L’età degli imperatori per adozione

1. Un secolo di stabilità politica

Il periodo che comincia con il principato di Nerva (96) e arriva fino alla morte di Commodo (192) è – se si eccettuano gli ultimi dodici anni, quelli, appunto, del principato di Commodo! – un secolo intero di stabilità, che non ha uguali (per durata e benefici effetti) in nessun altro periodo della storia romana. Se il primo secolo dell’Impero era stato caratterizzato da tensioni e conflitti di governo, il secondo è contraddistinto da una sostanziale uniformità di conduzione del potere. Ormai saldo nei suoi confini, consapevole della sua grandezza, capace di romanizzare intimamente le genti assoggettate nei secoli, l’Impero sembrava effettivamente tutto pervaso di iustitia e humanitas, quale nessun’altra espressione politica antica conobbe mai. Gli imperatori che si succedettero nell’arco di tempo considerato fecero sincera professione di mitezza e di generosità e alcuni di loro furono addirittura fini intellettuali, di cultura estremamente aristocratica.

M. Cocceio Nerva. Statua equestre, bronzo, fine I sec. da Miseno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il Senato, di fatto ormai esautorato, ritrovò una sua parvenza di potere nei confronti dell’imperatore e finì per adattarsi a un ruolo limitato, o meglio subordinato, ma non più esposto a quelle aggressioni insultanti e violente che avevano segnato tanto negativamente il governo dei Caesares del I secolo.

Il problema della successione dei principi trovò, dunque, una soluzione soddisfacente nel sistema dell’adozione: e questo garantì, almeno fino a Marco Aurelio, una serie di imperatori dotati di alte qualità personali. La stabilità raggiunta dall’ordinamento governativo attenuò quello che era stato l’assillo continuo di congiure e ribellioni gestite dai grandi generali dell’esercito, pronti a servirsi della propria forza militare per realizzare personali ambizioni di potere; e consentì anche agli stessi principi di procedere a riforme istituzionali e sociali prima del tutto inattuabili.

M. Cocceio Nerva. Statua, marmo, fine I sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti.

In varia misura, ma con costanza, i provinciali furono ammessi a cariche pubbliche di prim’ordine, il che mostra come l’Impero sapesse valersi assennatamente di tutti gli uomini abili e onesti. E perciò tutti sentivano in Roma la loro patria e dalle più lontane regioni guardavano a lei come alla μήτηρ καὶ πατρὶς κοινὴ πάντων («madre e patria comune di tutti») e pregavano, come nell’encomio Εἰς Ῥώμην (Or. 26) del retore asiatico Publio Elio Aristide, che essa durasse in eterno. Fu questo pure il periodo in cui procedette instancabile l’opera di trasformazione dei centri urbani, processo che giustamente è stato definito «urbanizzazione dell’Impero», ma fu anche l’epoca in cui strade, commerci e opere pubbliche raggiunsero il massimo sviluppo.

2. Da Nerva a Traiano

2.1. L’adozione di Traiano e la romanizzazione dell’Occidente

Eliminato Domiziano con una congiura del 96, il Senato e i mandanti dell’esecuzione si accordarono sulla scelta di un illustre senatore, ormai anziano (aveva sessantasei anni) e privo di figli, Marco Cocceio Nerva, leale servitore dell’Impero e legato alla dinastia Flavia. Come primo atto formale, il nuovo principe giurò pubblicamente che sotto il suo governo non ci sarebbero state condanne a morte contro membri dell’aristocrazia, abolì i processi de maiestate, concesse l’amnistia e la restituzione delle proprietà confiscate sotto il predecessore, ma non riuscì comunque a coinvolgere il venerando consesso nella politica di governo; anzi, le sue relazioni con la fazione che aveva sostenuto i Flavi lo esposero a tentativi di congiura e ad ammutinamenti. Asceso al potere per volontà del Senato, Nerva cercò di guadagnarsi il consenso del popolo e dell’esercito con donativi, assegnazioni fondiarie e sgravi fiscali, depauperando così le casse dello Stato. Le misure adottate contro la crisi economica e finanziaria, e cioè l’istituzione di una commissione per ridurre la spesa corrente (i V viri minuendis publicis sumptibus), o la coniazione di monete con il metallo prezioso ricavato dalla fusione delle statue abbattute di Domiziano, non potevano avere una reale efficacia.

M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 96 d.C. AR 3,28 g. Rovescio: concordia exercituum. Simbolo della coniunctio dextrarum davanti a un’insegna legionaria su prora navale.

Presso l’esercito, inoltre, era ancora alto il prestigio del predecessore e Nerva mancava del sostegno di una forza militare. Quando destituì il prefetto del pretorio Tito Petronio, uno degli ufficiali coinvolti dell’assassinio di Domiziano, il vecchio Nerva non assecondò le richieste dei pretoriani che ne desideravano la messa a morte. L’insoddisfazione dei soldati sfociò in aperta rivolta: le guardie assediarono il palazzo e presero l’imperatore in ostaggio; Tito Petronio e altri congiurati furono uccisi. Il nuovo prefetto, Casperio Eliano, e i suoi uomini pretesero con minacce e violenze che il principe pronunciasse pubblici ringraziamenti per l’atto benemerito.

Quell’episodio di alto rischio indusse Nerva a cercare un’altra via per rafforzare la propria posizione e garantire continuità nell’Impero: gli eventi lo costrinsero, dunque, ad adottare e a scegliere come proprio successore il governatore della Germania Superior, Marco Ulpio Traiano. Costui, nato nel municipium di Italica nell’Hispania Baetica (od. Andalusia), poteva contare sul sostegno di un’armata e godeva di grande prestigio e di un’altissima reputazione presso i quadri militari di tutto l’Impero. Dotato di grandi capacità organizzative e strategiche e di ampia autorevolezza, quest’uomo avrebbe certamente contribuito alla soluzione della crisi e restituire all’imperatore il prestigio compromesso.

M. Cocceio Nerva in veste di Giove. Statua, marmo, fine I sec. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Nerva sarebbe rimasto a capo dello Stato ancora per poco; eppure, ebbe il tempo di iniziare un’importante svolta politica: ritornando alla collaborazione con il Senato, cui restituì alcune responsabilità giudiziarie che il predecessore aveva avocato a sé, tacitando il pretorio con lauti donativi e tenendo buono il popolino con alcuni sgravi fiscali, Nerva addossò all’amministrazione pubblica una serie di incombenze, come il cursus publicus (il sistema postale), prima a carico degli Italici. Una benemerita iniziativa fu senz’altro l’istituzione dei cosiddetti alimenta, un provvedimento in favore dei bambini bisognosi, legittimi e illegittimi, dell’Italia romana: il principe si impegnava, di tasca propria, ad assicurare a centinaia di bambini un futuro sereno e dignitoso. Questo programma, portato avanti dai successori di Nerva, costituì l’avvio della politica filantropica che segnò il secondo secolo dell’Impero. Nerva morì nel gennaio del 98, dopo appena un anno e quattro mesi di governo; gli successe Traiano senza incidenti.  

Tabula alimentaria traianea. Iscrizione (CIL XI 1147), bronzo, c. 107-114, da Lugagnano Val d’Arda (PC). Parma, Museo Archeologico Nazionale.

Di origini iberiche, anche se la sua famiglia vantasse antiche origini umbre, Marco Ulpio Traiano fu il primo provinciale assurto ai fastigi imperiali, segnando la fine della supremazia italica in Senato e nell’esercito, inaugurando la tendenza a preferire alla guida dell’Impero uomini provenienti dalle classi dirigenti provinciali. Il processo di “romanizzazione” dell’Occidente era ormai un fatto compiuto; l’Italia perdeva progressivamente il proprio prestigio rispetto alle altre regioni dell’Impero, e le nuove aristocrazie si dimostravano sempre più vicine agli interessi dei ceti medi in ascesa.

M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 97 d.C. AR. 3,26 g. Dritto: Imp(erator) Nerva Caes(ar) Aug(ustus) P(ontifex) M(aximus) tr(ibunicia) pot(estate). Testa laureata dell’imperatore voltata a destra.

Dopo gli eccessi di Domiziano, Traiano ripropose il modello del princeps che, primus inter pares, operava al servizio della res publica; inoltre, egli cercò una nuova intesa tra il principato e l’ideale tradizionale della libertas, fondata sul riconoscimento della funzione e dei privilegi delle classi dirigenti, e sull’adesione di queste al buon governo dell’imperatore.

2.2. L’espansionismo militare di Traiano

Quando seppe dell’adozione imperiale, Traiano non ebbe fretta di raggiungere Roma, ma preferì potenziare le misure di sicurezza: sostituì la tradizionale guardia del corpo imperiale (i corporis custodes) con 500 (e poi 1000) equites singulares, selezionati con cura dalla cavalleria ausiliaria (il pretorio, invece, continuò a essere prevalentemente composto da italici); privilegiò l’attività militare, rinverdendo una politica di conquiste in grande stile, accantonata dai tempi di Augusto.

M. Ulpio Traiano. Busto con paludamentum del tipo Decennalia, marmo, c. 108. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Sotto Traiano, perciò, l’Impero riprese la sua espansione militare, raggiungendo la massima estensione con una serie di conquiste, destinate però a rivelarsi in gran parte effimere. Il nuovo slancio della politica militare fu determinato, al di là delle motivazioni occasionali che scatenarono i singoli conflitti, dall’aggravarsi della crisi economica e finanziaria, che imponeva l’acquisizione di nuove risorse da sfruttare. Una guerra si imponeva su tutte: quella di rivincita su Decebalo, re dei Daci, che aveva umiliato Domiziano e Roma. Il casus belli fu offerto dalla pressione esercitata ai confini settentrionali, lungo il corso del medio e basso Danubio: fatto che richiese l’intervento immediato dei Romani; in realtà, il vero obiettivo di Traiano era quello di assicurare all’Impero il controllo dei ricchi giacimenti auriferi che il territorio dacico custodiva.

All’inizio del II secolo l’esercito romano contava ormai un effettivo di trenta legioni, per un totale stimato di 180.000 uomini, tra i reparti legionari, quasi tutti di provenienza provinciale, e oltre 200.000 auxilia. Traiano poté, dunque, disporre di una forza armata davvero considerevole.

Arco di Traiano. Arco celebrativo, fornice unico, pietra calcarea, opera quadrata e marmo pario, c. 114-117. Benevento.

La conquista e la sottomissione della Dacia furono completate dopo due serie di operazioni: una prima campagna, nel 101-102, con la sonora sconfitta di Decebalo e dei suoi a Tapae, portò alla riduzione del territorio transdanubiano a regno-cliente di Roma. La seconda spedizione, nel 105-106, che si configurò come un’invasione massiccia di truppe romane in risposta a un tentativo di riscossa di Decebalo, si concluse con la presa della capitale, Sarmizegetusa e il suicidio del re. La Dacia fu redatta in provincia e in breve presidiata e romanizzata. La Colonna Traiana, ultimata nel 113, conserva la più splendida illustrazione di queste campagne daciche, mentre la contemporanea documentazione storico-letteraria è andata irrimediabilmente perduta. Fu questa l’ultima grande conquista romana, che fruttò all’aerarium un immenso bottino: l’afflusso dell’oro dei Daci risolse per parecchio tempo i problemi di liquidità finanziaria dell’Impero.

La battaglia di Tapae (XXIV, Cichorius). Rilievo, marmo, 113 d.C. dalla Colonna Traiana.

Negli stessi anni 105-106 Traiano operò anche l’annessione dell’Arabia Petraea (od. Giordania), già un regno-cliente di Roma, che controllava gran parte del vitale e proficuo commercio carovaniero con l’Oriente e occupava un’area strategicamente nevralgica. Negli anni successivi, tra il 107 e il 113, l’imperatore si dedicò al riassetto interno, con particolare riguardo per i problemi delle province, nelle quali promosse imponenti lavori di edilizia pubblica e introdusse su vasta scala i curatores civitatis, funzionari imperiali addetti al controllo delle finanze cittadine su mandato governativo centrale. Siccome, poi, numerosi erano ormai in Senato gli elementi provinciali con interessi locali, Traiano impose loro di investire un terzo del proprio patrimonio in terreni italici, onde incrementarne il valore e rinsanguarne la redditività – in linea, peraltro, con l’orientamento politico di Domiziano. L’Italia, infatti, avvezza da secoli a vivere sulle risorse delle province, subiva ormai la concorrenza di quelle più prospere e urbanizzate, come le Galliae e le Hispaniae. Traiano, inoltre, perfezionò e razionalizzò l’iniziativa del predecessore a beneficio dei bambini poveri: gli interessi sui prestiti concessi ai piccoli proprietari terrieri furono devoluti agli alimenta, che, come si è visto, costituivano una struttura assistenziale per raccogliere in comunità gli orfani italici. Questi bambini, allevati ed educati, avrebbero potuto accedere ai quadri dell’amministrazione pubblica e all’esercito.

Traiano, però, era stato sempre un militare: si comprende quindi che egli desiderasse lasciare traccia di sé nella storia di Roma, specialmente con imprese militari. E proprio la vocazione guerresca avrebbe finito col tradirlo, spingendolo a un’impresa ben al di là delle forze e delle risorse a sua disposizione: l’ossessione di Traiano era di liquidare il Regno dei Parti, che, nel 113, con l’ascesa al trono di Osroe I, aveva ripreso le ostilità con rinnovate pretese sul trono d’Armenia.

M. Ulpio Traiano. Aureus, Roma 116 d.C. AV 7,37 g. Rovescio: P(ontifex) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestas) co(n)s(ul) VI p(ater) p(atriae) SPQR – Parthia capta. Trofeo fra due prigionieri partici seduti.

Nell’ottobre dello stesso anno Traiano lanciò un’offensiva militare in grande stile: nel giro di tre anni, dopo aver annesso l’Armenia, istituito le province di Mesopotamia Superior e Assyria ed espugnato persino una delle capitali reali, Ctesiphon, le forze romane raggiunsero il Golfo Persico. Senonché i Parti fecero quadrato contro gli invasori: nel 116 la Mesopotamia meridionale si sollevò in una sommossa generale, mentre gli attacchi nel nord del Paese e nelle altre regioni occupate logorarono l’esercito, mettendo a repentaglio le linee di comunicazioni romane. Nel frattempo, tutto il Vicino Oriente romano era in ebollizione per violente sommosse giudaiche. L’imperatore ritenne perciò opportuno ritirarsi prima che accadesse l’irreparabile. Giunto in Cilicia, Traiano morì improvvisamente ai primi di agosto del 117, lasciando una situazione oggettivamente precaria, nonostante l’appellativo di optimus princeps con cui sarebbe passato alla storia. Il suo successore, Publio Elio Adriano, preferì rinunciare alle nuove conquiste, sanzionando di fatto il fallimento delle spedizioni di Traiano. L’Armenia, dunque, tornava a essere uno Stato cuscinetto sotto un re nominato dall’imperatore romano.

3. Adriano e gli Antonini

3.1. L’età d’oro del principato

L’epoca di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio rappresenta già nella coscienza dei contemporanei un periodo felice nella vita dell’Impero romano. Il nuovo corso inaugurato da Adriano rispetto alla politica aggressiva del suo predecessore porta all’affermazione di un nuovo tipo di “monarca illuminato”, amante della cultura e delle arti, che si richiama ad Augusto in opposizione a Cesare: «Non cesarizzarti!» era il monito che Marco Aurelio ripeteva a sé stesso prendendo le distanze dalla gloria della vittoria militare e del potere. Alle differenze tra le singole personalità di questi principi e tra le varie vicende dei loro governi corrisponde un comune schema ideologico e una concezione condivisa del potere imperiale, tanto da incarnare il mito platonico del governo affidato ai filosofi.

P. Elio Adriano. Dracma, Alessandria d’Egitto, 133-134. R – L IH Iside Pharia in atto di reggere una vela, mentre naviga verso la città egizia, rappresentata dal Faro a destra.

3.2. L’impero umanistico di Adriano (117-138)

Nel giro di due giorni, Adriano, un parente alla lontana di Traiano, allora ad Antiochia ad Orontem come governatore della Syria, apprese delle ultime volontà dell’imperatore e della propria adozione: ricevette così l’acclamazione imperiale. In effetti, la designazione tardiva a successore di Traiano alimentò il sospetto di una montatura ordita da Adriano in accordo con la moglie del defunto, Plotina, che avrebbe tenuto nascosta la morte dell’Augusto sposo fino all’avvenuta acclamazione del nuovo Caesar da parte degli eserciti.

P. Elio Adriano. Statua, bronzo, 117 d.C. ca. Jerusalem, Israel Museum.

Con Adriano, cugino di Traiano e come lui di origini iberiche, Roma abbandonò la politica di espansionismo militare ritornando a una strategia difensiva, realizzata anche attraverso la costruzione di fortificazioni permanenti lungo i limites dell’Impero, come il celeberrimo “Vallo di Adriano” al confine settentrionale della Britannia. Il nuovo princeps era convinto che impegolarsi in ulteriori avventure orientali avrebbe portato le risorse umane e finanziarie dell’Impero all’esaurimento; rinunciò così alle province di nuova istituzione e si accontentò di insediare ove possibile reguli clienti. Adriano per questo motivo incontrò l’opposizione del Senato e di alti ufficiali dell’esercito, scandalizzati dalla rinuncia alla gloria e alle annessioni, sempre fruttuose: l’imperatore dovette porvi rimedio con durezza, portando all’esecuzione di eminenti consolari. Non coglie peraltro nel segno la polemica contrapposizione – già sostenuta nell’antichità – fra l’imperatore conquistatore e condottiero d’eserciti (Traiano) e il principe portatore di pace (Adriano). Il nuovo capo dello Stato romano, infatti, si era formato sotto le armi e non rinunciò a usarle quando necessario.

P. Elio Adriano rientra a Roma accolto dal Genio del Senato, dal Genio del Popolo e dalla dea Roma. Rilievo, marmo, inizi II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

Per rendersi conto delle necessità urgenti e ovviare agli inconvenienti, Adriano viaggiò instancabilmente per tutto l’Impero da Oriente a Occidente, informandosi ovunque andasse delle condizioni e dei bisogni degli abitanti, per sopperirvi concretamente e partecipare attivamente all’amministrazione delle province. In ogni luogo trascorso, egli promosse inoltre la costruzione o il restauro di infrastrutture e opere pubbliche, ma non mancò di saziare la propria curiosità intellettuale e l’indubbia propensione per le lettere e le arti. Raffinato ellenizzante ed esteta, imbevuto di sapienza greca, Adriano colse l’occasione di visitare luoghi e monumenti, promuovendo manifestazioni culturali e sportive, cimentandosi personalmente nelle dispute dei dotti e dei letterati del suo tempo. Testimonianze architettoniche per eccellenza dei suoi gusti restano la tenuta di Tibur (od. Tivoli), che fece riedificare e ampliare (Villa Adriana), nella quale volle che fossero riprodotti i più importanti edifici e ambienti dei luoghi che aveva visitato; ma anche il rifacimento, con la pianta circolare, del Pantheon di Agrippa.

