come era suo umore. Avendo composta la lira, celebrava orge e cantava inni sacri; e la lira, essendo di sette corde, simboleggiava l’armonia dei sette pianeti. Queste cose investigando Orfeo e a queste ripensando, tutto dilettava, tutto vinceva. Non guardava egli alla lira che aveva in mano né si curava di altra musica, ma la gran lira d’Orfeo era questa. E i Greci per questa cagione onorandola, le assegnarono un posto in cielo e un gruppo di stelle si chiama “lira di Orfeo”.

Se mai dunque vedrai in mosaico o in pittura rappresentato Orfeo, che siede in atto di cantare, tenendo in mano la lira, e intorno a lui stare animali moltissimi, tra i quali l’uomo, il toro, il leone e altri – quando vedrai questo – ricordati che vuol dire quel canto e quella lira e quale toro e quale leone stanno ad ascoltare Orfeo.

Franz von Stuck, Orfeo e le bestie. Olio su tela, 1891.

 

Se tu conoscessi i principi di cui parlo, anche tu vedresti nel cielo ciascuna di queste cose. Raccontano che Tiresia di Beozia, che ebbe gran fama di indovino, diceva tra i Greci che alcuni dei pianeti sono maschi, altri femmine, e che non producono gli stessi effetti: e, però, favoleggiano anche che egli abbia avuto due nature e abbia vissuto due vite, e cioè che una volta fu femmina, una volta maschio. Quando Atreo e Tieste contendevano per il regno paterno, i Greci ormai attendevano pubblicamente all’astrologia e alla scienza celeste: così gli Argivi in assemblea decretarono che sarebbe stato re chi dei due avesse vinto l’altro quanto a conoscenza. Così Tieste, disegnando l’ariete che è nel cielo, lo spiegò a essi: onde nacque la favola che Tieste possedesse un ariete d’oro. Atreo, invece, parlò del Sole e del suo vario levarsi e di come non si muovano nello stesso verso il Sole e il mondo, ma tengano un corso contrario tra loro, e quello che pare sia l’Occidente del mondo sia l’Oriente per il Sole. Esponendo questo discorso, dunque, fu fatto re dagli Argivi e acquistò fama di grande sapienza.

Quanto a me, la penso così anche di Bellerofonte. Che egli abbia avuto un cavallo alato non me ne persuado: ma credo che egli, questi studi coltivando, a sublimi cose pensando e con gli astri conversando, in cielo salì non con il cavallo, bensì con la mente. E così dico ancora di Frisso, figliolo di Atamante, che fu portato per aria sopra un ariete d’oro, come si favoleggia. Anche Dedalo ateniese, dirò cosa strana, penso che non fu alieno all’astrologia, anzi vi attese molto e la insegnò a suo figlio. Icaro, poi, giovane e temerario, ricercando ciò che non era permesso e sollevandosi con la mente al cielo, cadde dalla verità, uscì dalla via della ragione e precipitò in un pelago infinito di cose. I Greci ne raccontano altrimenti e da lui chiamano Icario un seno di questo mare.

Frederic Leighton, Dedalo e Icaro. Olio su tela, 1869.

Forse ancora Pasifae, avendo udito Dedalo parlare del toro che risplende tra gli astri, s’innamorò dell’astrologia; perciò credono che Dedalo le fece da mezzano con il toro.

Ci sono ancora quelli che divisero in parti questa scienza e ciascuno di loro ne studiò qualcuna: chi raccolse osservazioni intorno alla Luna, chi intorno a Giove, chi intorno al Sole, chi al loro corso, al loro movimento, alla loro potenza. Endimione ordinò le osservazioni fatte sulla Luna, Fetonte segnò il corso del Sole, ma non esattamente e, lasciando imperfetta la sua opera, si morì. Gli ignoranti di queste cose credono che Fetonte fosse figlio del Sole e narrano di lui una favola incredibile: che egli andò dal Sole, suo padre, e gli chiese di guidare il carro della luce; che quello glielo concesse e gli insegnò a guidare i cavalli; ma che Fetonte, come montò sul carro, giovane e inesperto, ora scendeva presso la Terra, ora si alzava ai celesti; onde che gli uomini per il freddo e per il caldo insopportabile morivano. Infine, che Zeus, sdegnato, con un grande fulmine percosse Fetonte, che cadde e le sorelle gli furono intorno e lo piansero con molto dolore, finché mutarono forma, e ora sono pioppi che piangono sopra di lui lacrime d’ambra. Non fu niente di tutto questo né se ne deve credere niente, né che il Sole abbia mai avuto figli, né che un figlio gli morisse.

