Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

Quinto Ennio

di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 129-135.

Nella memoria dei Romani Quinto Ennio rimase impresso come uno dei poeti arcaici più degni di venerazione. La sua opera restò infatti nei secoli successivi il simbolo di un’epoca – quella dello scontro politico e militare tra Roma e il mondo ellenico – e l’emblema di un approccio orgogliosamente romano, di confronto ma non di subalternità nei riguardi della cultura greca. Ennio fu un poeta estremamente influente, dunque: molte sue innovazioni marcarono la storia successiva di alcuni tra i più importanti generi letterari coltivati a Roma; senza di lui e senza l’opera riconosciuta come il suo capolavoro poetico, gli Annales, non si potrebbe più capire la storia dell’epica celebrativa romana, che sarebbe culminata con Virgilio; e se non si avesse conoscenza delle tragedie di Ennio, mancherebbe un tassello importante per comprendere alcuni sviluppi tipicamente romani del genere teatrale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una vita per la poesia

Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina della regione chiamata dai Romani Calabria (cioè l’area più meridionale dell’odierna Puglia). Dunque, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, anche Ennio non era latino ma proveniva da una zona di cultura italica fortemente grecizzata. Sembra inoltre molto probabile che egli abbia trascorso gli anni fondamentali della sua formazione nella città italiota di Taranto. Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204, quasi settant’anni dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse l’attività di insegnante, ma presto (entro il 190) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie.

Nel 189-187 egli accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne nei suoi versi la campagna militare contro la coalizione dei popoli e delle città raccolti nella Lega Etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò, infatti, un’opera intitolata Ambracia, molto probabilmente una tragedia praetexta. Nel seguito della sua vita Ennio fu protetto e favorito dalla nobile famiglia di Nobiliore nonché dalla casata degli Scipiones, entrando a far parte del loro “circolo”. Risale all’ultima fase della sua vita la fatica, senz’altro vastissima, degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio morì a Roma nel 169. Già in vita gli furono tributati grandi onori e, per questo, l’orgoglio per la propria fama e il presentimento dell’immortalità si incontrano spesso nella sua opera.

Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Dritto: Hercules | Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.

La produzione letteraria

Gli inizi poetici di Ennio, come si è visto, si posero nel segno del teatro. In questo campo egli fu poeta fecondo, con una produzione che non rimase confinata agli anni giovanili, ma si estese lungo l’arco di tutta la sua vita (la tragedia Thyestes, infatti, è databile al 169, l’anno della sua scomparsa). Restano, tuttavia, i titoli di circa venti tragedie coturnatae e un numero insolitamente ricco di brevi citazioni tratte dai drammi, per un totale di circa quattrocento versi. I temi delle tragedie enniane sono soprattutto quelli del ciclo troiano: Alexander, Andromacha aechmalotis, Hecuba, Iphigenia, Medea exul, ecc. Gli studiosi antichi conoscevano, di Ennio, anche due commedie, la Caupuncula [L’ostessa] e il Pancratiastes [Il lottatore], ma per questa parte della sua produzione il poeta era ritenuto un minore; in effetti, fu l’ultimo autore latino a praticare insieme tragedia e commedia.

L’opera che gli diede immensa celebrità nel mondo romano, e grazie alla quale ancora oggi egli resta un autore molto importante, furono gli Annales, il primo poema latino in esametri. In essi Ennio narrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi. Dei diciotto libri originari restano attualmente quattrocento trentasette frammenti, per un totale di circa seicento versi. Se si escludono i testi comici, il poema enniano è dunque l’unica opera latina di età medio-repubblicana della quale è possibile farsi un’idea di una qualche ampiezza.

Di Ennio sono attestate anche alcune opere minori, delle quali si può leggere poco, ma che meritano comunque menzione perché molte di esse hanno avuto un seguito nella letteratura latina. Gli Hedyphagètica [Il mangiar bene] erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela, vissuto nel IV secolo a.C. Se essi, come tutto fa pensare, furono composti prima degli Annales, si tratterebbe della prima opera latina in esametri attestata. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già il verso scelto, che era quello di Omero e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. Se è così, gli Hedyphagètica avevano probabilmente affinità con un’altra opera di Ennio, le Saturae, primo esempio di un genere che avrebbe avuto larga fortuna nella poesia latina, fino a Orazio e oltre. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri e in metri diversi, è largamente congetturale.

Altri testi di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante: l’Euhèmerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina; l’Epicharmus, in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del grande poeta comico greco Epicarmo, vissuto nel V secolo.

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

Le tragedie: il gusto per il patetico e il grandioso

Benché Ennio abbia acquistato l’immortalità poetica attraverso gli Annales, che sono la sua opera fondamentale, furono le tragedie a garantirgli nell’immediato la maggiore affermazione letteraria. Il motivo di questo successo va senza dubbio ricercato nella capacità del poeta di sviluppare una forma tragica sempre più in grado di collocarsi con dignità a fianco dei classici greci. Per quanto è possibile osservare dai frammenti superstiti, il carattere innovativo delle tragedie di Ennio rispetto alla tragedia greca va individuato nella netta accentuazione dell’elemento patetico e spettacolare: si tratta di visioni, apparizioni, orride descrizioni, in cui il poeta dà prova di una fantasia visionaria che sembra anticipare certi esiti del teatro moderno. Questa predilezione per le rappresentazioni a effetto sembra essere stata una cifra stilistica comune della tragedia latina arcaica: a differenza di quanto sarebbe accaduto in età imperiale, quando i drammi sarebbero stati concepiti espressamente per la recitazione nelle sale da lettura, le tragedie di Ennio (come pure quelle di Accio e Pacuvio) erano scritte per essere rappresentate sulla scena, ed è certo che la spettacolarità dell’allestimento doveva essere una sicura garanzia di successo e popolarità. Un frammento, tratto dall’Alcmeo (Scaenica, vv. 27-30 Vahlen, apud Cɪᴄ. de orat. III 217), porta in scena l’incubo del matricida Alcmeone, da cui l’opera trae il titolo, tormentato dalle Furie materne. Si tratta di un bell’esempio della predilezione di Ennio per i momenti di maggiore pathos e per la rappresentazione degli sconvolgimenti dell’animo e della mente.

unde haec flamma oritur?        

†incede incede† adsunt; me expetunt.

fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc uim quae me excruciat.

caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.

Donde si leva questa fiamma?

Corri, corri! Avanzano, s’avventano.

Aiuto! Scaccia da me questo malanno, quest’assalto avvampante che mi strazia!

Cinte di cerulee serpi irrompono, mi serrano con faci ardenti!

(trad. di C. Marchesi – G. Campagna)

Alcmeone uccide la madre Erifile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Sirico, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo il mito greco, Alcmeone era figlio di Anfiarao, re di Argo, e di Erifile. Quando la donna costrinse lo sposo a partecipare alla guerra contro la città di Tebe (un riflesso della quale si ha nella tragedia eschilea I sette contro Tebe), Anfiarao, sapendo che vi avrebbe trovato la morte, comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo: egli avrebbe dunque dovuto uccidere la madre e compiere una seconda spedizione contro Tebe. Il che, puntualmente, accadde. Tuttavia – come emerge anche da questo frammento enniano – Alcmeone dovette subire la persecuzione delle Furie (divinità vendicatrici dei delitti di sangue, corrispondenti alle greche Erinni, che si ritrovano nella saga dell’Orestea di Eschilo) e si recò esule in vari luoghi della Grecia per purificarsi del matricidio. Ma, nonostante i ripetuti tentativi in tal senso, venne infine ucciso dai figli di Fegeo, re di Psofi.

