P. Ovidio Nasone

da G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, pp. 370-387.

1. Un poeta di eccezionale valore

Ovidio, uno dei maggiori poeti dell’età augustea nonché dell’intera storia della letteratura latina, ha esercitato la propria influenza letteraria per secoli, consegnando alla tradizione occidentale opere di eccezionale valore poetico e culturale. I suoi versi rivelano una sorprendente capacità affabulatoria, punteggiata da un’ironia sottile e discreta, che rappresenta uno dei tratti più caratteristici della sua sapienza narrativa.

La poesia ovidiana ha, inoltre, l’indubbio merito di aver veicolato un ricchissimo bagaglio di immagini e di storie mitiche, che riescono ancora a esercitare il loro fascino straordinario sul lettore.

P. Ovidio Nasone. Busto, marmo, I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

2. Una vita brillante che si conclude in esilio

Ovidio parlò spesso di sé e, dunque, molte delle notizie sulla sua vita provengono direttamente dalle sue opere (uno dei testi principali in proposito è l’elegia IV 10 dei Tristia, che offre importanti informazioni biografiche). Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona, città dei Peligni (nell’attuale Abruzzo), da agiata famiglia equestre, il 20 marzo del 43 a.C. Frequentò a Roma le migliori scuole di retorica (quelle di Arellio Fusco e di Porcio Latrone), in vista della carriera forense e politica. Completò, quindi, gli studi con il canonico soggiorno in Grecia, ma, al ritorno a Roma, dopo aver ricoperto alcune cariche minori, abbandonò la carriera politica.

Entrato nel circolo letterario di Messalla Corvino, Ovidio strinse rapporti con i maggiori poeti dell’Urbe; dopo le precoci e brillanti prove letterarie, si avviò così verso un tranquillo e pieno successo, ottenendo una solida fama. E, verso i quarant’anni, con la terza moglie trovò anche la serenità coniugale. Tuttavia, proprio all’apice del successo, lo colse, nell’8 d.C., un improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che relegò il poeta sul Mar Nero, a Tomi (oggi Costanza). Le cause della relegatio (che, a differenza dell’exilium, non comportava perdita dei beni e della cittadinanza) non sono state mai pienamente chiarite (Ovidio vi accenna velatamente in Tristia II 207): si sospetta che, dietro le accuse ufficiali di immoralità della sua poesia (soprattutto l’Ars amatoria), si volesse in realtà colpire un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, la nipote di Augusto, con Decimo Giunio Silano. A Tomi Ovidio morì nel 17 (o 18) d.C.[1]

 

John William Cook, Ovidio (dettaglio). I poeti. Venti ritratti. Incisione, 1825, da G. Crabb, Universal Historical Dictionary, London 1825.

 

3. Le opere: non solo elegie

La produzione poetica di Ovidio è assai vasta e attraversa generi differenti. Le opere del periodo giovanile, di cui risulta molto problematica la datazione, si inseriscono nella tradizione elegiaca: il suo esordio letterario è segnato dagli Amores, una raccolta di elegie alla maniera di Tibullo e Properzio, suddivise in tre libri (si tratta di quarantanove componimenti di varia estensione per un totale di 2460 versi) e scritte nel metro tipico del genere, cioè il distico elegiaco. Quella pervenuta, tuttavia, è una seconda edizione ridotta, pubblicata dall’autore forse nell’1 d.C., a distanza di molti anni dalla prima, che risaliva a poco dopo il 20 a.C. e si componeva di ben cinque libri.

Allo stesso periodo degli Amores, attorno al 15 a.C. (ma c’è chi sposta la data fra il 10 e il 3 a.C.) si assegna di solito anche la composizione della prima serie (epistole 1-15) delle Heroides (letteralmente «Le eroine»): si tratta di una raccolta di lettere poetiche in distici elegiaci, che si immaginano composte da alcune delle principali protagoniste femminili del mito greco e indirizzate ai rispettivi amanti. A una data assai successiva (presumibilmente fra il 4 e l’8 d.C.) si fa risalire invece la seconda serie di Heroides (le cosiddette “epistole doppie”, 16-21), costituita da tre coppie di lettere in cui al messaggio dell’innamorato segue la risposta della donna. Complessivamente, queste ventun epistole (di 115 versi la più breve, di 378 la più lunga) contano quasi 4000 versi.

Nel periodo fra il 12 e l’8 a.C. potrebbe essere stata scritta la tragedia (perduta) Medea, che riscosse grande successo.

Tra l’1 a.C. e l’1 d.C. si colloca la pubblicazione del ciclo dei tre poemetti erotico-didascalici (tutti in distici elegiaci), opere che rientrano nel genere del “manuale”, del libro che impartisce precetti e consigli utili in materia amorosa: l’Ars amatoria, in tre libri, dei quali i primi due contengono precetti erotici indirizzati agli uomini e il terzo alle donne, per un totale di 2300 versi; i Remedia amoris, dedicati ai modi per liberarsi dalla passione erotica (814 versi); e i Medicamina faciei femineae («I cosmetici delle donne»), dei quali restano solo 100 versi.

Negli anni successivi Ovidio abbandona la poesia elegiaca per tentare un genere più “impegnato”. È in questo periodo, fra il 2 d.C. e l’8 d.C., che vedono la luce le sue opere di maggior respiro. Le Metamorfosi (il titolo latino è Metamorphòseon libri) sono un grande poema epico in quindici libri (il più breve di 628 versi, il più lungo di 968, per un totale di quasi 12.000 esametri: l’esilio ne ha impedito la revisione finale), in cui Ovidio, seguendo il motivo delle “trasformazioni”, passa in rassegna gran parte del patrimonio mitico tradizionale. Seguono poi i Fasti, calendario poetico in distici elegiaci, in cui il poeta, richiamandosi alle principali ricorrenze del calendario romano, descrive usi e tradizioni patrie (sul modello del IV libro di Properzio): l’opera, tuttavia, è rimasta interrotta a metà, comprendendo solo sei libri (ciascuno dedicato a un mese, da gennaio a giugno), per quasi 5.000 versi complessivi.

L’esilio provoca una nuova svolta nell’attività poetica di Ovidio, che ritorna all’elegia, abbandonando però la tematica erotica per ripiegare su una poesia consolatoria dal tono lamentoso e apologetico. Si tratta di quelle che sono comunemente definite appunto «opere dell’esilio» e che hanno le loro maggiori espressioni nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto, entrambe in distici elegiaci. I primi comprendono cinque libri, per un totale di quasi 3500 versi, sono scritti in parte (libro I) durante il viaggio a Tomi, per poi essere completata fra il 9 e il 12 d.C.: fra gli altri libri, che furono pubblicati separatamente, si segnala il II, che consiste in un’unica lunga elegia di autodifesa, di 578 versi. Dei quattro libri delle Epistulae ex Ponto (quarantasei elegie, per complessivi 3200 versi circa) i primi tre vedono la luce nel 13 d.C., mentre il quarto viene pubblicato probabilmente postumo.

A queste due opere principali sembra doversi aggiungere anche il poemetto di invettive Ibis (in distici elegiaci, per un totale di 322 versi), che risalirebbe agli anni 11-12.

Sotto il nome di Ovidio sono anche giunti componimenti di autenticità dubbia, come il frammento (in 135 versi) di un poema didascalico in esametri sulla pesca (Halièutica), o sicuramente spuri, come la Consolatio ad Liviam e l’elegia Nux. Oltre alla già citata Medea sono andate perdute di Ovidio varie poesie leggere, o d’occasione, e due poemetti per la morte o l’apoteosi di Augusto (dei quali uno in lingua getica, quella che si parlava a Tomi).

Scena erotica fra Satiro e Menade. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa degli Epigrammi (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

4. Una poesia nuova per una società mondana

Dopo Properzio, dopo Tibullo, nell’accostarsi a Ovidio si resta colpiti dalla vastità della sua produzione e dalla varietà dei generi poetici trattati. Quello che potrebbe sembrare un fatto esteriore, un puro problema di classificazione, è, in realtà, indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che coinvolgono o riflettono anche scelte esistenziali. L’adesione a un genere come l’elegia erotica non significa per Ovidio, al contrario che per i suoi predecessori, una scelta di vita assoluta, incentrata sull’amore; e soprattutto non vuol delimitare un orizzonte, non esclude altre esperienze poetiche. Diversamente, nei poeti d’amore, vincolati a una pratica poetica funzionale ai loro modi di vita, il motivo topico della recusatio esibiva una pretesa incapacità di attingere soggetti e toni poetici di maggior dignità, secondo un gesto letterario che comunque anche Ovidio utilizzerà, ma, appunto, come semplice posa. Quello sperimentalismo che lo porterà a tentare i generi poetici più diversi senza identificarsi in nessuno di essi è la conferma più vistosa dell’atteggiamento di Ovidio, che fa della pratica poetica come tale (non limitata cioè a questa o quella sfera, né subordinata ad altri valori) il centro della propria esperienza.

Questa forte autocoscienza letteraria si accorda, al tempo stesso, con la tendenza di Ovidio ad analizzare la realtà nei suoi aspetti più diversi, senza esclusioni, col suo atteggiamento eminentemente relativistico: contrario a scelte assolute, egli sa aderire alle varie facce della realtà, privilegiando quelle che gli sembrano più conformi al gusto, alle tendenze etico-estetiche del tempo e quelle sue proprie. Questo atteggiamento spiega il tratto più significativo della sua poesia, soprattutto quella giovanile, cioè l’accettazione convinta, spesso entusiastica, delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi; sebbene ciò non escluda, specie nelle opere della maturità e in quelle più impegnative, un atteggiamento più conciliante e l’apertura ai valori della tradizione.

Ultimo dei grandi poeti augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena letteraria quello spettro è ormai lontano, la pace è consolidata e cresce – con l’insofferenza per i modelli di vita arcaici proposti dal principatus – l’aspirazione a forme di vita più rilassate, a un costume meno severo, agli agi e alle raffinatezze che le conquiste orientali hanno fatto conoscere ai Romani e che informano la società mondana della capitale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete (senza tuttavia contrapporsi rigidamente al regime e alle sue direttive ideologiche: non convincono i ricorrenti tentativi di attribuire al poeta un ruolo di oppositore politico, un atteggiamento anti-augusteo), elaborando un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto, allo stile di vita informato dal cultus e dalle sue raffinatezze.

Questo avviene non solo sul piano dei contenuti, ma anche, e nondimeno, su quello formale. Anzitutto, la concezione della poesia che Ovidio ripetutamente manifesta si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, fortemente innovatrice rispetto alla tradizione classica, ovvero alla linea aristotelico-oraziana. Sotto questo aspetto, la poesia ovidiana dimostra una notevole “modernità” letteraria, che si rivela anche nel linguaggio adottato (ormai in larghissima misura quello della poesia da Catullo in poi); la produzione ovidiana, dunque, dicendosi autonoma dalla realtà, dichiara piuttosto – anzi esibisce – la propria natura letteraria e allude ai propri modelli. Ma questa “modernità” letteraria si rivela anche nelle altre qualità della scrittura di Ovidio, nello stile terso ed elegante, nella musicale fluidità del verso (egli, infatti, perfeziona il distico elegiaco, facendone il modello cui guarderanno tanti imitatori dei secoli successivi), nella ricchezza e audacia espressiva, caratteristica coltivata e affinata negli anni di brillante frequentazione delle scuole retoriche.

Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza di questa poesia sono anche l’espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita.

Marte accarezza il seno di Venere. Affresco, 20 a.C. c. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. L’esordio letterario: gli Amores, fra tradizione e innovazione

L’esordio poetico di Ovidio, che manifesta il suo straordinario talento letterario non ancora ventenne, è rappresentato dagli Amores. Si tratta di una  raccolta di elegie di soggetto amoroso, che mostra ancora ben visibili le tracce dei grandi modelli e maestri dell’elegia erotica, Tibullo e soprattutto Properzio. Anche Ovidio dà qui voce, in prima persona, ai temi tradizionali del genere elegiaco: accanto a poesie d’occasione (come l’epicedio per la morte di Tibullo) o di schietto stampo alessandrino (come l’elegia per la morte del pappagallo della sua donna), ci sono soprattutto avventure d’amore, incontri fugaci, serenate notturne, baruffe con l’amata, scenate di gelosia, proteste contro la sua venalità e i suoi capricci, le sue durezze e i suoi tradimenti, ecc. Ma accanto alla maniera, ai temi e ai toni della tradizione, si avvertono già nettamente i tratti nuovi, gli elementi propri e caratterizzanti dell’elegia ovidiana.