P. Elio Adriano. Aureus, Roma, c. 120-121, AV 7,26 g. Rovescio: P(ontefix) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul) III. Marte stante di fronte con lancia e scudo.

Adriano, con il suo regime, affermò il primato della politica interna su quella estera, dimostrandosi amministratore capace e sensibile ai mutamenti della società. Rispetto a Traiano, l’avvento di Adriano aveva segnato l’inizio di una politica moderata anche nella questione giudaico-cristiana; ma, negli ultimi anni del suo principato, l’imperatore dovette fronteggiare una nuova rivolta, che faceva centro su Gerusalemme. Il mondo giudaico, in fermento fin dai tempi di Caligola, costituiva da sempre un grosso problema per l’Impero romano, tollerante verso ogni religione e cultura che non ponesse problemi politici e di ordine pubblico, ma spietato nel reprimere atteggiamenti non consoni alla prassi imperiale. Ormai il Giudaismo si configurava come un “movimento insurrezionale” e in quanto tale andava soffocato. L’ultima grande rivolta, capeggiata da Simon Bar Kochba, un leader dalle pretese messianiche, impegnò le forze romane per tre anni (132-135). Alla fine, i Romani ebbero ragione dei ribelli, ma a caro prezzo: la repressione fu durissima con centinaia di migliaia di morti. Gerusalemme vide cancellato il proprio nome, mutato ufficialmente in Aelia Capitolina.

La battaglia di Ethri (134), durante la rivolta guidata da Bar Kochba. Illustrazione di P. Dennis.

3.3. Antonino Pio (138-161)

In assenza di eredi, Adriano si era posto il problema della successione. Per motivi che ai moderni sfuggono, ma che potrebbero affondare nei difficili rapporti con la moglie, il principe escluse dall’imperium lo scarso parentado, sopprimendone eventuali capaces a scanso di equivoci. Nel gennaio del 138, poco prima di passare a miglior vita, l’imperatore aveva adottò Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, esponente dell’aristocrazia che vantava origini galliche. Costui meritò il titolo di Pius per essersi battuto con tenacia per l’apoteosi del padre adottivo presso il Senato recalcitrante. Poiché gli erano premorti i due figli maschi, Antonino non ebbe difficoltà ad adottare a sua volta, su richiesta del predecessore, Lucio Vero e Marco Aurelio, suo genero, marito dell’unica figlia femmina, Faustina Minore: in seguito, la successione dei due optimi chiamati a esercitare in coppia il potere imperiale, con una maggiore garanzia di “costituzionalità”, avrebbe espresso l’adesione del principe agli ideali tradizionali del Senato romano.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Aureus, Roma, 151-152, AV 7,24 g. Rovescio: tr(ibunicia) pot(estate) XV co(n)s(ul) IIII. L’imperatore in toga con globo e pergamena.

Il lungo principato di Antonino Pio fu abbastanza tranquillo, senza scosse se non per una larvata minaccia degli Alani sui confini orientali. Il nuovo imperatore consolidò il sistema di governo del predecessore, perseguendo una politica di sgravi fiscali, resa possibile dallo sfruttamento delle risorse, ma anche dalla limitazione della spesa per le opere pubbliche. Amministratore attento e oculato, Antonino diede di sé l’immagine sobria del sovrano che agisce per il bene comune, con un continuo richiamo al passato di Roma, segno di una concezione tradizionalistica del potere. Il principe non si avventurò in operazioni militari che non fossero di stabilizzazione dello status quo: torbidi sulla frontiera britannica, causati dai Caledoni, lo indussero, dopo una repressione, ad avanzare le fortificazioni (vallum Antonini).

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Busto, marmo, metà II sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Anche per temperamento ed esperienza personale, essendosi formato in incarichi civili e amministrativi, sino a entrare nel consilium principis di Adriano, ormai tramutato in organo di governo istituzionalizzato, Antonino Pio non amava la guerra, e cercò nei limiti del possibile sempre l’accordo diplomatico, anche con l’eterno nemico partico. A differenza del predecessore, però, non si mosse mai da Roma, convinto che il principe dovesse governare dalla capitale.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Statua, marmo, metà II sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani-Museo Chiaramonti

Tradizionalista in ambito religioso, di condotta ispirata a principi dell’humanitas, anche nell’amministrazione della giustizia, Antonino si segnalò parimenti per l’attività evergetica, ampliando l’area di intervento a favore dei bisognosi e dei diseredati: promosse un piano di assistenza per le ragazze italiche orfane, raccolte e allevate in comunità come puellae Faustinianae (così chiamate in onore della moglie, Faustina Maggiore). Questa iniziativa rientrava nelle misure prese in favore dell’Italia, che Adriano aveva trattato alla stregua delle altre province, mentre Antonino, fedele al suo conservatorismo, volle riconfermare nel ruolo di padrona del mondo, potenziandone le infrastrutture e gli edifici pubblici.

3.4. Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo (161-180)

Dei due figli adottivi di Antonino, il genero Marco Aurelio, maggiore di età, precedette Lucio Vero in carriera, ricevendo già nel 146 l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas. Sul letto di morte, nel 161, il vecchio imperatore trasferì a lui soltanto l’autorità imperiale, ma volle che il Senato riconoscesse Lucio Vero come collega a tutti gli effetti. I due avrebbero governato congiuntamente, sebbene a Marco, come più anziano, sarebbe spettata una sorta di primato, sancito anche dall’investitura a pontifex maximus. Marco Aurelio, inoltre, era un esponente dello Stoicismo, che teorizzava il potere monarchico come la migliore forma di governo per il sapiens. Inaugurando così una prassi che non sarebbe rimasta isolata nella storia di Roma, il nuovo imperatore si associò con pari poteri il fratello adottivo: fu il primo esempio di una diarchia istituzionalizzata ai vertici dello Stato.

Antonino Pio adotta Marco Aurelio e Lucio Vero. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.

A Lucio fu affidato il compito di condurre una campagna militare contro i Parti: questi, nello stesso 161, in occasione dell’insediamento di re Soemo, protetto da Roma, dapprima invasero il Regno d’Armenia, imponendo sul trono Pacoro, fratello del loro re Vologase IV; poi sferrarono una temibile offensiva contro le province romane di Syria e Cappadocia. Il conflitto, protrattosi fino al 166, si concluse a favore dei Romani, che, cinquant’anni dopo Traiano, tornarono a occupare il territorio partico fino a Ctesiphon, che presero e rasero al suolo. Soemo fu restaurato re d’Armenia, e i territori conquistati a est dell’Eufrate costituirono la nuova provincia di Mesopotamia.

Scena di battaglia tra Romani e Parti. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.

Una nuova minaccia proveniva dal settore danubiano, dove alcune popolazioni germaniche, spinte da massicci movimenti migratori, avevano invaso la Pannonia. Nel 167 entrambi gli imperatori mossero contro il nemico, con un esercito nei cui ranghi si stava diffondendo un’epidemia di peste, importata dalla spedizione in Oriente e destinata con il tempo a desertificare intere contrade. All’arrivo dell’armata imperiale ad Aquileia, gli invasori si ritirarono e chiesero una tregua, ma Marco Aurelio preferì spingersi oltralpe per dare ai nemici una prova di forza. Dopo aver svernato ad Aquileia, la ripresa virulenta dell’epidemia consigliò il rientro a Roma; per via Lucio morì di un colpo apoplettico agli inizi del 169.

L. Vero. Busto, marmo, II sec. d.C., dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

In quel torno di tempo, tuttavia, i Romani patirono due disastrose sconfitte a opera di alcuni popoli federati sotto i vessilli di Quadi e Marcomanni, che, dilagando un po’ ovunque, superarono perfino le Alpi e arrivarono a incendiare Opitergium (od. Oderzo) e ad assediare Aquileia. Come se non bastasse, bande di predoni scesi dai Carpazi penetrarono in Grecia, dove saccheggiarono Eleusi. Marco Aurelio, che nel frattempo era stato impegnato in una spedizione contro gli Iagyzi al di là del Danubio, dovette rientrare e organizzare un’ampia controffensiva: la messa in sicurezza del territorio romano fu lenta e faticosa, ma alla fine riportò l’ordine. L’imperatore consentì l’insediamento di grandi masse di nomadi in Dacia, Pannonia, Moesia, Germania e in alcune zone dell’Italia nordorientale, dove, alle dipendenze dei proprietari terrieri o del demanio, i nuovi arrivati si sarebbero impegnati a lavorare la terra e a difenderla da altri invasori.

Guerrieri transdanubiani. Illustrazione di G. Embleton.

Mentre si stava risolvendo, o tamponando, il problema delle frontiere settentrionali, si ebbe in Oriente la ribellione di Gaio Avidio Cassio, legatus Augusti in Syria, che era stato artefice del successo in Mesopotamia e allora era plenipotenziario per quel settore. Costui nel 175 accampò pretese alla porpora imperiale, avendo appreso che Marco, malato, era dato per spacciato. Ma quando i sostenitori di Cassio seppero che il principe si era ristabilito e si apprestava a marciare contro di loro, sconfessarono il loro capo e lo uccisero. Risolta così la crisi in Oriente, Marco poté riprendere la via del nord, per risolvere la questione germanica, ma ricadde malato e si spense a Vindobona (od. Vienna) il 17 marzo del 180. Ebbe la consecratio, che lo accomunò al già divinizzato Lucio Vero. Per ironia della storia, il principe-filosofo aveva dovuto operare quasi ininterrottamente sui campi di battaglia.

M. Aurelio Antonino. Statua equestre, bronzo, fine II sec. Roma, Musei Capitolini

Come si è visto, il suo equilibrato governo fu dunque attraversato da gravi difficoltà sul fronte esterno, per la pressione delle externae gentes ai confini; ma tali problemi ebbero ripercussioni su quello interno, poiché le difficoltà militari erano fattori d’instabilità politica, acuendo la crisi economico-finanziaria (l’impegno bellico aveva reso necessaria una nuova svalutazione della moneta). L’ultimo atto del principato di Marco Aurelio, in rottura con la prassi dei suoi predecessori, si rivelò dannoso. Rinnegando il principio dell’adozione, nel 176 il principe si era associato nell’imperium il figlio Commodo, che gli successe nel 180 a diciannove anni. In realtà, il principio dell’adizione non aveva mai ricevuto alcuna sanzione giuridica e da Nerva ad Antonino Pio si era trattato di una scelta obbligata, determinata dal fatto che gli imperatori non avessero avuto figli.

M. Aurelio Antonino in veste di pontifex maximus. Busto, marmo, fine II sec. d.C. London, British Museum.

4. Il principato di Commodo (180-192): la fine di un’epoca

A Marco Aurelio successe il figlio Commodo, di soli diciannove anni. Le fonti antiche, come Elio Lampridio, autore della Vita Commodi Antonini, e Cassio Dione, concordi nel giudizio negativo, sono da valutare con cautela, perché ostili per principio al sistema dinastico, che pure rientrava nella logica dei giochi di potere, in cui i vincoli di sangue erano avvertiti come essenziali per la stabilità del regime. Ma come tutti i paladini “del cambiamento”, anche Commodo si guadagnò una pessima nomea, essendo ritratto a tinte fosche. Eppure, attribuirgli tutte le responsabilità per una situazione socio-economica già abbastanza compromessa sarebbe assurdo. Sembra comunque che il giovane imperatore abbia voluto fin da subito imporsi come un autocrate, suscitando la naturale opposizione del Senato con una serie di congiure per eliminarlo. Commodo, ultimo degli Antonini, è considerato a parte rispetto alla gloriosa sequenza dei suoi predecessori: il suo regime costituisce quindi uno spartiacque nella storia dell’Impero, un nuovo capitolo nel quale si manifestarono in modo definitivo numerose trasformazioni nel mondo romano.

Commodo. Testa, marmo, fine II sec. d.C. Wien, Kunsthistorisches Museum.jpg

Conclusa in fretta la pace sul fronte danubiano e consolidatone il confine, Commodo rivelò sin da subito una concezione del potere antitetica rispetto a quella del padre, comportandosi con cinismo e furbizia, ma dimostrandosi altrettanto miope e ottuso. Resosi conto delle possibilità che derivavano dalla sua posizione nel governo, per non consentire ad altri di prevaricarlo tolse di mezzo molti membri del proprio entourage. Il suo fare sospettoso e paranoico e il clima di tensione a palazzo costrinsero alcuni cortigiani, fra i quali anche sua sorella Lucilla, a ordire già nel 182 un complotto ai danni del principe. La congiura fu però sventata e duramente repressa.

Privo di interesse per l’amministrazione dell’immenso dominio di Roma, il giovane imperatore lasciò le redini del governo nelle mani dei propri collaboratori: prima si affidò al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, poi, dopo averlo eliminato con l’accusa (falsa) di tradimento nel 185, lo sostituì con uno dei suoi liberti, Cleandro; ma anche questi, in seguito a una rivolta della plebe urbana nel 192, fu messo a morte da Commodo come capro espiatorio.

Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.

La politica interna del giovane imperatore fu tutta concentrata sui problemi della capitale, sulle dinamiche di palazzo e sull’organizzazione di spettacolari ludi circenses: tale atteggiamento, in breve, gli alienò le simpatie delle masse provinciali. La concezione autocratica del potere da una parte spinse Commodo a ricercare il consenso degli eserciti, aumentando le paghe e conferendo donativi, e del popolino, gratificandolo con congiaria e varie forme d’intrattenimento. Mostrò grande attenzione alla logistica annonaria, creando una nuova flotta, che doveva fare la spola tra l’Italia e l’Africa, e facendo ampliare i magazzini di Ostia. Inoltre, per fronteggiare l’aumentato costo della vita, il principe cercò di imporre un calmiere forzoso, ma questo provvedimento ebbe l’unico risultato di far sparire alcune merci dal mercato, aggravando la carestia e facendogli perdere credibilità.

Come Nerone si era dilettato di esibirsi in vesti di citaredo e di auriga, Commodo nel suoi dodici anni di principato diede nuovo impulso alle arti, facendo erigere monumenti alla gloria del padre – come la Colonna Antonina e la statua equestre di Marco Aurelio in Campidoglio –; tuttavia, egli colpì per la sua smania di scendere nell’arena per duellare contro i gladiatori o per prendere parte agli spettacoli di caccia (venationes), in parte ricollegandosi alla tradizione orientale, che vedeva nelle abilità venatorie dell’uomo la sua bravura militare.

Combattimento tra gladiatori. Mosaico, inizi III sec. d.C. da Lussemburgo.

Certamente in netto contrasto con la tradizione romana fu l’atto assunto in occasione dell’incendio scoppiato nella capitale nel 191: l’imperatore, facendo ricostruire i quartieri più colpiti dal disastro, volle rifondare l’Urbe con il nome di Colonia Commodiana. Oltretutto, pur essendo un devoto seguace di Iside, Commodo fu estremamente tollerante nei confronti di Giudei e Cristiani; ma soprattutto amò identificarsi con Ercole, al punto da impugnare la clava e vestire la leontea durante le sue apparizioni in pubblico e nell’arena. L’imperatore, infatti, assunse il titolo di Hercules Romanus, facendosi rappresentare in quella veste non solo in numerosi ritratti diffusi in tutto l’Impero, ma utilizzando la medesima effige persino sui coni monetali, nell’intento di proporsi ai sudditi come colui che si sarebbe preso cura di loro.

Commodo, come Hercules Romanus. Busto, marmo di Luni, 191-192 d.C. Roma, Museo del P.zzo dei Conservatori.

Una nuova congiura, però, nella notte di fine anno 192, ordita tra gli altri dalla concubina dell’imperatore, Marcia, e dal prefetto del pretorio, Quinto Emilio Leto, tolse di mezzo Commodo, il cui atteggiamento era ormai divenuto insostenibile: secondo le fonti, egli fu strangolato dal suo maestro di ginnastica, Narcisso. L’evento aprì la strada ai pronunciamenti militari, che avrebbero caratterizzato le successioni al soglio imperiale nel secolo incipiente.

Il ritorno alla storia: Principato e libertà (Tac. Agr. 1-3)

di A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 333-339.

 

I primi tre capitoli del De vita et moribus Iulii Agricolae rappresentano il proemio dell’opera, dal quale traspare immediatamente l’intenzione di Tacito di proiettare la vicenda biografica del suocero (al quale sente doveroso rivolgere un elogio in nome della pietas) nel più ampio contesto dei problemi del Principato durante il periodo della dinastia dei Flavi e in particolare nell’ultimo periodo di Domiziano, connotato da un’oscura tirannide. Tacito presenta al lettore la propria opera come frutto dei tempi nuovi, inaugurati da Nerva, nei quali ai senatori era di nuovo consentito professare le proprie idee senza temere persecuzioni, e lascia trapelare anche il progetto di dedicare un’opera di più vasta portata dedicata alla rievocazione del passato recente.

Statua di personaggio loricato. Marmo pentelico, inizi II sec. d.C.

[1, 1] Clarorum uirorum facta moresque posteris tradere, antiquitus usitatum, ne nostris quidem temporibus quamquam incuriosa suorum aetas omisit, quotiens magna aliqua ac nobilis uirtus uicit ac supergressa est uitium paruis magnisque ciuitatibus commune, ignorantiam recti et inuidiam. [2] sed apud priores ut agere digna memoratu pronum magisque in aperto erat, ita celeberrimus quisque ingenio ad prodendam uirtutis memoriam, sine gratia aut ambitione, bonae tantum conscientiae pretio ducebatur. [3] ac plerique suam ipsi uitam narrare fiduciam potius morum quam adrogantiam arbitrati sunt, nec id Rutilio et Scauro citra fidem aut obtrectationi fuit: adeo uirtutes iisdem temporibus optime aestimantur, quibus facillime gignuntur. [4] at nunc narraturo mihi uitam defuncti hominis uenia opus fuit, quam non petissem incusaturus. Tam saeua et infesta uirtutibus tempora.

[2, 1] Legimus, cum Aruleno Rustico Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Heluidius laudati essent, capitale fuisse, neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saeuitum, delegato triumuiris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. [2] scilicet illo igne uocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exsilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. [3] dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut uetus aetas uidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in seruitute, adempto per inquisitores etiam loquendi audiendique commercio. memoriam quoque ipsam cum uoce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset obliuisci quam tacere.

[3, 1] Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerua Caesar res olim dissociabiles miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerua Traianus, nec spem modo ac uotum securitas publica, sed ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam reuocaueris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et inuisa primo desidia postremo amatur. [2] quid, si per quindecim annos, grande mortalis aeui spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saeuitia principis interciderunt? pauci, ut ita dixerim non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemptis e media uita tot annis, quibus iuuenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium uenimus. [3] non tamen pigebit uel incondita ac rudi uoce memoriam prioris seruitutis ac testimonium praesentium bonorum composuisse. hic interim liber, honori Agricolae soceri mei destinatus, professione pietatis aut laudatus erit aut excusatus.