Selene e Endimione. Affresco, I sec. a.C. dalla Casa dei Dioscuri (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Raccontano i greci altre favole assai, alle quali io non do troppa fede. E, invero, come si potrebbe credere mai che Enea sia nato da Afrodite, Minosse da Zeus, Ascalafo da Ares, Autolico da Ermes? Ciascuno di loro fu certo caro a un dio e chi nacque sotto l’influenza di Venere, chi di Giove, chi di Marte. Il pianeta dominante, appunto, nella generazione, come fanno i genitori, rende gli uomini a sé somiglianti nel colore, nell’aspetto, nelle opere, nell’animo. Fu re Minosse perché dominava Giove, bello Enea perché così volle Venere, ladro Autolico perché le ladronerie gli vennero da Mercurio. E così Giove non legò Saturno né lo cacciò nel Tartaro né si brigò di tutte quelle cose che gli uomini credono. Ma Saturno gira nell’ultima orbita e più lontana da noi, ha un moto lento e non si vede facilmente dagli uomini, perciò dicono che egli non può muoversi e sta come incatenato. E poi la gran profondità del cielo si chiama Tartaro.

Specialmente in Omero poeta e nei versi di Esiodo si possono vedere antichi riscontri con l’astrologia: così, quando Omero parla della catena di Zeus, dei buoi del Sole, che i credo che siano i giorni, e della città che Efesto fece nello scudo, e del coro e della vigna. E ciò che egli dice di Afrodite e dell’adulterio di Ares, senza dubbio, non l’ha preso da altro che da questa scienza: che l’incontro del pianeta Venere con Marte fece nascere la poetica invenzione d’Omero. Il quale, poi, in altri versi distingue le opere dell’una e dell’altro; di Afrodite dice:

Tu tratti le soavi opere d’amore;

e le opere della guerra:

Stanno a cuore al celere Ares e ad Atena.

In effetti, a ben guardare, gli antichi usavano molto delle divinazioni e non tenevano in poco conto l’astrologia; anzi, non fabbricavano città, né le accerchiavano con mura, né muovevano guerra, né prendevano moglie prima di consultarne gli indovini. né gli oracoli erano per loro senza astrologia. In Delfi profeteggia una vergine, simbolo della vergine celeste: un dragone di sotto al tripode risponde, giacché tra gli astri risplende anche il dragone; e a Didime l’oracolo di Apollo mi pare detto così dai celesti Gemelli. Così sacra cosa parve loro la divinazione! E Odisseo, quando fu stanco del suo lungo errare, volendo sapere qualche certezza dei fatti suoi, discese nell’Orco non per vedere «la gente morta e la region del pianto», ma per parlare con Tiresia. E, dopo che egli venne al luogo che Circe gli aveva indicato ed ebbe scavata la fossa e sgozzate le pecore, essendovi accorse molte ombre desiderose di bere il sangue, fra le quali quella di sua madre, non permise a nessuna, neppure a lei, prima che non ne avesse gustato Tiresia ed egli non lo avesse costretto a dargli l’oracolo: ed ebbe il coraggio di vedere assetata anche l’ombra di sua madre!

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

 

Ai Lacedemoni Licurgo ordinò la cittadinanza secondo la scienza celeste: e promulgò loro una legge che proibiva di uscire in campo innanzi al plenilunio, perché credeva che non avessero eguale potenza la Luna crescente e quella calante e che ogni cosa fosse governata dalla Luna. I soli Arcadi non accettarono questo e spregiarono l’astrologia, dicendo, nella loro stoltezza e ignoranza, che essi sono nati prima della Luna.