Anzitutto – ed è forse la novità più vistosa – manca una figura femminile attorno a cui si raccolgano le varie esperienze amorose, che costituisca, perciò, il centro unificante dell’opera e insieme della vita del poeta: i poeti d’amore precedenti, Catullo, Gallo, Properzio, avevano costruito la propria attività poetica attorno a un’unica donna, a un solo grande amore che di quell’attività costituisse il fine e il senso. Con Ovidio non è così: Corinna, la donna evocata qua e là con pseudonimo greco, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata, che si sospetta non avesse nemmeno una sua esistenza reale; non solo, il poeta stesso dichiara a più riprese di non sapersi appagare di un unico amore, di preferire due donne (II 10) o addirittura di subire il fascino di qualunque bella donna (II 4).

Come la figura della donna ispiratrice, che non ha i contorni netti di una protagonista e tende ad apparire un residuo, una funzione convenzionale del genere elegiaco, anche il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d’amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza. Il dramma di Catullo, di Properzio, la loro intensa avventura esistenziale, diventa in Ovidio poco più di un lusus (un «gioco»), e l’esperienza dell’eros è analizzata dal poeta con il filtro dell’ironia e del distacco intellettuale. Non meno significativa, in proposito, è la scarsa presenza negli Amores di un motivo centralissimo nella poesia elegiaca precedente, cioè il seruitium amoris, la professione di totale dedizione dell’amante all’amata, ai suoi voleri e ai suoi capricci: in Ovidio questo motivo ha una funzione assai limitata, mentre è notevole che un’intera elegia, e in posizione di spicco (I 2), sia dedicata alla professione di seruitium nei confronti di Amore (non è più, cioè, la singola donna, ma l’esperienza d’amore in sé che diventa centrale).

Inoltre, acquista anche peso, rispetto alla poesia elegiaca precedente, la coscienza letteraria del poeta (cfr. soprattutto I 15 e III 12), che si manifesta nell’insistenza sulla poesia come strumento di immortalità, come nei versi conclusivi di I 15:

 

perciò, anche quando il rogo funebre avrà consumato il mio corpo,

continuerò a esistere e gran parte di me sopravviverà,

 

e come autonoma creazione del poeta, svincolata dall’obbligo di rispecchiare il reale, come in III 12, 41-42:

 

la fertile fantasia dei poeti si dispiega senza limiti,

e non vincola le proprie parole alla fedeltà alla storia.

 

Pertanto, l’elegia ovidiana non si presenta più come subordinata alla vita, ovvero come suo fedele riflesso, ma rivendica il proprio primato, la propria centralità nell’esistenza del poeta.

Giovane donna al bagno, detta la “ragazza col bikini”. Mosaico, IV sec. d.C. ca., da Piazza Armerina, Villa del Casale.

6. La poesia erotico-didascalica e l’esaurirsi dell’esperienza elegiaca

La presenza negli Amores di alcune elegie di carattere didascalico (I 4 e più ancora I 8), che sviluppano spunti della poesia elegiaca precedente (Properzio I 10 e IV 5, Tibullo I 4), e lo svuotamento ironico dell’esperienza dell’eros subisce in misura sensibile già nella prima opera ovidiana, spiegano agevolmente il collegamento con il gruppo di opere erotiche (cronologicamente molto vicine) costituito da Ars amatoria, Remedia amoris e Medicamina faciei femineae. Si tratta di un vero ciclo di poesia didascalica, il cui stesso progetto, fondato sull’intenzione di impartire una precettistica sull’amore, sembra l’esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell’eros già delineata negli Amores, e caratterizzata da un progressivo distacco dell’esperienza amorosa, che porterà inevitabilmente all’esaurirsi della poesia elegiaca.

Un aggancio particolarmente importante fra le due opere, si è detto, è costituito dall’elegia I 8 degli Amores, dove il poeta rielabora un motivo già tradizionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l’astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli a una giovane donna sul modo migliore di mettere a frutto le proprie qualità con i vari pretendenti. Assai diverso però, al di là dei tratti convenzionali, è l’atteggiamento del poeta, ai cui occhi quella figura tanto deprecata della tradizione elegiaca (Properzio IV 5) appare sotto una luce sostanzialmente positiva: il suo smaliziato realismo, i suoi cinici avvertimenti, non suonano diversi dai precetti che lo stesso poeta impartisce all’amante nella sua opera didascalica. La lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore, perché analoga è la concezione dell’eros che le due opere presuppongono; solo, negli Amores il poeta, vincolato dalla convenzione elegiaca, è anche amante, è anche l’attore protagonista delle avventure d’amore, ruolo che deporrà nell’Ars per fungere compiutamente da «regista» della relazione erotica, da sapiente supervisore del gioco delle parti.

Poiché di questo, infatti, si tratta: la relazione d’amore, perduto agli occhi di Ovidio il suo carattere di passione devastante, costituisce ormai un gioco intellettuale, un divertimento galante, che va soggetto a un corpus di regole sue proprie, a un codice etico-estetico che è quello ricavabile dall’elegia erotica latina. Ruoli, situazioni, comportamenti sono tutti già previsti e codificati, sono «scritti» nei testi letterari cui i protagonisti della società galante devono guardare come a modelli esemplari: il ruolo di Ovidio, ormai, non può essere che quello di redigere un inventario dell’universo elegiaco, di scriverne il “libro di testo” alle cui norme uniformarsi.

Una matrona che dipinge la statua di Priapo. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa del Chirurgo, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Ars amatoria è un’opera in tre libri, in metro elegiaco, che impartisce consigli sui modi di conquistare le donne (I) e di conservarne l’amore (II); il III libro, aggiunto più tardi per risarcire scherzosamente le donne dal danno procurato loro coi primi due, fornisce viceversa insegnamenti su come sedurre gli uomini. Ovidio descrive i luoghi d’incontro, gli ambienti mondani della capitale (banchetti, teatri, spettacoli del circo, passeggiate), i momenti di svago e passatempo, le occasioni più varie della vita cittadina (l’opera è un documento importante su usi e costumi quotidiani di Roma) in cui mettere in atto la strategia della seduzione. La veste formale è quella del poema didascalico (i grandi modelli romani erano soprattutto Lucrezio e le Georgiche virgiliane), da cui Ovidio spiritosamente mutua moduli, movenze, schemi compositivi; l’andamento precettistico è interrotto qua e là da inserti narrativi di carattere mitologico e storico (quasi una prova delle future Metamorfosi) tesi a illustrare a mo’ di exempla la validità dei precetti impartiti.

La figura del perfetto amente delineata da Ovidio si caratterizza ovviamente per i suoi tratti di disinvolta spregiudicatezza, di insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale, dell’antico costume quiritario (Quirites era l’antico appellativo dei Romani), soprattutto in una sfera molto delicata come quella dell’etica sessuale e matrimoniale, a cui l’impegno restauratore di Augusto attribuiva particolare importanza: non è un caso che lo scandalo dell’Ars potesse, perciò, essere addotto come atto d’accusa ufficiale al momento della cacciata del poeta da Roma. In realtà, il carattere libertino e spregiudicato dell’opera, che ha attirato le critiche dei moralisti non solo antichi, non costituisce più che la veste scintillante, provocatoriamente seducente del testo: proprio nel suo farsi lusus, divertita avventura dell’intelletto, l’eros ovidiano perde ogni impegno etico, ogni velleità di ribellione contro la morale dominante.

L’assolutezza dell’eros come scelta di vita su cui fondare nuovi valori, una nuova morale, ovvero il tratto più “rivoluzionario” della poesia elegiaca, che era del resto presente già in Catullo, in Ovidio viene meno e si stempera così l’apparenza immorale dell’Ars, che finisce con l’accettare, dunque, i confini dell’etica tradizionale e delle sue convinzioni. In cambio di un’aperta rinuncia a ogni velleità conflittuale, l’eros ovidiano reclama solo una certa tolleranza, una zona franca, un settore del panorama sociale (il poeta si preoccupa più volte di delinearne lo spazio ristretto, quello degli amori libertini, escludendone la società rispettabile) in cui sospendere la severità di una regola morale ormai inadeguata al costume della metropoli ellenizzata.

Dialogo fra uomo e donna. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannio Sinistore, Boscoreale.

Senza nutrire velleità di ribellione, quindi, l’elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario (è questo l’aspetto più recentemente focalizzato dalla critica): nel negare l’impegno totalizzante della precedente poesia d’amore, nel neutralizzarne le spinte più aggressive, Ovidio tenta una sorta di “riconciliazione” della poesia elegiaca con la società in cui essa si radica, indicando nell’armoniosa complementarietà delle forme di vita, della sfera privata e di quella civile, la via migliore per un’appagata adesione al presente. In realtà, Ovidio individua lucidamente, e a suo modo cerca di sciogliere, una vistosa contraddizione della poesia elegiaca, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi, ma proprio dalla tradizione aveva mutuato alcuni dei suoi moduli più caratteristici. A questo atteggiamento contraddittorio, e tendenzialmente arcaizzante, della poesia elegiaca Ovidio contrappone i valori della modernità, l’accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea, della capitale del bel vivere e dei costumi, dello splendore urbanistico (aurea sunt vere nunc saecula: così egli argutamente rovescia il motivo dell’età dell’oro, caro a ogni rievocazione nostalgica del passato).

All’esaltazione convinta del cultus, degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto (di cui restano solo cento versi, in metro elegiaco) sui cosmetici per le donne (Medicamina faciei femineae), che si oppone al tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. L’operetta, esplicitamente messa dall’autore in rapporto con il terzo libro dell’Ars, intende aiutare le donne a perseguire i propri interessi amorosi attraverso alcuni consigli sulla cosmesi. Il testo, in cui, come per l’Ars, è evidente il recupero di moduli tipici della poesia didascalica, esibisce molti termini propri del linguaggio medico ed è forse ispirato a raccolte di ricette cosmetiche in uso nella Roma del tempo.

Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l’opera che – rovesciando alcuni precetti dell’Ars – insegna come liberarsi dall’amore. Era un motivo topico della poesia erotica che per il male d’amore non esiste medicina, e di questa condanna alle pene del cuore il poeta elegiaco sembrava come compiacersi, incapace di liberarsene ma intimamente anche orgoglioso della sua dedizione totale, della sua scelta di nequitia: Ovidio rovescia questa posizione affermando che dell’amore non solo si può, ma anzi ci si deve liberare se esso comporta sofferenza (egli riprende così un assunto della filosofia stoica ed epicurea che condannava l’amore come malattia dell’anima, e che aveva già ispirato il IV libro di Lucrezio). Un’opera come i Remedia, che insegna a guarire dall’amore, costituisce l’esito estremo della poesia elegiaca, e ne chiude simbolicamente la breve intensa stagione.

Donna che si pettina con specchio. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

7. Fra amore e mito: le Heroides

Se l’eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l’altra grande fonte della sua poesia è il mito; prima delle Metamorfosi, l’opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo (quello originario era probabilmente Epistulae heroidum) si designa una raccolta di lettere poetiche: la prima serie, 1-15, è scritta da donne famose, eroine del mito greco (ma c’è anche la Didone virgiliana, e soprattutto un personaggio storico, Saffo) ai loro amanti o mariti lontani: nell’ordine, Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Didone a Enea, Ipsipile a Giasone, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo, Saffo a Faone. La seconda serie, 16-21, è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: Paride ad Elena, Ero e Leandro, Aconzio e Cidippe. I due gruppi distinti (ma che nella tradizione sono sempre accomunati; ha invece tradizione a sé la lettera quindicesima, quella di Saffo, sulla cui autenticità si sono da sempre nutriti sospetti, ormai però quasi del tutto fugati) testimoniano due diverse fasi di composizione: molto difficile da datare la prima serie (si tende a farla coincidere con la composizione degli Amores, entro il 15 a.C., ma c’è chi propone dal 10 al 3 a.C.), probabilmente da collocare poco prima dell’esilio (cioè dal 4 all’8 d.C.) la seconda.

Ercole e Onfale si scambiano le vesti. Mosaico, III sec. d.C., da Llíria (Valencia). Madrid, Museo Arqueologico Nacional.