Un altro frammento enniano, tratto dall’Alexander (Scaenica, vv. 63-71 Vahlen, apud Cɪᴄ. Div. 1, 66), si sofferma sulla profezia di Cassandra, l’inascoltata profetessa, figlia di Priamo. La visione profetica, relativa alla caduta di Troia, è di raffinata struttura e di vivo effetto, stravolta com’è nel suo ordine logico e cronologico: prima l’immagine dell’incendio e del sangue simboleggiata e suscitata dalla fiaccola, poi l’invasione dell’armata nemica e, infine, la causa prima della rovina, il giudizio di Paride e la conseguente venuta a Troia di Elena (Lacedaemonia mulier), premio offerto da Venere al giudice che le aveva dato vittoria sulle dee rivali.

adest, adest fax obuoluta sanguine atque incendio,     

multos annos latuit, ciues, ferte opem et restinguite.  

iamque mari magno classis cita            

texitur, exitium examen rapit:

adueniet, fera ueliuolantibus

nauibus complebit manus litora.          

eheu uidete:     

iudicauit inclitum iudicium inter deas tris aliquis:      

quo iudicio Lacedaemonia mulier, Furiarum una adueniet.

Ecco, ecco la fiaccola avvolta di sangue e di fuoco!

Per molti anni rimase nascosta: portate aiuto, cittadini, spegnetela!

E già sul mare una veloce flotta

si allestisce e con sé porta uno sciame di sventure.

Giungerà qui un’armata di guerra

e navi con le vele al vento riempiranno i lidi!

Ahimè, guardate:

un uomo ha giudicato le tre dee col celebre giudizio:

per quel giudizio giungerà qui una donna spartana, una delle Furie!

Cassandra (al centro) predice la caduta di Troia. Priamo stringe tra le braccia Paride (sinistra). Ettore assiste alla scena (destra). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La profezia di Cassandra inverte completamente la consueta successione degli eventi che portano alla guerra e alla caduta della città. All’inizio del frammento (vv. 63-64) l’abitato è già presentato come dato alle fiamme per mano dei Greci. Quindi, secondo un cammino a ritroso, vengono richiamati i momenti dell’allestimento della flotta greca e, implicitamente, dell’approdo sui lidi della Troade (vv. 65-68). Solo alla fine (vv. 69-71) la profetessa evoca gli antefatti della guerra, connessi con il giudizio di Paride, che tra Giunone, Minerva e Venere scelse di attribuire la palma della bellezza a quest’ultima, in cambio dell’amore di Elena.

Ora, questo frammento e quello precedente costituiscono un bell’esempio delle rappresentazioni a tinte forti tipiche della tragedia latina arcaica. Al tono profetico si mescolano infatti parole dense di significato, che orientano nettamente la descrizione in senso macabro. Soprattutto in questo, al v. 63 la fiaccola che prefigura la fine di Troia è descritta come avvolta da sangue e fuoco (fax obuoluta sanguine atque incendio). Ai vv. 67-68 l’armata achea è definita fera… manus, che letteralmente vale «feroce manipolo (di uomini)». Al v. 71 Elena, causa della guerra, è equiparata a una delle Furie, terribili e vendicative entità rappresentate come donne alate dai capelli intrecciati di serpi e con in mano una torcia o una frusta. Al v. 67 Ennio definisce le navi ueliuolantes. Si tratta dell’unico esempio, in tutta la letteratura latina, dell’aggettivo composto ueliuolans, letteralmente «che vola con le vele», che è dunque, per usare una locuzione tecnico-retorica, un hàpax legòmenon. A quanto si sa, Ennio, che prediligeva la coniazione di aggettivi composti, sentiti come caratteristici dello stile poetico elevato, introdusse nella poesia latina anche ueliuolus (due esempi, sempre in riferimento alle navi), poi ripreso da Lucrezio, Virgilio e Ovidio.

Il gusto di Ennio per la sperimentazione linguistica, che caratterizza il suo stile, è riconoscibile, tra l’altro, nell’invenzione di aggettivi composti (quelli che diventeranno un marchio stilistico della lingua poetica latina). Ennio li modellò sugli “aggettivi doppi”, cari alla lingua elevata della poesia greca. Già Aristotele, infatti, aveva fatto notare che una delle caratteristiche principali della lingua della poesia greca solenne era l’uso di composti; intendeva riferirsi a quelle formazioni linguistiche prodotte dall’unione di due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, quasi centauri formati da due corpi diversi. È appunto questa immagine con cui li definisce Quintiliano (Inst. I 5, 65), e duobos quasi corporibus coalescunt («risultano formati come se consistessero di due corpi insieme»).

In quanto espressioni in cui due concetti sono riuniti in una sola parola, i composti risultano particolarmente appropriati nei linguaggi che hanno bisogno di mezzi fortemente espressivi, vale a dire soprattutto nella lingua viva del popolo e nella lingua intensa dei poeti, due forme di linguaggio che spesso paradossalmente si incontrano. Per quanto riguarda il parlato, si possono citare molte forme popolari frequenti nelle commedie arcaiche, soprattutto quelle di Plauto, che ama inventare espressioni ingiuriose vivaci: per esempio, multiloqua et multibiba… anus (Cist. v. 149: «una vecchia chiacchierona e ubriacona»). Quanto al linguaggio della poesia elevata, i composti più conformi allo spirito della lingua latina sembrano essere stati quelli che hanno un elemento verbale nel secondo membro (del tipo omnipotens, horrisonus), e soprattutto quelli in -fer-, -ger- e -cola, antichi temi verbali (fero, gero, colo), che per il loro uso frequente erano di fatto ridotti quasi a suffissi (come frugifer, «fruttifero, ferace, fertile»; armiger, «armato»; coelicola, «abitatore del cielo, divinità»). Di Ennio si può citare come buon esempio un verso degli Annales (v. 198 Skutsch = 181 Vahlen): bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes («forti-in-guerra sono più che forti-in-senno»), dove di grande efficacia espressiva è anche la “rima” (o meglio l’omeoteleuto, cioè una uguale fine di parola). In Annales, v. 593 Skutsch oratores doctiloqui («gli ambasciatori abili a parlare»), il composto doctiloquus è invenzione enniana, anche se già Plauto aveva prodotto forme analoghe, come blandiloquus, «che parla in modo carezzevole», falsiloquus, stultiloquus. Molti sono i composti che appaiono come calchi di aggettivi doppi greci consacrati dalla grande poesia: così Annales, v. 554 Skutsch contremuit templum magnum Iouis altitonantis, «tremò il grande recinto (= il cielo) di Giove che tuona dall’alto», dove l’aggettivo altitonans riproduce il corrispondente greco βαρυβρεμέτης; così ancora Annales, v. 76 Skutsch genus altiuolantum, «la stirpe degli uccelli», dove altiuolans ricalca il greco ὑψιπετήεις. Questa innovazione introdotta da Ennio fu assai rilevante per la lingua poetica romana: l’uso dei composti diventò uno dei principali elementi capaci di differenziare la lingua poetica da quella della prosa letteraria. I composti, infatti, adatti per la loro forma a riempire lunghi versi e a offrire ampie possibilità di effetti fonici, furono un importante mezzo di espressività e insieme un vero e proprio marchio dello stile elevato.

Dunque, il gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano, quali il terrore e la paura, la grande commozione, sono tutti elementi tipici di questo linguaggio teatrale che si avviò, sul modello tracciato da Ennio, a diventare tipico della poesia tragica latina. Su questa scia, infatti, si sarebbero posti in seguito i più importanti tragediografi: Pacuvio e Accio prima, e poi Seneca.

A questo proposito, vale la pena di citare un brano come il “cantico di Andromaca”, tratto dall’omonima Andromacha aechmalotis, che rappresenta un caso esemplare degli effetti di commozione propri della tragedia arcaica; ancora ai tempi di Cicerone, esso costituiva un pezzo di bravura per i più celebri attori, che sapevano sfruttare i toni altamente patetici caratteristici della situazione tragica del monologo, quali il disperato ricordo della patria lontana e distrutta e il dolore per la nuova condizione di servitù (Scaenica vv. 86-99):

quid petam praesidi aut exequar? quoue nunc             

auxilio exili aut fugae freta sim?           

arce et urbe orba sum: quo accedam? quo applicem? 

cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent,     

fana flamma deflagrata, tosti †alii† stant parietes,      

deformati atque abiete crispa.

o pater, o patria, o Priami domus,        

saeptum altisono cardine templum.    

uidi ego te adstante ope barbarica,      

tectis caelatis laqueatis,            

auro ebore instructam regifice.             

haec omnia uidi inflammari,    

Priamo ui uitam euitari,            

Iouis aram sanguine turpari.