Tanto i nostri antichi erano amanti della divinazione! I moderni, al contrario, alcuni dicono essere impossibile agli uomini trovare certezza nella divinazione, perché essa non è credibile né vera; che Giove e Marte non si muovono in cielo per noi, che non si danno un minimo pensiero dei fatti degli uomini, che non hanno nulla a che vedere con noi e che non vogliano mescolarsi con noi, ma stiano per i fatti loro e per loro necessità si volgano nei loro giri; altri non definiscono l’astrologia bugiarda, ma inutile sì, perché non si muta per divinazione il destino delle Moire. Agli uni e agli altri io posso rispondere così. Gli astri nel cielo girano per la loro via, ma accidentalmente nel loro moto hanno un potere sulle cose nostre. Vuoi tu quando un cavallo corre, quando uccelli o uomini si muovono, che le pietre si scuotano, che le paglie siano agitate dal vento cagionato dalla corsa, e non vuoi che il girare degli astri non produca alcun effetto? Da ogni fuocherello viene in noi un’influenza, eppure il fuoco non brucia per noi, e non si cura di noi se abbiamo caldo: e dagli astri non riceviamo noi alcuna influenza? È vero che l’astrologia non può far bene ciò che è male, né mutarne le conseguenze che ne derivano: ma chi la usa, si ha questa utilità; che conoscendo il bene futuro ne gode molto prima e sopporta più agevolmente il male, il quale non venendo all’insaputa, ma preveduto e aspettato, pare più facile e lieve. E questa è la mia opinione intorno all’astrologia.

La «religio» a Roma nel I secolo a.C.

di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.

 

[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 11542, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.

scena di attività pubblica, con sacrificio e census. bassorilievo, marmo, ii sec. a.c., dall_ara di domizio enobarbo (campo marzio, roma). musée du louvre
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.

Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

 

Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 7172).

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.

 

I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.

Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.

Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).

Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.

Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».

Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.

giovane in atteggiamento votivo. bronzetto, 400-350 a.c. london, british museum
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.

 

Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.

Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).

Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 34).

Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.

Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.

Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).

Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).

Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 34; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.

Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta 'l'Augusto di Via Labicana'). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.

Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.

Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 56).

Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.

Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Altes Museum.jpg
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.

 

L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.

Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.

Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.

Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta  di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.

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Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.

Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).

Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.

L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).

Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.

augure. statuetta, bronzo, 500-480 a.c. ca. paris, musée du louvre
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).

Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.

Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.

In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.

giudice e indovino (dettaglio). affresco etrusco, 540-530 a.c. ca., dalla tomba degli auguri (parete destra, necropoli di monterozzi, tarquinia)
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).

 

Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditus religionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.

Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 11442, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.

Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.

Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.

 

q. cecilio metello pio. denario, italia settentrionale, 81 a.c. ar 3, 54 gr. r – brocca e lituo con leggenda imper(atori) iscritti in una corona d_alloro
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.
 

Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.

Apelle, pittore del Re

di P. Moreno, in Storia e civiltà dei Greci (dir. R. Bianchi Bandinelli), vol. 6. La crisi della pólis: arte, religione, musica, Milano 1990, pp. 493-501.

[…] La società che regge la produzione della scuola di Sicione non è solo una civiltà di cittadini, ma quella che confluiva nell’unità degli Elleni sotto il regime di un monarca: la pittura, come la plastica, era al servizio del potere e l’appoggio dato da Filippo alla parte aristocratica si risolveva nell’accentuazione di tendenze allegoriche intese all’esaltazione dell’autorità politica.

Attorno al 343, quando Filippo convocò Aristotele per curare l’educazione di Alessandro, anche Apelle fu introdotto alla corte di Macedonia per i buoni uffici di Aristrato e i rapporti mantenuti da Pamfilo con il paese di origine. Apelle diviene così protagonista del passaggio dal sistema delle scuole, in qualche modo legate alla tradizione delle città di maggior prestigio culturale, all’impostazione di un’arte aulica[1]:

È superfluo dire quante volte dipinse Filippo ed Alessandro.