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

Il tramandare ai posteri le imprese e i costumi degli uomini illustri[1], una volta prassi abituale, non lo ha tralasciato neppure la generazione dei tempi nostri[2], sebbene disinteressata ai suoi uomini migliori, tutte le volte che una grande e nobile virtù ha vinto e superato il vizio comune alle piccole e grandi nazioni, l’ignoranza del giusto e l’odio. [2] Presso gli antichi[3] tuttavia come compiere imprese degne di ricordo era agevole e più immediato, così tutte le persone che brillavano per il loro ingegno venivano condotte a tramandare a memoria della virtù solamente dal premio dell’onestà di coscienza, senza interesse o secondo fine. [3] E molti ritennero che narrare di persona la propria vita fosse segno di sincerità di costumi piuttosto che di arroganza, e ciò né nel caso di Rutilio né nel caso di Scauro[4] risultò inadeguato alla loro lealtà o motivo di astio: a tal punto le virtù godono di ottima stima nei medesimi tempi nei quali facilmente fioriscono. [4] Ora[5], al contrario, a me, che mi accingo a narrare la vita di una persona defunta, è stata necessaria una benevola indulgenza, che non avrei chiesto se mi fossi accinto ad accusarlo: tanto violenti e nemici della virtù sono i nostri tempi.

[2, 1] Abbiano letto[6] che, dopo che Peto Trasea era stato lodato da Aruleno Rustico e Prisco Elvidio da Erennio Senecione[7], era stata emessa una condanna a morte, e non si è infierito solo contro gli stessi autori, ma anche contro i loro libri, dopo aver affidato ai triumviri[8] il compito di bruciare nel comizio e nel foro[9] le testimonianze di illustrissime personalità. [2] Chiaramente in quel rogo credevano anche andasse distrutta la voce del popolo romano e la libertà del Senato[10] e lo spirito critico del genere umano, dopo che, inoltre, i filosofi erano stati espulsi e ogni condotta virtuosa era stata mandata in esilio[11], perché mai capitasse qualcosa di onesto. [3] Abbiamo indubbiamente dato una grande dimostrazione di pazienza; e come l’età antica è giunta a vedere quale fosse nella libertà il limite estremo[12], così noi quale fosse quello nella servitù, una volta toltaci anche la facoltà di parlare e di ascoltare grazie a indagini poliziesche[13]. Insieme alla voce avremmo perso anche la memoria, se fosse nella nostra facoltà tanto il dimenticare quanto il tacere.

[3, 1] Ora finalmente si torna a respirare; e sebbene per prima cosa Nerva Cesare[14], subito sul nascere di una felicissima era, abbia unito cose un tempo tenute separate, il Principato e la libertà, e sebbene ogni giorno Nerva Traiano[15] accresca la gloria dei tempi, e la sicurezza pubblica abbia accolto non solo la speranza e il desiderio, ma anche il forte impegno di realizzazione di tale desiderio, per la natura dell’umana debolezza i rimedi sono tuttavia più lenti dei mali[16]; e come il nostro fisico si sviluppa con lentezza, mentre rapidamente muore, così le facoltà dello spirito si stroncano con più facilità di quanto si richiamino alla vita: infatti si insinua una dolcezza anche della stessa inerzia, e il disimpegno, prima fastidioso, infine viene apprezzato. [2] Come rimanere sorpresi, se per quindici anni, uno spazio considerevole della vita umana, molti sono scomparsi per motivi legati al destino, ma tutti i più risoluti per crudeltà del principe, e in pochi siamo sopravvissuti[17], per così dire, non solo agli altri ma anche a noi stessi, dopo che dalla parte centrale della vita sono stati tolti tanti anni, durante i quali, rimanendo zitti, siamo giunti, se adulti, all’età anziana, se anziani, quasi al termine estremo della vita? [3] Non è quindi motivo di rincrescimento aver scritto, pur con voce disadorna e aspra, memoria della passata servitù e testimonianza della felicità presente[18]. Nel frattempo, questo libro, destinato alla commemorazione di mio suocero Agricola, sarà lodato o scusato come un’attestazione di devozione filiale[19].

 

 

Nei primi tre capitoli dell’Agricola Tacito chiarisce il proprio punto di vista sulla situazione politica che Roma stava vivendo, dopo l’elezione di Nerva a princeps e la fine della tirannide domizianea. In questo senso l’espressione nunc demum redit animus (3, 1) riassume il concetto centrale, in quanto sottolinea l’entusiasmo per il nuovo corso, caratterizzato dalla capacità di Nerva di far convivere due cose, la libertà e il Principato (miscuerit… princpatum ac libertatem, ibid.), che per molto tempo erano parse inconciliabili. Anche nelle opere successive infatti, soprattutto nelle Historiae e negli Annales, Tacito avrebbe studiato a fondo come fosse potuto accadere che, durante il primo secolo del Principato, dopo le innovazioni apportate alla gestione della res publica da Ottaviano Augusto, i senatori, anziché scegliere tra di loro un princeps a cui delegare solo alcune funzioni (soprattutto militari), fossero stati invece schiacciati dalla tirannide di imperatori che avevano considerato Roma come il proprio patrimonio personale, ricevuto in eredità. Con il termine libertas infatti lo storico intende la libertà di parola e di pensiero dei senatori (libertatem senatus, 2, 2: un concetto quindi non sovrapponibile a quello odierno), riguadagnata dopo quindici anni (l’epoca di Domiziano) passati nel silenzio (per silentium venimus, 3, 2). Per Tacito il ritorno alla parola si concretizzò nel progetto di una prima opera di vasto respiro (probabile annuncio delle Historiae) volta a narrare la passata oppressione (prioris seruitutis, 3, 3) e di una successiva relativa al presente (testimonium praesentium bonorum, 3, 3, opera che non sarebbe mai stata scritta), oltre al libro – appunto l’Agricola – dedicato al suocero (honori Agricolae soceri mei destinatus, 3, 3).

T. Flavio Domiziano. Busto, marmo, fine I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

Ciascuno dei tre capitoli ha un tema centrale. Il primo è dedicato al confronto tra il passato, l’epoca repubblicana, quando era attività comune per i più brillanti ingegni dedicarsi alla scrittura delle gestae e dei mores degli uomini illustri, e il presente che, pur non avendo abbandonato del tutto tale pratica, richiede allo storico quasi di doversi scusare per aver ricordato la benemerenza di un grande generale. In un’epoca di delazioni erano diventati infatti comuni solo i discorsi di accusa. Il secondo capitolo tratteggia l’oppressione esercitata dal tiranno nei confronti della cultura, con il riferimento a due esempi di persecuzione non solo contro senatori virtuosi, ma anche contro gli storici che ne avevano tramandato le imprese e addirittura contro le loro opere: entrambi i casi riproducono da vicino la situazione di Tacito, dato che anche lui, come Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, ora si trovava a redigere la biografia di un autorevole senatore scomparso. Il terzo capitolo, infine, richiama le novità del presente e annuncia la volontà di dedicarsi alla storia da parte di Tacito.

L’esordio dell’Agricola manifesta sia a livello tematico sia stilistico caratteristiche che sarebbero rimaste presenti anche nelle opere successive. L’elemento più in evidenza è certamente il forte impegno morale: a partire dalle parole d’esordio (facta moresque) è chiaro che all’autore interessasse una narrazione che mantenesse il ricordo delle virtù morali sullo stesso piano della gloria militare. Nel primo capitolo uno dei termini più ricorrenti è infatti proprio virtus.

M. Cocceio Nerva. Denario, Roma 96 d.C. AR 3, 28 gr. R – Coniunctio dextrarum davanti a un’insegna legionaria su prora navale (concordia exercituum).

Il lettore è dunque indotto a percepire una marcata tendenza a estremizzare, cioè a procedere nel ragionamento per opposizioni nette: per quanto riguarda la dimensione del tempo, viene contrapposto il passato (antiquitus, priores) al presente (at nunc, nunc demum). La frattura è però complessa, perché c’è un passato lontano (quello dei priores), che coincide con la libera Repubblica, e un presente che è rappresentato dalla benefica azione di Nerva e di Traiano (3, 1), ma sul presente si riverbera anche il nefasto influsso del passato recente, caratterizzato dall’oppressione della libertà senatoria e della voce popolare (2, 2), nonché da provvedimenti, come l’espulsione dei filosofi da Roma, volti a impedire ogni attività onesta (ne quid usquam honestum occurreret, 2, 2). Quindi sull’oggi continua a proiettarsi un’ombra negativa che si materializza nell’antitesi tra il tempo in cui agere digna memoratu (1, 2) era agevole e tramandare memoria della gloria era considerata attività onesta (non motivata da interesse e cortigianeria: sine gratia aut ambitione), e il tempo presente, in cui bisogna scusarsi con il pubblico se non si rivolge un discorso di accusa, ma se ne tesse uno di lode (mihi uenia opus fuit). Anche la libertas unita al Principato (3, 1), che appare in netta opposizione rispetto alla seruitute (2, 3) del recente passato, durante il quale il regime poliziesco aveva impedito di parlare e di ascoltare (loquendi audiendique, 2, 3), sembra quindi parzialmente macchiata, a causa della lentezza con cui si effettua la guarigione da un male, in cui invece si cade rapidamente.

Si nota in questo passaggio un altro elemento dominante dell’opera tacitiana, ossia il pessimismo, che è dovuto anzitutto a una radicale sfiducia nei confronti della natura umana (natura infirmitatis humanae, 3, 1). Per questa ragione anche il gruppo formato da scrittore e lettori (i “noi” ai quali allude il diffuso uso della 1^ persona plurale nei capitoli 2-3), i sopravvissuti alla tirannide operata da “loro” (il soggetto sottinteso del verbo arbitrabantur di 2, 2, cioè quelli che credevano di opprimere le coscienze) resta parzialmente oscurato da una sorta di «disimpegno» (desidia, 3, 1) che lascia intuire quanto sarà difficile tornare alla passata virtù, ammesso che vi si riesca.

M. Cocceio Nerva. Denario, Roma 97 d.C. AR. 3, 26 g. Recto. Imp(erator) Nerva Caes(ar) Aug(ustus) P(ontifex) M(aximus) tr(ibunicia) pot(estate). Testa laureata dell’imperatore voltata a destra.

La profondità dei temi e il significato complessivo dell’Agricola sono sottolineati da una scelta assai accorta delle parole, che si ispira all’inconcinnitas e alla brevitas di Sallustio: si notino, per esempio, la tendenza alla variatio, già in 1, 2 (le proposizioni correlate da ut e ita hanno come soggetto la prima un infinito sostantivato, agere, e la seconda celeberrimus quisque) e la tendenza a sottintendere il predicato. Il tono sallustiano, che a livello connotativo conferisce al testo un austero vigore, carico di ammirazione per il passato, è poi ulteriormente amplificato da un’espressione alta, che pare innalzarsi verso il sublime, anche grazie alla tendenza a estremizzare gli opposti. L’elaborazione retorica è visibile nell’uso del procedimento bimembre (per esempio, in comitio ac foro, 2, 1; o fiduciam ac robur, 3, 1), nell’uso di chiasmi (expulsis… professoribus… bona arte… acta, 2, 2) e allitterazioni (uirtus uicit… uitium, 1, 1). Ma la tendenza verso uno stile assai alto è connessa soprattutto all’uso di sintetiche e icastiche sententiae a suggello degli snodi del discorso, per esempio tam saeua et infesta uirtutibus tempora, in 1, 4.

Particolari significati risultano connessi all’esordio dell’Agricola, se si considera che Tacito, pur pensando certamente anche alla posterità nel momento in cui scriveva l’opera, nel presente si rivolgeva a un pubblico di lettori e soprattutto di ascoltatori che in buona parte conosceva di persona, dato che una laudatio era di solito pronunciata in una recitatio (sorta di conferenza alla quale partecipavano, oltre a un pubblico eterogeneo, soprattutto congiunti e familiari del defunto). L’autore era allora all’apice del suo cursus honorum sia come politico sia come oratore, ma ovviamente non ancora come storico. Lo studioso Dylan Sailor, riflettendo sulla composizione dell’opera di esordio, che risale all’anno del consolato (il 97, durante il quale Tacito si era particolarmente distinto per aver pronunciato l’elogio funebre dell’anziano e stimatissimo consolare Virginio Rufo) in un recente lavoro ha ipotizzato che l’autore abbia predisposto il proemio dell’opera quasi per sondare il terreno del pubblico romano e vedere se come storico (di impronta decisamente conservatrice) avrebbe mantenuto il favore di cui godeva come politico e retore[20]. In un certo senso, Tacito ha utilizzato una strategia retorica che, in caso di insuccesso, non gli avrebbe arrecato particolare danno, mentre, in caso di successo, lo avrebbe consacrato come storico. Da un lato, infatti, egli si presenta come il portavoce di un’intera generazione, quella di coloro che avevano subito la tirannide domizianea e sono a essa sopravvissuti. A tal proposito, riveste particolare importanza l’uso costante della prima persona plurale, per esempio in nostris temporibus (1, 1), Legimus (2, 1), dedimus grande patientiae documentum e memoriam perdidissemus (2, 3), per silentium uenimus (3, 2). L’uso della prima persona ha un effetto coinvolgente sull’ascoltatore, che vede la propria esperienza riflessa nelle parole dell’oratore: è difficile ipotizzare l’interpretazione del nos come plurale maiestatis, perché ciò tenderebbe a presentare l’autore come un isolato, mentre è sottinteso che anche tutto il suo pubblico abbia subito le angherie di Domiziano e dunque voglia prenderne le distanze (non viene toccata la spinosa questione connessa con il fatto che autore e pubblico hanno cominciato o proseguito le loro carriere proprio durante l’impero di Domiziano).

A questo punto, l’altro elemento chiave considerato dal Sailor è l’evidente matrice sallustiana dell’esordio, che risultava subito percepibile al pubblico colto, e comunque dichiarata attraverso l’espressione incondita ac rudi uoce (3, 3), che allude allo stile del predecessore. La matrice sallustiana qualifica la voce di Tacito come quella di un austero ammiratore degli antiqui mores: l’esordio con richiamo a un’espressione di Catone Censore orienta ancora di più l’ascoltatore verso quella direzione. Tuttavia, per al cultura dell’epoca scrivere «alla maniera di Sallustio» (come pure alla maniera di altri classici) non era assolutamente un fenomeno raro, anzi era uno degli esercizi insegnati nelle scuole di retorica, dove si erano formate tutte le persone colte. In altre parole, una recitatio nello stile di Sallustio, pur di argomento serio e pronunciata da un autorevole senatore, avrebbe potuto rappresentare anche una sorta di ludus: quasi un diversivo per un uomo impegnato nell’amministrazione della res publica.

M. Cocceio Nerva. Denario, Roma 97 d.C. AR. 3, 17 g. Verso. Publica Libertas. Personificazione di Libertas, stante, voltata a sinistra, con pileo e scettro.

Tacito, sempre secondo Sailor, chiude il proemio ricordando che l’opera che si accinge a scrivere è una sorta di laudatio funebris verso un caro defunto (3, 3), proprio contando sul fatto che l’opera sarebbe potuta passare per un piccolo esercizio di stile, un omaggio pietoso, stilisticamente elaborato, se non avesse destato particolare attenzione nel pubblico l’approccio alla storia da lui operato: l’annuncio delle Historiae, in fondo non del tutto esplicito, sarebbe stato dimenticato. Se invece l’Agricola avesse avuto successo, l’autore avrebbe potuto cominciare a presentarsi al pubblico, oltre che come oratore e uomo politico, anche come voce rappresentativa dei sentimenti della propria generazione. E ciò infatti avvenne.

***

[1] L’esordio riprendere la formula clarorum virorum utilizzata in apertura delle Origines da Catone Censore, secondo una testimonianza di Cicerone (Planc. 66).

[2] Si intende coloro che sono vissuti durante l’epoca degli imperatori Flavi.

[3] I priores dal punto di vista di Tacito sono i Romani vissuti al tempo della res publica.

[4] P. Rutilio Rufo partecipò attivamente alla vita politica e militare di Roma tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., divenendo console nel 105: condannato per concussione nel 92, scrisse in esilio le sue memorie, di cui restano pochi frammenti. M. Emilio Scauro, contemporaneo di Rufo, fu console nel 115 ed è ricordato per aver dato il via alla costruzione della Via Aemilia e per aver partecipato alle vicende che sfociarono nella guerra contro Giugurta, rimanendo coinvolto negli scandali che la accompagnarono. Anch’egli scrisse le proprie memorie.

[5] Il presente è rappresentato dall’imperium di Nerva e, sebbene coincida con l’inizio di una nuova era, come verrà spiegato più sotto, molto dei vizi antichi è ancora presente, per la lentezza con cui gli uomini riprendono a vivere secondo usanze oneste dopo la tirannide.

[6] Si pensa che Tacito faccia riferimento agli acta diurna, ossia una sorta di gazzetta ufficiale, conservata negli archivi del Senato, su cui venivano pubblicati i provvedimenti legislativi e i processi; nell’ultima parte del suo imperium, tuttavia, Domiziano proibì che fossero pubblicate le condanne a morte.

[7] Sono tutti senatori che in vario modo erano stati vittime degli imperatori più sanguinari, Nerone e Domiziano. Trasea Peto, nostalgico dell’ordinamento repubblicano, ispirandosi ai dettami della dottrina stoica si era fieramente opposto agli eccessi di Nerone; venne coinvolto nella congiura di Pisone nel 65 e, a seguito di ciò, si tolse la vita l’anno successivo. Aruleno Rustico, tribuno della plebe proprio quell’anno, fece invano opposizione e cadde poi vittima di Domiziano proprio per aver composto una biografia di Trasea Peto. Elvidio Prisco, genero di Trasea, anch’egli del ceto senatorio, a seguito della congiura di Pisone fu esiliato da Nerone e poi condannato a morte da Vespasiano nel 73 o 74. Fannia, la sua vedova, chiese di scriverne un elogio a Erennio Senecione, senatore di origini ispaniche, noto per la sua rettitudine: per questo motivo Senecione fu messo a morte da Domiziano.

[8] Cioè i triumviri capitale: magistrati con compiti di polizia e con l’incarico di far eseguire le condanne a morte.

[9] Il comitium, luogo dove si teneva parte delle assemblee popolari e delle riunioni popolari, e il forum erano il simbolo della passata libertas repubblicana, calpestata dalla tirannide degli imperatori; roghi di opere storiche non allineate alla volontà del princeps erano avvenuti anche sotto Ottaviano Augusto (che fece bruciare le storie scritte dal pompeiano Tito Labieno) e sotto Tiberio (che fece bruciare gli scritti di Cremuzio Cordo). I roghi di libri comunque non furono caratteristici solo dell’età imperiale, in quanto nel 181 a.C. furono dati alle fiamme per ordine del Senato libri che illustravano la filosofia pitagorica (attribuiti a Numa Pompilio). I primi roghi di libri di cui si hanno notizia erano avvenuti però nell’Atene del V secolo a.C., quando furono bruciati sul rogo i testi dei filosofi Anassagora e Protagora.