Si è detto dei sospetti sull’autenticità dell’epistola di Saffo; in verità, la quindicesima non è la sola lettera la cui paternità ovidiana sia stata messa in dubbio: di tanto in tanto qualche studioso, sulla base di presunte irregolarità metriche e stilistiche, o più genericamente, e discutibilmente, di presunte debolezze e difetti narrativi, torna ad approvare, in tutto o (soprattutto) in parte, il giudizio del Lachmann, che considerava spurie non solo le epistole doppie, ma anche tutte quelle che Ovidio non nomina esplicitamente in Amores II 18. In questa elegia è garantita l’autenticità di nove lettere, e cioè, nell’ordine, di quella di Penelope, Fillide, Enone, Canace, Ipsipile e/o Medea (viene infatti menzionato il nome del destinatario, Giasone, che è lo stesso per entrambe le epistole), Arianna, Fedra, Didone e Saffo (si capisce che i passi di Amores II 18, 26 e 34, in cui si accenna all’epistola di Saffo, sono variamente ritenuti non validi dai sostenitori dell’inautenticità dell’epistola stessa). Viene tuttavia da chiedersi, data la sostanziale inconsistenza della maggior parte degli attacchi alla paternità di alcune di queste Heroides, se mai tali attacchi sarebbero stati mossi, e se mai sarebbero stati mossi proprio a quelle e non ad altre lettere, se non ci fosse all’origine, a suscitare sospetti, il brano degli Amores: ma è chiaro, e tutti lo riconoscono, che nulla obbligava Ovidio in Amores II 18 a nominare tutte le epistole della sua raccolta.

Dell’originalità di quest’opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso (Ars amatoria III 345): in effetti non abbiamo testimonianza prima di lui di opere simili, cioè di raccolte di lettere poetiche di soggetto amoroso. L’idea della lettera in versi gli sarà venuta probabilmente da un’elegia dell’amico Properzio (IV 3, scritta da Aretusa al marito lontano Licota), più volte evocata nelle Heroides; il materiale letterario è variamente tratto soprattutto dalla tradizione epico-tragica greca, ma accanto ai modelli più lontani sono presenti anche Callimaco e la poesia ellenistica nonché quella latina, in particolare Catullo e Virgilio.

Se personaggi e situazioni appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni, lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà, accuse di tradimento, ecc. Ad esempio, tra le epistole che più risentono del modello elegiaco (quanto a temi, situazioni, atteggiamenti), c’è quella di Fedra a Ippolito, in cui l’eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtiuus amor e disinvolta assertrice di una nuova morale sessuale, beffardamente insofferente delle antiche convenzioni. Un altro degli aspetti più interessanti delle Heroides consiste proprio nella maniera in cui materiali narrativi tratti dalla tradizione epica (i poemi omerici, l’Eneide virgiliana, le Argonautiche di Apollonio Rodio) e tragica (la tragedia attica soprattutto) vengono riscritti secondo le regole del genere elegiaco. Questa “riscrittura” non comporta solo un adeguamento formale, ma anche un’operazione di sistematica deformazione e reinterpretazione dei testi presi a modello. Il codice elegiaco agisce come una sorta di “filtro” che riduce al proprio linguaggio ogni altro possibile tema, imponendo un taglio “elegiaco” a storie di eroine dell’epica o del dramma. Le divergenze rispetto ai modelli diventano così i segnali più evidenti della nuova codificazione letteraria, che comporta, peraltro, un ricorrente confronto ironico fra la prospettiva limitata del personaggio e la verità della storia mitica.

Ippolito e Fedra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ovidio nelle Heroides fa del modello elegiaco un filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito. Ma la modellizzazione elegiaca non sta tanto in materiali e tecniche narrative (e neppure solo nel tema unificante dell’amore); essa agisce piuttosto come una prospettiva che seleziona e riduce al proprio linguaggio ogni altro possibile tema: è un’ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli «elegiaci» sul materiale narrativo dell’epos, della tragedia, del mito. È un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente.

Così, nella settima epistola, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali nella sua intenzione persuasiva (convincere Enea a non partire): così si spiega tra l’altro l’insistenza su un’ipotesi come quella della gravidanza (7, 133 ss.), che rovescia la formulazione del motivo nell’Eneide, dove si trattava di una speranza dolorosamente delusa. Nell’epistola nona l’arrivo della concubina di Ercole, Iole (9, 121 ss.), è descritto dalla Deianira ovidiana in termini che contraddicono sistematicamente tutti i tratti che si trovano nella corrispondente scena delle Trachinie sofoclee. Spesso gli stessi eventi vengono interpretati e valutati in maniera diversa e anche opposta a seconda dei diversi punti di vista e delle diverse istanze persuasive delle varie eroine: un caso particolarmente vistoso si può osservare nelle epistole di Ipsipile e di Medea, le due rivali nell’amore di Giasone, ma un buon esempio è anche il modo in cui è considerato da diversi punti di vista un evento come la guerra di Troia, o un personaggio come Enea.

Ricodificando in termini elegiaci storie di eroine dell’epica e del dramma, non nate “dentro” e “per” il codice elegiaco, Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né antico né moderno, né epico o tragico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. L’operazione di riscrittura ovviamente comporta spesso significative deformazioni dei modelli; le divergenze diventano i segnali più evidenti della nuova codificazione letteraria.

Ercole e Iole. Mosaico, dal Ninfeo di Ercole (Parco Archeologico della Villa Imperiale di Nerone, Anzio). Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme

Certo, la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, in particolare per quanto riguarda le epistole della prima serie: le varie lettere si configurano come monologhi (sono testi «chiusi», non attendono risposta) costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il «lamento della donna abbandonata» (un riferimento obbligato era in un celebre epillio latino, l’Arianna del Carme 64 di Catullo). La struttura della lettera non permetteva molte variazioni: data per nota al lettore colto la situazione di partenza, l’andamento monologico (con l’alternanza delle varie fasi, dalla ricorrente disperazione dell’eroina all’invocazione del ritorno dell’amato, all’esortazione a mantener fede alle promesse: è evidente l’influsso dell’esercizio retorico delle suasoriae) è solo interrotto qua e là da qualche flash-back della memoria, che evoca narrativamente vicende lontane, ma manca di uno sviluppo dinamico, drammatico.

Ogni epistola si vuole inserita in un ben determinato taglio temporale, un istante fecondo che si determina in un continuum narrativo; il continuum è garantito dal richiamo di noti modelli, testi letterari, o più in generale mitologici.

Per un evidente motivo di economia drammatica, le epistole sono molto più interessanti se hanno sufficiente gioco non solo verso il passato, ma anche verso un futuro non ancora deciso. Ora, ovvie ragioni di verosimiglianza esigono che il personaggio che scrive possa far riferimento a eventi passati, ma che del suo futuro sia ignaro. Dal preannuncio di eventi futuri si può quindi far carico solo l’autore (onnisciente, ma “fuori del testo”); egli, non potendo intervenire in proprio, si serve dello strumento dell’ironia per inserirsi nelle pieghe della voce del personaggio medesimo. E così il ricorso all’ironia tragica diventa il mezzo con cui più spesso nelle Heroides Ovidio si serve per ovviare alla contrazione dello spazio narrativo. “Sdoppiando”, senza violare lo statuto della forma epistolare, la voce del personaggio, egli può introdurre surrettiziamente anche la propria voce e allargare così la prospettiva ristretta dell’eroina verso una visione sinottica del mito, verso una narrazione sintetica ma completa. Spetta poi alla collaborazione del lettore, alla sua competenza letteraria ricomporre in unità i vari segmenti della linea narrativa colmando le lacune che li separano. Viene così spesso ad avere un ruolo di primo piano il gioco delle cronologie: Ovidio riesce a trarre notevoli effetti dal rapporto che intercorre tra il tempo del modello (il tempo durativo della storia) e il tempo della lettera (il tempo-momento in cui il lettore immagina che l’eroina stia scrivendo).

Alexandre Cabanel, Fedra. Olio su tela, 1880.

Le epistole “doppie” danno a Ovidio nuove possibilità. In primo luogo, la nuova formula consente un confronto di punti di vista diversi sulla stessa realtà, confronto che può rivelarsi talvolta molto interessante (come nei casi di Paride-Elena e, in particolare, di Aconzio e Cidippe, la cui coppia epistolare sembra costituirsi come una vera e propria controversia giuridica), ma soprattutto permette una maggiore libertà di movimento, un campo narrativo più ampio. Inoltre, le tre coppie finali forniscono, grazie al rispettivo contesto drammatico, una piena motivazione della forma epistolare (che non si può certo dire fosse sempre presente nelle epistole singole: basti pensare a un caso limite come quello di Arianna, che scrive dalla spiaggia deserta di Nasso): lo scambio di lettere non è più una forma narrativa gratuita, condannata a tradire, come spesso nelle epistole della prima serie, la sua natura artificiosa, o il difetto di verosimiglianza, ma diventa parte integrante dello sviluppo drammatico della storia (è riconoscibile anche in questa contrapposizione di due punti di vista una certa affinità con le controuersiae retoriche).

C’è ancora un altro aspetto da sottolineare. Le Heroides propriamente sono poesia del lamento, sono l’espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall’amato, o anche solo la sua disaffezione, la temuta tiepidezza del suo amore, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle Heroides: c’è la sofferenza di Laodamia per la brusca separazione, causa la guerra, da Protesilao; o quella tutta particolare di Fedra, o infine quella di Canace e Ipermestra, vittime ambedue della spietata violenza paterna. Le eroine soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche, se non soprattutto, in quanto donne. È questa la condizione comune (condizione di per sé sufficiente) che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla propria debolezza, dall’inferiorità di chi deve subire senza potersi imporre. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alle proprie origini di poesia del dolore e del lamento: si pensi alla frequenza di termini chiave del lessico elegiaco come queri, querimonia e simili. Sono soprattutto le parole di Saffo a dar voce al rapporto quasi obbligato tra il verso elegiaco e la condizione delle eroine infelicemente innamorate: flendus amor meus est: elegi quoque flebile carmen («devo piangere il mio amore, e l’elegia è un canto lacrimoso»).

Un tratto rilevante di quest’opera, in confronto al resto della produzione giovanile ovidiana, è l’assai più ampio spazio concesso ai toni patetico-tragici rispetto al lusus, cioè a quell’atteggiamento ironicamente distaccato tipico soprattutto del poeta dell’Ars amatoria. Ma se la spinta alla “modernizzazione” dell’antico materiale letterario, e alla sua riduzione al registro elegiaco, è talora evidente, non è questo l’aspetto più tipico delle Heroides, in cui resta forte la tendenza al pathos.

Pertanto, l’operazione di “riscrittura” compiuta da Ovidio, nel riprendere i grandi soggetti della tradizione letteraria, non solo privilegia situazioni e aspetti funzionali al nuovo contesto, ma rielabora anche quei testi spostandone la prospettiva e dando voce alla donna e alle sue ragioni, fino ad allora, perlopiù, inespresse o sacrificate. Nell’approfondimento della psicologia femminile (tratto fortemente influenzato dal modello euripideo) è anzi proprio uno degli aspetti più notevoli delle Heroides.

Jean-Joseph Benjamin-Constant, Elena vincitrice. Olio su tela, 1883.

8. Le Metamorfosi: forma e significato di un progetto ambizioso

Dopo Virgilio, che con l’Eneide aveva realizzato il grandioso progetto di un poema di tipo omerico, di un epos nazionale per la cultura romana, nel tradurre in atto le sue ambizioni di un’opera ormai di grande impegno (dopo la poesia d’amore che gli aveva dato il successo) Ovidio segue un’altra direzione. La veste formale sarà sì quella dell’epos (l’esametro ne è il marchi distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello, d’ispirazione esiodea (Teogonia, Catalogo), è quello di un «poema collettivo», che raggruppi cioè una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Questo tipo di poesia aveva trovato fortuna nella letteratura ellenistica: vi si ispiravano, ad esempio, gli Aitia di Callimaco (una serie di saghe eziologiche, in metro elegiaco) e un poema, per noi perduto, in esametri di Nicandro di Colofone (II sec. a.C.) che raccoglieva appunto storie di metamorfosi.

Al tempo stesso, però, proprio mentre opera questa scelta di poetica alessandrina (nei contenuti e nella forma che li organizza), Ovidio rivela anche l’intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Questo sembra dire il brevissimo (e perciò più carico di senso) proemio (I 1-4):

 

In noua fert animus mutatas dicere formas

corpora: di, coeptis (nam uos mutastis et illas)

adspirate meis primaque ab origine mundi

ad mea perpetuum deducite tempora carmen!

 

L’animo mi spinge a narrare il mutare delle forme in corpi

nuovi: o dèi, se vostre queste metamorfosi,

ispirate il mio progetto, così che il canto dalle origini del mondo

si snodi ininterrotto sino ai miei giorni!

Anton von Werner, Ritratto di P. Ovidio Nasone, da Bibliothek des allgemeinen und praktischen Wissens. Bd. 5 (1905), s. 51.

Ovidio prega ritualmente gli dèi di ispirarlo nello scrivere un poema di metamorfosi (mutatas…formas), ma alla maniera dell’epos (perpetuum deducite… carmen: termini tutti «occupati» nel lessico della polemica letteraria di scuola callimachea). La grande ambizione di Ovidio è quindi quella di realizzare un’opera universale, al di sopra dei limiti segnati dalle varie poetiche.