Dalla romantica scoperta della bellezza di Laide, si passa al privilegio del pittore cortigiano (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 86):

Alessandro gli dimostrò in quale onore lo tenesse con un esempio famosissimo, e infatti avendo ordinato che la più diletta fra le sue concubine, di nome Campaspe, fosse dipinta da Apelle nuda, per ammirazione della sua bellezza, e quello essendosi accorto di essersi innamorato mentre lavorava, gliela diede in dono.

 

John William Godward, Campaspe. Olio su tela, 1896. Art Renewal Center.

La disponibilità del pittore è confermata dalla notizia dell’editto col quale Alessandro, all’avvento al trono, gli avrebbe confermato la prerogativa di riprodurre la propria effige.

Le imprese di Alessandro in Oriente diedero occasione ad Apelle di cogliere il riflesso storico della vicenda personale del sovrano, che egli aveva iniziato ad illustrare in Macedonia con i suoi ritratti. Ad Efeso, dove il pittore era tornato a stabilirsi al suo seguito, Alessandro partecipò ad una pompḗ, che era insieme una festa religiosa e una parata militare (Arriano, Anabasi, I 18, 2): probabilmente è questa[2] «la processione di Megabizo, sacerdote di Diana Efesina» dipinta da Apelle, insieme ad un Alessandro a cavallo (Eliano, Varia historia, II 3) ed al keraunophóros[3]. La dimestichezza dell’artista con il sovrano alimenta nella letteratura artistica il tópos retorico della visita all’atelier, dove tuttavia si riconosce l’autenticità della cháris ionica, intesa non solo come un ideale estetico, ma come stile di vita, a contrasto con la severità di Melanzio e di altri artisti sicioni[4]:

Aveva anche grazia, per cui era molto gradito ad Alessandro il Grande che veniva frequentemente in bottega[…] ma quando si metteva a dire troppe cose inesatte, lo persuadeva con grazia al silenzio, dicendo che veniva deriso dai ragazzi che preparavano i colori.

Alla stessa fonte biografica, d’impronta peripatetica, risale l’episodio relativo all’Alessandro a cavallo:

Alessandro, vedendo ad Efeso la propria immagine dipinta da Apelle, non la lodò secondo il merito della pittura, ma condotto avanti il cavallo, ed avendo esso nitrito al cavallo nel quadro, come fosse stato vero anche quello, Apelle esclamò: «Maestà, ma il cavallo sembra essere molto più esperto di te in pittura».

Il giudizio di verità naturale, respinto da Zeusi, è divenuto un «esperimento» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 95) normale per le immagini di animali, mentre nella figura umana l’aspirazione alla cháris porta il pittore ad un’interpretazione soggettiva, che non lasciava persuaso lo stesso Alessandro, poiché Apelle non ne rappresentava (Plutarco, De Alexandri fortuna, II 335f) «la virilità e il carattere leonino», bensì «il volgere del collo e la vaghezza e liquidità dello sguardo». In particolare (Plutarco, Vita Alexandri, 4, 2) «dipingendolo portatore di fulmine, non imitò l’incarnato, ma lo fece più scuro e abbronzato». L’effetto nasceva forse dall’elaborazione del chiarore del fulmine in un’atmosfera altrimenti poco illuminata (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 92): «le dita sembrano sporgere e pare che il fulmine sia fuori della tavola», ma la distanza dal modello era segnata da un esplicito motto del pittore (Plutarco, De Alexandri fortuna, II 335a):

Dipinse Alessandro portatore di fulmine con tanta evidenza e colorito da poter dire che dei due Alessandri, quello di Filippo era invincibile, ma quello di Apelle inimitabile.