Dove chiedere protezione o dove cercarla? Adesso, in quale

esilio trovare aiuto, in quale la fuga?

Sono stata privata della città e della rocca: dove mi aggrapperò? Dove piegherò le ginocchia? Per me non ci sono più altari dei padri in patria, esse giacciono infrante e disperse,

i templi incendiati dalle fiamme, bruciacchiate si levano alte le pareti

deformate e con le travi contorte.

O padre, o patria, o casa di Priamo,

sacra dimora chiusa da altisonanti cardini!

Io ti vidi ergerti nello sfarzo orientale,

coi soffitti a cassettoni tutti intarsiati,

regalmente adorna d’oro e d’avorio.

Tutto questo io vidi preda delle fiamme,

e la vita violentemente tolta a Priamo,

e l’altare di Giove insozzato di sangue!

Georges-Antoine Rochegrosse, Andromaca. Olio su tela, 1883.

Gli Annales: finalità e composizione dell’opera

Gli Annales garantirono al poeta grande fama in virtù dell’argomento affrontato: la celebrazione della storia di Roma. Gli intenti laudativi dovevano, del resto, essere fondamentali in tutta la sua produzione: il poeta in precedenza aveva composto un poema dal titolo Scipio in lode di Scipione Africano e la tragedia Ambracia per ricordare la vittoria di Nobiliore. In particolare, il caso dell’Ambracia è sintomatico e, in qualche modo, fece epoca. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia “di corte”: presso le regge dei dinasti greci orientali (ad Alessandria, Pella, Antiochia, Pergamo, ecc.) risiedevano artisti che celebravano – spesso in narrazioni epiche – le gesta dei loro sovrani. Poesia ed encomio erano strettamente saldati. Così, Ennio, partecipando alla campagna di Nobiliore come poeta “al seguito” e poi componendo una tragedia per celebrarne l’impresa, non fece che ripetere quel modello. Difatti, Catone protestò vivacemente contro quell’iniziativa, che ai suoi occhi costituiva un atto di propaganda personale. Ennio, invece, doveva vedere la propria poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva così da un lato a Omero, dall’altro alla recente tradizione epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Nella parte più tarda della sua carriera Ennio dovette concepire il grandioso progetto di una laudatio che si allargasse a tutta la storia di Roma, raccontata in un unico poema epico: gli Annales, appunto. L’opera risultò, per ampiezza e concezione, assai più vasta di quei poemi ellenistici scritti in lode dei sovrani. Per ricchezza di struttura, il precedente più prossimo era certamente il Bellum Poenicum di Nevio, che però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio, invece, decise di narrare la sua materia senza stacchi e in ordine cronologico. Rispetto a Nevio, un’importante novità fu la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi omerici, originariamente un continuum indiviso di versi.

Il titolo Annales voleva richiamarsi alle raccolte degli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi che i pontifices maximi, membri del più autorevole collegio sacerdotale dell’Urbe, erano soliti redigere anno per anno. Anche l’opera enniana era condotta secondo una scansione cronologica progressiva, “dalle origini ai giorni nostri”; ma non bisogna pensare che il poeta trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Se, da un lato, lasciava un certo spazio alle antiche leggende sulle origini di Roma, dall’altro, mostrandosi assai più selettivo di uno storico, Ennio prediligeva quasi esclusivamente gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna: per lui era ovviamente la guerra l’interesse di un poeta epico ed era la guerra l’attività in cui si mostrava la virtus romana.

Secondo le ricostruzioni degli studiosi, alle origini leggendarie della città erano dedicati i primi libri dell’opera. Al contrario di Nevio, che aveva narrato probabilmente in un excursus il solo viaggio di Enea da Troia all’Italia, come una sorta di “premessa” al racconto della guerra punica, in Ennio le leggende sulla fondazione dovevano essere esposte in una forma narrativa continua e più sistematica. Nel poema enniano trovava così per la prima volta una sistemazione coerente tutto quel patrimonio mitico propriamente quiritario, che voleva dare lustro e dignità anche alle origini storiche dell’Urbe, ammantandole di un velo leggendario e riconducendole all’opera degli dèi e degli eroi del mito. Questa rivendicazione della nobiltà del passato della città era ideologicamente molto importante, nel momento in cui la potenza di Roma si avviava a dominare su tutto il Mediterraneo e la cultura romana tentava di affiancarsi a quella greco-ellenistica, con il suo vastissimo patrimonio mitologico.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

L’investitura poetica

Riguardo agli Annales sembra che Ennio avesse progettato inizialmente un poema in quindici libri, che si sarebbe concluso con il trionfo di Fulvio Nobiliore, il suo protettore, e forse con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio alle Muse. Per motivi non del tutto chiari, però, Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario, probabilmente per aggiornare l’opera con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane. Il suo poema rimase comunque contrassegnato da due grandi proemi, al libro I e al libro VII, punti in cui il poeta prendeva direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo far poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (v. 1 Skutsch = Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum («O Muse, che col vostro passo l’alto Olimpo calcate»). Dopodiché, con un’invenzione molto più audace, Ennio raccontava di un sogno, in cui gli era apparsa l’ombra di nientemeno che Omero, il capofila di tutti i poeti epici, il quale gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui, nel poeta romano Quinto Ennio (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): … somno leni placidoque reuinctus / … uisus Homerus adesse poeta («… preso da un dolce e calmo sonno /… apparve di fronte a me Omero, il poeta»). In questo modo, Ennio si presentava come il “sostituto” vivente di colui che, a giudizio degli antichi, era stato il più grande poeta di tutti i tempi.

Nel proemio al VII libro l’autore dava più spazio alle divinità della poesia (vv. 206-210 Skutsch = 213-217 Vahlen): … scripsere alii rem / uersibus quos olim Fauni uatesque canebant, / cum neque Musarum scopulos… / … nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. nos ausi reserare… («… altri scrissero di storia / con i versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati, / quando né le rocce delle Muse… / e quando, prima di me, non c’era neppure qualcuno che professasse il culto della parola. / Noi osammo aprire…»).

Ora, il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le Camenae dell’arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso – così lo definisce Ennio – cantato da «Fauni e vati», il verso dal passato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Lui, Ennio, era il primo poeta dicti studiosus, cioè “filologo”, “cultore della parola”. In altri termini, il primo che poteva pretendere di stare alla pari con i contemporanei poeti greci, gli alessandrini, che praticavano un’arte per pochi, raffinata ed erudita, curatissima nella forma. Sicuramente Ennio, nell’affermare orgogliosamente la propria priorità tra i Romani, poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia epica.

Un generale tiene una contio davanti alle sue truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.

Uno stile all’insegna della sperimentazione

Dato il carattere di estrema frammentarietà in cui è giunta l’opera di Ennio, del suo stile si rischia di farsi un’idea distorta. Ciò dipende in gran parte – come avviene regolarmente per i poeti romani arcaici – dalla tipologia delle fonti che lo riportano. A citare Ennio, infatti, sono per lo più grammatici e filologi tardo-antichi, studiosi spesso – anche se non sempre – più interessati a raccogliere dalla letteratura dei secoli passati esempi di stranezze e particolarità linguistiche che non casi di normalità. Così, l’immagine che si ha di Ennio epico è quella di un autore che adotta uno stile quasi sperimentale, arditamente innovatore. Egli accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò persino, della lingua ellenica, caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino-italico, addirittura alcune desinenze. Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei (per esempio, Āfrĭcă tērrĭbĭlī trĕmĭt hōrrĭdă tērră tŭmūltu e ōllī rēspōndīt rēx Ālbāī Lōngāī; in entrambi i casi appare evidente una motivazione stilistica per la scelta del ritmo); e insieme, il suo stile è ricco di figure di suono (com’era tipico della tradizione indigena dei carmina), che a volte sottolineano il pathos della situazione con esiti veramente felici.