Andava in questa direzione lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio), che realizzava così un progetto da tempo vagheggiato e solo abbozzato nella cultura latina (vi si richiamava la VI egloga virgiliana), e rispondeva anche, in qualche maniera, a una tendenza diffusa: la sintesi di storia universale (in un momento in cui Roma dominava la scena del mondo), particolarmente legata alla storiografia ellenistica.

Questo impianto permetteva a Ovidio di muoversi anche su terreni meno lontani dagli orientamenti del principato e di rispondere anzi, a suo modo, alle esigenze augustee, facendo del nuovo regime il culmine e il coronamento della storia del mondo (notevole, in proposito, la sua «piccola Eneide» nella sezione finale del poema, concepita a margine del testo virgiliano, di cui colma alcune ellissi narrative sviluppando episodi funzionali al contesto).

All’interno dei due estremi cronologici (le origini del mondo e i tempi di Ovidio, la struttura in cui si dispongono i contenuti è necessariamente flessibile: le circa 250 vicende mitico-storiche narrate nel corso del poema sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile (diventerà più sensibile, com’è ovvio, quando dall’età vagamente acronica del mito si entrerà nella storia, con gli ultimi libri) per lasciar spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate, ad esempio, per contiguità geografica (come le saghe tebane, dal III libro in avanti), o per analogie tematiche (come gli amori degli dèi, le loro gelosie, le loro vendette), o invece per contrasto (vicende di pietà contrapposte ad altre di empietà), o per semplice rapporto genealogico fra i personaggi, o ancora per analogia di metamorfosi, e così via.

Frederick George Watts, Chaos. Olio su tela, 1875-82. London, Tate Collection.

Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e la rigenerazione del genere umano grazie a Deucalione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dèi e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci: di Apollo e Dafne, con la metamorfosi di questa in lauro; di Giove e Io, custodita da Argo con i suoi cento occhi (I); di Fetonte, che precipita col carro del sole e provoca l’incendio del mondo (II); di Atteone tramutato da Diana in cervo e sbranato dai suoi cani; di Narciso, che sdegna l’amore di Eco e si consuma d’amore per se stesso; dell’empio Penteo punito da Bacco (III). Segue poi l’amore tragico di Piramo e Tisbe, quello di Salmacide per Ermafrodito; Perseo che salva Andromeda dal mostro marino (IV); il ratto di Proserpina e le metamorfosi di Ciane e Aretusa (V); poi le gelosie degli dèi, con la vendetta di Minerva su Aracne tramutata in ragno; con l’eccidio dei figli di Niobe; la cupa storia di Tereo, Procne e Filomela (VI); gli incantesimi di Medea; l’equivoco tragico di Cefalo e Procri (VII); il volo fatale di Dedalo e Icaro; Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio; la pietà premiata di Filemone e Bauci e l’empietà punita di Erisittone (VIII); le imprese di Ercole e l’amore incestuoso di Biblide (IX); poi la vicenda di Orfeo ed Euridice che incastona altre storie d’amore: Ciparisso, Giacinto, Pigmalione, Mirra, Venere e Adone, ecc. (X). Con le nozze di Peleo e Teti, cui segue la patetica storia d’amore coniugale di Ceice e Alcione (XI), siamo ai margini della fluida cronologia mitica: i personaggi della guerra troiana ci introducono nella storia per arrivare fino all’età di Augusto.

Si narrano quindi le imprese di Achille e la battaglia fra Lapiti e Centauri (XII); poi la contesa per le armi fra Aiace e Ulisse, la serie dei lutti troiani e l’amore di Polifemo per Galatea (XIII). Sulle tracce dell’Odissea e poi delle vicende di Enea (anche Ovidio vuol comporre una sua piccola Eneide, senza sovrapporsi al testo virgiliano) la scena si sposta nell’antico Lazio, con le sue saghe e le sue divinità agresti (Pomona e Vertumno). Ormai siamo a Roma con i suoi re (XIV): mediante Numa è introdotto Pitagora e il suo lungo discorso sulla metamorfosi come legge universale (che dovrebbe costituire la base filosofica del poema); l’apoteosi di Cesare, ultimo degli Eneadi, e la celebrazione di Augusto concludono questa «storia del mondo» (XV), mentre gli ultimi versi proclamano l’orgogliosa sicurezza del poeta di aver attinto l’immortalità della fama.

Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono già le dimensioni delle storie narrate, oscillanti dal semplice cenno allusivo, fortemente ellittico, allo spazio di qualche centinaio di versi, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. Diversi soprattutto sono i modi e i tempi della narrazione, che indugia sui momenti salienti, si sofferma sulle scene e sugli eventi drammatici, come è in genere l’atto stesso della metamorfosi, minuziosamente, curiosamente descritta nel suo progressivo realizzarsi. La sapienza narrativa di Ovidio si rivela poi nella cura con cui sono accostate o alternate storie di contenuto e carattere diverso: catastrofi cosmiche e delicate vicende d’amore, violente scene di battaglia e patetiche novelle di amore infelice, torbide passioni incestuose e commovente eros coniugale, ecc. A quella dei temi e dei toni si accompagna anche la mutevolezza dello stile, ora solennemente epico, ora liricamente elegiaco, ora riecheggiante moduli di poesia drammatica o movenze bucoliche: le Metamorfosi sono anche una sorta di galleria dei vari generi letterari.

Ovidio non tende all’unità e all’omogeneità dei contenuti e delle forme, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà; tende soprattutto alla continuità della narrazione, al suo armonioso e fluido dipanarsi. Ne dà prova la stessa tecnica di divisione fra i vari libri del poema: diversamente dall’Eneide virgiliana, dove il singolo libro è dotato di una sua relativa compiutezza e autonomia, la cesura fra i vari libri delle Metamorfosi cade per lo più proprio nei punti «vivi», nel mezzo di una vicenda, a sollecitare e tener desta la curiosità del lettore anche nelle pause del testo, a non allentare la tensione narrativa.

Abraham Bloemaert, Mercurio, Argo e Io. Olio su tela, 1592.

Proprio allo scopo di tenere viva la tensione del racconto, è importante anche la stessa tecnica di narrazione delle varie storie: non solo, come si è detto, l’ordinamento cronologico è in genere piuttosto vago, ma viene continuamente perturbato dalle ricorrenti inserzioni narrative proiettate nel passato. Ovidio, il narratore principale, fa frequente ricorso alla tecnica, già alessandrina, del racconto “a incastro”, che gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende incastonandone una o più all’interno di un’altra usata come cornice. Spesso sono comunque gli stessi personaggi a impadronirsi della narrazione per raccontare altre vicende all’interno delle quali può ancora riprodursi lo stesso meccanismo, in una proliferazione ininterrotta di racconti (interi libri sono costruiti secondo questa tecnica: particolarmente complessa la costruzione del X e soprattutto del V).

Oltre a variare la forma di esposizione, questa complicazione della sintassi narrativa produce, col moltiplicarsi dei livelli e delle voci narranti, come effetto di vertigine, di fuga labirintica: il racconto sembra germogliare continuamente da se stesso e allontanarsi in una prospettiva infinita, in una dimensione al di fuori del tempo. Ma la tecnica del racconto nel racconto ha anche un’altra funzione, quella di permettere al poeta di adattare talora toni, colore, stile del racconto alla figura del personaggio narrante: è il caso, ad esempio, della storia solennemente epica del ratto di Proserpina raccontata proprio da Calliope, la musa dell’epos.

La metamorfosi, la trasformazione di un essere umano in animale, in pianta, in statua o in altra forma, era un tema presente già in Omero ma caro soprattutto, come s’è accennato, alla letteratura ellenistica (oltre a Nicandro, ne avevano trattato Partenio di Nicea e altri), della quale soddisfaceva anche un gusto caratteristico, quello dell’eziologia, della dotta ricerca delle cause (nel senso che la metamorfosi descrive l’origine delle cose e degli esseri attuali da una loro forma anteriore: e Ovidio insiste sulla continuità, sui tratti comuni fra la vecchia e la nuova forma).

Nel poema ovidiano, come si è detto, la metamorfosi è il tema unificante fra le tante storie narrate: il poeta cerca anche, nel libro conclusivo, di dare retrospettivamente dignità filosofica alla sua opera (e insieme accentuarne l’unitarietà) mediante il lungo discorso di Pitagora che indica nel mutamento (omnia mutantur, nil interit, XV 165) la legge dell’universo, cui l’uomo deve docilmente adeguarsi (ecco perciò, conseguente alla teoria della metempsicosi, l’esortazione al vegetarianismo). Ma su questa eclettica filosofia della storia (fatta di una base pitagorica che accoglie elementi stoici e platonici) Ovidio non sembra molto impegnarsi, e non troppo convinto pare il suo tentativo di fornire un’interpretazione filosofica al poema.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625, Roma, Galleria Borghese.

In realtà, anche se la metamorfosi costituisce il tema unificante (ma in alcune storie non compare nemmeno, o ha spesso una funzione molto marginale), l’argomento centrale dell’opera è rappresentato dall’amore, che di tutta la poesia ovidiana precedente era stato la fonte ispiratrice. Certo, l’amore non è più ambientato nella vita quotidiana, nella Roma della società mondana (che peraltro Ovidio fa spesso profilare sullo sfondo, con arguti sfasamenti anacronistici), ma – come già per le Heroides – nell’universo del mito, nel mondo degli dèi e dei semidei, dei grandi eroi.

Alla dimensione mitica non corrisponde però un ethos idealizzante, una grandezza o solennità di valori. Il mito non ha per Ovidio la valenza religiosa, la profondità che ha per Virgilio: in ciò egli accentua una tendenza già insita nella cultura ellenistica e fa del mito, della figure che lo popolano, un ornamento della vita quotidiana, il suo decorativo scenario. Accade così che le divinità della tradizione religiosa greco-romana siano assimilate alla dimensione terrena e agiscano sotto la spinta di sentimenti e passioni assolutamente umane, spesso non delle più nobili. Amori, gelosie, rancori, vendette sono gli impulsi che li agitano e da cui gli esseri umani, vittime del loro capriccioso potere, vengono travolti.

In realtà, il mondo del mito, per il letteratissimo Ovidio, è anzitutto il mondo delle finzioni poetiche: e le Metamorfosi, la sua opera che più di ogni altra alla fonte del mito si alimenta, che ne costituirà una sorta di grandiosa enciclopedia per i futuri millenni, sono anche una summa compendiaria di testi, di uno sterminato patrimonio letterario che va da Omero ai tragici greci e latini, alla vasta e molteplice letteratura ellenistica fino ai poeti della Roma di Ovidio. Di questa sua natura complessa, intertestuale, il poema ovidiano è cosciente e orgoglioso, e ama esibire con frequenza le proprie ascendenze, le fonti della propria memoria poetica.

Tale compiaciuta consapevolezza della propria letterarietà si traduce naturalmente anche in distaccato sorriso sul carattere fittizio dei propri contenuti, in garbata ironia sull’inverosimiglianza delle leggende narrate. Il poeta che tante volte ha scherzato sulla fecunda licentia uatum (Amores III 12, 41) sorride qua e là sulla credibilità di ciò che racconta, sulla congenita infedeltà al vero da parte dei poeti: nello scettico distacco dai suoi contenuti, dal mondo della veneranda tradizione mitologica cui si ispira, è il narcisistico trionfo di questa poesia che vuole intrattenere e stupire.

Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus Aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum

Il carattere fondamentale del mondo descritto dalle Metamorfosi è la sua natura ambigua e ingannevole, l’incertezza dei confini fra realtà e apparenza, fra la concretezza delle cose e l’inconsistenza delle apparenze. I personaggi del poema si aggirano come smarriti in questo universo insidioso, governato dalla mutevolezza e dall’errore: travestimenti, ombre, riflessi, echi, parvenze sfuggenti, sono le trappole in mezzo alle quali gli esseri umani si muovono, vittime del gioco del caso o del capriccio degli dèi. Il loro incerto agire, la naturale attitudine umana all’errore, costituiscono l’oggetto dello sguardo ora commosso ora divertito del poeta, lo spettacolo che il poema rappresenta. (La lingua stessa, lo stile, si prestano a mostrare la natura ambigua delle cose: esibendo la sua connaturata doppiezza, anche il linguaggio rivela la sua pericolosità, lo scarto fra l’illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è).

I personaggi agiscono seguendo ognuno un proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà: il poeta, solo depositario del «punto di vista vero», analizza questa moltiplicazione delle prospettive, segue i personaggi sulla strada che li allontana progressivamente dalla realtà mostrando al lettore l’esito fatale che li attende. Rifiutando l’impersonale oggettività del poeta epico, il narratore delle Metamorfosi interviene spesso per commentare il corso degli eventi, per chiamare in causa il lettore – interrompendo la finzione narrativa – a condividere il suo ironico distacco, il suo divertito sorriso.