La diatriba che divise gli artisti nel confronto tra il keraunophóros e l’Alessandro con la lancia di Lisippo, riuscirebbe meglio giustificata pensando che anche la pittura di Apelle rappresentasse una figura stante, quale l’Alessandro col fulmine inciso da Pirgotele nel conio di un decadramma e tramandato dalle gemme. Ma la pittura pompeiana offre per molti aspetti una seducente alternativa nella figura in trono nella Casa dei Vettii. Il personaggio giovanile è seduto frontalmente, con una dislocazione di piani che ne rende estremamente mobile la posa: la gamba sinistra è avanzata, mentre la destra è fortemente ripiegata, sicché le ginocchia segnano sotto il mantello una profonda obliquità e divaricazione; il torso è in scorcio verso destra, ma il braccio corrispondente porta avanti lo scettro, puntato a terra in primo piano; la sinistra abbassata stringe il fascio delle folgori che prolunga al centro la diagonale dell’avambraccio, mentre la testa diverge verso l’alto, aprendo in lontananza l’irrequieta composizione. L’impressione di trovarci all’inizio del processo di apoteosi nasce dalla fusione di elementi propri della figura del sovrano ispirato dal dio, con quelli della trasfigurazione nella divinità. Simboli regali e insieme divini sono il trono con lo scranno, lo scettro, il manto di porpora e la corona di fronde di quercia, attributo divino il fascio di folgori stretto nella sinistra, motivo di congiunzione tra le sfere del potere celeste ed umano il movimento verso l’alto della testa e dello sguardo. Ma dove le parole di Plinio trovano il più eloquente riscontro è nella folgore obliqua sul grembo, sporgente dalle ginocchia, ottenuta col bianco e col giallo a contrasto della porpora – fulmen extra tabula esse – e nelle dita del piede sinistro che ricevono dall’alto il bagliore ed urtano immediatamente lo spettatore con i riflessi bianchi che le distinguono una ad una nel calzare – digiti eminere videtur. In Nicia il problema è quello di dare risalto plastico all’intera figura, in Apelle l’organicità classica è compromessa dall’evidenza del particolare violentemente illuminato: alla funzione plastica della prospettiva, del colore e della luce, perseguita da Melanzio e da Pausia, si è aggiunto lo splendor, come rappresentazione della fonte di luce nel quadro e dei suoi riflessi sulla figura (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 29).

Alessandro Magno. Affresco pompeiano, I sec. a.C., dalla Casa dei Vettii. The Bridgeman Art Library.

Plinio ripeteva a proposito del keraunophóros (Naturalis Historia, XXXV 92):

I lettori ricorderanno che tutte queste cose sono state fatte con quattro colori.

In Apelle, la tecnica di applicazione è quella della velatura, osservata da Aristotele[5]:

I colori si mostrano gli uni attraverso gli altri come talora fanno i pittori che passano un colore sopra un altro più vivo.

Una vernice trasparente equilibrava i contrasti[6]:

Le sue invenzioni giovarono nell’arte anche ad altri; una sola cosa nessuno poté imitare: ossia che, terminata l’opera la cospargeva di un atramento così tenue che questo stesso, illuminato, suscitava il colore bianco della lucentezza e proteggeva dalla polvere e dalle impurità, apparendo infine alla mano di chi lo osservasse, ma anche allora con grande accortezza, perché la lucentezza dei colori non offendesse la vista a chi osservava come attraverso una pietra speculare, e di lontano la medesima cosa desse inavvertitamente austerità ai colori troppo floridi.

