Arato di Soli

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.

Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.

Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.

 

Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.

 

Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).

 

L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).

 

London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.

 

Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).

 

«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.

 

Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».

 

Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.

 

Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.

 

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Filone di Bisanzio

cfr. PH. RANCE, s.v. Philo of Byzantium, in R.S. BAGNALL et al. (eds.), The Encyclopedia of Ancient History, Chichester-Malden 2013, 5266-5268 [academia.edu].

 

Filone di Bisanzio (Φίλων ὁ Βυζάντιος), vissuto circa tra il 280 e il 220 a.C., fu uno scrittore greco di argomenti tecnici, esperto di meccanica e di ingegneria civile e militare (perciò fu detto Philo Mechanicus). Purtroppo, sono scarse le notizie pervenute sulla vita e sulla carriera di questo intellettuale: egli stesso nei suoi testi parla di lunghi soggiorni ad Alessandria e a Rodi; probabilmente Filone era poco più giovane del celebre inventore Ctesibio di Alessandria (circa 285-222 a.C.), del quale perfezionò alcune scoperte in campo pneumatico e in ambito balistico, anche se la loro conoscenza personale è dubbia (51, 15-23; 67, 43-68, 2). L’opera principale di Filone doveva essere un grande compendio tecnologico in nove libri intitolato Μηχανικὴ σύνταξις, il più antico del suo genere, buona parte del quale è andata persa. Le sezioni sopravvissute sono dedicate a un certo Aristone, un corrispondente non meglio identificato, al quale ogni volume doveva essere stato inviato indipendentemente, secondo un programma di indagine precedentemente delineato (49.1-3, 79.1; Pneum.1).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France, Ms. Grec 2435 (XVI s.), Collection poliorcetique – ἐκ τῶν Φίλωνος βελοποιικῶν, λόγος Δ, f. 47r.

 

Con alcune congetture i filologi ne hanno ricostruito il contenuto, convenzionalmente ordinato nel modo seguente: libro I Eἰσαγωγή (Introduzione alla matematica); libro II Μοχλικά (A proposito delle leve); libro III Λιμενοποιικά (Sulla costruzione dei porti); libro IV Bελοποιικά (Sulla fabbricazione dei proiettili); libro V Πνευματικά (Sui congegni che funzionano con la pressione dei liquidi); libro VI Αὐτοματοποιητικά (Sulla costruzione di congegni automatici); libro VII Παρασκευαστικά (Sulla preparazione delle difese in caso d’assedio); libro VIII Πολιορκητικά (Sulle operazioni d’assedio); quanto al libro IX Περὶ ἐπιστολῶν, probabilmente rappresentava uno studio sulla crittografia ed era dedicato all’analisi di documenti segreti e alla decodifica di messaggi in codice. Il testo greco pervenuto comprende soltanto il libro IV, insieme ad alcuni excerpta del VII e dell’VIII (che i primi studiosi consideravano come un unico libro, numerato come V).

Ruota idraulica. Illustrazione da Filone di Bisanzio, Πνευματικά 61 (Carra de Vaux 1902, 177-179).

 

La Πνευματικά è conservata nella traduzione araba, pesantemente interpolata dagli studiosi medievali, e in una parziale traduzione latina di un’altra versione araba andata perduta. La Βελοποιικά (Schöne 1893; Diels e Schramm 1919; Marsden 1971) fornisce indicazioni tecniche molto precise su come costruire macchine da guerra e d’assedio, in particolare le catapulte con congegni a torsione: il testo di Filone incorpora tecniche empiriche probabilmente apprese tramite un rapporto frequente con artigiani e genieri rodii e alessandrini, gli stessi che forse avevano lavorato insieme a Ctesibio (50, 37–40; 51, 15–23; 67, 43–68, 2; 72, 36–39; 77, 12–78, 34). Filone critica gli sviluppi più recenti del suo tempo e propone migliorie sia per gli strumenti più tradizionali sia per le invenzioni più note (56, 19-24; 72, 39-45). Non è del tutto chiaro quanto egli conoscesse gli scritti perduti di Ctesibio. La Πνευματικά (Schmidt 1899; Carra de Vaux 1902; Prager 1974), il più antico trattato giunto in materia, contiene un’introduzione teorica alle proprietà di aria, acqua e vuoto basata su dimostrazioni empiriche e seguita da descrizioni di applicazioni pratiche – soprattutto tramite marchingegni per l’intrattenimento e altri apparecchi (Drachmann 1948: 41–74). Le analogie con l’omonimo trattato di Erone di Alessandria (circa 10 a.C.-70 d.C.) lasciano supporre che questi avesse letto e studiato il testo di Filone oppure che entrambi avessero una fonte comune (il trattato di Ctesibio).

Una gastraphetēs. Illustrazione da Marsden 1971, 47.