[10] Tacito, conformemente alla visione aristocratica tradizionale, con il termine libertas esprime qui soprattutto la facoltà dei senatori di partecipare pienamente alla vita politica. Se la piena libertas appartiene solo ai senatori, il popolo non è suddito, ma può far sentire la propria vox attraverso alcuni canali istituzionali, come le assemblee popolari e i tribuni della plebe (ma il suo peso resta comunque assai meno determinante nella gestione della res publica, rispetto alla pienezza dei diritti dei senatori). Il punto di vista di Tacito, tutt’altro che eccentrico, giustifica la nota espressione Senatus popolusque Romanus abitualmente utilizzata per indicare la cittadinanza nelle sue fondamentali (e diverse) componenti.

[11] Domiziano fece espellere i filosofi da Roma attorno al 93: anche questo provvedimento non era nuovo per l’Urbe, a partire dalla cacciata dei tre filosofi greci giunti a Roma per un’ambasceria nel 155 a.C. Tacito lascia intendere che, con la partenza dalla città della filosofia, in essa non rimase altro che il vizio.

[12] Tacito intende dire che il periodo repubblicano aveva assistito al tracollo delle libere istituzioni (fondate su una partecipazione collegiale alla vita politica) a causa della faziosità dei tribuni e dei politici estremisti che, abusando della libertà concessa loro dalle leggi vigenti, avevano trasformato la libertà stessa in licenza, ponendo le premesse per le guerre civili e la successiva affermazione del Principato.

[13] Domiziano, come molti dei suoi predecessori, poteva contare su una fitta rete di spie e di delatori, che, in cambio di una ricompensa, riferivano anche in assenza di prove concrete comportamenti o discorsi che potevano costituire una minaccia per il monarca.

[14] M. Cocceio Nerva, nato nel 30, apparteneva a una famiglia di rango senatorio di antica nobiltà; seguì il proprio cursus honorum all’epoca dei Flavi e, dopo la congiura che eliminò Domiziano nel 96, fu scelto dal Senato come princeps, in quanto ritenuto in grado (come effettivamente avvenne) di impedire l’innescarsi di una guerra tra fazioni. Rimase imperatore (e per questo è qui detto Caesar) fino alla morte avvenuta due anni dopo.

[15] M. Ulpio Traiano, proveniente da una famiglia di rango senatorio di origine ispanica, dopo una brillante carriera militare, fu associato all’imperium da Nerva nel 97, secondo il principio della “scelta del migliore”; per via dell’adozione Tacito lo nomina come Nerva Traianus.

[16] Il pessimismo sulla natura umana è una costante del pensiero tacitiano.

[17] Tacito si riferisce alla cerchia di senatori che si riconoscono nel nuovo corso rappresentato da Nerva e che, pur avendo fatto carriera sotto i Flavi e in particolare Domiziano, non si sono particolarmente compromessi con il sistema delle delazioni che aveva portato all’eliminazione di molti degli appartenenti alla loro stessa classe.

[18] Questo passaggio è ritenuto un’allusione alle Historiae, che trattano del periodo compreso fra il 69 e il 96, e il preannuncio di una successiva opera relativa al periodo iniziato con Nerva. Lo storico tuttavia cambierà il progetto e, anziché dedicarsi al presente, preferirà rivolgere la propria attenzione al periodo della dinastia giulio-claudia con gli Annales.

[19] L’autore presenta l’opera come un elogio funebre, secondo la tradizione romana che prevedeva che al funerale di una persona di rilievo il parente più autorevole pronunciasse pubblicamente un discorso commemorativo.

[20] D. Sailor, Becoming Tacitus: Significance and Inconsequentiality in the Prologue of Agricola, ClassAnt 23 (2004), 139-177 [link].

Cornelio Tacito

di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 400-413.

Tacito è giustamente considerato uno dei più importanti storici dell’antichità. Nelle sue opere egli si fa interprete dello stato d’animo dei suoi contemporanei nei confronti dell’Impero, raccontando, con toni tragici e insieme solenni, le pagine più cupe della dittatura imperiale, sotto Nerone e Domiziano. Nostalgico della libertas repubblicana, Tacito è tuttavia convinto della necessità dell’Impero e plaude l’operato di quei principes che, come Nerva e Traiano, sono riusciti a conciliare principato e libertà. La storia di Tacito non è però solamente cronaca o analisi oggettiva degli avvenimenti, ma è una storia viva e pulsante di passioni, una storia animata da personaggi tragici che si muovono su un palcoscenico fatto di intrighi, tradimenti, paura ed emozioni violente.

Frammento di iscrizione sepolcrale di Cornelio Tacito (CIL VI 41106). Tabula, marmo, 117 d.C. c. da Villa Patrizi, sulla Via Nomentana. Roma, Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano.

La vita

Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito nacque intorno al 55, secondo alcune fonti a Interamna (od. Terni), ma più probabilmente nella Gallia Narbonensis, da una famiglia forse di condizione equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole statista e comandante militare; anche grazie all’aiuto di quest’ultimo, Tacito iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano.

Dopo essere stato praetor nell’88 (nello stesso anno è attestata la sua presenza nel collegio dei quindecemviri sacris faciundis, uno dei maggiori collegi sacerdotali), Tacito fu per qualche anno allontanato da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu consul suffectus: oratore già famoso, pronunciò l’elogio funebre di Virginio Rufo, il console morto durante l’anno di carica, al quale era subentrato. Uno o due anni dopo, sotto il principato di Traiano, sostenne insieme a Plinio il Giovane – al quale lo legava una salda amicizia – l’accusa di corruzione mossa dai provinciali d’Africa contro l’ex governatore Mario Prisco: dopo qualche indugio, il processo ebbe termine nel 100, con la condanna dell’accusato all’esilio. In seguito, Tacito fu proconsole in Asia nel 112 o 113. Morì probabilmente intorno al 117.

Karl Sterrer, Tacito. Statua, marmo 1900. Wien, Parlamentsgebäude.

Le opere

Le opere conosciute di Tacito sono il De vita Iulii Agricolae, pubblicato nel 98; il De origine et situ Germanorum (più comunemente noto come Germania), probabilmente dello stesso anno; il Dialogus de oratoribus, di poco successivo al 100 (è dedicato a Fabio Giusto, console nel 102); le Historiae, in dodici o quattordici libri, composte fra il 100 e il 110; gli Annales (o Ab excessu divi Augusti), in sedici o diciotto libri, composti successivamente alle Historiae e forse rimasti incompleti per la scomparsa dell’autore.

Delle Historiae ci sono pervenuti solo i libri I-IV, parte del libro V e alcuni frammenti; degli Annales i libri I-IV, un’esigua porzione del libro V, il libro VI, parte del libro XI, i libri XII-XV e parte del libro XVI. È molto discusso il problema del numero rispettivo dei libri che componevano le Historiae e gli Annales: alcuni pensano a dodici e diciotto libri, altri a quattordici e sedici. Questa seconda ipotesi ha il conforto della numerazione del manoscritto cosiddetto “Mediceo II”; ma il problema è complicato dal fatto che le due opere, per quanto pubblicate separatamente, cominciarono ben presto a circolare in un’edizione congiunta di trenta libri, in cui gli Annales (con inversione della cronologia della composizione) precedevano le Historiae, formando una narrazione continua della storia romana dalla morte di Ottaviano a quella di Domiziano.

Dalle Historiae, come dall’Agricola e dal Dialogus (nonché da varie epistole di Plinio il Giovane) è possibile ricavare alcune notizie fondamentali sulla vita e sulla carriera pubblica di Tacito.

 

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

Il Dialogus de oratoribus: qual è la causa della decadenza dell’oratoria?

Per alcune caratteristiche intrinseche dell’opera, è tradizione iniziare ogni trattazione di Tacito con il Dialogus de oratoribus, nonostante non si conosca con precisione la data di composizione. È noto, tuttavia, che il testo è ambientato negli anni 75-77 (dall’opera si ricavano in proposito indicazioni parzialmente contraddittorie). Riallacciandosi alla tradizione dei dialogi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici, Tacito riferisce qui una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di aver assistito di persona in gioventù. Perché all’inizio della conversazione Apro ha rimproverato Materno di trascurare l’eloquenza in favore della poesia drammatica, in un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno, in difesa rispettivamente dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria.

Messalla indica le cause di questo fenomeno nel deterioramento dell’educazione, sia familiare sia scolastica, del futuro oratore, non più accurata come nei tempi antichi: i maestri sono impreparati, e una vacua retorica si sostituisce spesso alla cultura generale. Dopo una sezione parzialmente lacunosa, il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente all’instaurazione dell’Impero. La pace che esso garantisce deve essere accettata senza eccessivi rimpianti per un passato che pure forniva un terreno più favorevole al rigoglio delle lettere e alla fioritura delle grandi personalità.

L’opinione attribuita a Materno rappresenta una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta infatti l’accettazione dell’indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare la res publica dal caos delle guerre civili.

Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma a esso non esistono alternative. Questo non significa che Tacito accetti gioiosamente il regime imperiale, né che all’interno di questo spazio ristretto egli non indichi la residua possibilità di effettuare scelte più o meno dignitose, più o meno utili alla res publica. Era il tema da lui già affrontato nella biografia di Agricola, cronologicamente anteriore).

Si è già accennato ai dubbi sulla reale datazione del Dialogus, che si suole considerare la prima delle opere di Tacito: varie caratteristica del testo, infatti, ne fanno un caso isolato rispetto al corpus dello storico. Questo “isolamento” è tale che l’autenticità del Dialogus medesimo – tramandato nella tradizione manoscritta insieme all’Agricola e alla Germania – è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto per ragioni di stile, da filologi anche di altissima levatura; mentre autorevoli perplessità sulla paternità tacitiana permangono anche fra gli studiosi moderni.

In effetti, il periodare del Dialogus ricorda molto più da vicino il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso, cui si ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano, piuttosto che la severa e asimmetrica inconcinnitas tipica delle maggiori opere storiografiche di Tacito. Anche fra i sostenitori dell’autenticità ha perciò riscosso credito notevole la tesi di chi suppone che il Dialogus sia il prodotto giovanile di un Tacito ancora legato alle predilezioni classicheggianti della scuola quintilianea, da collocarsi negli anni fra il 75 e l’80: secondo questa ipotesi, anche se composto sotto il principato di Tito, il Dialogus sarebbe stato pubblicato solo molto più tardi, dopo la morte di Domiziano, e la dedica a Fabio Giusto si riferirebbe ovviamente all’epoca della pubblicazione. Ma è più probabile che l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza del Dialogus al genere retorico, per il quale la struttura, la lingua e lo stile delle opere retoriche di Cicerone costituivano ormai un modello canonico.

Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.

 

Agricola, un esempio di resistenza al regime

Verso gli inizi del principato di Traiano, Tacito approfittò del ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide domizianea per pubblicare il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, leale funzionario imperiale e principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto Domiziano. Per il tono qua e là apertamente encomiastico l’Agricola si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri; dopo un rapido riepilogo della carriera del protagonista prima dell’incarico in Britannia, l’opera si incentra principalmente sul tema della conquista dell’isola, lasciando un certo spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi del suocero, ma in parte anche dalle notizie sui luoghi contenuti nei Commentarii di Cesare. Proprio a causa di queste digressioni, l’argomento dell’Agricola è sembrato talora eccedere i limiti di una semplice biografia. In realtà, l’autore non perde mai il contatto con il proprio personaggio principale: la Britannia è soprattutto il campo in cui si dispiegano la virtus di Agricola, il teatro delle sue brillanti imprese.

Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire la res publica con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo princeps come Domiziano (le critiche a quest’ultimo e al suo crudele regime di spionaggio e repressione sono più di una volta esplicite da parte dell’autore). Così, per esempio, Tacito afferma (Agr. 42, 6): Sciant, quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum rei publicae usum ‹nisi› ambitiosa morte inclaruerunt [«Sappiano, quanti hanno per abitudine di ammirare i gesti di ribellione, che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi principi, e che l’obbedienza e la moderazione, se in presenza di operosità e vigore, si elevano a quella gloria della quale i più si fregiarono attraverso vie pericolose, ma senza alcuna utilità per lo Stato, con una morte ambiziosa»].

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 106 r, contenente l’incipit del De vita Iulii Agricolae.

Alla fine, anche Agricola, che non aveva il gusto dell’opposizione fine a se stessa, ma non per questo era disposto a macchiarsi di servilismo, era caduto in disgrazia presso Domiziano; ma questo avvenne non senza che egli avesse dato prova di quanto si potesse operare fecondamente in favore della comunità, prima che lo scontro non fosse più evitabile. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola aveva saputo morire silenziosamente – e sulle reali cause della sua scomparsa, naturale o voluta dall’imperatore, Tacito stende un velo d’ombra –, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato, la ambitiosa mors (come il suicidio degli stoici) che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica.

Gneo Giulio Agricola. Statua, marmo, 1894. Bath (Aquae Sulis), Terme Romane.

L’esempio luminoso di Agricola indica come, senza obbligatoriamente correre gravi pericoli, anche sotto la tirannide sia possibile seguire la via mediana fra quelle che un passo famoso dell’opera (Agr. 4, 20, 7) definisce deforme obsequium e abrupta contumacia. L’elogio di un personaggio emblematico come Agricola si traduce in un’apologia della parte “sana” della classe dirigente romana, formata da uomini che, privi del gusto del martirio, avevano collaborato con i principi della gens Flavia, contribuendo validamente all’elaborazione delle leggi, all’amministrazione delle province, all’ampliamento dei confini e alla difesa delle frontiere; uomini che, una volta recuperata la “libertà”, non avrebbero ritenuto giustificata un’indiscriminata condanna del proprio operato e del servizio da essi prestato allo Stato.

L’Agricola si situa, come si è accennato, al punto di intersezioni tra diversi generi letterari: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris inframmezzata, ampliata e integrata con materiali storici ed etnografici. L’opuscolo risente quindi di modi stilistici diversi, che contribuiscono al suo carattere composito. Nell’esordio, nei discorsi, e soprattutto nell’eloquente “perorazione” finale è notevolissima l’influenza di Cicerone (può darsi che queste sezioni diano anche un’immagine di quella che dovette essere l’eloquenza tacitiana); nelle parti narrative ed etnografiche si avverte, invece, la presenza di due diversi modelli di stile storiografico, quello di impronta sallustiana e quello di stampo liviano.

La partenza di Domiziano per la guerra sarmatica. Rilievo della Cancelleria, marmo, 92 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

L’idealizzazione dei barbari: la Germania

Gli interessi etnografici, già largamente presenti nell’Agricola, sono al centro della Germania, un’opera dedicata interamente alla descrizione del territorio omonimo e dei suoi abitanti, che rappresentavano una costante minaccia per l’Impero. Quest’opera costituisce per i moderni praticamente l’unica testimonianza (a parte gli excursus più o meno ampi contenuti in altre opere storiche) di una letteratura specificamente etnografica, che a Roma doveva godere di una certa fortuna: sono note, per esempio, delle monografie di Seneca sull’India e sull’Egitto. Ma gli interessi di questo genere erano già stati forti nella cultura ellenistica (basti pensare a Posidonio di Apamea); a Roma, si possono far risalire al De bello Gallico di Cesare, che aveva tratteggiato anche il sistema di vita dei Germani. Successivamente, storici come Sallustio e Livio erano probabilmente ricorsi, in sezioni perdute delle loro opere, ad ampie digressioni etnografiche, che introducevano un elemento di variazione nelle lunghe esposizioni di avvenimenti, e contemporaneamente permettevano di fare mostra di dottrina e versatilità: un excursus sulla Germania doveva trovarsi nel III libro delle Historiae sallustiane, mentre Livio può averne trattato verso la fine del suo lavoro, occupandosi delle campagne di Druso oltre il Reno.

Ritratto virile di un germanico con il caratteristico Suebenknoten (‘nodo suebo’). Testa, marmo, I-II sec. d.C. da Somzée (Belgio). Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

È stato sottolineato come le notizie etnografiche contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: per quanto Tacito mostri di averne consultate diverse, si è suggerito che egli possa aver tratto la maggior parte della documentazione dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno e aveva preso parte a spedizioni oltre il fiume, nelle terre dei Germani non ancora sottomessi a Roma. Tacito sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, accontentandosi di migliorarne e impreziosirne lo stile (il colorito sallustiano è frequente nella Germania, e piuttosto numerose sono le punte “epigrammatiche”) e di aggiungere pochi particolari per ammodernare l’opera (le notizie di Plinio risalivano a circa quarant’anni addietro); ciononostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la Germania sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.

Gli intenti di Tacito nella Germania sono stati a lungo oggetto di discussione fra gli studiosi: risale molto addietro l’ipotesi – ben fondata, certo, ma bisognosa di alcune precisazioni – che vede nell’opuscolo l’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una società decadente. In filigrana, l’opera sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani.

Un germanico in atto di supplica. Statuetta, bronzo, I-II sec. Paris, Bibliothèque nationale de France.

Non si dovrà, comunque, insistere eccessivamente sull’idealizzazione delle popolazioni selvagge, un tema pure consueto alla letteratura etnografica, che risentiva dell’insoddisfazione per il decadimento e la corruzione della vita urbana: ponendo l’accento sull’indomita forza e sul valore guerriero dei Germani, più che tesserne un elogio Tacito ha probabilmente inteso sottolineare la loro pericolosità per l’Impero. La debolezza e la frivolezza della società romana del tempo dovevano allarmare lo storico senatore che allora muoveva i suoi primi passi: i Germani forti, liberi e numerosi, potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione. Non stupisce tuttavia che l’autore si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare come essenzialmente barbarico: l’indolenza, la passione per il gioco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà.

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 134 r, contenente l’incipit del De origine et moribus [situ] Germanorum (facsimile).
Fermo restando che la Germania è fondamentalmente un breve trattato etno-geografico e non un libello di intervento politico, è possibile metterne in connessione alcune caratteristiche con un evento all’incirca contemporaneo alla composizione: la presenza sul Reno di Traiano con un forte esercito, a quanto pare determinato alla guerra e alla conquista. Nel seguito della sua opera storica, Tacito continuerà comunque a guardare con particolare interesse alla frontiera con i Germani (più che a quella con i Parti), dimostrando, per esempio, ammirazione, negli Annales, per la politica aggressiva di Germanico. In questo interesse la convinzione della pericolosità delle popolazioni settentrionali si intreccia con l’altra, complementare, che in quella direzione sono aperte le maggiori possibilità di ulteriore espansione dell’Impero: la permanenza dell’interesse è conferma del carattere non episodico delle riflessioni e delle preoccupazioni da cui è scaturito il trattatello etnografico.