Le consumate risorse di una tecnica vicina al virtuosismo consentono all’artista di esprimere ogni sfumatura della vita interiore e di dare l’interpretazione dei casi individuali nell’inquietudine del tempo: il «demone» di cui parlava l’epigramma a proposito di Apelle, è quanto avvince ed affascina lo spettatore nella rappresentazione dell’animo umano. Nella straordinaria galleria di re, cortigiani ed artisti, dipinti da Apelle insieme al primo autoritratto di cui si abbia notizia nella pittura antica (Anthologia Palatina, IX 595), l’audace introspezione ed un’individuazione senza riserve consentivano ai metoposkópoi di indovinare il passato e il futuro da ciascun volto (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 88). Clito il Nero, «che si affrettava a battaglia col cavallo e l’attendente che porge l’elmo a lui che lo chiedeva» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), è colui che aveva salvato la vita ad Alessandro al Granico nel 334. «Neottolemo a cavallo contro i Persiani» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 96) ricorda parimenti le dediche di statue equestri ai caduti del Granico e in qualche modo viene evocato dai cavalieri nel mosaico di Alessandro e nella battaglia sul sarcofago di Sidone. Abrone (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), rappresentato in un quadro a Samo, potrebbe essere il pittore altrimenti noto nella cerchia di Apelle. Menandro, che Plinio (Naturalis Historia, XXXV 93) indica come «re di Caria», potrebbe essere il satrapo della Lidia, noto tra il 327 e il 321: il dipinto era a Rodi, dove ci porta la notizia di una breve permanenza di Apelle e dei suoi rapporti con Protogene (Naturalis Historia, XXXV 81-83; 88). «Archelao con moglie e figlia» (Naturalis Historia, XXXV 96) può essere identificato con lo stratego figlio di Teodoro, governatore di Susa sotto Alessandro, poi satrapo di Mesopotamia; Anteo (Naturalis Historia, XXXV 93) eventualmente con il padre di Leonnato. Ad Alessandria si trovava il ritratto di Gorgostene (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), attore tragico, ed alla corte di Tolomeo il pittore avrebbe eseguito la caricatura di un buffone (Naturalis Historia, XXXV 89), qualcosa come i grýlloi di Antifilo.

Le forze inquietanti della pittura di Apelle sublimano nell’allegoria. Nell’Odeîon di Smirne si conservava una Cháris (Pausania, IX 35, 6) da intendere come la personificazione dell’ideale estetico del pittore, che si può identificare con la figura di un mosaico di Biblo. D’incerta collocazione la Tychḗ seduta[7], che avrà comunque esercitato un’influenza sull’opera di Eutichide. Ad Alessandria, con l’allegoria della Calunnia, Apelle espresse la crisi dei suoi rapporti con Tolomeo. La necessità di rendersi in qualche modo indipendente dall’ordine costituito delle corti solleva il realismo dell’osservatore ad invenzioni straordinarie. Dalla descrizione di Luciano (Calumniae non temere credendum, 2-5) s’intende che ogni elemento della figurazione era arricchito di sfumature, finezze ed accentuazioni. Luciano metteva in relazione il quadro con un episodio avvenuto un secolo più tardi, il tradimento di Teodote a Tiro del 219, ma se la confusione è nata dall’assedio di Tiro sostenuto nel 315 dalla guarnigione tolemaica contro Antigono, abbiamo un opportuno riferimento cronologico per i rapporti con Tolomeo I (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 89), compromessi dalla simpatia di Apelle per Antigono e dalla rivalità di Antifilo.

Il ritratto e l’allegoria si fondono col genere storico nell’Alessandro trionfante sul carro, che Plinio (Naturalis Historia, XXXV 93-94) descrive a Roma, e suggerisce la partecipazione di Apelle alla prima commissione pittorica che conosciamo da parte dei Diadochi. Si tratta con ogni probabilità di una parte della decorazione del carro funebre di Alessandro[8], attorno al quale erano

quattro tavole figurate parallele e uguali alle pareti. Di queste la prima aveva un carro cesellato, e seduto su questo Alessandro, che aveva tra le mani uno scettro straordinario: attorno al re si trovava una guardia armata di Macedoni ed un’altra di Persiani melofori, e davanti a questi i portatori delle sue armi. La seconda aveva gli elefanti che seguivano la guardia, bardati da guerra, che avanzavano portando sul davanti Indiani, sul dorso Macedoni, armati secondo il costume consueto. La terza torme di cavalieri che mostravano di raccogliersi in schiera. La quarta navi preparate alla naumachia.

La visione prospettica corrisponde a quella descritta da un autore di scuola aristotelica (De audibilibus, 801a 33), con figura che indietreggiano, mentre altre vengono innanzi, e i soggetti ricordano la preferenza espressa da Nicia (Demetrio, De elocutione, 76) per «ippomachie e naumachie». Apelle doveva già aver rappresentato qualcosa di simile ad Efeso, per quel che riguarda lo schieramento di cavalieri.