 

La Παρασκευαστικά e la Πολιορκητικά di Filone (Schöne 1893; Diels e Schramm 1920; Garlan 1974; Lawrence 1979) costituiscono una guida completa sulle procedure di difesa e di attacco di una città dell’età ellenistica. In particolare, la prima è l’unico trattato sulle opere di fortificazione sopravvissuto fin dall’antichità e riguarda la progettazione, la disposizione e la costruzione di mura, torri, merlature e altre opere esterne, nonché l’organizzazione delle maestranze addette e la logistica dei rifornimenti; la seconda, invece, tratta la progettazione delle macchine d’assedio, l’equipaggiamento e le tattiche da utilizzare in tali circostanze.

 

Macchina d’assedio a torsione. Illustrazione da Marsden 1971, 56.

 

In ambito matematico, Filone propose una dimostrazione alternativa alla proposizione di Euclide 1, 8 (Procl. Comm. in Euclid. [ed. Friedlein 1873] 266,15-268,14), e formulò anche una soluzione approssimativa al problema della duplicazione del cubo (“problema di Delo”), usando il cosiddetta “linea di Filone” (Coxeter e van de Craats 1993). A lui è stato erroneamente attribuito un breve trattato sulle Sette meraviglie del mondo (Τῶν ἑπτὰ θεαμάτων ἑκάστου φήμῃ μέν), opera in realtà di un retore tardoantico.

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La scuola pitagorica

di N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. 1. Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Novara 2006, 39-52.

 

La tradizione ha complicato di tanti elementi leggendari la figura di Pitagora che riesce difficile delinearla nella sua realtà storica. Gli accenni di Aristotele si limitano a poche e semplici dottrine, riferite per di più non a Pitagora stesso, ma, in generale, ai Pitagorici; e se la tradizione si arricchisce a misura che si allontana nel tempo dal Pitagora storico, questo è segno evidente che si arricchisce di elementi leggendari e fittizi, che poco o nulla hanno di veramente storico.

Pitagora. Erma, marmo pario, I secolo d.C. Copia romana di un originale greco. Roma, Musei Capitolini.

Figlio di Mnesarco, Pitagora nacque a Samo, probabilmente intorno al 571/70 a.C., venne in Italia nel 532/1 e morì nel 497/6. Si dice che sia stato discepolo di Ferecide di Siro e di Anassimandro e che abbia viaggiato in Egitto e nei paesi del Medio Oriente. Certo è soltanto che da Samo emigrò nella Magna Grecia e prese dimora a Crotone, dove fondò una scuola che fu insieme un’associazione religiosa e politica. La leggenda rappresenta Pitagora come profeta e operatore di miracoli; la sua dottrina gli sarebbe stata trasmessa direttamente dal suo nume tutelare, Apollo, per bocca della sacerdotessa di Delfi, Temistoclea[1].

È assai probabile che Pitagora non abbia lasciato scritto nulla. Aristotele, infatti, non conosce nessun suo testo e l’affermazione di Giamblico che gli scritti dei primi Pitagorici fino a Filolao sarebbero stati conservati come secreto della scuola, non vale se non come una prova del fatto che, anche più tardi, non si possedevano scritti autentici del maestro, anteriori proprio a Filolao[2]. Posto ciò, è molto difficile riconoscere nel Pitagorismo la parte che spetta al suo fondatore. Una sola dottrina, invero, gli può essere attribuita con tutta certezza: quella della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e della sua trasmigrazione in altri corpi. Secondo questa dottrina, che fu fatta propria da Platone, il corpo è una prigione per l’anima, che vi è stata rinchiusa dalla divinità per punizione. Finché l’anima è nel corpo, essa ha bisogno del corpo perché solo per mezzo di esso può sentire; ma quando ne è fuori, essa vive in un mondo superiore una vita incorporea. A questa vita l’anima ritorna, se si è purificata durante la vita corporea; in caso contrario, essa riprende, dopo la morte, la catena delle trasmigrazioni[3].

Andrea di Bonaiuto, Pitagora (dettaglio dal Trionfo di S. Tommaso d’Aquino). Affresco, 1366-1367. Firenze, S. Maria Novella. Cappellone degli Spagnoli

 

La scuola di Pitagora, come si accennava, fu un’associazione religiosa e politica, oltre che filosofica in senso stretto. Pare che l’ammissione alla società fosse subordinata a prove rigorose e all’osservanza di un silenzio di vari anni. Nei più alti gradi, inoltre, i Pitagorici vivevano in piena comunione dei beni. Ma di tutte queste notizie il fondamento storico è assai poco sicuro. Molto probabilmente il Pitagorismo fu una delle tante sette celebratrici di misteri ai cui iniziati veniva imposta una certa disciplina e certe regole di astinenza, che non dovevano essere gravose. Il carattere politico della setta ne determinò, però, la rovina. Contro il governo aristocratico, tradizionale nelle città magnogreche, al quale avevano dato il proprio appoggio i membri dell’associazione, si determinò un movimento democratico che provocò rivoluzioni e tumulti.