 

Le Historiae: gli anni cupi del principato

Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell’Agricola, in cui, in uno dei capitoli iniziali, Tacito esternava l’intenzione di narrare gli anni della tirannide domizianea, e poi la libertà recuperata sotto i governi di Nerva e di Traiano. Nelle Historiae il progetto appare modificato: mentre la parte che è pervenuta contiene il racconto degli eventi degli anni 69-70, dal principato di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma espressamente di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e di Traiano, «materia più ricca e meno rischiosa». Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili e concluso da una lunga tirannide.

Servio Sulpicio Galba. Busto, marmo. Stockholm – Antikengalerie.

Il libro I, in ossequio alla tradizione annalistica romana, si occupa degli avvenimenti a partire dal 1° gennaio 69. Il libro si apre con la narrazione del breve governo di Galba; seguono l’uccisione di quest’ultimo e l’elezione all’imperium di Otone. In Germania, intanto, le legioni renane acclamano imperator Vitellio. I libri II e III raccontano della lotta fra Otone e Vitellio, conclusasi con la sconfitta e il suicidio del primo, e quella successiva fra Vitellio e Vespasiano. Acclamato imperator dalle legioni di varie province, Vespasiano lascia in Oriente il figlio Tito ad affrontare i Giudei, e, spostatosi in Aegyptus, fa dirigere le sue truppe su Roma, dove si è rifugiato Vitellio, che viene catturato e ucciso. Il libro IV tratta del sacco di Roma a opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania. Il libro V, che è pervenuto mutilo, arrestandosi al capitolo 26, dopo un excursus sulla Iudaea e delle imprese di Tito, passa a raccontare gli avvenimenti di Germania e i primi segni di cedimento dei ribelli.

L’anno con il quale si apre la narrazione delle Historiae, dunque, aveva visto succedersi ben quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano). Era anche stato divulgato, come sottolinea Tacito, un arcanum imperii: il princeps poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in luoghi più o meno remoti. Vitellio era stato portato al potere dalle armate di Germania, Vespasiano da quelle orientali soprattutto. Otone, fatto princeps a Roma, contava sul sostegno militare dei pretoriani. L’autore scriveva le Historiae a oltre trent’anni dal 69, ma la ricostruzione degli avvenimenti avveniva, con ogni probabilità, nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l’ascesa al potere di Traiano.

Au. Vitellio Germanico Augusto. Busto, marmo, 100-150. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È stato notato un certo parallelismo fra questa e gli eventi del 69; il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta di pretoriani che aveva fatto traballare le fondamenta del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L’analogia si ferma a questo punto: Galba – che Tacito descrive come un vecchio senza energie, rovinato da consiglieri sciagurati, inutilmente e anacronisticamente atteggiato nelle pose della gravitas repubblicana – si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo, dai costumi severi, poco adatto, per il suo rigorismo “arcaizzante”, a conciliarsi la benevolenza della truppa: sostanzialmente un fantoccio, vittima dei suoi illustri natali, dell’inettitudine di Galba, e delle criminali ambizioni di Otone; Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell’armata della Germania superior. Non si può pertanto condividere l’interpretazione secondo la quale Tacito avrebbe visto in Galba uno sfortunato precursore della conciliazione del principato con la libertà, poi realizzata da Nerva e Traiano. Probabilmente l’autore aveva preso parte al consilium imperiale nel quale fu decisa l’adozione di Traiano: in lui sarebbero riemerse, da parte di membri tradizionalisti dell’aristocrazia senatoria, posizioni di un anacronismo non dissimile da quello di Galba, ma il consilium seppe evidentemente respingerle.

Con il discorso fatto pronunciare a Galba nel I libro delle Historiae, in occasione dell’adozione di Pisone, lo storico ha inteso chiarire, quasi per contrasto, attraverso le stesse parole dell’imperatore, aspetti significativi della sua posizione ideologico-politica. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum – un modello ormai votato al vuoto ossequio delle forme, e noncurante di ogni realismo politico – e la reale capacità di dominare e controllare gli eventi. Ispirandosi a quel modello, Galba non poteva fare una scelta in grado di garantire davvero la stabilità della res publica: ne seguì, perciò, un periodo di sanguinosi conflitti civili.

M. Ulpio Traiano. Busto, marmo, inizi II sec. da Olbia. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

L’adozione di Traiano – peraltro un comandante di vecchio stampo, che sapeva rendersi cari i propri uomini senza rinunciare alla severità e al decoro della propria carica – placò invece i tumulti fra le legioni, e pose fine a ogni rivalità. Traiano si rivelò capace di mantenere l’unità degli eserciti, e di controllarli senza farne gli arbitri dell’Impero. Può darsi che Tacito, con il pessimistico realismo che lo contraddistingueva, non condividesse in toto l’entusiastica soddisfazione dimostrata da Plinio il Giovane nel Panegyricus a proposito della soluzione che scelta di Traiano aveva assicurato alla crisi; ma certamente avvertiva come improrogabile la necessità di sanare la frattura, drammaticamente verificatasi nel 69, fra le virtutes del modello etico antico e la capacità di instaurare un reale rapporto con le masse militari.

Come si è detto, dunque, Tacito era convinto che solo il principato avrebbe potuto garantire la pace, la fedeltà degli eserciti e la coesione dell’Impero; già il proemio delle Historiae, accennando all’ascesa di Ottaviano, sottolinea come dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si fosse rivelata indispensabile per il mantenimento della pace. Naturalmente il princeps non avrebbe dovuto essere uno scellerato tiranno come Domiziano né un completo inetto come Galba. È famoso, a questo proposito, il sarcastico epigramma in cui lo storico “riepiloga” quest’ultimo personaggio: Et omnium consensu capax imperii nisi imperasset («E, a giudizio di tutti, degno dell’imperium, se non lo avesse rivestito», Hist. I 49). Al contrario, l’imperatore perfetto avrebbe dovuto assommare in sé le qualità necessarie per reggere la compagine imperiale e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Tacito additava, perciò, l’unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori d’adozione.

Lo stile narrativo delle Historiae, coerentemente con il repentino susseguirsi degli avvenimenti, ha un ritmo vario e veloce, che non concede all’azione di affievolirsi o di ristagnare. Questo ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso Tacito sa conferire efficacia drammatica alla propria narrazione, suddividendo il racconto in singole scene. I tre tentativi di abdicazione di Vitellio, noti attraverso Svetonio, sono condensati in un solo episodio, drammatico e pittoresco, nel quale Tacito ha saputo profondere tutte le risorse del colore e della suggestione.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Tacito è maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: sa essere altrettanto efficace nel dipingere la folla tranquilla, il suo insorgere minaccioso o il suo disperdersi in preda al panico; dalla descrizione della folla traspare, in genere, il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico ostenta per i suoi pari, i componenti del Senato, il cui comportamento è descritto con malizia sottile che insiste sul contrasto tra “facciata” e realtà inconfessabile dei sentimenti: l’adulazione manifesta verso il princeps cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti, la sollecitudine per il bene pubblico occulta gli intrighi e l’ambizione.

Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza, la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incisive a ritratti compiuti, come quello di Muciano, il governatore della Syria, che giocò un ruolo importante nell’ascesa di Vespasiano: Muciano è descritto secondo la tipologia del personaggio “paradossale”, cioè come un miscuglio di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza; eccellente nelle attività pubbliche, ma con una reputazione ripugnante nella vita privata.

Statua di personaggio loricato. Marmo pario, II sec. d.C. dalla Basilica Iulia. Corinto, Museo Archeologico Nazionale.

Una cura particolare Tacito pare aver dedicato alla costruzione del personaggio di Otone: lo storico insiste sulla consapevolezza della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari, condensata in una fase epigrammatica: Omnia serviliter pro dominatione («Si comportava in ogni cosa servilmente per conquistare il potere», Hist. I 36).

D’altra parte, Tacito mostra come proprio questo cosciente servilismo di Otone nei confronti della massa sia condizione della sua energia demagogica, della sua perversa capacità di incidere nelle cose, che lo situano su un piano diverso, anche se moralmente non più pregevole rispetto a quello di un Galba o di un Pisone. Come certi personaggi sallustiani (in primo luogo, Catilina), Otone è dominato da una virtus inquieta, che all’inizio della sua vicenda politica lo spinge a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi di fronte al crimine o all’infamia. Ma Otone è, sotto certi aspetti, anche un personaggio “in evoluzione”: nella sua figura sembra intervenire uno scarto quando, ormai certo della disfatta definitiva da parte dei vitelliani, decide di darsi una morte gloriosa per risparmiare a Roma un nuovo spargimento di sangue.

La tecnica tacitiana del ritratto mostra numerose affinità con Sallustio: Tacito affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma lo stile “abrupto” di Sallustio esercita il suo influsso su tutta la narrazione tacitiana, che tuttavia ha saputo di svilupparlo fino a determinare un vero e proprio salto di qualità, accentuando la tensione fra gravitas arcaizzante e pathos drammatico, arricchendo il colorito poetico, moltiplicando le iuncturae inattese. Tacito ama le ellissi di verbi e di congiunzioni; ricorre a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per conferire varietà e movimento alla narrazione. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una “coda” a sorpresa, la quale aggiunge un commento “epigrammatico” o comunque modifica, di preferenza per via allusiva o indiretta, quanto affermato subito prima.

 

Gli Annales: alle radici del principato

Nemmeno nell’ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e di Traiano. Terminate le Historiae, la sua indagine si rivolse ancora più addietro ed egli, negli Annales, intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. La data scelta dall’autore per l’inizio dell’opera ha fatto supporre che intendesse farne una prosecuzione di quella liviana (probabilmente il progetto iniziale di Livio, interrotto dalla morte, prevedeva 150 libri, i quali dovevano arrivare a trattare l’intero principato augusteo: nulla vieta di supporre che, nella prefazione a qualche libro andato perduto, ma noto a Tacito, il Patavino affermasse esplicitamente tale sua intenzione). In effetti, il titolo presente nei manoscritti tacitiani (Ab excessu divi Augusti) sembra richiamare quello liviano Ab Urbe condita.

Nerva nei panni di Giove. Statua, marmo, I sec. d.C. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Degli Annales si sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla scomparsa di Ottaviano (14 d.C.) a quella di Tiberio (37 d.C.), con una lacuna di un paio d’anni fra il 29 e il 31; e i libri XI-XVI, con il racconto dei principati di Claudio (a partire dall’anno 47) e di Nerone (il libro XI è lacunoso e il XVI è mutilo, arrestandosi agli eventi del 66).

I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il progressivo manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso e ombroso di Tiberio, il dilagare dei processi per lesa maestà, l’ascesa e poi la caduta della sinistra figura di Seiano (ma manca la parte in cui ne era narrata la fine), il dilagare del regime nella crudeltà e nella dissolutezza, fino alla morte di Tiberio. All’esterno, i successi di Germanico in Germania, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per la quale Pisone è sospettato di averlo avvelenato; e avvenimenti minori, come la vittoriosa guerra in Africa contro il numida Tacfarinate, e il soffocamento della rivolta della popolazione germanica dei Frisi.

I libri XI-XII narrano gli eventi degli anni 47-54, la seconda metà del principato di Claudio, il quale è rappresentato come un imbelle che, dopo la scomparsa della prima moglie, Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narcisso e della seconda moglie, Agrippina, che, alla fine, fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio.

Agrippina Minore. Statua, marmo, 14-54, dal foro di Veleia.

Nei libri XIII-XVI è narrato il regime di Nerone: dapprima sul princeps si alternano le diverse influenze della madre, del filosofo Seneca e del praefectus praetorio Burro (questi due operano congiuntamente in vista di un’improbabile conciliazione del principato con la libertà). Successivamente l’imperatore acquista indipendenza, ma cade sempre più preda dei propri istinti depravati. Mentre i comandanti romani (primo fra tutti Corbulone) riportano notevoli successi nelle regioni di confine, Nerone instaura un regime da monarca ellenistico, e si dedica soprattutto ai giochi e agli spettacoli, perseverando tuttavia nel disegno di sbarazzarsi di tutti coloro che potrebbero porre un freno alle sue bizzarrie e stravaganze. Dopo un primo tentativo fallito, riesce a far uccidere la madre Agrippina: tre anni dopo, nel 62, Tigellino, un personaggio detestabile, succede a Burro al comando della guardia pretoriana, in seguito alla misteriosa morte di quest’ultimo. Contemporaneamente, Seneca si ritira a vita privata. Da questo momento in poi Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta; il malcontento dilaga e intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propone di sbarazzarsi del principe. Scoppia il famoso incendio di Roma: Tacito sembra dare credito alle voci che lo vogliono appiccato per ordine di Nerone stesso; come incendiari vengono tuttavia perseguitati i cristiani. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa duramente; molti fra i personaggi di primo piano ricevono l’ordine di darsi la morte: periscono così Seneca, Lucano, Petronio e infine Trasea Peto, durante il racconto della cui fine si interrompe la parte conservata degli Annales.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Codex Mediceus 68 II (XI sec.) f. 38r, contenente Tacito, Annales XV 44, sull’incendio di Roma.

Anche in quest’opera, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato, ma il suo orizzonte sembra essersi ulteriormente incupito: in un passo famoso (III 28), mentre ribadisce che Augusto aveva garantito la pace all’Impero dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si fossero fatti «più duri». Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. acriora ex eo vincla («Alla fine Cesare Augusto, nel suo sesto consolato, sicuro del proprio potere, abolì quanto aveva decretato da tribuno e diede le leggi delle quali ci potessimo valere in pace e sotto la guida di un principe. Pertanto, i vincoli si fecero più duri»).

Tacito conferisce un colore uniforme e tetro all’intero quadro della vita umana sotto i Caesares. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, essa stessa – del resto – coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione che la rende vogliosa di un servile consenso (quella che Tacito definisce libido adsentandi) nei confronti del princeps. Scarsa simpatia lo storico dimostra anche, come si è già sottolineato a proposito dell’Agricola, verso coloro che scelgono l’opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. Prosperava, a partire dall’età neroniana, una lettura di exitus illustrium virorum: non a caso, descrivendo il suicidio di Petronio, Tacito insiste sul capovolgimento ironico di questo modello filosofico da parte del personaggio.

Raccontando le vicende di Roma, Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza. La parte sana dell’élite politica – si ritrova qui una certa continuità con l’Agricola – seguita tuttavia a dare il meglio di sé nel governo provinciale e nei comandi militari: l’opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio, e anche l’azione militare di Corbulone è, agli occhi dello storico, più utile e forse più importante delle torbide passioni che si agitano nella Roma di Nerone.

«Corbulone» (in realtà, un personaggio sconosciuto). Testa, marmo pario, I sec. Roma, Musei Capitolini.

Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando probabilmente le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica gioca negli Annales un ruolo di primo piano. I drammi di anime che Tacito mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di suscitare vive emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio.

Alla forte componente tragica della propria storiografia Tacito assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe degli uomini per sondarli in profondità e portarne alla luce, oltre alle passioni che li tendono, le ambiguità e i chiaroscuri. Le passioni dominanti nei personaggi tacitiani (con l’eccezione solo parziale di Nerone, figura sotto certi aspetti “patologica”) sono quelle politiche: la brama di potere scatena le lotte più feroci (emblematico è il personaggio di Seiano). Il conflitto più aspro si svolge, com’è ovvio, dentro il palatium imperiale, ma lo storico si rivolge anche altrove per mettere in risalto l’ambizione e la tensione alla scalata sociale, cui spesso si accompagnano invidia, ipocrisia o presunzione: sono difetti da cui nessuna classe sociale o persona vanno esenti. Rispetto all’ambizione, alla vanità e alla cupidigia di potere, le altre passioni – per esempio, il desiderio erotico o anche l’invidia di ricchezze – giocano un ruolo di importanza del tutto secondaria. Tacito presta tuttavia la debita attenzione a gelosie e delitti di origine sessuale, e rivela una vista acuta nelle questioni di denaro.

Negli Annales si perfeziona ulteriormente l’arte del ritratto, già sapientemente messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato da alcuni nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto «indiretto»: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Nel ritratto Tiberio è dipinto in tutta la gamma delle sue gradazioni: gli piaceva mostrarsi torvo, era innamorato dell’austerità; oppresso da tristitia, improntava la propria condotta a crudeltà e inclementia; perennemente sospettoso, taciturno per l’abitudine a tenere celati i propri pensieri, spesso accigliato, talora con impresso sul volto un falso sorriso, aveva fatto della dissimulazione la prima fra le sue virtù. Tacito ama, in genere, il ritratto “morale” più di quello fisico, ma in passo dallo stile molto ricercato indugia nella descrizione della ripugnante vecchiaia di Tiberio: alto, ma curo ed emaciato, col volto segnato da cicatrici e ricoperto di pustole, completamente calvo.

Tib. Giulio Cesare Augusto. Testa, marmo, I sec.

Un certo spazio, come già nelle Historiae, ha anche il ritratto di tipo «paradossale»: l’esempio più notevole è Petronio (Ann. XVI 18), al quale si è accennato. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l’ignavia la fama che altri conquista con infaticabile operosità, ma la mollezza della sua vita contrasta con l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche.

Su tutta la sua esistenza spira un’aria di sovrana nonchalace, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Petronio affronta la morte quasi come un’ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo, di coraggio e di fermezza: in voluta polemica con la tradizione del suicidio teatrale degli stoici, si intrattiene con gli amici su argomenti diversi da quelli che serviranno a crearsi un’aureola di constantia. Non si fa leggere dissertazioni sull’immortalità dell’anima o sentenze di filosofi, ma poesiole leggere e versi facili (Ann. XVI 19). Senza fare del personaggio un modello – Tacito aveva gusti più austeri –, lo storico sembra implicitamente sottolineare che la virtus di Petronio è in fondo più salda di quella spesso ostentata nella morte dai martiri stoici.

La morte di Petronio. Fotogramma dal film Quo vadis (di M. LeRoy, USA 1951).

Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: almeno nei libri precedenti il XIII, si registra una linea di evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione: una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne, ricco di potenza. Rispetto alle Historiae, gli Annales risultano meno eloquenti e scorrevoli, più concisi e austeri. Perdura e si accentua il gusto per l’inconcinnitas, ottenuta soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, e invece è diversamente strutturata. Si prendano due esempi tratti dalla narrazione del celebre incendio di Roma, in Annales XV 38: pars mora, pars festinans, cuncta inpediebant e [incendium] in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit remedia.