In alcuni casi, il procedimento raggiunge l’esasperazione, come nel famigerato verso (104 Skutsch = 109 Vahlen) o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti («o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!»), dalla fortissima insistenza onomatopeica, sottolineata dall’ininterrotta serie dattilica; o ancora in quest’altro verso, in cui Ennio escogita una parola come taratantara per riprodurre il suono di una tromba militare (v. 451 Skutsch = 140 Vahlen): at tuba terribili sonitu taratantara dixit («con terribile suono la tromba fece udire il suo taratatà»).

Molte innovazioni introdotte da Ennio ebbero un grande futuro nella letteratura latina successiva: la ripresa dell’esametro dattilico greco fece storia, ma non fu l’unica conquista. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e per l’uso delle cesure. Se i suoi esametri possono comunicare una certa impressione di durezza per il lettore moderno, è perché è possibile confrontarli con quelli, più fluidi, di Virgilio o Ovidio. Ma non bisogna dimenticare che Ennio è stato il primo ad adattare la lingua latina a questa forma metrica, senza avere alcun modello davanti a sé: è lui il creatore di una tradizione letteraria.

T. Vettio Sabino. Denario, Roma 70 a.C. Ar. 4,05 gr. Dritto: Sabinus, testa nuda barbata di Tito Tazio verso destra con di fronte l’espressione S(enatus) C(onsulto).

I destini dell’epica a Roma: Ennio e i suoi successori

Ennio restò per molti secoli il “poeta nazionale” romano, esercitando con i suoi Annales un’enorme influenza su tutta la produzione epica successiva. Il discorso epico, dopo di lui, fu interpretato come discorso panegirico, celebrativo; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un poema che non rinuncia a essere celebrazione (del nuovo ordine augusteo), ma che è soprattutto una complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra.

Ennio fu il cantore della virtus individuale, eroica: a differenza di quanto accadeva nelle opere di Nevio e di Catone, gli Annales erano affollati di condottieri (imperatores, duces), ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta avrebbe saputo renderli immortali, si badi bene, non solo per le loro abilità guerresche, ma anche per quelle di pace. Questo filone avrebbe avuto un enorme seguito ed esiti non necessariamente disprezzabili. Un elegante poeta come il neoterico Varrone Atacino scrisse il Bellum Sequanicum, poema sulle campagne condotte da Cesare in Gallia; e compose un’opera epica a contenuto storico anche Cicerone, il De consulatu suo. Il genere, così concepito, avrebbe continuato a vivere a lungo, sopravvivendo anche all’Eneide, che pure avrebbe battuto una strada del tutto diversa. Molti Romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi; e molti illustri protettori avranno incoraggiato questi esercizi, che erano adatti ad amplificare, in una cornice epica e trasfigurante, le più recenti imprese di generali che erano anche capi politici. Fino a tutta l’età imperiale, insomma, la poesia epico-storica continuò a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere.

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𝐴𝑑𝑒𝑙𝑝ℎ𝑜𝑒: il dramma pedagogico per antonomasia

di L. Cᴀɴꜰᴏʀᴀ, 𝐿’𝑒𝑑𝑢𝑐𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, in 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑅𝑜𝑚𝑎, IV, Torino 1989, 744-746.

 

La commedia che Terenzio fece rappresentare ai ludi funebres in onore di Lucio Emilio Paolo (160 a.C.), “I fratelli” (Adelphoe), tradotta dall’omonima commedia di Menandro, è il dramma pedagogico per antonomasia. Terenzio aveva voluto – com’è noto – un po’ virtuosisticamente innestare, nel tessuto della commedia menandrea presa a base, una scena – quella del ratto della giovane etèra – tratta da una commedia di Difilo. […] A parte la movimentata scena di ratto dell’etèra dalla casa del lenone, resta complessivamente intatta l’ispirazione menandrea di questa serissima commedia. Sin dall’iniziale scontro tra i due anziani fratelli, portatori appunto di due idee pedagogiche antitetiche, si coglie un clima che è quello dell’Atene di Menandro. Demea – il fratello che ha scelto di «vivere in campagna nel continuo risparmio e senza nulla concedersi», e sottopone il figlio a un sistema di vita austero e ritirato – ha non pochi tratti in comune con il protagonista del Dyskolos menandreo: un altro piccolo proprietario che ha scelto anche lui il ritiro nel podere del suo demo e considera la città come sinonimo di perdizione, e vive vessando i figli. Al polo opposto Micione, che non ha figli ma alleva secondo i propri criteri di tolleranza e indulgente apertura l’altro figlio di Demea, a lui affidato, rappresenta l’umanità aperta e tollerante che Menandro vagheggia.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868 (IX sec.), Adelphoe di P. Terenzio Afro, f. 53r. Eschino rapisce l’etèra.

In che misura questa tensione interna al mondo ateniese ha attinenza anche con la realtà romana, nella quale la traduzione menandrea traspone la vicenda? Certamente ne ha, in quanto anche il mondo romano del tempo della vecchiezza di Catone e della fervida giovinezza di Terenzio è ormai attraversato da un’analoga tensione: l’invasione di commedia attica tradotta ne è un indizio, oltre che un fattore. I signori per i quali – e con l’aiuto dei quali – Terenzio scrive non educano più i loro figlio alla maniera del vecchio Catone e del vecchio Demea. E non sarà casuale che la rappresentazione degli Adelphoe si sia svolta nel contesto delle celebrazioni postume di Emilio Paolo, il consuocero (e quanto da lui diverso) di Marco Porcio Catone. Emilio Paolo, infatti, era colui che, secondo l’attenta descrizione di Plutarco, più di ogni altro romano del suo tempo era stato capace di fondere elementi di tradizionalismo pedagogico cittadino con la maggiore apertura all’educazione greca. […] Naturalmente non ha senso commettere l’errore di prospettiva di considerare il dibattito con cui si aprono gli Adelphoe terenziani, tra Micione e Demea, come la rappresentazione di uno scontro di orientamenti sorto all’interno del mondo romano. Il testo è ricalcato sul testo menandreo. Nondimeno nel lungo monologo di Micione, con cui il dramma si apre, si possono isolare un paio di espressioni che rinviano alla concezione romana della patria potestas: là dove Micione ripensa al proprio comportamento tollerante nei confronti del figlio adottivo e osserva che tutto gli concede, perché il figlio lo abbia caro, e soggiunge: «Gli faccio regali, chiudo un occhio, non credo necessario agire sempre secondo i miei diritti», e poco dopo, nel contrapporre, nonostante tutto, il proprio metodo a quello autoritario e repressivo del fratello, conclude: «Ecco la differenza fra padre e padrone». Espressioni entrambe esplicitamente critiche rispetto all’equiparazione della potestas verso i figli e verso i servi, così autorevolmente sancita dai giuristi: il riferimento alla realtà giuridica romana non potrebbe essere più chiaro. Nelle parole di Micione che contrappongono la vita urbana da lui prediletta e praticata («Io ho preferito questa vita in città, fatta di indulgenza e di tempo libero per coltivare lo spirito») e il modello di vita rustica del fratello Demea («Lui è tutto il contrario, vive in campagna, tira avanti sempre tra le economie e gli stenti»), si è ravvisata una polarità che ricompare anche in altri autori latini. Quanto questa contrapposizione sia pensata da Terenzio in relazione alle tensioni ormai presenti nella società romana, e quanto invece rispecchi una polarità propria del testo menandreo, non è facile da dire.

Il 𝐷𝑒 𝑎𝑔𝑟𝑖 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero

di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, 𝐿𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐿’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎𝑛𝑎, Milano 2010, 141; 35-39 (in Materiali per il docente).

A Catone risale anche il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero, il trattato De agri cultura. L’opera, formata da una prefazione e da centosettanta brevi capitoli, consiste, in gran parte, in una serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, anche se talora di grande efficacia, che non lascia spazio agli ornamenti letterari né alle riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori, diffuse in tanta parte della successiva trattatistica agricola latina.