Nella prima tavola, l’eccezionalità della forma dello scettro, messa in luce dalla descrizione di Diodoro, fa pensare ad un tirso, e la presenza degli elefanti rafforza l’ipotesi che si tratti di una rappresentazione di Alessandro come Dioniso di ritorno dall’India. Poiché il corpo del re fu trasferito ad Alessandria, le tavole che decoravano il carro possono essere state tra quelle che Ottaviano portò più tardi a Roma dall’Egitto: il concetto del tiaso vittorioso attraverso la Carmania interessava particolarmente gli abitanti di Alessandria, che veneravano il fondatore come un giovane dio, coperto dalla spoglia di elefante, e rimase all’origine della processione che i Tolomei organizzavano al momento dell’accessione alla basiléia. Elementi di questa pompḗ passarono al trionfo romano, ma l’interpretazione offerta dal pittore era così lontana dal programma augusteo da farci credere che la prima sistemazione dei dipinti nel Foro di Augusto fosse prevalentemente decorativa (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 27). Come il quadro giovanile con Aristrato a Sicione, anche quest’opera apologetica della maturità di Apelle era però destinata a subire un  travisamento. Affermatosi in Roma il processo di apoteosi, Claudio fece sostituire la testa di Alessandro con quella di Augusto[9], e allora accadde che le figure di prigionieri divenissero personificazioni di Bellum e Furor, avvinti dalla Pax Augusta, secondo l’interpretazione di Plinio (Naturalis Historia, XXXV 27; 94) e di Servio (Scholia ad Aeneidem, I 294). L’altra tavola di Apelle portata nel Foro di Augusto rappresentava Alessandro con i Dioscuri (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 27; 93): quando la testa del sovrano fu mutata anche qui in quella di Augusto, i Romani poterono travisare nelle giovani divinità le immagini di Gaio e Lucio Cesare.

I capolavori si addensarono negli ultimi anni, quando Apelle andò a stabilirsi a Coos e ne assunse la cittadinanza (Ovidio, Ars amandi, III 401; Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79). Nell’Asklepieîon, Eroda (Mimiambo IV, 72-78) celebrava la decorazione di un interno con un giudizio che, nell’apparente ingenuità del dialogo tra Kokkálē e Kynnō, conferma la tradizione della «linea» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 81-84) del pittore e la vivacità della polemica con Antifilo:

Vere, cara, sono le mani dell’Efesio in ogni linea di Apelle […]; chi ha visto lui o le sue opere senza restar stupito in contemplazione, come giusto, quello sia appeso per un piede nella bottega di un tintore.

Leonida di Taranto (Anthologia Palatina, XVI 182), raggiungendo Teocrito a Coos, vide l’Afrodite Anadyoménē, lasciandocene la prima, insuperata descrizione:

Nascente dal grembo della madre, ancora ruscellante di spuma, vedi la nuziale Cipride, come Apelle l’espresse, bellezza amabilissima, non dipinta, ma animata. Dolcemente con la punta delle dita spreme la chioma, dolcemente irraggia dagli occhi luminoso desiderio, e il seno, annuncio del suo fiorire, inturgidisce come un pomo. Atena stessa e la consorte di Zeus diranno: «Zeus, siamo vinte al giudizio!».

Afrodite Anadyoménē esce dal mare con due amorini. Affresco pompeiano del I secolo d.C., dalla Casa di Venere.

La notizia di Strabone (XIV 2, 19) che nell’Asklepieîon si conserva tra le opere di Apelle un ritratto di Antigono, consente di datare questo periodo fino agli anni tra il 306 e il 301, quando l’isola fu sotto il controllo del Monoftalmo: si tratta probabilmente dell’Antigono a cavallo (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93) che chiude l’elenco pliniano dei ritratti ed era preferito, insieme ad un’Artemide (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 96), da «i più esperti d’arte». Da Coos fu portata a Roma anche l’ultima opera del maestro, un’Afrodite, interrotta dalla morte[10].