Le disarmonie verbali riflettono la disarmonia degli eventi e le ambiguità nei comportamenti umani. Abbondano le metafore violente (le immagini sono quelle della luce e delle tenebre, della distruzione e dell’incendio) e l’uso audace delle personificazioni. È frequente la coloritura poetica, soprattutto virgiliana, ma notevoli sono anche le tracce di Lucano nella prosa di Tacito. All’interno dell’opera, tuttavia, si registra una certa modificazione dello stile, in cui alcuni hanno visto un’involuzione. A partire dal XIII libro l’autore sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo. Lo stile si fa più ricco ed elevato, meno serrato, acre e insinuante; nella scelta dei sinonimi, lo storico passa dalle espressioni scelte e decorative a quelle più sobrie e normali. La differenza è stata attribuita al diverso argomento: il principato di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica Repubblica. Qualche trascuratezza notata soprattutto nei libri XV e XVI ha fatto anche pensare che gli Annales non abbiano ricevuto l’ultima revisione.

 

Distribuzione dei libri dei debitori. Rilievo, marmo, 117-120, da uno dei plutei traianei. Roma, Foro romano.

 

Bibliografia:

 

AUBRION E., Retorique et Histoire chez Tacite, Metz 1985.

BO D., Le principali problematiche del “Dialogus de oratoribus”. Panoramica storico-critica dal 1426 al 1990, Hildesheim-Zürich-New York 1993.

CANFORA L., La “Germania” di Tacito da Engels al nazismo, Napoli 1979.

DEVILLERS O., L’art de la persuasion dans les Annales de Tacite, Bruxelles 1994.

ECK W. – CABALLAS A., FERNANDEZ F., Das senatus consultum de Cn. Pisone Patre, München 1996.

GINZBURG J., Tradition and Theme in the Annals of Tacitus, New York 1981.

GORI F. – QUESTA C. (eds.), La fortuna di Tacito dal sec. XV a oggi, Urbino 1979.

GRIMAL P., Tacito, Milano 1991.

LABATE M., Le ambiguità di Otone, Maia 29-30 (1977-1978), 27-60.

LUCE T.J. – WOODMAN A. (eds.), Tacitus and the Tacitean Tradition, Princeton 1993.

MARCHESI C., Tacito, Milano 1955 (4^ ed.).

MCCULLOCH H.Y., Narrative Cause in the Annals of Tacitus, New York 1981.

MICHEL A., Tacito e il destino dell’impero, trad. it., Torino 1973.

PARATORE E., Tacito, Roma 1962 (2^ ed.).

QUESTA C., Studi sulle fonti degli “Annali” di Tacito, Roma 1967 (2^ ed.).

ID., Sallustio, Tacito e l’imperialismo romano, in Tacito, Annali, Milano 1981.

SCOTT R., Religion and Philosophy in the Histories of Tacitus, Rome 1968.

SYME R., Tacito, trad. it., Brescia 1967-71.

ID., Ten Studies in Tacitus, Oxford 1970.

 

La Neosofistica (o Seconda Sofistica)

in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 624-628.

Nascita e consolidamento del movimento

L’insegnamento della retorica, insieme a quello della filosofia, costituiva la base della formazione culturale dei giovani che intendevano dedicarsi alla carriera politica. Tuttavia, non tutti quelli che seguivano questi studi divenivano magistrati o funzionari pubblici; molti di loro, e spesso i più brillanti, dopo aver raggiunto un alto livello di preparazione, facevano dell’eloquenza una fonte di celebrità e di guadagno, spostandosi in varie città per esibirsi in declamazioni pubbliche nelle piazze, nei teatri, alle terme (soprattutto a Roma) o in auditoria, affittai per l’occasione e frequentati da un pubblico eterogeneo, in cui, peraltro, non mancava una componente di buon livello culturale, capace di giudizi solidamente fondati. Gli oratori pronunciavano di solito discorsi preparati in precedenza, ma improvvisavano anche su argomenti proposti dal pubblico. I temi erano, in genere, quelli tradizionali dell’oratoria epidittica e occasionale (encomi, λόγοι ἐπιτάφιοι, genetliaci di personaggi illustri); ma a essi si affiancavano anche argomenti meno consueti, talora addirittura insoliti o stravaganti (παίγνια, «scherzi»), adatti a far risaltare la bravura del retore e a suscitare la meraviglia del pubblico, con esempi di consumata tecnica oratoria, sostenuta da finezze stilistiche e “concettismi” da fare invidia a qualunque autore barocco.

La definizione di “neosofistica” è dovuta al retore Filostrato, nato fra il 160 e il 170, autore di un opuscolo intitolato Vite dei sofisti, che aveva suddiviso l’eloquenza greca in tre periodi: l’antica Sofistica ateniese, i dieci oratori attici del canone alessandrino, la neosofistica. Egli considerò antesignano del movimento il retore Niceta di Smirne, vissuto al tempo di Nerone, che, con il suo discepolo Scopeliano di Clazomene, aveva rinnovato nei suoi discorsi il fasto formale dell’eloquenza di Gorgia. Va detto, infatti, che questo genere di oratoria, che fiorì soprattutto sotto Adriano (117-138), si propose, in teoria, di riprendere sia gli accorgimenti tecnici e stilistici sia l’impostazione didattica dell’antica Sofistica; ma, in pratica, non operò nessuna innovazione o rivoluzione concettuale, limitandosi a coltivare l’aspetto più esteriore dell’eloquenza. Da questo punto di vista, tuttavia, la neosofistica ebbe una sua utilità, in quanto, da un lato, sviluppò e perfezionò gli aspetti tecnici dell’ars dicendi, anche se spesso a fine di esibizione o di lucro; dall’altro, rivolgendosi a un pubblico socialmente e culturalmente assai vario, ebbe il merito di abbandonare l’ambiente della scuola, affrontando esperienze più concrete e colmando almeno in parte il vuoto lasciato dalla scomparsa del teatro. Inoltre, i personaggi più in vista del movimento ebbero frequentemente una certa importanza nella politica del tempo, poiché la notorietà aprì loro le porte della corte imperiale.

A causa del suo esasperato formalismo, la neosofistica non poté rimanere estranea alla polemica fra asiani e atticisti, alla quale, però, non apportò alcun contributo significativo; infatti, mentre la sua stessa natura e i suoi fini la portarono a orientarsi piuttosto verso le tendenze stilistiche dell’Asianesimo, al tempo stesso, il desiderio di emulare i grandi oratori ateniesi del IV secolo a.C. fecero sì che anche l’Atticismo assumesse una notevole importanza all’interno del movimento.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

I principali esponenti della neosofistica

Seguace e discepolo di Scopeliano fu Polemone di Laodicea, il primo neosofista di cui sia pervenuto qualcosa. Vissuto fra l’88 e il 145, restano di lui due declamazioni in stile asiano, in cui i padri di due caduti a Maratona si disputano l’onore di tenere il discorso celebrativo per gli eroi caduti.

Antonio Polemone di Laodicea. Busto, marmo pentelico, 140 d.C. ca. dall’Olympeion di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il vero iniziatore della neosofistica deve però essere considerato il retore Dione, divulgatore della filosofia cinica e stoica. Nato a Prusa, in Bitinia, nel 40 da una ricca famiglia, costui si dedicò fin da giovane agli studi retorici e filosofici, sotto la guida di C. Musonio Rufo, maestro stoico assai rinomato sotto il principato di Nerone, e poi esiliato dallo stesso Cesare con l’accusa di aver preso parte a una congiura. Sotto i Flavii Dione raggiunse una certa notorietà per le sue declamazioni, ma all’inizio del regime di Domiziano fu coinvolto in un processo politico (forse a causa della sua amicizia con Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l’imperatore), e mandato in esilio. Iniziò così per Dione un periodo di vita raminga e disagiata, che lo portò dai Balcani all’Asia Minore e fino alle lande a nord del Ponto Eusino. Tuttavia, la convinta adesione alla dottrina cinica lo aiutò a sopportare questo difficile momento della sua esistenza, nella quale non gli venne mai meno l’interesse per la cultura – tanto che approfittò dell’esilio per raccogliere materiale geografico ed etnografico per comporre una monografia sul popolo dei Geti (purtroppo andata perduta). Quando M. Cocceio Nerva ascese al trono imperiale, Dione poté far rientro a Roma; e, grazie alla simpatia del princeps, gli fu conferita la civitas Romana e il diritto di fregiarsi del cognomen di Cocceiano. Il favore imperiale lo accompagnò anche sotto Traiano, al quale Dione dedico alcune delle sue più famose orazioni. A un certo momento, però – non se ne conoscono i motivi –, Dione decise di tornare nella sua Prusa per aprirvi un scuola di retorica. A quanto pare, ciò gli suscitò le invidie di alcuni concittadini, che nel 111-112 lo accusarono di fronte al legato imperiale C. Plinio Cecilio Secondo (Plinio il Giovane). Da quel momento in poi non si hanno più tracce di Dione; probabilmente morì poco dopo, fra il 115 e il 120.

A testimonianza della duplice attività filosofica e retorica di Dione di Prusa rimane un corpus di ottanta orazioni (due sono certamente del suo allievo Favorino di Arelate): si tratta in gran parte di declamazioni fittizie, di παίγνια (come l’elogio del pappagallo o quello della mosca), di diatribe, di esercitazioni letterarie o filosofiche in forma dialogica; una stretta minoranza sono discorsi epidittici, pronunciati in diverse occasioni. Di particolare interesse per la critica moderna, l’orazione In Atene sull’esilio, di carattere fortemente autobiografico; tuttavia, le notizie in essa contenute vanno prese con una certa cautela, perché occorre tenere presente che il tema dell’esilio costituiva un tópos della filosofia stoica e si prestava benissimo a rielaborazioni letterarie e a spunti consolatori (come accadde già in Seneca), spesso assai lontani dalla realtà dei fatti.

Dione Crisostomo, Orazione ΠΕΡῚ ΒΑΣΙΛΕΙΑΣ Α (p. 43), edizione critica di Johann Jacob Reiske (1784).

Lo stile dioneo dimostra una valida conoscenza della migliore prosa attica (Platone, Senofonte, Demostene), che si traduce nella capacità di delineare con vivacità scene e caratteri, soprattutto quando si tratta delle popolazioni barbariche da lui visitate nel suo esilio o nell’osservazione della natura e degli animali. La lingua utilizzata è quella della koiné, caratterizzata però da una singolare limpidezza, dovuta allo sforzo di accostarsi ai modelli attici.

Di origine celtiche, nato ad Arelate in Gallia Narbonensis (od. Arles) nell’85, Favorino è un rappresentante di quella classe di intellettuali che, pur essendo estranei per nascita al mondo greco, ne appresero ben presto la lingua e ne ammirarono la cultura. Amico dello storico Plutarco, da ragazzo Favorino si trasferì a Roma, dove seguì le lezioni di Dione. Divenuto un abile e brillante oratore, si diede alla carriera di conferenziere itinerante, conquistandosi grande fama e ricchezza. Tuttavia, al tempo dell’imperatore Adriano, per motivi rimasti ignoti, fu esiliato nell’isola di Chio, dove rimase fino a quando Antonino Pio non gli revocò la condanna e gli permise di rientrare nell’Urbe, nel 136.

Favorino, dunque, aprì una propria scuola, che fu frequentata anche da personaggi destinati a diventare celebri, come Aulo Gellio ed Erode Attico. Scomparve verso la metà del II secolo, in una data che non si è in grado di precisare.

La vasta mole delle opere di Favorino è andata quasi completamente perduta: il poco che resta, comunque, rivela una cultura multiforme e varia, che spazia dalla filosofia alla retorica, dalla storia alla pura erudizione. Fra gli scritti filosofici si possono annoverare i Memorabili, cinque libri dedicati alle biografie dei filosofi più illustri, che denotano uno spiccato gusto per l’aneddotica, e i Discorsi pirroniani, in dieci libri. Carattere paradossale e spiccatamente sofistico avevano le declamazioni Sulla febbre quartana e In difesa di Tersite. Anche Favorino, come il suo maestro, del resto, ha lasciato scritto un discorso Sull’esilio, di impostazione cinico-stoica, che è però poco più che un elenco di luoghi comuni sull’argomento.

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

Il più brillante esponente della neosofistica nel II secolo fu Tiberio Claudio Attico Erode, discepolo di Favorino. Nato a Maratona nel 101, si trasferì ad Atene, dove ricoprì importanti incarichi politici. Inoltre, le sue notevoli disponibilità finanziarie gli permisero di distinguersi per generosità nei confronti di varie città greche che abbellì di monumenti ed edifici pubblici, come l’Odeon che fece costruire ad Atene. Giunto a Roma, vi ebbe una fortunata carriera politica che culminò nell’elezione al consolato nel 143, e che fu accompagnata da una grandissima fama come maestro di retorica. La sua scuola fu frequentata da Marco Aurelio e da Lucio Vero, che gli furono affidati dell’imperatore Antonino Pio. Della vasta opera di Erode Attico, scomparso ad Atene nel 177, è pervenuta una sola orazione, Sullo Stato, un vero esempio della perfezione stilistica a cui egli era giunto nell’imitazione dei modelli classici. Erode, infatti, aveva composto quel discorso rifacendosi allo stile del sofista Trasimaco di Calcedone, attivo intorno al 430-400 a.C., raggiungendo risultati tali da indurre alcuni studiosi ad attribuirne la paternità proprio a Trasimaco.

Contemporaneo di Erode Attico fu Elio Aristide, nato ad Hadriani ad Olympum, in Bitinia negli anni fra il 117 e il 129. Dopo aver acquisito una solida formazione retorica, nella quale egli rivolse la propria preferenza soprattutto verso Isocrate, Elio Aristide intraprese una fortunata carriera di conferenziere, nel corso della quale viaggiò molto, in varie parti dell’Oriente romano. Nel 156 egli giunse anche nell’Urbe, dove, tuttavia, mostrò i primi sintomi di una malattia nervosa che lo avrebbe poi accompagnato per il resto della vita e sulla quale ebbe modo di soffermarsi a lungo nella sua autobiografia. Poiché le cure mediche del tempo non furono in grado di arrecargli alcun giovamento, Elio Aristide decise di affidarsi alla potenza taumaturgica di Asclepio e, perciò, si trattenne per diverso tempo a Pergamo, presso il santuario del dio: suo malgrado, però, non riuscì a ottenere la guarigione sperata. Il retore soggiornò a lungo anche a Smirne; anzi, poiché durante gli studi presso la scuola di Erode Attico aveva avuto per compagno lo stesso Marco Aurelio, con il quale aveva instaurato un profondo legame di amicizia e di stima, gli fu possibile perorare presso il princeps la ricostruzione della città, distrutta da un terremoto nel 178. Elio Aristide morì una decina di anni dopo, sotto Commodo, nel 188.

Elio Aristide. Statua, marmo, 200 d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Della sua produzione rimangono cinquantacinque orazioni di vario argomento: alcune sono declamazioni fittizie, encomi, elogi di divinità; altre vertono su temi filosofici. Fra queste, in particolare, la più cospicua è intitolata Sulla retorica, nella quale l’autore abbraccia la tesi di Isocrate contro quella di Platone, sostenendo il primato dell’eloquenza rispetto alla filosofia e classificandola come τέχνη. Di carattere encomiastico è invece l’orazione In difesa dei quattro, in cui l’autore prende le parti di Milziade, Temistocle, Cimone e Pericle contro il giudizio negativo di Platone. In omaggio all’antica gloria di Atene, vincitrice sui Persiani, fu scritto il Pantatenaico, che rivela nel titolo una certa simpatia dell’autore verso Isocrate. Il ruolo di Roma come città pacificatrice del mondo e patria comune di tutte le genti cha abitano l’Impero è l’argomento dell’Elogio di Roma, che evidenzia anche il rapporto fra gli intellettuali e i Caesares. Più interessanti a livello autobiografico sono i Discorsi sacri, di argomento religioso, che Elio Aristide compose nella maturità, forse anche sotto l’effetto della malattia che lo aveva colpito. In questi testi egli descrive con incisiva precisione l’ambiente del tempio di Asclepio, popolato, oltre cha da ammalati, da gente di ogni risma, da curiosi, da turisti, da imbroglioni; l’autore mette a nudo anche la propria anima, sostenuta da una fede fanatica, che si affida con cieca credulità a sogni, a presagi, a tutte le manifestazioni sacre o ritenute tali. Di conseguenza, appare estremamente difficile per il lettore moderno discernere la religiosità dalla superstizione, visto il clima di esaltazione misticheggiante dell’opera, alla quale non è alieno, però, un certo compiaciuto sfoggio di bravura compositiva: infatti, da un punto di vista formale, per l’ampiezza dell’erudizione e per la ricchezza e la frequenza delle citazioni letterarie, Elio Aristide può essere considerato uno degli esponenti più validi della neosofistica, anche se non è sostenuto da pari originalità di pensiero.

I neosofisti minori

Sotto l’impero di Commodo soggiornò a Roma Massimo di Tiro, un retore itinerante vissuto nella metà del II secolo, del quale restano quarantuno diatribe composte per la scuola, su argomenti di filosofia popolare. I temi proposti (Se si debba preferire la vita del Cinico, Se Socrate abbia fatto bene a non difendersi) permettono all’autore di far valere i propri mezzi dialettici, sostenuti da un pensiero filosofico non molto profondo, di impronta eclettica, in cui Platone occupa un posto di rilievo, mentre Epicuro ne è escluso del tutto. Ciò è dovuto prevalentemente al fatto che l’autore possiede una visione trascendente della divinità e crede che essa sia circondata da un’infinità di entità soprannaturali, che agiscono da intermediarie con il mondo degli uomini – teoria, questa, assolutamente inconciliabile con la concezione epicurea del cosmo.

Completamente estraneo all’attività di retore vagante fu invece Claudio Eliano, che non lasciò mai la città di Praeneste, in cui era nato intorno al 175, se non per recarsi a Roma, dove sarebbe morto nel 235 circa. Anche lui, come già Favorino, apprese la lingua e la cultura greche a scuola, dove ebbe come maestro il sofista Pausania. Concentrò di preferenza la propria attenzione all’osservazione della natura e del mondo animale, sul quale compose un’opera di diciassette libri. Tuttavia, Eliano non fu sostenuto da intenti scientifici né da personali osservazioni autoptiche, ma piuttosto da curiosità per quanto altri naturalisti avevano scritto prima di lui; così l’opera si presenta come una specie di antologia di altri testi (di Aristotele, di Teofrasto, di Nicandro e altri), letti e compilati con uno spiccato gusto per l’esotico e l’inconsueto. La stessa tendenza alla compilazione diligente, ma con scarsi apporti personali, si nota in un’altra opera, di cui sono pervenuti ampi frammenti, la Storia varia, suddivisa in quattordici libri: in essa l’autore raccolse una vasta serie di aneddoti su personaggi famosi, usando come fonti gli scritti di Ctesia, Teofrasto, Teopompo e Timeo.

Tib. Claudio Erode Attico. Busto, marmo, 161 d.C. ca. da Probalinthos (Attica). Paris, Musée du Louvre.