Nel De agri cultura Catone vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero. Questi, rappresentato secondo la tradizione nelle vesti del pater familias, deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta, inoltre, a formare i buoni cittadini e i buoni soldati.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Ma il tipo di proprietà che Catone descrive non è più il piccolo appezzamento di terra, la piccola tenuta a conduzione familiare che era la più diffusa forma di insediamento sul suolo in età antico-repubblicana, né ci troviamo di fronte a una bonaria civiltà agricola patriarcale. Da alcuni passi traspare la brutalità dello sfruttamento servile: Catone raccomanda di vendere come un ferrovecchio il servo anziano o malato, e perciò inabile al lavoro. L’attività agricola è ormai un’impresa su vasta scala: il proprietario dovrà avere grandi magazzini – raccomanda l’autore – in cui tenere depositata la merce in attesa del rialzo dei prezzi, dovrà acquistare il meno possibile e vendere il più possibile.

Si colgono qui, nelle loro elementari radici, i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono più gli stessi che la riflessione tardo repubblicana indicherà come costitutivi del mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze e la resistenza alla seduzione dei piaceri mostrano come il rigore catoniano non sia la saggezza pratica del contadino incorrotto e ingenuo, ma rappresenti il risvolto ideologico di un’esistenza genuinamente pragmatica; insomma, trarre dall’agricoltura vantaggi economici, anzi accrescere la produttività del lavoro servile a essa applicato. Lo stile dell’opera è scarno, ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola che volentieri si esprimono in formulazioni proverbiali.

Vita campestre. Mosaico, IV sec. d.C. da Ostia. Detroit, Institute of Arts.

Catone, dunque, è passato alla storia come il paladino del mos maiorum e l’inflessibile difensore della tradizione, contro tutte le spinte al rinnovamento e all’ammorbidimento dei costumi presenti nella società romana a lui contemporanea (e incarnate principalmente da quegli intellettuali che facevano capo alla cerchia degli Scipiones). Se una visione eccessivamente rigida del suo conservatorismo rischia di travisare la corretta interpretazione del pensiero di Catone (nel quale una certa apertura, per esempio verso la cultura greca, fu indubbiamente presente), è comunque pur vero che la sua figura e la sua opera restano l’espressione massima della difesa dei valori morali tradizionali. Questo vale anche per il De agri cultura, nel quale, al di là dell’intento precettistico, emerge una visione ideologica dell’agricoltura (tradizionale e sana attività dell’uomo romano) come l’unica forma di guadagno degna e onesta, attraverso la quale l’aristocrazia romana può mantenersi fedele a quegli ideali etico-politici che costituiscono il fondamento stesso del suo potere. La praefatio rappresenta il manifesto ideologico del vir bonus colendi peritus, cioè del proprietario agricoltore, che per Catone è il cittadino esemplare e il principio di stabilità della res publica. L’utilità e la sicurezza economiche della produzione agricola diretta, contrapposta alle attività affaristiche, si fondono con l’utilità e la stabilità sociali della piccola e media proprietà rurale, fondamento dello Stato e garanzia di conservazione dei valori trasmetti dal mos maiorum.

 

[1] Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiuerunt, furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli: quanto peiorem ciuem existimauerint feneratorem quam furem, hinc licet existimare. [2] Et uirum bonum cum laudabant, ita laudabant bonum agricolam bonumque colonum. Amplissime laudari existimabantur qui ita laudabantur. [3] Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, uerum ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et uiri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque inuidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.

[1] Talora può essere preferibile cercare fortuna nei commerci, se non fosse tanto pericoloso, e anche prestare a usura, se la cosa fosse altrettanto onorevole. I nostri antenati così ritennero e così stabilirono le leggi, che il ladro fosse condannato al doppio, l’usuraio al quadruplo; da qui si può capire quanto peggiore cittadino considerassero l’usuraio rispetto al ladro. [2] E per lodare un uomo degno, lo lodavano così: buon agricoltore, buon colono; chi così veniva lodato, si pensava che avesse ricevuto la massima lode. [3] Il mercante, poi, io lo stimo un uomo attivo e teso alla ricerca del guadagno, anche se, come ho detto prima, è esposto al pericolo e alle disgrazie; [4] ma dagli agricoltori derivano gli uomini più forti e i soldati più valorosi, e nell’agricoltura si consegue un guadagno del tutto onesto, saldissimo e per niente esposto all’invidia, e coloro che sono occupati in questa attività sono il meno soggetti a pensar male.

 

Scena di mercato e di dissodamento del terreno. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

 

L’autore contrappone qui l’agricoltura a due altre possibili forme di guadagno, il commercio e l’usura; se nei confronti dell’usura la condanna, di carattere morale, è totale (egli, rifacendosi probabilmente alla legislazione delle XII Tavole ricorda come per l’usuraio fosse prevista una pena doppia rispetto a quella del ladro), Catone mostra invece una certa apertura nei confronti della mercatura (da intendere prevalentemente come commercio marittimo), un’attività che, con l’ampliarsi delle conquiste romane, stava prendendo sempre più piede e alla quale, probabilmente, lo stesso Catone si dedicò; egli definisce infatti il mercator strenuus studiosusque rei quaerendae, e la sua unica riserva sta nella pericolosità di tale forma di commercio, esposto continuamente ai rischi della sorte. Ma anche l’attività mercantile deve comunque, nell’ottica catoniana, cedere il passo all’agricoltura, il cui elogio è condotto dall’autore sia su basi economiche (essa è quaestus stabilissimus, la forma di guadagno più stabile e sicura), ma anche, e soprattutto, morali: la coltivazione dei campi è l’attività più onesta (nell’epiteto pius si coglie addirittura una sfumatura sacrale!) e meno esposta all’invidia, la base della potenza romana (in quanto è proprio dal ceto agricolo che provengono quei viri fortissimi e milites strenuissimi che hanno fondato il dominio dell’Urbe). Rifacendosi al giudizio dei maiores, Catone celebra l’agricoltura come l’unica attività in grado di formare a 360° il buon cittadino romano; nell’identificazione tout-court del vir bonus con il bonus agricola e bonus colonus (che richiama ovviamente la celebre massima vir bonus colendi peritus) sta il fulcro dell’ideologia catoniana.

La prefatio dell’opera, inoltre, è caratterizzata da una struttura retorica piuttosto elaborata. Certamente l’autore fa ricorso ai mezzi stilistici relativamente semplici della prosa arcaica, che ancora non ha raggiunto il livello di “maturità” dell’età cesariana e augustea. Fra i tratti stilistici arcaici, poi superati nel corso dello sviluppo della prosa latina, è qui particolarmente evidente la tendenza alla ripetizione, come risulta dai seguenti esempi: fenerari… feneratorem… feneratorem; existimarente… existimare… existimabatur… existimo; bonum… bonum… bonum; laudabant… laudabant… laudari… laudabatur; minime… minime.

La cura stilistica del passo si rivela nell’attenta costruzione in cola paralleli di alcune frasi (per esempio, nel periodo di apertura: mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit; oppure, al par. 4, la sequenza ternaria maximeque pius… stabilissimusque… minimeque invidiosus, con il superlativo al centro fra due aggettivi modificati dagli avverbi in antitesi, maxime e minime) e nella presenza di iterazioni sinonimiche (bonum agricolam bonumque colonum; strenuum studiosumque; periculosum et calamitosum; et viri fortissimi et milites strenuissimi, con omoteleuto). Molto efficace è anche il ricorso a effetti di suono e in particolare all’omoteleuto (cioè la coincidenza nei suoni finali di due parole o cola contigui), che costituisce la vera e propria marca stilistica del passo (sic habuerunt et ita… posiverunt; peiorem civem… feneratorem… furem; quom laudabant, ita laudabant; existimabatur qui ita laudabatur; male cogitantes sunt qui… occupati sunt).