Al carattere spettacolare di questo universo, caratterizzato da eventi straordinari, meravigliosi, corrisponde anche una tecnica narrativa che, come s’è accennato, privilegia i momenti salienti di quegli eventi, ne isola singole scene sottraendole alla loro dinamica drammatica e fissandole nella loro plastica evidenza. È notevole in tal senso l’insistenza sulla percezione soprattutto visiva della realtà, che si avverte in maniera particolare nella descrizione dell’evento più ricorrente del poema, la metamorfosi. Questa è generalmente caratterizzata dai tratti del «meraviglioso» ed è messa in scena «sotto gli occhi» di qualcuno: Ovidio la descrive soffermandosi sulle fasi intermedie del processo, sui confini incerti fra la vecchia e la nuova forma, sul paradosso dello sdoppiamento fra il nuovo aspetto e l’antica psicologia degli esseri soggetti al mutamento.

Nella sua natura eminentemente visiva, nella sua immediata evidenza plastica (qualità che contribuisce a spiegare la sua immensa fortuna di modello per le arti figurative), questa poesia curiosa dei paradossi che si annidano nella realtà, amante della spettacolarità spesso nelle sue forme più orrende, anticipa caratteri importanti del gusto letterario del nuovo secolo, del «manierismo» imperiale.

Narciso alla fonte. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Loreo Tiburtino, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

9. I Fasti: Ovidio e il regime augusteo

I Fasti sono certamente l’opera ovidiana meno lontana dalle tendenze culturali, morali, religiose del regime augusteo. Sulle orme dell’ultimo Properzio, delle sue «elegie romane», anche Ovidio si impegna sul terreno della poesia civile: il progetto è quello di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano (1, vv. 1-2: «Le date festive fissate nell’anno latino io canterò; / canterò le loro origini e gli astri che sorgono e tramontano sotto la linea dell’orizzonte»). Erano quindi previsti dodici libri (in distici elegiaci), ognuno per un mese dell’anno, ma l’improvvisa relegazione del poeta interruppe a metà l’opera (al VI libro, cioè al mese di giugno), che fu parzialmente rivista negli anni dell’esilio.

Al di là del precedente immediato di Properzio, l’opera deve molto soprattutto al modello, comune ai due poeti, degli Aitia callimachei, sia nella tecnica compositiva che nel carattere appunto eziologico, di ricerca delle “cause”, delle origini della realtà attuale dal mondo del mito. Più ancora del poeta amico (Properzio IV 1, 64) Ovidio stesso vuol farsi il Callimaco romano, facendo un’opera compiuta, un nuovo genere poetico, di quelle che in Properzio erano prove sperimentali alternate al consueto argomento erotico. In questa nuova veste di vate celebratore dell’idea di Roma, Ovidio si impegna in dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie: da Verrio Flacco (il grammatico autore di un commento al calendario romano), Varrone, Livio (il principale storico dell’età augustea) e altri ancora Ovidio attinge una vastissima messe di dottrina antiquaria, religiosa, giuridica, astronomica che trova impiego nell’illustrazione di credenze, riti, usanze, nomi di luoghi, in quella riscoperta delle antiche origini che costituiva un indirizzo fondamentale dell’ideologia augustea.

Ma naturalmente l’adesione di Ovidio al programma culturale del regime, nonostante la sua insistenza sulla funzione propria della poesia civile (Fasti II 9-10), resta piuttosto superficiale: sullo sfondo di carattere antiquario (che fa dei Fasti un documento di eccezionale importanza sulla cultura romana arcaica) egli inserisce materiale mitico di origine greca (come le leggende di Proserpina e di Callisto, trattate anche nelle Metamorfosi) o di carattere aneddotico, con frequenti accenni alla realtà e alle vicende contemporanee. Ciò gli permette di ovviare ai limiti imposti dalla natura del poema, di sottrarsi ai condizionamenti di un arido «calendario in versi», e soddisfare ad esempio, in certi momenti idillici, il suo gusto per il pathos delicato, o di far spazio all’elemento erotico, con qualche tratto di sapido realismo, e più in generale ai toni giocosi, ironici, al suo sorridente scetticismo di fronte al mito.

Calendario rurale (Fasti PraenestiniCIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Questa interpretazione dei Fasti tende ad alleggerire il poema da qualsiasi responsabilità verso l’ideologia augustea: Ovidio (come ha scritto un critico recente a nome di molti altri) pagherebbe «stancamente il suo debito facendo il proprio dovere di ciuis Romanus». È un’interpretazione che si sposa bene con l’interesse moderno per i Fasti come «fonte» di preziose informazioni antropologiche: l’Ovidio usato dall’antropologo inglese Frazer è sostanzialmente solo un tramite di storie tradizionali, e non ha molta importanza l’atteggiamento del poeta verso la tradizione. Ma studi ancora più recenti suggeriscono qualche cautela. L’uso che Ovidio fa dello schema eziologico risulta essere assai più malizioso di quanto si era pensato: il poeta gioca con il suo compito di antiquario (precisamente secondo la lezione di Callimaco, che non è solo formale, ma anche di forma dei contenuti e di «crisi del sapere»). Non è detto che la malizia del poeta si fermi al confine con l’ideologia augustea, al di qua di essa, senza giungere a toccarla; nessuno può dimenticare quale parte importante abbia la ricostruzione del passato nel progetto ideologico di Augusto. Così, quando Ovidio decostruisce e mette in dubbio il rapporto fra presente e passato, il gioco minaccia di diventare serio. È la Romanità espressa dal calendario che viene insidiata e decentrata. La vera lacuna del poema – ovviamente dal punto di vista del principe – non è che Ovidio non riesca a prendere sul serio Augusto, ma (come è stato osservato) che non riesce a prendere sul serio Romolo. I Fasti sono un poema su cui c’è ancora molto da indagare, sotto il profilo ideologico-letterario, e viene il dubbio che la critica sia stata frettolosa nel separare la forma dal contenuto del poema, e il poema da tutto il resto del corpus ovidiano.

 

10. Le opere dell’esilio

L’improvviso allontanamento da Roma segna, com’è naturale, una brusca frattura nella carriera poetica di Ovidio. Lui più di altri doveva accusare la separazione dalla capitale, dalla società cui la sua poesia si rivolgeva, e di cui in gran parte si era alimentata, dagli ambienti mondani e letterari (era ormai da tempo il massimo poeta vivente): dal centro della scena si trova confinato ai margini dell’impero, in mezzo a un popolo primitivo che non parla nemmeno latino. Abituato al successo, all’appagante ammirazione di un pubblico sedotto dal suo virtuosismo, di colpo Ovidio si ritrova solo, a comporre poesia per se stesso; e la sua condizione di artista senza pubblico, senza contatto col destinatario, gli ispira la malinconica immagine di uno che danza al buio (Epistulae ex Ponto IV 2, 33 s.).

In questa condizione nuova e dolorosa Ovidio compone due opere di una certa rilevanza, i Tristia e le Epistulae ex Ponto, e un’operetta di carattere particolare, l’Ibis (tutte in distici elegiaci).

La prima opera scritta lontano da Roma – e inviata non senza esitazione, come mostrano soprattutto le elegie proemiali del I e del III libro – è la raccolta dei Tristia, cinque libri la cui cifra comune, esplicitamente sottolineata (V 1, 5 flebilis ut noster status est, ita flebile carmen, «come la nostra condizione è lamentevole, così è la nostra poesia»), è il lamento sull’infelice condizione del poeta esiliato; con pari insistenza ricorre l’appello agli amici e alla moglie per ottenere, se non una remissione completa della pena, almeno un cambiamento di destinazione: le ripetute espressioni di rimpianto per la patria infinitamente lontana, le diffuse descrizioni dell’inospitale e squallido paesaggio circostante, dei pericoli per le continue scorrerie dei barbari, della desolazione di un’esistenza privata della sua linfa vitale, mirano a suscitare un «movimento d’opinione» che possa far concedere al poeta esiliato le condizioni minime perché resti se stesso.

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Le elegie del I libro ripercorrono i momenti del commiato da Roma e del lungo viaggio verso Tomi, la traversata invernale dell’Adriatico e dell’Egeo, con le tempeste che rendono più difficile e angosciosa la navigazione. Il II libro, costituito da un’unica perorazione rivolta ad Augusto, deve scagionare l’elegia erotica ovidiana dall’accusa di immoralità: notevole anche per le questioni critico-letterarie che investe, questa autodifesa puntigliosamente argomentata passa in rassegna sub specie amoris i principali generi letterari sia greci che latini. Nei libri successivi si fanno più numerose le elegie rivolte ad un destinatario preciso, non esplicitamente nominato, ma indicato talvolta attraverso segnalazioni indirette: un altro aspetto di quell’incertezza che il poeta caduto in disgrazia e lontano dal suo pubblico nutre riguardo alle possibili reazioni provocate dai suoi versi.

La forma epistolare caratterizza decisamente le elegie raccolte nei quattro libri dell’altra raccolta dell’esilio, detta perciò Epistulae ex Ponto. Questa accentuazione del carattere epistolare si manifesta in vari modi: nell’uso regolare delle formule proprie del genere (come a inizio e in chiusura di lettera), nel riferimento alle lettere inviate in risposta dai destinatari (ormai tutti menzionati espressamente: la cautela dei Tristia non sembrava più necessaria) e soprattutto nell’infittirsi di una serie di tòpoi ricorrenti appunto nella letteratura epistolare (l’insistenza sulla lettera come colloquio fra amici lontani, l’illusione della presenza nonostante il distacco, il conforto fornito da questo strumento di comunicazione che lenisce la solitudine dell’esule, ecc.).

Le Epistulae rivelano in tal senso interessanti analogie con l’altra opera ovidiana di carattere epistolare, le Heroides (ad esempio nel parallelismo fra la lontananza sofferta dalla donna abbandonata e dal poeta esiliato), ma va notata, più in generale, nelle due opere maggiori dell’esilio la consapevole riscoperta dell’elegia come poesia del pianto, del lamento, quasi un ritorno alle funzioni originarie che nella letteratura greca si attribuivano a questo genere tanto caro a Ovidio, e ora reso tragicamente attuale nella sua forma più autentica dall’esperienza del dolore. Costretto a diventare oggetto della sua poesia (sumque argomenti conditor ipse mei, Tristia V 1, 10), il brillante cantore della mondanità romana, che stringendo con il lettore un patto di ammiccante complicità si era divertito a trattare con un distaccato sorriso tutto l’universo delle finzioni letterari, proclama ora l’assoluta autenticità della sua materia poetica, e recupera i più famosi paradigmi mitologici per affermare la portata eccezionale della sua tragedia. Nella poesia, diventata più che mai la dimensione totale dell’esistenza, l’unica in grado di dare una ragione di vita e insieme un conforto (tanto da ispirargli talora i commossi accenti dell’inno), Ovidio ripone ogni residua speranza per il futuro: pur tanto lontano da Roma, senza l’esperienza e la partecipazione diretta agli avvenimenti, non rinuncia a celebrare coi suoi versi il successo delle campagne militari in quegli anni (Tristia IV 2, Epistulae ex Ponto II 1). Ma questa sorta di anticipazione del suo possibile ruolo di poeta che si fa interprete delle grandi emozioni collettive non valse a sottrarlo alla desolante solitudine di Tomi.

Ion Theodorescu-Sion, Il poeta Ovidio a Tomi. Olio su tavola, 1916.

Caduto in disgrazia, nel periodo dell’esilio Ovidio deve anche difendersi dagli attacchi dei suoi nemici: a tale scopo risponde un poemetto in distici elegiaci, intitolato Ibis (dal nome di un uccello dalle abitudine coprofile), esemplato sull’omonimo componimento perduto di Callimaco (diretto contro Apollonio Rodio) e costituito da una lunga serie i invettive contro un suo detrattore. Al modello callimacheo è improntato l’impianto compositivo e il carattere cripticamente erudito del poemetto.