L’interesse per il mondo naturale, assai vivo nella cultura del II secolo, è ben documentato anche da un’altra antologia, redatta ad Alessandria e pervenuta anonima in varie redazioni e traduzioni medievali (greche, etiopiche, siriache, armene e numerose latine), con il titolo di Physiologus (lo «studioso della natura»): questo testo attraverso gli esempi tratti dal regno animale illustra e divulga in forma allegorica le dottrine dogmatiche e morali del Cristianesimo; il suo autore, inoltre, si mostra più esperto di testi sacri che di scienza naturale. Per lungo tempo il libro fu utilizzato dalla patristica (Epifanio, Basilio, Crisostomo, ecc.), e nel VI secolo fu perfino attribuito ad Ambrogio. L’opera costituì l’antecedente dei tanti bestiarii prodotti nei secoli medievali.

Fra i neosofisti minori si può anche annoverare il già menzionato Filostrato, detto “il Maggiore”, per distinguerlo da altri tre scrittori omonimi menzionati nel lessico Suda e che, rispettivamente, furono suo padre – delle cui opere non è rimasto nulla – e suo nipote. Filostrato nacque fra il 160 e il 170, studiò con i retori Damiano di Efeso e Antipatro di Hierapolis e si trasferì a Roma al tempo di Settimio Severo, assumendo il nome di Flavio Filostrato. Molto apprezzato nella cerchia della famiglia imperiale e soprattutto dall’Augusta Giulia Domna, egli fu costretto a lasciare l’Urbe dopo la tragica fine dell’imperatrice e di suo figlio Caracalla, che era stato suo amico e protettore. Filostrato si recò allora ad Atene, dove morì probabilmente intorno al 249, sotto il principato di Filippo l’Arabo, comandante del pretorio salito al trono dopo l’assassinio di Gordiano.

Ingegno vario e versatile, Filostrato applicò la sua cultura di retore soprattutto alla composizione di opere narrative di contenuto storico, nelle quali, però, non esitò a mescolare ad avvenimenti e a personaggi ben documentabili anche elementi favolosi. Ciò si nota con chiarezza nella sua opera già menzionata, le Vite dei sofisti, che comprende le biografie dei sofisti greci da Gorgia ai propri contemporanei. La raccolta, in due libri, composta fra il 229 e il 238, fu dedicata al proconsole Antonio Gordiano. Oltre a interessanti notizie biografiche, essa presenta anche una serie di citazioni letterarie di numerosi passi delle opere degli autori menzionati, offrendo una piacevole e varia lettura. Per desiderio dell’imperatrice Giulia Domna, Filostrato compose anche la Vita di Apollonio di Tyana, in otto libri, biografia del filosofo pitagorico vissuto nel I secolo e divenuto celebre per la sua fama di mago, profeta e taumaturgo. Nonostante la discutibile attendibilità dell’opera, che può essere considerata più che altro un romanzo biografico, essa propone una gradevole lettura per la ricca serie di notizie sulle civiltà orientali e per la scioltezza e la vivacità del racconto.

Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago (dettaglio), Roma. Paris, Musée du Louvre.

Quasi nello stesso periodo, Filostrato redasse L’eroico, un lungo dialogo di impronta platonica, i cui protagonisti sono un vignaiolo greco e un marinaio fenicio, che, per caso, si incontrano su una spiaggia nel Chersoneso tracico: il Greco di ritorno da una visita al tempio dell’eroe Protesilao, il Fenicio in attesa di venti più favorevoli alla navigazione. Il Fenicio, curioso delle usanze elleniche, rivolge numerose domande al suo occasionale interlocutore, il quale risponde con piacere, affabilità e competenza, illustrando i miti di Protesilao, Palamede, Ettore, Achille e altri eroi, attingendo le sue informazioni ai poemi omerici e ciclici, ma modificandole secondo la cultura religiosa del tempo. Questo aspetto costituisce, in effetti, l’elemento di maggiore interesse dell’opera, perché consente di conoscere quali cambiamenti avevano subito nel tempo le leggende eroiche (una è quella degli Eneadi) e come erano state adattate agli usi e alle cerimonie locali.

Interessante è anche il Ginnastico, che fornisce notizie sulle competizioni e sulle specialità sportive del II-III secolo. Di argomento più erudito e vario sono i due libri delle Immagini, una raccolta in prosa che contiene le descrizioni di sessantacinque quadri conservati in una pinacoteca di Napoli. Questo genere letterario, detto “ecfrastico” (da ἔκφρασις, «descrizione»), ha i suoi precedenti nella poesia di Callimaco, di Teocrito, di Eroda e degli epigrammatisti; inoltre, alcuni decenni prima di Filostrato, i retore Nicostrato il Macedone aveva composto, usando per la prima volta la prosa, una raccolta di brevi descrizioni di opere d’arte. Gli studiosi sono stati a lungo incerti sulla reale esistenza dell’antologia di Filostrato, perché nelle scuole di retorica la descrizione fittizia di capolavori dell’arte era un esercizio piuttosto comune; tuttavia, sembra probabile che qui lo scrittore faccia riferimento a quadri realmente esistiti e veduti da lui stesso.

Di Filostrato “il Minore”, figlio di Nerviano e di una figlia del “Maggiore”, si può ricordare una raccolta di diciassette Immagini, assai analoga a quella del nonno, ma molto più ridotta nell’estensione delle singole descrizioni e meno brillante nell’esposizione. Dell’opera di un altro Filostrato, nato intorno al 190, non è rimasto nulla.

Tib. Claudio Erode Attico (forse). Testa, marmo pario, 177-180 d.C. ca.

***

Bibliografia

ABRAHAM R., The Geography of Culture in Philostratus’ Life of Apollonius of Tyana, CJ 109 (2014), 465-480.

Albini U., [Erode Attico] Περὶ Πολιτείας: Introduzione, testo critico e commento, Firenze 1968.

ANDERSON G., Putting Pressure on Plutarch: Philostratus Epistle 73, CPh 72 (1977), 43-45.

AVOTINS J., A Commentary to the Life of Herodes in the Lives of the Sophists of Philostratus, diss. Harvard 1968, 87-105.

BARNES T.D., Philostratus and Gordian, Latomus 27 (1968), 581-597.

BEALL S.M., Word-Painting in the “Imagines” of the Elder Philostratus, Hermes 121 (1993), 350-363.

BLEICKEN J., Der Preis des Aelius Aristides auf das römische Weltreich, Göttingen 1966.

BOMPAIRE J., Photius et la Seconde Sophistique d’après la Bibliothèque, TeMByz 8 (1981), 79-86.

BOTER G., The Title of Philostratus’ Life of Apollonius of Tyana, JHS 135 (2015), 1-7.

BOULANGER A., Aelius Aristide et la sophistique dans la province d’Asie au IIe siècle de notre ère, Paris 1923 [=1968].

BOWERSOCK G.W., Greek Sophists in the Roman Empire, Oxford 1969.

˗ (ed.), Approaches to the Second Sophistic. Papers presented at the 105th annual Meeting of the American Philological Association, Pennsylvania 1974.

BOWIE E.L., Greeks and their Past in the Second Sophistic, P&P 46 (1970), 3-41.

BRILLANTE S., La géographie et la seconde sophistique: un parcours entre histoire, rhétorique et périplographie, in COTELLONI-TRANNOY M., MORLET S. (dir.), Histoire et géographie chez les auteurs grecs du IIe s. av. J.-C. au VIe s. apr. J.-C., Paris 2018, 109-120.

BROWN P., CRACCO RUGGINI L., MAZZA M., Governanti e intellettuali, popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI secolo), Passato-presente, II, Torino 1982.

CROISET A., CROISET M., Histoire de la Littérature grecque, t. V, Paris 1899.

DICKIE M.W., Philostratus and Pindar’s Eight Paean, BASP 34 (1997), 11-20.

DEMOEN K., PRAET D., Philostratus, Plutarch, Gorgias and the End of Plato’s Phaedrus, CQ 62 (2012), 436-439.

ESHLEMAN K., Defining the Circle of Sophists: Philostratus and the Construction of the Second Sophistic, CPh 103 (2008), 395-413.

FESTUGIERE A.J., Sur les « Discours Sacrés » d’Aelius Aristide, REG 82 (1969), 117-153 = ID., Études d’histoire et de philologie, Paris 1975, 89-125.

FRANCIS J.A., Truthful Fiction: New Questions to Old Answers on Philostratus’ “Life of Apollonius”, AJPh 119 (1998), 419-441.

FRANCOIS L., Essai sur Dion Chrysostome, Paris 1921.

GRAINDOR P., Hérode Atticus et sa famille : un milliardaire antique, Le Caire 1930.

GYSELINK W., Pinning down Proteus: some Thoughts on an Innovative Interpretation of Philostratus’ Vita Apollonii, AC 76 (2007), 195-203.

HESSELING D.C., On Philostratus’ Lives of the Sophists I. 24, CR 44 (1930), 59-61.

HUG A., Leben und Werke des Rhetors Aristides, diss. Freiburg 1912.

JONES C.P., Aelius Aristides Εἰς βασιλέα, JRS 62 (1972), 134-152.

– , Philostratus’ Heroikos and its Setting in Reality, JHS 121 (2001), 141-149.

KEMEZIS A., Perceptions of the Second Sophistic and its Times, Toronto 2011.

–  , Roman Politics and the Fictional Narrator in Philostratus’ Apollonius, CA 33 (2014), 61-101.

KERFERD G.B. (ed.), The Sophists and their Legacy, Proceedings of the IVth Internat. Colloquium on

Ancient Philosophy, Bad Homburg, 29th Aug. – 1st Sept., Hermes Einzelschr. 44, 1979, Wiesbaden 1981.

KERFERD G.B., The sophistic Movement, Cambridge 1981.

KIENAST D., CASTRITIUS H., Ein vernachlässigtes Zeugnis für die Reichspolitik Trajans: Die

zweite tarsische Rede des Dion von Prusa, Historia 20 (1971), 62-83.

KIRBY-HIRST M., Philostratus’ Heroikos: Protesilaos, Achilles and Palamedes Unite in Defence of the Greek World, AC 57 (2014), 76-104.

KLOFT H., Liberalitas Principis. Herkunft und Bedeutung. Studien zur Principatsideologie, Köln-Wien 1970.

KYRKOS V.A., La sofistica antica e la cosiddetta Seconda Sofistica (in greco), Dodona 11 (1982), 411-426.

LAPINEN A., Physiognomy, ekphrasis, and the ‘ethnographicising’ register in the second sophistic, in JOHNSON J.C., STAVRU A. (eds.), Visualizing the Invisible with the Human Body. Physiognomy and Ekphrasis in the Ancient World, Berlin 2019, 227-270.

LEMARCHAND L., Dion de Pruse. Les oeuvres d’avant l’exil, Paris 1926.

MAZON P., Dion de Pruse et la politique agraire de Trajan, CRAI 87 (1943), 85-87.

MICHENAUD G., DIERKENS J., Les rèves dans les Discours sacrés d’Aelius Aristide, IΙe s. ap. J. C. Essai d’analyse psychologique, Mons 1972.

OLIVER J.H., The ruling Power. A Study of the Roman Empire in the Second Century after Christ through the Roman Oration of Aelius Aristides, Philadelphia 1953.

 ˗ , The civilizing Power. A Study of the Panathenaic discourse of Aelius Aristides against the background of literature and cultural conflict, Philadelphia 1968.

PALM J., Rom, Römertum und Imperium in der griech. Literatur der Kaiserzeit, Lund 1959.

PENELLA R.J., Scopelianus and the Eretrians in Cissia, Athenaeum 50 (1974), 295-300.

˗ , Philostratus’ Letter to Julia Domna, Hermes 107 (1979), 161-168.

PERNOT L., Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica, in URSO G. (ed.), Dicere Laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso, Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010, Pisa 2011, pp. 281-298.

PLATT A., Philostratus, CR 1 (1887), 280-281.

RATTI E., Impero romano e armonia dell’universo nella pratica retorica e nella concezione

religiosa di Elio Aristide. Una ricerca per l’Εἰς ῾Ρώµην, MIL 31 (1971), 283-361.

RAYNOR D.H., Moeragenes and Philostratus: Two Views of Apollonius of Tyana, CQ 34 (1984), 222-226.

REID H.L., Philostratus’s Gymnasticus: the Ethics of an Athletic Aesthetic, MAAR 61 (2016), 77-90.

RICHTER D.S., JOHNSON W.A. (eds.), The Oxford Handbook of the Second Sophistic, Oxford 2017.

SCHMID W., Der Atticismus in seinem Hauptvertretern von Dionysius von Halikarnass bis auf den zweiten Philostratus, Stuttgart 1887.

SIRAGO V.A., Involuzione politica e spirituale nell’Impero del II secolo, Napoli 1974.

                 ˗ , Trecentomila Croci. Banditi e terroristi nell’Impero romano, Como 1984.

                 ˗ , La Seconda sofistica come espressione culturale della classe dirigente del II sec.,  ANRW 2, 33.1 (1989), 36-78.

SOHLBERG D., Aelius Aristides und Diogenes von Babylon. Zur Geschichte des rednerischen Ideals, MH 29 (1972), 177-200; 256-277.

SOLMSEN F., Some Works of Philostratus the Elder, TAPhA 71 (1940), 556-572.

STANTON G.R., Sophists and Philosophers. Problems of Classification, AJPh 94 (1973), 350-364.

STOCKING C.H., The Use and Abuse of Training “Science” in Philostratus’ Gymnasticus, CA 35 (2016), 86-125.

SWAIN S., The Reliability of Philostratus’s “Lives of the Sophists”, CA 10 (1991), 148-163.

THOMAS E., Quaestiones Dioneae, diss., Leipzig 1909.

TRISOGLIO F., Le idee politiche di Plinio il Giovane e di Dione Crisostomo, PensPol 5 (1972), 3-43.

VAN GRONINGEN B.A., General literary tendencies in the second Century A.D., Mnemosyne 18 (1965), 41-56.

VIDAL-LABLACHE P., Hérode Atticus : étude critique sur sa vie, Paris 1872.

VON ARNIM H. (ed.), Dionis Prusaensis quae exstant omnia, II, Berlin 1896.

                                  ˗ , Leben und Werke des Dion von Prusa, Berlin 1898.

WALKER A., Eros and the Eye in the Love-Letters of Philostratus, PCPhS 38 (1992), 132-148.

Le fonti numismatiche

di A. Garzetti, Introduzione alla storia romana, con un’appendice di esercitazioni epigrafiche, Milano 1995 (7^ ed.), pp. 106-115.

 

L’importanza delle monete come fonte storica riguarda non solo il campo economico, ma anche quello politico. Ciò è particolarmente vero per le monete antiche, nelle quali si teneva conto di altri elementi e scopi oltre a quello puramente economico di garantire con un marchio ufficiale il valore del mezzo di scambio. La monetazione dell’impero romano, con la sua grande abbondanza e varietà di emissioni, è un chiaro esempio di questa duplice quantità di testimonianza. Dalle monete antiche ricaviamo dunque, oltre che l’informazione tecnica e artistica connessa col lato formale di questo tipo di monumento (sistemi di fusione o di coniazione; metalli e leghe; qualità artistica dell’esecuzione; ritrattistica ecc.) una testimonianza economico-finanziaria, ed una politica.

 

Tesoretto di Bredon Hill. Radiati, argento, 244-282 d.C. ca. da Bredon Hill (Worcestershire). Worcester City Art Gallery & Museum.

 

Vedendo nella moneta il mezzo di scambio, lo storico trarrà da essa tutto quanto è possibile sapere in tale campo economico-finanziario: qualità e modalità di emissione, vari piedi monetari e rapporti fra essi, diffusione in estensione geografica e in volume delle varie monete ecc. E si potranno notare da questo punto di vista, limitandoci alla monetazione romana, il ritardo dei Romani nell’accogliere la moneta; lo strano dualismo monetario del IV-III sec. a.C., con le rozze monete di bronzo fuse (l’as del peso di 273 gr.), a Roma, accanto alla monetazione argentea emessa da Capua per conto di Roma; l’adeguamento alla monetazione greca (denarius = drachma); la monetazione aurea cominciata pure in Campania su piccola scala e rimasta sempre secondaria sotto la repubblica; le successive modificazioni nelle unità e nelle leghe; la varietà di emissioni provinciali specialmente in Oriente; la pluralità delle zecche; l’inflazione del III secolo; la restaurazione costantiniana col solidus d’oro, e molti altri fenomeni; mentre i depositi di monete trovati nei più lontani paesi, anche fuori del territorio dell’antico impero, testimoniano della diffusione del commercio e dell’autorità sui mercati della moneta romana.

 

S.P.Q.R., Asse, Roma, 225-217 a.C. ca. Æ 228, 05 gr. Recto: Testa di Giano barbata.

La testimonianza politica comincia col fatto stesso che la coniazione è espressione di sovranità o almeno di autonomia. Solo un’autorità statale può decretare che si batta moneta; se l’autorità è monarchica, oltre che preferire l’oro per una coniazione, in certo senso, di prestigio, di monete largamente diffuse e accettate (ad es. i darici persiani e i filippici macedoni), pone la propria effigie sul recto della moneta; così fecero i sovrani ellenistici e a Roma, per primo, Cesare dittatore. Durante la guerra sociale del 90-89 a.C. gli alleati italici ribellatisi a Roma manifestarono la loro indipendenza e sovranità anche con larghe emissioni di monete. Gli stessi magistrati romani investiti di comando militare, specialmente a partire dall’epoca di Silla, si ritennero autorizzati in virtù del loro imperium a battere moneta per le necessità dell’esercito, specialmente d’oro: abbiamo così emissioni di Silla, di Pompeo, di Cesare, di Antonio, di Ottaviano ecc., documenti diretti di storia politica, d’inestimabile valore. Da questa monetazione militare dei generali, derivò la moneta imperiale; infatti durante l’impero l’imperatore coniò l’oro e l’argento, e il senato coniò il bronzo, mentre i governatori delle province senatorie continuarono pure a battere moneta: sempre, naturalmente, con l’effigie dell’imperatore. Le emissioni erano frequenti, e sulle monete figurava la titolatura imperiale, compresi i consolari, le salutazioni imperatorie e le tribuniciae potestates (nella zecca di Alessandria anche gli anni secondo il calendario egiziano), mentre sul verso figuravano simboli e leggende connessi con fatti storici o provvedimenti presi: indizi preziosi per la storia e per la cronologia, anche se bisogna fare attenzione al motivo propagandistico largamente sfruttato nelle monete (un’analogia si potrebbe trovare con i moderni francobolli).

 

M. Nonio Sufena. Denario, Roma, 57 a.C. AR 3, 75 gr. Verso: Roma su spolia opima, incoronata da Vittoria (Pr.[L] – VP.F; Sex. Noni, in exergo).
 

Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Verso: Brocca e lituo con leggenda imper(atori) iscritti in una corona d’alloro

 

La moneta antica era in realtà un formidabile mezzo di propaganda. Già nel periodo repubblicano i magistrati addetti alla zecca ponevano sulle monete, col proprio nome, figurazioni tratte dalle tradizioni della propria famiglia. Per l’impero basterebbe scorrere un elenco di leggende, per trovare nelle personificazioni divine di concetti astratti e nelle espressioni simboleggianti una realtà vera o da imporre come vera le tracce di una pertinace linea propagandistica. Spigolando, a titolo di esempio, dalle emissioni di Caro, Carino e Numeriano raccolte in appendice al libro di P. Meloni su questi imperatori (Cagliari 1948, p. 202 sgg.) troviamo: ABVNDANTIA AVG., AEQVITAS AVG., CLEMENTIA TEMPORVM, FELICITAS PVBLICA, FORTVNA REDVX, INDVLGENTIA AVG., PAX AETERNA, PIETAS AVG., PROVIDENTIA AVG., PVDICITIA AVG., SAECVLI FELICITAS, SALVS PVBLICA, SECVRITAS PVBLICA, VNDIQVE VICTORES, VICTORIA AVG., VIRTVS AVG. ecc., cioè un litaniare di proclamazioni di felicità, probabilmente «felicità per decreto» (cfr. l’episodio di Plut. Caes. 59, 6).

 

M. Aurelio Caro. Antoniniano, Ticinum, 282-283 d.C. AR 4, 25 gr. Verso: Virtus stante verso destra, con lancia e scudo; in leggenda: Virtu-s Aug(usti).

M. Aurelio Carino. Antoniniano, Roma 283-285 d.C. AR-Æ 3, 59 gr. Verso: Fides stante verso sinistra con due labari; in leggenda: Fides militum; in exergo, la sigla KAE.

 

 

Tuttavia queste leggende, anche se amplificate, sono certamente occasionate da fatti che noi possiamo ritenere come più o meno acquisiti alla storia a seconda dell’esistenza o meno, per essi, di fonti parallele. Quando leggiamo su una moneta la leggenda CONCORDIA EXERCITVVM attorno al simbolo di due mani che s’intrecciano, possiamo pensare a malumori rientrati di gruppi di legioni; la leggenda di una moneta di Nerva FISCI IVDAICI CALVMNIA SVBLATA allude alla abolizione da parte di Nerva di un’odiosa imposta sugli Ebrei stabilita da Domiziano, e conferma quello che sappiamo d’altra parte sulla larghezza d’idee e di propositi del vecchio imperatore; e le cure dello stesso per gli Italici sono confermate da un’altra leggenda, VEHICVLATIONE ITALIAE REMISSA, alludente all’esenzione concessa a coloro che abitavano lungo le grandi vie consolari dell’obbligo di fornire il necessario al cursus publicus, cioè al servizio dei corrieri di stato; rifornimento che venne assunto direttamente dall’amministrazione statale.

 

M. Cocceio Nerva. Denario, Roma 96 d.C. AR 3, 28 gr. Verso: Coniunctio dextrarum davanti a un’insegna legionaria issata sulla prora di una nave. L’immagine è iscritta in una leggenda, che recita: Concordia exercituum.

 

M. Cocceio Nerva. Sesterzio, Roma 96 d.C. Æ 27, 19 gr. Verso: La palma, simbolo della Provincia di Syria-Palaestina; intorno corre la leggenda Fisci Iudaici – calumnia sublata; nel campo sinistro S(enatus) e in quello destro C(onsulto).

 

Vi sono poi monete esplicitamente commemorative, i cosiddetti medaglioni, come quelli coniati da Antonino Pio per il IX centenario della fondazione di Roma: vere monete aventi corso normale, come multiple di tipi correnti; talvolta, sempre per speciali motivi propagandistici, alcuni imperatori ritennero di «restaurare» monete dei loro predecessori. Fra i pezzi di propaganda rientrerebbero, secondo la spiegazione di Andreas Alföldi (Die Kontorniaten, Budapest 1943), anche i cosiddetti contorniati, monete con un bordo e varie figurazioni, apparse nella seconda metà del IV sec. e al principio del V, ma non come mezzi di scambio. Essi sarebbero gettoni per spettacoli, che l’aristocrazia ancora pagana di Roma (siamo ai tempi di Simmaco e della contesa per l’ara della Vittoria nella curia) distribuiva come mezzo di propaganda, per richiamare con le raffigurazioni delle divinità e dei personaggi della storia di Roma, al culto della vecchia religione e delle antiche glorie. Si danno anche altre spiegazioni (S. Mazzarino, in «Enc. Arte Class.», II, 1959, pp. 784-791).

 

Antonino Pio. Aureo, Roma, 147 d.C. AV 7, 13 gr. Verso: Enea in fuga con Anchise sulle spalle, tenendo il piccolo Ascanio per mano. Intorno, la leggenda: Tr(ibunicia) Pot(estas) – Co(n)s(ul) III.

 

Del resto le monete sono preziose per la storia della religione, specialmente come la più sicura fonte ufficiale per i culti sanzionati dallo Stato. Le monete imperiali diffusero la conoscenza delle personificazioni caratteristiche della mentalità religiosa romana, quali la Fides, l’Aequitas, la Spes, l’Honos e la Virtus (personificazioni di cui si meravigliava il greco Plutarco, Quaest. Rom. 13), e viceversa ci danno testimonianza dell’atteggiamento degli imperatori di fronte ai culti non romani, specialmente orientali, dal culto isiaco che appare sulle monete di Vespasiano, il quale appunto in Egitto aveva avuto la prima acclamazione imperatoria, a quello del Sol Invictus di Aureliano, e alla apparizione del monogramma di Cristo sulle monete di Costantino. Si tratta insomma di una documentazione che ha in tutto il suo complesso il carattere dell’ufficialità, e a ragione la critica storica più recente rivolte ad essa particolare attenzione. Vedasi ciò che dice H. Mattingly, uno dei maggiori specialisti, in Cambridge Ancient History (CAH), XII, 1939, pp. 713-720.

T. Flavio Vespasiano. Diobolo, Alessandria, 74-75 d.C. Æ 11, 40 gr. Verso: Busto drappeggiato di Iside, voltato a destra, con basileion sulla testa.

 

L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Sol, radiato, stante, verso sinistra; regge nella mano sinistra un globo e la destra è alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi; in leggenda: Oriens Aug(usti).

 

Anche per le monete, come per i papiri, non esiste un corpus. Ne fu iniziato uno dietro suggerimento del Mommsen (Corpus nummorum) e sotto il patronato dell’Accademia di Prussia, ma esso si limitò a raccogliere le monete del Nord della Grecia (Die antiken Münzen Nord-Griechenlands, 1898-1935, a cura di Pick, Regling, Münzer, Strack, Gaebler ; nel 1965 si è aggiunto il volume delle monete di Perinto a cura di E. Schönert), e quelle della Misia (Die antiken Münzen Mysien, 1913, a cura di Fritze). Praticamente fermo, questo corpus è sostituito dal 1931 dalla Sylloge nummorum Graecorum iniziata dalla British Academy, e pubblicata con volumi per singole collezioni. Del resto suppliscono alla mancanza di grandi corpora i cataloghi dei musei, in primo luogo del British Museum di Londra, e per le monete romane in particolare non mancano in verità opere eccellenti, sia per classificazione che per commento. Anzitutto conserva ancora valore la grande trattazione di J. Eckhel, Doctrina numorum veterum (8 volumi, Vienna 1792-98; un 9° vol. postumo nel 1826), con la quale comincia la moderna scienza numismatica; per la moneta romana in particolare v’è la trattazione di T. Mommsen, Geschichte der römischen Münzwesens, Berlin 1860, con la traduzione francese (ampliata, e quindi la sola da adoperare) in 4 volumi di Blacas e de Witte (Paris 1865-75, Histoire de la monnaie romaine). Per le monete repubblicane le raccolte fondamentali sono: E. Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la République romaine (2 volumi, Paris 1885-86, con Nachträge, cioè aggiunte, di Bahrfeldt del 1897 e 1900), e il catalogo del British Museum, cioè H.A. Grüber, Coins of the Roman Republic in the British Museum (3 voll., Londra 1909); più recente M.H. Crawford, Roman Republican Coinage (RRC), Cambridge 1975, seguito ad opera dello stesso autore dall’importante trattato Coinage and Money under the Roman Republic. Italy and the Mediterranean Economy, London 1985. Per le monete imperiali: H. Cohen, Description historique des monnaies frappés sous l’empire romain (8 volumi, 2a ed., Paris 1884-1892, riprodotta anastaticamente a Lipsia nel 1930 e a Graz fra il 1955 e il 1957); inoltre il catalogo del British Museum: H. Mattingly, Coins of the Roman Empire in the British Museum (6 voll., da Augusto a Balbino e Pupieno, 1923-1930-1936-1940-1950-1962) e, fondamentale anche per il suo carattere di sistematicità e completezza, la grande opera di Mattingly – Sydenham – Sutherland – Carson, The Roman Imperial Coinage (RIC), ora completa nei suoi dieci volumi: I (1923 rist. 1984), da Augusto a Vitellio; II (1926), da Vespasiano ad Adriano; III (1930), da Antonino a Commodo; IV 1 (1936), IV 2 (1938), da Pertinace a Pupieno; IV 3 (1949), da Gordiano III a Uranius Antoninus (uno dei numerosi usurpatori, verso il 248); V 1 (1927), V 2 (1933), da Valeriano a Diocleziano; VI (1967), da Diocleziano alla morte di Massimino; VII (1966), Costantino e Licinio; VIII (1981), la famiglia di Costantino (337-364); IX (1951), da Valentiniano I a Teodosio I; X (1994) da Arcadio e Onorio al 491. È stata pure iniziata a cura del British Museum e della Bibliothèque Nationale di Parigi una serie dedicata alla monetazione provinciale, Roman Provincial Coinage (RPC), di cui è uscita la prima parte in due volumi: A. Burnett – M. Amandry – P.P. Ripollès, RPC, I. From the Death of Caesar to the Death of Vitellius (44 B.C. – A.D. 69), London-Paris 1992. In Italia è stato iniziato nel 1972 a Firenze da A. Banti – L. Simonetti un Corpus Nummorum Romanorum, di cui sono usciti alcuni volumi riguardanti la monetazione repubblicana del I sec. a.C. (in ordine alfabetico delle gentes dei monetales) e la monetazione triumvirale e augustea.

Accanto a queste raccolte complete, anche per le monete vi sono delle scelte, ove sono raccolti i tipi più significativi per la storia. Tra queste: G.F. Hill, Historical Roman Coins (Londra 1909), e H. Mattingly, Roman Coins from the Earliest Times to the Fall of the Roman Empire (Londra 1927, 2a ed. 1960).

Per l’orientamento generale ci si rivolgerà ai trattati, ove sono studiati con particolare accentuazione o l’aspetto propriamente numismatico, o l’artistico, o il metrologico, o lo storico di questa categoria di materiale archeologico: tali E. Babelon, nella prima parte del I volume (Théorie et doctrine) del suo Traité des monnais grecques et romaines (4 voll., Paris 1901-1932); Head., Historia numorum (2a ed., Oxford 1911), un indispensabile repertorio di monete storiche; il nostro A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi (Bologna 1928), che considera soprattutto il fenomeno monetario in sé riprendendo il classico Essai sur l’organisation politique et économique de la monnaie dans l’antiquité di F. Lenormant (Paris 1863, rist. anast. Amsterdam 1970); inoltre, con carattere più pratico, Hill., A Handbook of Greek and Roman Coins (Londra 1899); gli ancora utili «Manuali Hoepli» di F. Gnecchi, Monete romane, Milano 1935 (rist. anast. 1977) e il più generale di S. Ambrosoli – F. Gnecchi, Manuale elementare di numismatica, 6a ed. Milano 1922 (rist. anast. 1975); L. Breglia, Numismatica antica. Storia e metodologia, Milano, Feltrinelli, 1964; K. Christ, Antike Numismatik. Einführung und Bibliographie, Darmstadt 1967; Ph. Grierson, Numismatics, Oxford 1975 (trad. it. di N. De Domenico, Roma 1984, nelle «Guide», 15); la sintesi di M.H. Crawford, La moneta in Grecia e a Roma, Universale Laterza 615, Bari 1982. M. Grant, Roman Imperial Money, London 1954, è importante per le deduzioni storiche circa l’impero romano. Sul particolare carattere della testimonianza storica delle monete, si vedano Th. Reinach, L’histoire par les monnaies (Paris 1902), una raccolta di saggi di numismatica applicata alla storia; L. Breglia, Possibilità e limiti del contributo numismatico alla ricerca storica, in «Annali Ist. Ital. Numism.», IV, 1957, pp. 219-223; G.G. Belloni, Significati storico-politici delle figurazioni e delle scritte delle monete da Augusto a Traiano, in ANRW, II 1, 1974, pp. 997-1144 ed ivi (II, 12, 3, 1985, pp. 89-115), del medesimo, Monete romane (repubblica e impero) in quanto opera d’artigianato e arte. Osservazioni o impostazione di problemi. L’aggiornamento è tenuto dalle riviste: la francese Revue numismatique, lo Zeitschrift für Numismatik di Berlino, la nostra Rivista Italiana di Numismatica, Milano 1888 sgg., l’inglese Numismatic Chronicle ecc.

Infine non è da dimenticare la metrologia, la scienza delle misure, che ha molti punti di contatto con la numismatica. Il manuale classico è sempre quello di F. Hultsch, Griechische und römische Metrologie, 2a ed., Berlin 1882 (rist. anast. Graz 1971).

 

 

Esempio di contributo della testimonianza numismatica alla soluzione di un problema storico

 

Soprattutto le questioni cronologiche possono essere illuminate e talora risolte dalla testimonianza delle monete.

Nell’anno 73 Domiziano ebbe da Domizia Longina un figlio. Tutto fa pensare che il piccolo non superasse l’infanzia, ma si vorrebbe determinare l’epoca della sua morte, fissando almeno un terminus ante quem. Il termine più alto di fonte letteraria è l’anno 88 (Martial. IV 3, 8). Le monete ci permettono di innalzarlo ancora.

Vediamo, dal Catalogo del Museo Britannico (Coins of the Roman Empire in the British Museum, II, 1930, a cura di H. Mattingly), le leggende di alcune monete di Domizia:

  • 311 nr. 62 (tav. 61, 6), Aureo:

r.: DOMITIA AVGVSTA IMP(eratoris) DOMIT(iani)

v.: DIVVS CAESAR IMP(eratoris) DOMITIANI F(ilius)

  • 311 nr. 63 (tav. 61, 7), Denario:

r: Stessa leggenda

v.: Stessa leggenda

  • 413 nr. 501 (tav. 82, 3), Sesterzio:

r.: DOMITIAE AVG(ustae) IMP(eratoris) CAES(aris) DIVI F(ilii) DOMITIAN(i) AVG(usti)

v.: DIVI CAESAR(is) MATRI S(enatus) C(onsulto)

  • 413 nr. 502, altro Sesterzio:

r.: Stessa leggenda

v.: DIVI CAESARIS MATER S(enatus) C(onsulto)

  • 413 nr. 503 (tav. 82, 4), Dupondio:

r.: DOMITIA AVG(usta) IMP(eratoris) CAES(aris) DIVI F(ilii) DOMITIAN(i) AVG(usti)

v.: DIVI CAESARIS MATER S(enatus) C(onsulto)

  • 414, Asse:

r.: Stessa leggenda

v.: Stessa leggenda.

 

Domizia Longina. Sesterzio, Roma 82 d.C. Æ 26, 85 gr. Verso: L’Augusta Domizia è raffigurata al centro, assisa in trono, con lo scettro nella sinistra; tiene la destra levata ad indicare un fanciullo dinanzi a lei, a sinistra; la leggenda: Divi Caesar(is) Mater.

 

Domizia Longina. Denario, Roma 82-83 d.C. AR 3, 51 gr. Verso: Un bambino seduto su globo, volto a sinistra, con braccia aperte e sette stelle intorno; la leggenda: Divus Caesar imp(eratoris) Domitiani f(ilius).

 

È posto l’accento sul fatto che Domizia è la madre del piccolo Cesare divinizzato (quindi morto). Come madre del piccolo dio Domizia stessa appare in foggia divina, con gli attributi di Cerere, della Concordia Augusta, della Pietas Augusta. Ma a noi importa specialmente che queste monete siano databili. Purtroppo non lo sono con assoluta precisione, perché manca per Domiziano l’indicazione della tribunicia potestas o del consolato o delle salutazioni imperatorie. Ma sono databili con precisione relativa, sì da permettere di fissare il terminus ante quem cercato. In nessuna di queste monete appare l’epiteto Germanicus che Domiziano assunse alla fine dell’83 o al più tardi ai primi dell’84, dopo la spedizione contro i Catti. Le monete sono perciò da collocare cronologicamente fra il 14 settembre 81 (dies imperii di Domiziano, che diede subito a Domizia il titolo di Augusta, cfr. Atti degli Arvali, CIL VI 2060) e la fine dell’83 o i primi dell’84. Ne consegue che il piccolo Cesare morì prima della fine dell’83 o dei primi dell’84, al massimo decenne. Del resto dove egli è rappresentato sulle monete, appare come piccolo bambino (Coins, II, tav. 61, nrr. 6 e 7; tav. 82, nr. 3). Altro non è dato di stabilire con precisione. Si può continuare con la congettura. Si danno due possibilità: o che egli fosse morto prima dell’accesso al trono di Domiziano, e che Domiziano nel suo sentimento di rivincita nei confronti della posizione di secondo piano nella quale era stato tenuto dal padre e dal fratello, e di revisione polemica dei loro principi di governo, appena giunto al trono esaltasse tutto quanto si riferiva alla sua propria famiglia, specialmente in vista dell’idea monarchico-divina da lui vagheggiata; oppure può darsi che il piccolo fosse morto nel corso di questi poco più che due anni: lo farebbe pensare anche la relativa unicità di emissione. Più tardi non abbiamo più infatti monete di Domizia (che sopravvisse per oltre quarant’anni a Domiziano): esse sono tutte concentrate in questo periodo, ed hanno tutte più o meno relazione con quella maternità divina, sì da far pensare ad un’occasione particolare. È vero che noi non siamo sicuri di conoscere tutta la monetazione (è il limite caratteristico delle testimonianze di questo genere, valevole anche per le iscrizioni), ma pare difficile che non si sia conservato almeno un pezzo di altro periodo, se ci fosse stato. Se così è, cioè se il piccolo Cesare morì dopo l’accesso al trono del padre, anche la successione di Domiziano, che taluno suppose difficile e contrastata, dovrebbe essere confermata nella sua spontaneità e naturalezza, del resto già nota, perché Domiziano che aveva un figlio, mentre Tito era morto senza prole maschile, rappresentava oltre a tutto la speranza di continuazione dinastica.

Atti degli Arvali (CIL VI 2060). Tabula, marmo, 81 d.C. ca. dal Lucus deae Diae, La Magliana. Roma, Museo Nazionale Romano.