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

Dopo aver dispensato consigli sull’acquisto del podere, ecco l’insediamento del nuovo padrone: i compiti  (officia) del pater familias, minutamente illustrati, lasciano trasparire, al di là della concretezza pratica, la loro portata ideologica (Agr. 2):

 

[1] Pater familias, ubi ad uillam uenit, ubi larem familiarem salutauit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognouit quo modo fundus cultus siet, opera quaeque facta infectaque sie‹n›t, postridie eius diei uilicum uocet, roget quid operis siet factum, quid restet, satisne temperi opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum uini, frumenti aliarumque rerum omnium. [2] Ubi ea cognouit, rationem inire oportet operarum, dierum. Si ei opus non apparet, dicit uilicus sedulo se fecisse, seruos non ualuisse, tempestates malas fuisse, seruos aufugisse, opus publicum effecisse. Ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque reuoca. [3] Cum tempestates pluuiae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lauari, picari, uillam purgari, frumentum transferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, nouos fieri, centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; [4] per ferias potuisse fossas ueteres tergeri, uiam publicam muniri, uepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, uirgas uinciri, spinas runcari, expinsi far, munditias fieri; cum serui ‹a›egrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse. [5] Ubi cognita aequo animo sient qua[u]e reliqua opera sient, curari uti perficiantur. Rationes putare argentariam, frumentariam, pabuli causa quae parata sunt; rationem uinariam, oleariam, quid uenierit, quid exactum siet, quid reliquum siet, quid siet quod ueneat; quae satis accipiunda sient, satis accipiantur; [6] reliqua quae sient, uti compareant. Si quid desit in annum, uti paretur; quae supersint, uti ueneant; quae opus sient locato, locentur; quae opera fieri uelit et quae locari uelit, uti imperet et ea scripta relinquat. Pecus consideret. [7] Auctionem uti faciat: uendat oleum, si pretium habeat; uinum, frumentum quod supersit, uendat; boues uetulos, armenta delicula, oues deliculas, lanam, pelles, plostrum uetus, ferramenta uetera, seruum senem, seruum morbosum, et si quid aliud supersit, uendat. Patrem familias uendacem, non emacem esse oportet.

 

[1] Quando il padrone di casa si reca alla fattoria, dopo aver reso omaggio al lare familiare, faccia il giro del fondo il giorno stesso, se è possibile, altrimenti il giorno successivo. Dopo aver verificato in che modo il terreno sia stato coltivato e quali lavori siano stati compiuti e quali siano stati omessi, il giorno successivo convochi il fattore e chieda quanto lavoro sia stato fatto, quanto ne rimanga, se i lavori siano stati effettuati in tempo, se possano essere portati a termine quelli che restano, e quale quantità si sia raccolta di vino, di grano e di tutti gli altri prodotti. [2] Una volta appurato tutto ciò, deve fare il conto degli operai e delle giornate lavorative. Se il conto del lavoro non gli torna e il fattore sostiene di aver lavorato onestamente per la sua parte, ma che alcuni servi hanno avuto problemi di salute, che il tempo è stato inclemente, che alcuni servi sono scappati, che egli ha dovuto lavorare per conto dello Stato, quando dunque il fattore avrà addotto questi e molti altri motivi a giustificazione, riportarlo al conto dei lavori e degli operai. [3] Nel caso di tempo piovoso, nei momenti di pioggia avrebbe potuto compiersi i seguenti lavori: lavare le botti, spalmarle con la pece, far la pulizia della fattoria, cambiare di posto il grano, portar fuori il letame e ammucchiarlo, mondare le sementi, riparare le corde e farne di nuove; inoltre, sarebbe stato necessario che i servi si aggiustassero le coperte e i mantelli a cappuccio. [4] Nei giorni festivi si sarebbe potuto ripulire le vecchie fosse, provvedere alla manutenzione della strada pubblica, tagliare gli sterpi, zappare l’orto, ripulire il prato, legare le ramaglie, roncare le spine, pestare il farro, far le pulizie generali; in caso di malattia dei servi, non si sarebbe dovuto dar loro porzioni tanto abbondanti. [5] Quando si sarà esaminato con animo sereno quali lavori restino da fare, bisogna farli effettuare; fare il conto del denaro liquido, del grano, di ciò che è stato preparato per il foraggio; fare il conto del vino e dell’olio, che cosa si sia venduto, che cosa si sia riscosso e che cosa ci sia ancora da riscuotere, che cosa ci sia da vendere; se ci sono garanzie affidabili da accettare, le si accettino; si mettano in evidenza le rimanenze. [6] Se manca alcunché per completare l’annata, lo si compri; ciò che avanza, lo si venda; i lavori che è bene dare a cottimo, vengano dati a cottimo; il padrone dia ordine – e lo ponga per iscritto –, quali lavori voglia che si effettuino direttamente e quali voglia che si diano a cottimo. Esamini il bestiame. [7] Faccia una vendita all’asta: venda l’olio, se ha buon prezzo sul mercato; venda il vino e il grano che abbia in eccedenza; venda i buoi vecchi, i capi di bestiame malandati, le pecore malandate, la lana, le pelli, i carri vecchi, gli attrezzi ormai logori, i servi anziani e quelli ammalati, tutto ciò che c’è di superfluo. Il padrone di casa deve essere sempre pronto a vendere, non comprare.

 

Villa romana. Mosaico, IV sec. d.C. Villa di Julius. Tunis, Musée du Bardo.

Nel definire i compiti del proprietario, Catone traccia il profilo ideale del pater familias secondo i canoni etici della tradizione arcaica: sue prerogative sono la pietas, la devozione religiosa che lo spinge appena giunto alla fattoria a rendere omaggio al lare familiare; l’industria, la sollecita operosità manifestata nel recarsi personalmente (possibilmente il giorno stesso del suo arrivo) a controllare lo stato delle coltivazioni e dei lavori nella proprietà. Con cognizione di causa, il pater familias, amministratore oculato dei propri beni, potrà quindi procedere a esaminare nei dettagli il resoconto presentatogli dal fattore. Ogni giornata lavorativa deve corrispondere a un utile in termini di rendimento e di produttività. Quando le condizioni atmosferiche non consentono il lavoro nei campi, la manodopera deve comunque essere impiegata in attività alternative; così come tutta una serie di lavori di manutenzione può essere destinata ai giorni festivi. Il padrone darà a cottimo i lavori che non è possibile o vantaggioso svolgere direttamente; comprerà lo stretto necessario, venderà al miglior offerente i prodotti in eccedenza, nonché l’attrezzatura, il bestiame e i servi (che hanno statuto giuridico di res) malandati.

Pietas, industria e parsimonia appartengono al modello etico della società agraria arcaica, ma qui il pater familias non è più il padrone del piccolo podere che lavora con le proprie mani (come il dittatore Cincinnato, che abbandonò l’aratro per servire la res publica e all’aratro tornò dopo la guerra), ma un latifondista, un imprenditore a capo di un’efficiente azienda agricola. Il mos maiorum che Catone strenuamente difende mostra già evidenti segni di anacronismo rispetto alla realtà della società romana del suo tempo.

Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.

Nell’elencare i doveri della fattoressa, moglie del contadino, Catone tratteggia l’ideale della matrona pudica e pia, riservata e parsimoniosa, completamente dedita al lavoro e alla cura della casa. Agr. 143 è un documento interessante sulla condizione femminile nell’antica Roma, che ci presenta l’immagine della donna arcaica e tradizionale, radicata nel mos maiorum e nella mentalità contadina della civiltà romana.