 

11. La fortuna

La fortuna di Ovidio nella cultura europea, sia in campo strettamente letterario che nelle arti figurativi, è stata immensa (inferiore appena a quella di Virgilio) fino al Romanticismo. Criticato per ragioni di stile, per il suo gusto del virtuosismo gratuito (emblematico il giudizio di Quintiliano), Ovidio ebbe scarsa diffusione nelle scuole antiche di grammatica (non rientra fra gli autori canonici, come attesta tra l’altro la relativa povertà di attività scoliastica sulle sue opere) e anche fra i retori. Ciò nonostante la sua popolarità fu subito vastissima (lo documenta anche la presenza frequente dei suoi versi fra i graffiti pompeiani): ebbe imitatori già in vita (come ad esempio quel Sabino suo amico che compone lettere di risposta alle sue Heroides, inaugurando una moda di componimenti apocrifi a nome di Ovidio destinata a diffondersi ampiamente in età medievale e umanistica), ed esercitò un’influenza molto vistosa sui poeti immediatamente successivi (come ad esempio sulla Ciris pseudo-virgiliana, o sul misterioso Lìgdamo) fino a tutta la tarda antichità, da Seneca tragico a Lucano, da Stazio a Valerio Flacco, da Ausonio a Claudiano (minore fu l’influsso sui poeti cristiani). Noto nel Medioevo e in età carolingia (alla quale risalgono i più antichi manoscritti ovidiani pervenutici), Ovidio vedrà fiorire la sua fortuna nei secoli successivi (soprattutto XII e XIII), che non a caso saranno definiti aetas Ovidiana per l’eccezionale favore di cui godranno le sue opere, il cui influsso si estenderà da Dante, Petrarca, Boccaccio all’Ariosto, al Marino e oltre. Dopo il declino subito col Romanticismo, ellenizzante e «primitivo», Ovidio tornerà ad affascinare D’Annunzio e a farsi nuovamente apprezzare dal gusto di questi ultimi decenni per la poesia elaborata e riflessa.

Luca Signorelli, Ovidio. Affresco (dettaglio), 1499-1502, dalla Cappella di San Brizio. Orvieto, Duomo.

 

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Note:

[1] La Cronaca di S. Girolamo ci attesta la data del 17; ma nel libro I dei Fasti si fa riferimento a eventi romani della fine del 17, la cui notizia difficilmente poteva esser giunta in poco tempo fino a Tomi; per questo c’è chi ritiene prudente spostare la data di un anno.

Tibullo e il «Corpus Tibullianum»

di E. PARATORE, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano 1993, pp. 456-470.

Lawrence Alma-Tadema, Tibullus at Delia’s. 1866, Olio su tavola, Boston, Museum of Fine Arts.

[…] Di Albio Tibullo sono ignoti il praenomen e l’anno della nascita ed è incerta la data della morte. La quarta epistola di Orazio, indirizzata ad Albio – che non c’è ragione di non identificare con il poeta – lo raffigura giovane, bello, facile ai crucci e agli scoramenti, e in agiata condizione. Quest’ultimo particolare sembrerebbe contraddire a quanto Tibullo stesso afferma in Elegie I,1, ove accenna alla perdita dei suoi poderi e alla sua «paupertas»; perciò si è supposto che anche lui fosse rimasto vittima delle espropriazioni consecutive alla battaglia di Filippi, o avesse subito il contraccolpo di rovesci finanziari. Tuttavia non bisogna prendere alla lettera ciò che dice Tibullo, il quale spesso ama abbandonarsi al compianto di se stesso o carezzare come ideale morale le immagini trasmessegli dalla poesia a lui cara, come quella bucolica, e quindi anche la povertà, la capacità di «contentus vivere parvo». È più improbabile che, pur avendo subito una diminuzione delle avite proprietà, Tibullo abbia conservato tanto da poter affrontare la vita senza preoccupazioni.
L’epistola oraziana aggiunge anche un altro particolare: che Tibullo s’intratteneva «in regione Pedana», cioè aveva le sue proprietà nella zona fra Tivoli e Preneste. Questa notizia è stata posta in rapporto con quanto afferma un frammento di biografia che si trova alla fine del testo tibulliano nei codici poziori, l’Ambrosianus del sec. XIV e il Vaticanus del sec. XV, e che da taluni è stato considerato come un moncone della biografia svetoniana di Tibullo. In esso si legge che Tibullo era eques regalis. Nella seconda parola è evidente una corruzione originata dalla sigla R. (eques Romanus); il Baehrens emendò in eques R(omanus) e Gabis, e la congettura apparve molto felice, perché Gabii si trova appunto «in regione Pedana», e può quindi essere considerata benissimo la patria di Tibullo. Ma è più semplice pensare che regalis sia una cattiva lettura medievale della sigla R. (Romanus). Quanto all’anno della nascita, calcolando sui dati offerti dal libro I delle elegie, si è propensi a fissarlo intorno al 54 a.C.
Il frammento di biografia, che sembra piuttosto un’accozzaglia di dati, composta in due tempi alle soglie del Medioevo e condotta per lo più sui particolari che possono ricavarsi dal testo stesso di Tibullo e da quello dell’epistola oraziana, continua accennando al principale evento della vita di Tibullo, la sua amicizia col celebre uomo politico, guerriero, oratore e poeta M. Valerio Messalla Corvino, uno dei tipici rappresentanti di quell’aristocrazia repubblicana riconciliatasi in seguito col regime augusteo. Combatté, infatti, a Filippi nell’esercito di Bruto, ma poi militò ad Azio in quello di Ottaviano, fu console e poi proconsole in Siria e comandò una fortunata spedizione in Aquitania. La sua oratoria fu semplice e tersa, cioè in perfetto accordo col gusto atticista dell’età. Scrisse «levia carmina» e in gioventù sembra abbia composto carmi bucolici in lingua greca, donde si è voluto supporre un suo particolare influsso sul giovane Virgilio e dedurne un argomento in favore dell’autenticità della Ciris, dedicata […] a un Messalla. Orazio, alla fine della decima satira, lo ricorda come critico acuto di poesia, uno di quelli alla cui lode egli ambisce: il membro più intransigente del circolo di Mecenate è stato anche il più pronto a intrattenere rapporti con uomini di diverso indirizzo, come appunto Messalla e Tibullo. Ma nel fondo dell’animo dell’antico commilitone di Bruto sussisteva sempre una segreta avversione al nuovo ordine di cose: perciò i poeti di cui egli amò circondarsi (Tibullo, Valgio Rufo, Ligdamo, Sulpicia) appaiono estranei al grande moto di rinnovamento spirituale e di adesione al programma augusteo che era promosso dai poeti e scrittori del circolo di Mecenate. Il solo Tibullo, nell’elegia II, 5 scritta per la consacrazione di Messalino, il figlio di Messalla, nel sacerdozio apollineo, introduce particolari della leggenda troiana sulle origini di Roma, forse in omaggio all’opera che nel frattempo stava scrivendo Virgilio, di cui egli risente gli influssi, più che di qualsiasi altro poeta contemporaneo. Ma alcuni particolari da lui menzionati discordano da quelli corrispondenti dell’Eneide, e soprattutto si tace assolutamente dell’origine della gens Iulia da Enea. Anche Ovidio farà il suo noviziato nel circolo di Messalla e vi si educherà alla poesia frivola e lasciva degli amori. Attorno a Messalla, infatti, che era del resto il primo a darne l’esempio, si poetava sotto il segno di Eros, si deprecavano le guerre e i negotia, ma non con lo spirito virilmente costruttivo di un Virgilio o di un Orazio, bensì in nome di un edonismo sottilmente corrosivo; era l’occulta rivalsa degli ambienti d’opposizione, cui per il momento non appariva possibile altra forma di dissenso. È sintomatica al riguardo l’ipotesi di coloro che ritengono tratti dagli archivi della casa di Messalla il Culex e la Ciris.
Sulla base dell’elegia I, 7 il frammento di biografia accenna alla partecipazione di Tibullo alla spedizione di Messalla in Aquitania (anno 27 a.C.); tace invece dell’evento su cui così lacrimosamente insiste il poeta nell’elegia I, 3, cioè della malattia che lo colse, mentre egli faceva parte della cohors di Messalla in Oriente, e lo costrinse a fermarsi a Corcira.
Della sua morte ci è rimasto il poetico compianto in un delicato epigramma che nei codici Ambrosiano e Vaticano precede anonimo la biografia, ma che Giuseppe Giusto Scaligero, sull’autorità del fragmentum Cuiacianum oggi perduto, attribuisce a Domizio Marso:

Anche a te, o Tibullo, la morte ingiusta ha mandato, ancor giovane,
come compagno a Virgilio nei Campi Elisi, perché non vi fosse più
nessuno che in versi elegiaci piangesse le dolci pene d’amore o
cantasse in metro eroico le guerre dei re.

Anche Ovidio, che in casa di Messalla doveva aver conosciuto e amato Tibullo, ne scrisse un commosso epicedio nell’elegia III, 9 degli Amores. Sulla base dell’epigramma di Domizio Marso si tende a fissare la data della morte di Tibullo nel medesimo anno in cui morì Virgilio, cioè nel 19 a.C.; ma è possibile fissarla anche nell’anno successivo.

Bacco, Arianna, Sileno e Satiro. Mosaico, II sec. d.C. Tunis, Musée du Bardo.

Della poesia di Tibullo non è possibile parlare se prima non si accenna alla questione del «Corpus Tibullianum». I codici tibulliani che ci sono pervenuti ci hanno tutti tramandato tre libri di elegie: il libro III è stato poi volgarmente separato in due parti. In età moderna ci si è progressivamente accorti che, se i primi due libri erano sicuramente tibulliani, altrettanto non poteva dirsi del libro III. Alla fine del sec. XVIII il Voss consacrò definitivamente la scissione, principalmente sulla base del fatto che il poeta autore delle sei prime elegie del libro III (quelle che poi hanno costituito il libro III delle edizioni volgari, mentre i restanti carmi hanno formato il libro IV), il quale scrive sotto lo pseudonimo di Ligdamo, nell’elegia quinta accenna al suo anno di nascita dicendo: «I miei genitori videro per la prima volta il mio dì natale, quando entrambi i consoli caddero sotto i colpi del medesimo fato». Ovidio, che era nato nell’anno 43 a.C., nell’elegia decima del libro IV dei Tristia ripete il secondo verso di questo distico ligdameo per accennare al suo anno di nascita: infatti, i consoli del 43, Irzio e Pansa, caddero tutti e due nella battaglia di Modena. Quindi anche per Ligdamo si credette di dover assumere il 43 come anno di nascita, o, al massimo, interpretando «dì natale» come “anniversario di nascita”, si pensò di fissare la data di nascita nel 44. Entrambe le date non potevano adattarsi a Tibullo, perché il libro I delle elegie rende impossibile pensare che il poeta abbia incominciato a comporre dopo il 30 a.C., ed egli non poteva avere tredici anni o quattordici quando cominciò a scrivere le sue poesie, anche dato il loro argomento. Quindi Ligdamo non poteva essere pseudonimo di Tibullo, anche se da taluni Λύγδαμος è stato ricondotto semanticamente al nomen di Tibullo, Albius. Di tutto il resto del libro III sicuramente tibulliane furono giudicate solo le due ultime elegie scritte per una medesima fanciulla (la cosiddetta «puella innominata»), perché nella prima delle due Tibullo si manifesta col suo nome; si è tentato di identificare la puella con la Glicera che nell’ode I,33 di Orazio (l’altro componimento oraziano indirizzato a Tibullo) appare come restia all’amore del poeta. Altri invece hanno tentato di identificare Glicera con Nemesi, altri con la donna cantata da Tibullo alle prime armi, sì che la «puella innominata» andrebbe considerata una fiamma di Tibullo precedente Delia e Nemesi, le due donne da lui cantate rispettivamente nel primo e nel secondo libro autentici, e ciò anche se Ovidio chiama Delia «primus amor» del poeta. Che l’ode oraziana debba quindi essere stata scritta prima dell’anno 30, cioè prima dell’amore di Tibullo per Delia, non può costituire difficoltà, perché abbiamo già visto che fra le odi dei primi tre libri, anche se pubblicati nel 23 a.C., ve ne sono certamente alcune scritte prima del 30. Degli altri carmi del libro III, oltre anche quelli di Ligdamo, furono generalmente riconosciuti non tibulliani tutti i rimanenti, e cioè il Panegyricus Messallæ, piatto componimento in esametri, composto anch’esso intorno al 30, e undici elegie sugli amori della poetessa Sulpicia col giovane Cerinto (un altro pseudonimo), divisibili a loro volta in due gruppi: il primo è composto da cinque elegie più lunghe che, salvo due, sono poste in bocca a Sulpicia, ma non sembrano scritte da lei, anche perché in complesso sviluppano l’argomento delle sei più brevi elegie successive, piccoli biglietti amorosi che si credono scritti personalmente da Sulpicia.

Aquila imperiale sopra le spoglie dei nemici vinti. Statua, marmo, I sec. d.C. Madrid, Museo del Prado.