La critica antica faceva culminare con Apelle il processo di scoperta della pittura classica, poiché il pittore apparentemente non ha inteso rompere col passato, ha espresso la propria ammirazione per i seguaci di scuole diverse ed ha rivissuto in una sintesi più vasta precedenti esperienze. Ma sul piano della teoria artistica egli ha portato a compimento l’innovazione dei maestri di Sicione, che consiste nella relatività e soggettività della rappresentazione. Le motivazioni per cui il pittore avrebbe superato «tutti quelli nati prima e quelli destinati a nascere dopo» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79), non sono infatti omogenee alla serie delle precedenti invenzioni: l’ultima di quelle citate da Plinio, lo splendor, per quanto fosse nota all’artista e certamente da lui sviluppata, non gli veniva esplicitamente attribuita […]. Quintiliano[11] invece afferma che Apelle era superiore agli altri per «ingegno e grazia», e di ciò il pittore stesso si sarebbe vantato. Ora i frammenti derivati dagli scritti di Apelle «sulla teoria della pittura» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79; 111), non lasciano dubbi sul fatto che cháris e gnōmē fossero doti naturali dell’artista, che nulla avevano a che vedere con i fondamenti obiettivi dell’estetica classica: Apelle stesso ammetteva di venire superato da Melanzio nella composizione, da Asclepiodoro nelle proporzioni (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79) e da Protogene nella diligenza. […]

Apelle aveva colto un aspetto moderno dell’operare, il senso di una conclusione dal punto di vista artistico che non coincideva con la preoccupazione classica della completezza (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 80):

Altra gloria acquistò ammirando un’opera di Protogene d’immenso lavoro e di quanto mai travagliata cura, disse infatti che in quello ogni cosa era pari o anche superiore a lui, ma che egli in una sola cosa era superiore, e cioè che sapeva togliere la mano dalla tavola, col memorabile precetto che spesso l’eccessiva diligenza nuoce.

Apelle credeva alla soluzione del quadro con un colpo di spugna, alla felicità del momento ispirato da Hermes (Hḗrmaion), aveva fede in ciò che si produce da se (autómaton), secondo la formulazione aristotelica – «l’arte ama fortuna e la fortuna ama l’arte» – che compromette il merito convenzionale della ricerca (Dione Crisostomo, Orationes, LXIII 4-5):

Non riusciva a dipingere la schiuma del cavallo travagliato dal combattimento. Sempre più in difficoltà, alla fine, per smetterla gettò la spugna sulla pittura in direzione del morso. Ma poiché questa aveva molti colori, applicò alla pittura il colore più simile alla schiuma desiderato. Apelle vedendo ciò si rallegrò, nella sua incapacità, dell’opera di fortuna e terminò l’opera non per arte, ma per fortuna.

La cháris non è una regola valida per ragioni obiettive e razionali, non è trasferibile attraverso l’insegnamento, come la precettistica sicionia, ma è affidata a sua volta ad una qualità personale, il «genio» dell’artista, che risolve le difficoltà contingenti del modello. Questo infatti non è più scelto secondo il criterio classico del bello, ma viene offerto da circostanze estranee alla selezione estetica […].

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Note:

[1] Plin., Nat. Hist., XXXV 93.

[2] Plin., Nat. Hist., XXXV 93.

[3] Cic., In Verr., IV 135; Plin., Nat. Hist., XXXV 92; Plut. Alex., 4, 2; De Alex. Fort. II, 335a; Ad princ. Iner., 780f; De Is., 360d.

[4] Plin., Nat. Hist., XXXV 85.

[5] Aristot., De sensu, 440a 7-9.

[6] Plin., Nat. Hist., XXXV 97.

[7] Liban., Descr., XXX 1-5; Stob., Ecl., IV 41, 60.

[8] Diod., XVIII 26-27.

[9] Plin., Nat. Hist., XXXV 36; 94.

[10] Cic., De off. III 2, 10; Ad fam., I 9, 15; Plin., Nat. Hist., XXXV 92.

[11] Quint.. Inst. Or., XII 10, 6.