 

[1] Vilicae quae sunt officia curato faciat; si eam tibi dederit dominus uxorem, esto contentus; ea te metuat facito; ne nimium luxuriosa siet; vicinas aliasque mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat; ad coenam ne quo eat neve ambulatrix siet; rem divinam ni faciat neve mandet qui pro ea faciat iniussu domini aut dominae: scito dominum pro tota familia rem divinam facere. [2] Munda siet: villam conversam mundeque habeat; focum purum circumversum cotidie, priusquam cubitum eat, habeat. Kal., Idibus, Nonis, festus dies cum erit, coronam in focum indat, per eosdemque dies lari familiari pro copia supplicet. Cibum tibi et familiae curet uti coctum habeat. Gallinas multas et ova uti habeat. Pira arida, sorba, ficos, uvas passas, sorba in sapa et piras et uvas in doliis et mala struthea, uvas in vinaciis et in urceis in terra obrutas et nuces Praenestinas recentes in urceo in terra obrutas habeat. Mala Scantiana in doliis et alia quae condi solent et silvatica, haec omnia quotannis diligenter uti condita habeat. Farinam bonam et far suptile sciat facere.

 

[1] Cura che la fattoressa attenda ai suoi doveri; se il padrone te l’ha data in moglie, sii contento di lei; fa’ sì che ella ti rispetti. Non sia troppo amante del lusso. Frequenti il meno possibile le vicine o altre donne e non le riceva in casa né presso di è; non vada a pranzo fuori da nessuna parte, non sia bighellona. Non faccia sacrifici agli dèi e non incarichi nessuno di farne in sua vece senz’ordine del padrone o della padrona; ricordi che i sacrifici, li fa il padrone a nome di tutti i suoi. [2] Sia pulita; tenga la fattoria ben spazzata e linda; tenga il focolare ben pulito spazzandolo tutto all’intorno ogni giorno prima di andare a dormire. Alle Calende, alle Idi, alle None, inoltre, nei giorni di festa collochi una corona sul focolare e negli stessi giorni faccia un’offerta al lare familiare, in proporzione alle disponibilità. Abbia cura di tener sempre pronto il cibo per te e per tutti i servi della casa. [3] Abbia molte galline e abbondanza di uova; abbia in dispensa pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe sotto sapa, pere, grappoli d’uva in giara, piccole cotogne, grappoli d’uva conservati in vinaccia e in orci, interrati, e noci prenestine fresche conservate in vaso, interrate; abbia, infine, diligentemente in provvista ogni anno mele scanziane in dogli e altre specie di mele adatte alla conservazione e anche specie selvatiche. Sappia preparare farina buona e semola fine.

Dea Madre con i frutti nella piega della veste. Statua, II sec. da Alesia. Alise-Sainte-Reine, Musée Alesia.

La virtù fondamentale della donna sposata era la pudicitia, a Roma divinizzata e resa oggetto del culto matronale: all’altare della dea Pudicitia in origine potevano accostarsi esclusivamente le univirae, «le matrone di specchiata castità e unite al primo e unico marito» (nulla nisi spectatae pudicitiae matrona et quae uni uiro nupta fuisset ius sacrificandi habebat, Liv. X 23, 9); un ideale di fedeltà sentita come vincolo oltre la morte. La matrona doveva essere pia (rispettosa dei propri doveri verso la famiglia e verso i suoi culti religiosi), domiseda (restava, cioè, a guardia della casa, affidata alle sue cure di economa parsimoniosa, senza andare in giro per feste e banchetti), lanifica (dedita alle opere del telaio: confezionava personalmente le vesti per sé e per gli altri membri della famiglia), votata a uno stile di vita semplice e sobrio, secondo quell’ideale di frugalitas che caratterizzava la società agraria arcaica in opposizione al lusso del modello urbano, già ampiamente diffuso ai tempi di Catone.

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Le 𝑂𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑒𝑠 di Catone, la prima opera storica in latino

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La prima grande opera storica romana è scritta da un protagonista importante della Repubblica, Catone il Censore, tradizionalmente noto per il rigido conservatorismo etico e per la fiera opposizione alla politica degli Scipiones. Dopo i primi tentativi compiuti dalla storiografia senatoria, di tradizione annalistica ma in lingua greca, le Origines di Catone ritornano, polemicamente, al latino degli annales pontificum, le registrazioni ufficiali, affidate alla casta religiosa, dei fatti memorabili per la civitas romana. L’opera del Censore, dunque, supera sia le ricostruzioni dei poeti, sia le annotazioni annalistiche, sia le narrazioni di Fabio Pittore e Cincio Alimento. Costoro, in particolare, avevano scelto di adottare il greco, allora lingua “internazionale”, con l’intento di propagandare l’emergente potenza romana in Oriente e procurarle le simpatie dei regni ellenistici. Ma ciò non era più necessario da quando, concluse le guerre contro Antioco III di Siria, i Romani erano ormai padroni del Mediterraneo.

Delle Origines rimane il riassunto che ne fa Cornelio Nepote nella Vita di Catone e un centinaio di frammenti. Secondo Nepote, Catone avrebbe intrapreso la scrittura dell’opera dopo i sessant’anni (senex historias scribere instituit), quindi dopo il 174, ed è probabile che attendesse alla composizione dell’ultimo libro poco prima della morte; infatti, Cicerone, nel dialogo Cato maior de senectute che si immagina ambientato nel 150, fa dire all’anziano senatore: Septimus mihi liber Originum est in manibus (Cato 38). Secondo Nepote, l’opera abbracciava in sette libri il periodo dalle origini di Roma (libro I) e delle altre città italiche (II-III) alle guerre puniche (IV-V), fino alla praetura di Sulpicio Galba, vincitore dei Lusitani nel 151 (VI-VII). Il maggiore spazio è accordato agli avvenimenti più recenti e contemporanei all’autore ed è posto in rilievo, dall’homo novus e sabino Catone, il contributo alla potenza di Roma dato dalle città italiche, per la prima volta considerate importanti come l’Urbe.

Ritratto virile di patrizio romano. Busto, marmo, fine I sec. a.C. ca. Firenze, P.zzo Medici-Riccardi.

Le Origines, che dovevano essere intese anche a diffondere i principi dell’azione politica dell’autore, erano dunque la prima opera storica in latino: Catone vi ostentava derisione e disprezzo per l’annalistica romana in greco; la sua ironia, lungi dall’essere frutto di un ottuso provincialismo, era sintomatica di una nuova epoca: ormai vincitrice incontrastata, divenuta prima potenza del Mediterraneo, Roma poteva orgogliosamente reclamare l’uso della propria lingua, anche di fronte alle nazioni straniere.

La prima storiografia romana era stata elaborata da uomini politici appartenenti all’élite senatoria, ma mai di primo piano. Il caso di Catone, invece, era quello di un personaggio politico tra i più eminenti, che decideva di dedicarsi anche alla composizione di opere storiche; un caso, appunto, destinato a rimanere isolato nella cultura latina. Con Catone, quindi, alla nascente storiografia latina viene conferito soprattutto un vigoroso impegno politico: nelle Origines avevano largo spazio le preoccupazioni dello statista per la dilagante corruzione dei costumi e la rievocazione delle battaglie che lui stessi aveva condotto in nome della saldezza della res publica, contro l’emergere di singoli personaggi di prestigio e del culto sfrontato delle personalità. Catone non si limitava a lasciar filtrare nell’opera echi delle proprie polemiche, ma vi riportava addirittura alcune delle sue orazioni tenute in Senato. Inoltre, privilegiava la storia contemporanea, alla quale dedicava tre libri su sette – una quota notevole di un’opera che pretendeva di rifarsi molto indietro, alle origini stesse della Città. Senza contare che la trattazione si faceva più dettagliata ma mano che ci si avvicinava all’epoca dell’estensore: gli ultimi due libri abbracciavano, appunto, meno di un cinquantennio di eventi della politica contemporanea.

A ogni modo, le Origines esprimevano in modo particolare la categoria antropologica squisitamente romana della superiorità del passato, confermata anche dall’opposizione lessicale maiores/minores che designava gli antenati e gli epigoni. In tale struttura mentale è appunto implicita la convinzione che, per conoscere un popolo, sia necessario risalire alle sue “origini”, ovvero che nel passato stia ogni spiegazione del presente e che le regole per comportarsi di conseguenza vadano cercate nella tradizione.