[…] Si è tentato di basarsi anche sulla tradizione manoscritta, osservando che Ovidio da un lato, nell’epicedio per Tibullo, pone nettamente che solo Delia e Nemesi sono state le donne amate dal poeta, e che quindi solo i primi due libri sono del poeta; ma si è osservato d’altro canto che nelle due poesie Ovidio riecheggia anche spunti del libro III, dai carmi di Ligdamo e di Sulpicia. Ciò dà la sicurezza che in origine il «Corpus Tibullianum» correva in due sezioni distinte: quella autentica (libri I-III) e una raccolta di altri carmi di poeti appartenenti anch’essi al circolo di Messalla, la quale, per giunta, non si sa bene quando sia stata messa insieme fuori dagli archivi della casa. Il codice Santenianus del sec. IX contiene l’elenco dei manoscritti di una biblioteca, ai quali apparteneva anche un codice tibulliano in due libri: ciò farebbe pensare che sino a quell’epoca le due sezioni non si fossero ancora fuse. Ma gli estratti di carmi tibulliani che sono anteriori ai primi codici contenenti l’intero Corpus (e cioè gli Excerpta Frisigensia del sec. XI e gli Excerpta Parisina del sec. XII) sono desunti dalle poesie di tutti e tre i libri; ed è difficile pensare che la fusione sia avvenuta solo a partire dal sec. X.
L’ipotesi che è sembrata più ovvia fra le tante è che Ligdamo sia da identificare con Ovidio, dato che entrambi adoperano la medesima formula per indicare il proprio anno di nascita. Ciò è sembrato anche più naturale perché le poesie di Ligdamo presentano numerosi incontri di frasi sia con quelle di Ovidio sia con quelle di Tibullo. Ovidio giovane, in casa di Messalla, avrebbe fatto i suoi primi tentativi poetici all’ombra di Tibullo, il più grande poeta del circolo, e sotto lo pseudonimo di Ligdamo, sfogando il dolore per il suo primo matrimonio infelice, contratto in giovanissima età: infatti, le poesie di Ligdamo cantano l’infelice amore del giovane per Neera, che appare moglie o fidanzata del poeta. Altri hanno pensato che tutto il libro III del Corpus contenga i carmi di Ovidio giovane, il quale avrebbe composto anche il Panegyricus Messallæ e si sarebbe divertito anche a sviluppare, nelle elegie 8-12 del libro, i tenui spunti tracciati da Sulpicia nelle elegie 13-18, dopo aver letto queste poesie in casa di Messalla, di cui Sulpicia era pupilla. Altri ancora, fondandosi invece sull’ipotesi che Ligdamo sia nato nel 44, hanno voluto identificarlo col fratello maggiore di Ovidio, di cui il poeta nei Tristia compiange la morte prematura, comunicandoci che egli era nato un anno prima di lui. Entrambe le ipotesi servirebbero anche a spiegare come, nonostante i suoi riecheggiamenti nei carmi sicuramente autentici di Ovidio, il nome di Ligdamo non venga fatto né da Ovidio né da altri poeti. Ma Ovidio dice di suo fratello che egli era dedito all’eloquenza: sarebbe strano che egli avesse taciuto di un’attività poetica di suo fratello (se Ligdamo fosse da identificare con questo), tanto più che ne ha riecheggiato i versi. E quanto all’ipotesi che Ovidio sia l’autore di questi carmi, si tenga presente che nell’elegia decima del libro IV dei Tristia egli ci riferisce di aver bruciato i suoi saggi giovanili precedenti gli Amores. Altri hanno pensato che le elegie 8-12 del libro III siano uno sviluppo dei billets doux di Sulpicia fatto da Tibullo, che degli «elegidia» della poetessa aveva avuto conoscenza in casa di Messalla; e si è tentato di scorgere in Cerinto uno pseudonimo di Cornuto (l’amico cui Tibullo si rivolge nelle elegie seconda e terza del libro II), fondato sul greco κέρας = “corno”. Ma l’ipotesi è insostenibile, perché Cerinthus ha la “e” lunga. Altri ancora hanno proclamato Ligdamo un poeta superiore a Tibullo, che lo avrebbe imitato, ma non hanno rinunciato a ritenere che Ligdamo sia nato nel 43: è difficilmente pensabile che nei primi suoi carmi Tibullo abbia imitato un poeta tredicenne! Altri hanno identificato Ligdamo con l’omonimo schiavo di Cinzia, cui Properzio si rivolge nell’elegia III, 6 e di cui parla nelle elegie IV, 7 e IV, 8. Altri hanno pensato ancora che tutto il libro III sia di Tibullo, il quale, oltre a comporre le due ultime elegie e il Panegyricus Messallae in persona propria, avrebbe fatto da segretario galante a Ligdamo, a Cerinto e a Sulpicia, esprimendo in nome loro i loro sentimenti. A questa ipotesi (e anche a quella più semplice che Tibullo fosse l’autore solo dei carmi 8-12) è sembrato di poter trovare un appiglio in una frase del frammento di biografia, in cui si accenna a «epistulae amatoriae» di Tibullo, mentre altri, sulla base di questo passo, hanno pensato che Tibullo avesse composto lettere amatorie in prosa, ora perdute. Altri infine si sono sforzati di distinguere le due identiche indicazioni del proprio anno di nascita fornite da Ligdamo e da Ovidio, e hanno pensato che Ovidio abbia riecheggiato ad verbum il verso ligdameo, alludendo all’anno 43, mentre in Ligdamo il verso alludeva a un precedente anno in cui i due consoli erano stati travolti da eguale disavventura (o l’82 a.C., in cui i due consoli, Mario il giovane e Papirio Carbone, caddero entrambi per l’effetto della repressione sillana; o il 65 a.C., in cui i due consoli eletti, P. Autronio Peto e P. Cornelio Silla, furono entrambi destituiti perché rei di broglio elettorale, e sostituiti da L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato, il console ricordato da Orazio; o il 49 a.C., in cui i due consoli, L. Lentulo Crure e C. Claudio Marcello, dovettero abbandonare Roma dinanzi all’incalzare di Cesare). Da questa retrodatazione della nascita di Ligdamo alcuni hanno voluto trarre motivo per identificarlo con Cassio Parmense. Di recente è stata scelta fra le varie date proposte quella del 65 ed è stata proclamata l’identità fra Ligdamo e Tibullo, sostenendo che Neera era stata la prima donna cantata da Tibullo sotto lo pseudonimo di Ligdamo e che la tanto ricercata data di nascita di Tibullo è dunque il 65.