Anche per opporsi al nascente culto carismatico delle grandi personalità che emergevano sulla scena politica, Catone elaborò una concezione originale della storia di Roma, che insisteva soprattutto sulla lenta formazione della res publica e delle sue istituzioni attraverso i secoli e le generazioni; la creazione dello Stato era vista come l’opera collettiva del populus Romanus stretto intorno alla classe dirigente senatoria; allo stesso modo anche le vittorie militari erano presentate come il risultato di un anonimo sforzo corale. Mentre la storiografia aristocratica doveva contenere spunti celebrativi, nominando le gestae dei singoli generali, che appartenevano perlopiù alle gentes, Catone non faceva i nomi dei condottieri romani e neppure di quelli stranieri: neppure lo stesso Annibale era nominato, ma designato con il titolo generico di dictator Carthaginensium. Era, insomma, una concezione diametralmente opposta a quella prosopografica cara ai filelleni, che giudicavano la storia come prodotto delle azioni di grandi personalità. Talora, per opposizione, Catone sceglieva di portare in luce le azioni, e forse anche i nomi, di personaggi oscurissimi: soldati semplici o ufficiali di truppa, che però rappresentavano la virtù collettiva dello Stato romano.

Soldato romano con clipeus e hastae. Rilievo su base di colonna, marmo, I sec. d.C. da Mogontiacum. Mainz, Landesmuseum.

Un chiaro intento dell’opera, dunque, era quello di dimostrare la pari dignità, se non la superiorità, dei comandanti romani rispetto a quelli greci. In un passo riportato integralmente da Aulo Gellio, un tribuno militare che consente con il sacrificio della propria vita di salvare il grosso dell’esercito era paragonato a Leonida alle Termopili: Leonides Laco, qui simile apud Thermopylas fecit, propter eius uirtutes omnis Graecia gloriam atque gratiam praecipuam claritudinis inclitissimae decorauere monumentis: signis, statuis, elogiis, historiis aliisque rebus gratissimum id eius factum habuere; at tribuno militum parua laus pro factis relicta, qui idem fecerat atque rem seruauerat («La Grecia tutta onorò per il suo valore lo spartano Leonida, che alle Termopili compì un atto simile, con busti, statue, epigrafi elogiative, opere storiografiche e menzioni di altro genere; invece, al tribuno militare che pure aveva compiuto un’identica impresa e aveva salvato la situazione, è stata assegnata una lode modesta in rapporto all’atto compiuto», Noct. Att. III 7).

Per altri versi, le Origines mostravano una notevole apertura di orizzonti: Catone si interessava vivamente alla storia delle popolazioni italiche, altrimenti negletta dalla storiografia ufficiale, e metteva in rilievo il loro contributo alla grandezza del dominio romano e alla costruzione di modello di vita basato su rigore e austerità di costumi. Inoltre, l’autore dimostrava interesse per i popoli stranieri e per le loro usanze e soprattutto, per certi costumi delle popolazioni africane e iberiche, i particolari che forniva dovevano risalire a una personale osservazione diretta, perché Catone era stato a contatto con quei popoli durante la sua esperienza militare. Tale interesse etnografico lo avvicina in parte ad alcuni storici greci, come Eforo e Timeo: Pleraque Gallia duas res industriosissime persequitur, rem militarem et argute loqui («Nella maggior parte della Gallia, due sono le attività che riscuotono il massimo interesse: l’arte militare e il parlar bene», fr. 34 Peter); Dotes filiabus suis non dant («Non danno dote alle loro figlie», fr. 94 Peter). In particolare, il secondo frammento attesterebbe una sensibilità antropologica più interessata alle differenze che alle somiglianze, già influenzata dalla letteratura paradossografica greca dei mirabilia, cioè delle stranezze, dell’inusitato, dei comportamenti incomprensibili all’orizzonte culturale dell’autore e perciò affascinanti. Un altro frammento allude al carattere mendace dei Liguri, un altro ai maiali allevati dai Galli, così grossi da non riuscire più a muoversi. Il primo dei frammenti che segue descrive il metodo singolare per trasportare l’acqua seguito dai Libui, gente gallica dell’Italia alpina; il secondo parla di miniere inesauribili e di un vento insostenibile:

 

Libui, qui aquatum ut lignatum uidentur ire, securim atque lorum ferunt, gelum crassum excidunt, eum loro conligatum auferunt.

 

Pare che i Libui vadano a prender l’acqua come si fa con la legna: portano sul posto una scure e una corda, tagliano un blocco di ghiaccio e se lo portano via legato alla corda (fr. 33 Peter).

 

Sed in his regionibus ferrareae, argentifodinae pulcherrimae, mons ex sale mero magnus: quantum demas, tantum adcrescit. Ventus Cercius, cum loquare, buccam implet, armatum hominem plaustrum oneratum percellit.

 

Ma in queste regioni vi sono miniere di ferro e d’argento eccezionali, c’è un gran monte di sale puro: tanto ne estrai, altrettanto ne ricresce. Il vento Cercio, mentre parli, ti riempie la bocca ed è in grado di travolgere un uomo con tanto di corazza e un carro a pieno carico (fr. 93 Peter).

 

Sempre dalla storiografia greca dipendono l’uso di inserire intere orazioni nel corpo della narrazione, come l’Oratio pro Rhodiensibus, pronunciata nel 167 per impedire la guerra contro Rodi, e l’interesse per le ktíseis, le “fondazioni di città” (di qui forse anche il titolo Origines). A questo proposito, si è ipotizzato che i primi tre libri dell’opera catoniana fossero un adattamento nella letteratura latina delle storie di fondazione; anche Fabio Pittore, all’inizio della sua opera, aveva posto una ktísis dell’Urbe. Si è pensato, allora, che le fonti di Catone riguardassero fondazioni di città italiche e che un modello possibile fosse Timeo di Tauromenio. In effetti, si riscontrano nei frammenti delle Origines punti di contatto con le leggende di fondazione: nel fr. I 18 Chass. Servio descrive, riferendosi all’autorità di Catone, un rito di fondazione secondo il modello etrusco. La procedura, nota anche da altre fonti, prevedeva che si aggiogassero all’aratro un toro e una vacca, che si tracciasse un solco in corrispondenza del tracciato delle future mura, sollevando l’aratro in corrispondenza delle porte. Il frammento citato da Servio senza riferimento a un libro preciso delle Origines è di solito attribuito alla fondazione di Roma. In ogni caso, il passo testimonia l’attenzione dell’autore per la descrizione degli adempimenti religiosi legati a tali procedure.

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile della prosa storica di Catone è ben diverso dal fluido latino di Cicerone e degli storici successivi. La specificità della prosa catoniana si misura non solo nella presenza di arcaismi lessicali e morfologici, ma soprattutto a livello sintattico, nella netta prevalenza della paratassi, cioè nella giustapposizione di proposizioni coordinate, laddove la prosa classica – ciceroniana – avrebbe poi preferito la rigorosa struttura ipotattica del periodo, che rende espliciti i rapporti logici (di prima-dopo, di causa-effetto, di premessa-conseguenza, ecc.) tra le sue parti. Con il Censore la prosa latina non aveva ancora trovato la propria misura “classica”, come dimostrano certi anacoluti e asimmetrie nella costruzione del periodo, la ripetizione di parole a breve distanza, la densità dei pronomi (soprattutto is, ille). Si tratta, insomma, di caratteristiche tipiche della prosa tecnica: brevità, gravità arcaica, paratassi, parallelismi, anafore, allitterazioni, neologismi, ecc.). Tuttavia, lo stile è più elaborato, più attento ai dettami di quella retorica greca alla quale – come Catone consiglia di fare al figlio – non bisogna conformarsi ciecamente, ma conviene pur sempre darci un’occhiata: Eorum litteras inspicere, non perdiscere («Buttare un occhio sulla loro letteratura, non impararla fino in fondo», fr. 1 Jordan). Di qui l’uso di tutti quegli espedienti retorici tipici (sillogismo, exempla ficta, artifici argomentativi, ecc.) che avrebbero indotto Sallustio a proclamare Catone Romani generis dissertissimus e a farne un modello da imitare.

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