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Noi ci associamo a questa ipotesi solo per quanto concerne Ligdamo: neghiamo cioè l’identità fra Ligdamo e Tibullo, insostenibile per tante ragioni, ma riconosciamo anche noi che Ligdamo non può essere nato nel 43 ed essere un tardivo imitatore sia di Tibullo, sia di Ovidio, come ha sostenuto chi l’ha identificato con lo schiavo di Cinzia […]. Interpretiamo poi «natalem», nel testo di Ligdamo, come allusione al “compleanno” del poeta, e perciò fissiamo al 66 a.C. il suo anno di nascita. Egli è stato, a nostro giudizio, un giovane timido e appassionato, di malferma salute, amico e all’incirca coetaneo di Messalla, vittima di un infelice fidanzamento con la fanciulla che egli canta sotto il nome di Neera, e che con la sua indifferenza e la sua infedeltà gli ha accorciato la vita, come Lesbia con Catullo, del quale, nel brevissimo canzoniere di Ligdamo, è vivissima la traccia. Egli costituirebbe perciò l’altro tramite fra Catullo e l’elegia augustea; ma la sua poesia, a differenza di quella di Cornelio Gallo, era la casta poesia di un giovane che si tormentava di non poter realizzare il suo sogno matrimoniale. Essa rimase fra le carte della casa di Messalla e fece sentire il suo esile profumo a Tibullo, a Ovidio e persino a Properzio, che ne trassero spunto; ma Ligdamo non poteva pretendere di essere ricordato dai suoi più celebri imitatori, sia perché non aveva cantato facili amori, secondo l’uso della grande elegia erotica, sia per la tenuità della sua produzione poetica, stroncata immaturamente dalla morte […].
[…] Riteniamo che gli «elegidia» di Sulpicia siano proprio della poetessa e che le elegie 8-12 del libro III siano sviluppi che il suo stesso amante, l’ignoto Cerinto, abbia composti sui biglietti inviatigli dalla sua donna, per assaporare ancor di più la dolcezza di quelle rapide effusioni dell’animo di lei. Rimane naturalmente l’insolubile stranezza di quei due pseudonimi greci, Ligdamo e Cerinto, di cui per giunta il primo, mediante il riscontro con Properzio, si rivela nome di schiavo: forse esso aveva il significato leziosamente allegorico di “schiavo d’amore”, e forse il vezzo di assumere pseudonimi greci doveva essere diffuso, come un ritrovato di eleganza mondana, fra alcuni poeti del circolo di Messalla.
Per noi quindi il mistero del libro III del «Corpus Tibullianum» va risolto nel senso che […] dagli archivi della casa di Messalla, nel corso del I secolo d.C., sia stato composto un nuovo libro, una specie di antologia, con carmi, taluni gelosamente personali, composti parecchi anni prima da poeti del circolo, cioè con quelli di Ligdamo, forse già precedentemente diffusi a parte e conosciuti e imitati da Tibullo e da Ovidio, con l’anonimo Panegyricus Messallæ, coni biglietti di Sulpicia e le variazioni più lunghe che su di essi aveva composte il suo amante Cerinto, e con due carmi giovanili di Tibullo, che il poeta non aveva compresi nell’edizione delle sue opere. Appunto questi carmi, che chiudevano la raccolta e di cui il primo reca il nome di Tibullo, facilitarono in seguito la fusione di questo libro con i due autentici di Tibullo: fusione agevolata anche dal Panegyricus, che sembrava riprendere e sviluppare le lodi di Messalla contenute nell’elegia I,7 di Tibullo; essa, molto più tardi, avrebbe assunto la forma di una divisione in quattro libri per adeguare il testo tibulliano a quello del rivale e contemporaneo Properzio.
Soffermandoci brevemente sul valore artistico di queste pallide figure del libro III del Corpus, diremo che il Panegyricus Messallæ è opera di bolsa retorica, ogni tanto sostenuta da qualche tratto più robusto, i carmi 8-12 non si sollevano molto da un piano di garbata naturalezza, mentre più ardente e rilevata, nella sua femminile passionalità, è la poesia degli «elegidia» di Sulpicia, superba di essere la figlia di un Servio Sulpicio e pronta a rinfacciarlo all’amante che dubita di lei. Con irresistibile spontaneità di donna innamorata lei si lamenta che Messalla, custodendola, non le permetta di recarsi dove si trova l’amato («Ormai cessa dall’agitarti, o Messalla, troppo sollecito di me») ed esprime il cruccio di non poter gioiosamente far pompa del proprio amore («Ma mi piace aver peccato, m’infastidisce dover atteggiare il volto per salvaguardare il mio buon nome»). I rapidi guizzi della fiamma d’amore nel petto della fanciulla, che tutto oblia per l’amato, sono più sapidi delle variazioni troppo smorzate che l’amato stesso ha tramato su quelle improvvise aperture d’animo: Cerinto ci appare molto meno addentro che non la sua donna nel pauroso mistero dell’amore. Gli «elegidia» di Sulpicia sono stati additati da taluni come uno dei rari esempi in cui la «voce del cuore» si manifesta nella poesia latina.
Più interessante della sua la personalità di Ligdamo. È stato detto che il suo è un amore da collegiale; ed effettivamente il suo nostalgico sogno di una tranquilla vita matrimoniale non ha termini di confronto nella poesia d’amore latina. Egli tiene d’occhio Catullo, ma non ha la fibra passionale del Veronese: perciò, dove quegli freme, rugge, si divincola, scaglia ingiurie o avventa immagini di contenuta, profonda, pateticità, egli si abbandona a un pianto accorato e sommesso che annacqua i suoi sfoghi e li stempera in una liquida, monocroma semplicità: par quasi di poter sorprendere in questo i connotati di una personalità scarsamente vitale anche dal lato fisico. Pur avendo tanti punti di contatto con Tibullo, ne differisce fondamentalmente perché, mentre il cantore di Delia si tiene sempre sospeso fra il sogno e la realtà e addolcisce e sfuma i contorni, egli invece è di una fotografica aderenza al mondo circostante, è tutto cose, anche se a queste cose non riesce a imprimere, il più delle volte, il tocco trasfiguratore della poesia: in quest’aderenza immediata all’oggetto è il segno più tipico della sua vicinanza cronologica e spirituale a Catullo, oltre che nell’aperta citazione del suo nome, nella sesta elegia, e nel palese sfruttamento di episodi e cadenze della sua poesia. D’altro canto quella sua tendenza ad annullare e trasformare in tenero pianto l’empito della passionalità catulliana l’ha portato a imprimere al distico elegiaco un’andatura ondosa e levigata, lontana dalla durezza di Catullo, e già molto prossima alla trascolorante musicalità di Tibullo e alla fluida scorrevolezza di Ovidio, dei due poeti, cioè, che non disdegnarono di mutuare espressioni e movenze alle sue poche, umili, quasi dimenticate elegie. In questo, perciò, se veramente è attendibile la nostra tesi sulla sua priorità, egli, pur nella tenuità della sua produzione, rappresenta una tappa di notevole importanza nella formazione della cifra stilistica dell’elegia erotica augustea. Quello che egli, nei suoi bilanciati e ben ritmati distici, dice della sua sposa lo ripeteranno con tono più vibrante i suoi grandi successori per le loro amanti: egli dice che lei «sia che sia mia, sia che io m’inganni, è per me sempre la cara Neera», e le invia doni con questa pudica dichiarazione: «Questi piccoli doni ti manda colui che un giorno sarà tuo marito, che ora è tuo fratello, o casta Neera, e ti supplica che tu li voglia accettare e ti giura che tu gli sei cara più delle sue viscere, sia che tu voglia essere sua sposa sia che voglia rimanere come una sorella per lui. Ma meglio che tu divenga sua sposa: la speranza che tu acquisti questo nome per lui gliela toglierà solo la smorta acqua di Dite, quand’egli sarà estinto». C’è già il presagio che il grande giorno delle nozze non rifulgerà mai per lui. Eppure egli afferma che «colui che strappò al giovane la fanciulla a lui cara e alla fanciulla il giovane a lei caro, ebbe veramente un cuore di ferro. E fu insensibile anche colui che poté sopportare un dolore così grande e vivere dopo che gli era stata strappata la sposa. Io non sono da tanto, non è della mia indole una simile sopportazione». E pensa che gli si frangerebbe il cuore e immagina (e Tibullo farà tesoro di questo trapasso e Properzio riprenderà il motivo dell’epitaffio) che Neera e sua madre vengano a piangere sulla sua tomba e vi pongano questo epitaffio: «Qui giace Ligdamo: a lui il dolore e il cruccio per Neera, la sposa rapita, furono causa della morte». E rivolgendosi a lei geme: «Che giova aver oppresso di voti il cielo, o Neera, e aver bruciato tanti incensi con sommesse preghiere … perché io potessi fondere la mia gioia con la tua in una lunga vita e la mia vecchiaia potesse trovare l’ultimo rifugio nel tuo grembo?». E quando, ormai deluso, chiede al vino l’oblio delle sue pene, apostrofa la sua Neera con l’appellativo di «spergiura», dice che lei è «ingiustamente nemica a me che non lo merito», ma si affretta a soggiungere «ma, benché spergiura, sempre a me cara!». L’«odi et amo» di Catullo, il grido di disprezzo misto al bramoso anelito dei sensi, l’unico rottame dell’amore distrutto, si è già trasformato in quest’umile sospiro di rimpianto verso la donna sconoscente, ma ancora adorata.
Più ricca di motivi, più sapientemente orchestrata la poesia tibulliana. Abbiamo già ricordato che sua nota distintiva è la fusione del motivo erotico con quello agreste. Tibullo la deve forse a Cornelio Gallo; noi vi scorgiamo un profondo influsso di Virgilio, i cui motivi, specie nelle elegie prima e decima del libro I e prima e terza del libro II, sono ripresi, rielaborati, intrecciati con variazioni nuove, ma quasi tutte improntate alla più raffinata sapienza letteraria. Le donne che egli canta, Delia nel libro I, Nemesi nel libro II, sono stilizzate da Ovidio come piangenti accanto al suo letto di morte; ma che esse siano realmente esistite può credersi solo con prudenza. Apuleio, nel già ricordato luogo dell’Apologia, ci afferma che Delia si chiamava Plania, il che potrebbe dar credito al poeta che ci narra il suo infelice amore per lei; e Orazio nell’ode I,33 ci parla di crucci amorosi di Tibullo: ma egli si riferisce proprio alle sue elegie, e quindi proprio a quella testimonianza della cui validità discutiamo. Che Nemesi sia una donna vera è da revocare in dubbio: già il suo pseudonimo, “la vendetta”, fa sospettare che ella sia un’immaginaria donna cantata da Tibullo come rivalsa per il canonico tradimento di Delia; e il libro II è un breve libretto in cui la vena del poeta già appare stanca. In realtà l’una donna non differisce dall’altra: il poeta le raffigura entrambe infedeli, avide, pronte a passare ad altri amori, anche se per Delia ha aggiunto qualche tocco che serve a individuarla come donna maritata. Se abbiamo insistito su questo problema dell’effettiva esistenza di Delia e Nemesi, non lo abbiamo fatto per porre una questione che in sede di giudizio artistico non ha alcun significato, ma solo per fare intendere che Tibullo ha cantato le due donne come forme evanescenti e vuote, sentendole lui per primo come se effettivamente non esistessero. La Lesbia di Catullo e la Cinzia di Properzio hanno ben altra corposità; e l’evanescenza delle donne oraziane si configura in motivo stilistico raffinatissimo, che è esso stesso musica e delizia per la fantasia, quando addirittura, come nell’ode III, 9 (il dialogo della riconciliazione fra gli amanti), la figura di Lidia non viene in primo piano con una sua ben definita, squisita femminilità. Ma Tibullo invece vuol cantare le sue donne nell’atmosfera realistica dell’elegia erotica e addensa intorno a loro tutti i luoghi comuni della poesia d’amore derivata dall’epigramma ellenistico: il παρακλαυσίθυρον (“serenata dinanzi alla porta chiusa”), le imprecazioni contro la mezzana, i riti magici per piegare l’amata, ecc. Ora Delia è invocata come compagna del poeta in un quadro di rustica semplicità, ora invece è vista da lui mentre partecipa ai riti di Iside, ancora riservati agli ambienti più capricciosamente mondani della capitale; la sua figura ondeggia sempre dinanzi alla nostra fantasia, apparendoci ora una ragazza del popolo, ora una vera cortigiana. Né basta: nelle elegie quarta, ottava e nona del libro I il poeta canta l’amore per il giovinetto Marato; il meno che si può dire al riguardo è che egli indulga a un motivo letterario, nel pieno dell’amore per Delia. Da Ligdamo eredita il tono umile e supplichevole dinanzi alla sua bella, ma non vi si attiene sino in fondo, perché la tradizione della poesia erotica esige che l’innamorato ogni tanto manifesti impazienza e sdegno. Il suo amore per la campagna può essere stato anche sincero: Orazio ci testimonia che egli s’intratteneva nei campi. Ma la sua campagna, salvo qualche tratto di maggior spontaneità, è troppo nutrita di colori virgiliani perché non si abbia a scorgere anche qui un raffinato riecheggiamento letterario. La sua, non quella delle Bucoliche virgiliane, già prelude alla campagna dell’Arcadia settecentesca.
Ciò che in lui sostituisce il punto di fusione, il principio armonizzatore di tutti questi elementi disparati è il suo stile, che il più delle volte non riesce a dar forza e suggestione di poesia al suo canto, ma indubbiamente gli imprime sempre un carattere di gustosa e raffinata elaborazione letteraria. Quintiliano lo giudicò «tersus atque elegans», dandogli la palma fra i poeti elegiaci; il suo giudizio è riflesso in Diomede – che cita il primo distico tibulliano come esempio di poesia elegiaca – e nel moncone di biografia di cui abbiamo fatto parola più volte. E grande merito di Tibullo sono state sempre giudicate la nitida fluidità dell’espressione e la mancanza quasi totale di digressioni mitologiche, come se la mitologia potesse costituire di per sé un elemento bello o brutto, e tutto non dipendesse dalla maniera con cui il poeta la introduce nei suoi carmi e la rivive. Ma la vera caratteristica del suggestivo, accuratissimo stile tibulliano non è nella pura e semplice perspicuità, ma nell’andatura sinuosa, sognante con cui un motivo s’intreccia all’altro, un fantasma germina casualmente nell’altro, in una continua, ondosa, soave rêverie. In questo tono di vago, di melanconico, di sfumato Tibullo ha saputo trovare il timbro adatto per amalgamare gli elementi così diversi e contrastanti, e per lo più così libreschi del suo mondo poetico. Egli è sempre un classico, e quindi il suo contorno è sempre nitido; ma la musica che fluisce dentro le sue immagini tende, per così dire, a dissiparle dall’interno, a stemperarle nella nebbia del sogno. In Tibullo il disegno classico è già sul punto di trasformarsi nella romantica indeterminatezza: in questo estremo, instabile equilibrio fra il chiaro e l’indistinto è la sottile suggestione del suo sorvegliatissimo stile. Non si vuol dire con questo che egli non sappia o non voglia determinare i suoi quadri: ma per esempio egli comincia a raffigurare una festa campagnola, poi da questa passa a esaltare la divinità in onore della quale essa è celebrata, e a prospettare i beni della campagna come un dono di questa divinità; di qui torna a esprimere il fascino del «rus», ma poi passa subito a deprecare la guerra che minaccia di comprometterlo; dall’immagine della guerra torna una terza volta a lodare la campagna, ma subito le contrappone l’altro tema abituale del suo canto, l’amore con i suoi «discidia», per terminare con un’ennesima lode della pace agreste. In questa continua, nervosa, cangiante interferenza di piani, la fermezza del quadro e della singola immagine risulta continuamente compromessa; e il miracolo della sapienza stilistica di Tibullo è nel fatto che questa continua trasposizione d’immagini e d’idee avviene sempre in quel linguaggio preciso, quasi scarno, che dà un sentore di vivida incantagione a quel continuo mutar di quadri.
Il fascino maggiore della poesia tibulliana è nei rari momenti in cui quest’andatura desultoria e sognante investe, intacca la nitidezza dell’immagine, ne fa veramente una rosata macchia indistinta, la circonfonde delle trine spumose di un pannelleggiare rococò. Allora Tibullo crea veramente qualcosa di nuovo, introduce quella tipica nota preromantica, che poi il sec. XVIII ritroverà, dalle pittoriche pastorellerie del Watteau al sentimentalismo contagioso della Nouvelle Héloïse di J.J. Rousseau. Nella terza elegia del libro I Tibullo, malato a Corcira, scongiura gli dèi di volerlo conservare in vita; ma poi teme che sia giunta la sua ultima ora e la sua fantasia naufraga dolcemente (il vero Tibullo non conosce mai i toni cupi e drammatici) nell’immaginare i Campi Elisi, ma ben diversi da quelli virgiliani: «Qui regna la danza e il canto, e gli uccelli, svolazzano qua e là, effondono una dolce melodia dalla gola delicata, fiorisce la cannella, fra l’erba che vien su spontanea, e per tutta la distesa dei campi, la terra benigna si copre di rose profumate: un nugolo di giovani s’allegra a mescolarsi alle tenere ragazze, e Amore intreccia di continuo le sue schermaglie». […] Ma l’irrequieta immaginazione del poeta trascorre da questo sogno rosato alla visione cupamente stilizzata dell’Averno, in cui augura che vadano a finire i suoi rivali in amore, e poi torna a posarsi sull’immagine della sua ragazza che si compiace di evocare filante i lini sotto la severa custodia di una vecchia, finché «a poco a poco, vinta dal sonno, si lasci scivolare dalle mani il lavoro»: ove l’immagine della sedula sposa cantata da Virgilio nel libro I delle Georgiche si ammorbidisce in un quadretto di più leziosa sensibilità. Così – ed è il tratto meritatamente più famoso dell’opera di Tibullo – nella prima elegia, dopo aver intrecciato diffusamente i due temi prediletti della campagna e dell’amore, il poeta s’effonde in un delicatissimo intermezzo musicale: «Non mi curo della gloria, o mia Delia: purché stia con te, invoco d’esser chiamato pigro e molle. Possa contemplare il tuo viso, quando verrà per me l’ora suprema, possa stringerti ancora, spirando, con la mano che si abbandona». Tibullo ha varcato il tenuissimo limite, e si è gettato fra le nebbie di un romantico sogno conquistando finalmente la poesia.
Lodato da Ovidio e posto da lui fra i poeti che gli amanti e le belle devono conoscere, ammirato da tutta la letteratissima età imperiale (ma san Girolamo non lo conosce), Tibullo ha lasciato traccia di sé in tutte le letterature moderne[…]. Oggi il giudizio sull’arte è rimasto spesso impegolato nelle fastidiose e trite polemiche alimentate dal suo confronto con Properzio, ed ha sofferto della non ancora raggiunta soluzione del problema del «Corpus Tibullianum».