I Pitagorici furono resi oggetto di persecuzioni: le sedi della loro scuola furono date alle fiamme, essi stessi furono massacrati o costretti all’esilio; e solo in seguito, dopo alterne vicende, i fuoriusciti poterono rientrare in patria. È probabile che Pitagora fosse stato costretto a lasciare Crotone per Metaponto proprio a causa di quei rivolgimenti.

Dopo la diaspora delle comunità pitagoriche in Italia meridionale si ha notizia di filosofi di questo indirizzo anche fuori della Magna Grecia. Il primo di essi è Filolao, che era contemporaneo di Socrate e di Democrito e visse a Tebe negli ultimi decenni del V secolo a.C. Nello stesso periodo, Platone colloca Timeo di Locri, dell’esistenza storica del quale non si è nemmeno tanto sicuri. Nella seconda metà del IV secolo a.C. il Pitagorismo assunse nuova importanza politica per opera di Archita, tiranno di Taranto, di cui fu ospite lo stesso Platone durante il suo viaggio in Magna Grecia. Dopo il Tarentino, la filosofia pitagorica sembra essersi estinta anche in Italia. Si rifaceva al Pitagorismo, anche se non è stato (come alcuni sostengono) scolaro di Pitagora, il medico Alcmeone di Crotone, che riprese alcune dottrine della scuola; costui è notevole soprattutto per aver posto nel cervello l’organo della vita spirituale dell’uomo.

La dottrina dei Pitagorici aveva essenzialmente carattere religioso: lo stesso Pitagora si mostrava come depositario di una sapienza che gli era stata trasmessa dalla divinità; a questa sapienza i suoi discepoli non potevano apportare alcuna modificazione, ma dovevano rimanere fedeli alle parole del maestro (ipse dixit). Inoltre, gli scolari erano tenuti a conservare il segreto e, perciò, la scuola si ammantava di misteri e di simboli che velavano il significato dei suoi insegnamenti ai profani.

 

Salvator Rosa, Pitagora emerge dall’aldilà. Olio su tela, 1662.

 

La dottrina fondamentale dei Pitagorici è che la sostanza delle cose sta nel numero. Secondo Aristotele, i Pitagorici, che erano stati i primi a far progredire la matematica, credevano che i principi della disciplina fossero quelli di tutte le cose[4]; e poiché i principi della matematica sono i numeri, parve loro di vedere in essi, più che nel fuoco, nella terra o nell’aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono. Aristotele, quindi, riteneva che i Pitagorici avessero attribuito al numero quella funzione di causa materiale che gli Ionici avevano assegnato a un elemento corporeo: il che è un’indicazione senza dubbio preziosa per intendere il significato del Pitagorismo, ma non è ancora sufficiente a renderlo chiaro.

In realtà, se gli Ionici per spiegare l’ordine del mondo avevano fatto ricorso a una sostanza corporea, i Pitagorici facevano di quell’ordine stesso la sostanza dell’universo. Il numero come sostanza del mondo, dunque, è l’ipostasi dell’ordine misurabile dei fenomeni. La grande scoperta dei Pitagorici – quella che ne determinò l’importanza nella storia della scienza occidentale – consiste appunto nella funzione fondamentale che essi avevano riconosciuto alla misura matematica per intendere l’ordine e l’unità del cosmo. Del resto, l’ultima fase del pensiero platonico sarebbe stata dominata dalla medesima preoccupazione, ovvero trovare quella scienza della misura che fosse, al contempo, il fondamento dell’essere in sé dell’essenza umana. Per primi i Pitagorici hanno dato espressione tecnica all’aspirazione fondamentale dello spirito ellenico verso la misura, quell’aspirazione che Solone esprimeva dicendo: «La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della conoscenza, che è la sola a disporre i limiti di tutte le cose»[5]. Come sostanza del mondo, il numero è il modello originario delle cose, giacché costituisce, nella sua perfezione ideale, l’ordine in esse implicito[6].

Pitagora e Filolao fanno esperimenti musicali. Xilografia dal Theorica musicae di F. Gaffurio (1492)
Pitagora e Filolao fanno esperimenti musicali. Xilografia dal Theorica musicae di F. Gaffurio (1492).

Il concetto di numero come ordine misurabile consente di eliminare l’ambiguità tra significato aritmetico e significato spaziale del numero pitagorico, ambiguità che ha dominato le interpretazioni antiche e recenti del Pitagorismo. Aristotele afferma che i Pitagorici trattavano i numeri come grandezze spaziali e riporta anche l’opinione che le figure geometriche siano l’elemento sostanziale di cui consistono i corpi[7]. I suoi commentatori sono andati anche oltre, ritenendo che i Pitagorici considerassero le figure geometriche quali principi della realtà corporea e che le riconducessero a un insieme di punti, ritenendo, a loro volta, i punti unità estese[8]. E interpreti più recenti hanno insistito nel definire il significato geometrico come il solo che consenta di intendere il principio pitagorico che tutto risulta composto di numeri.

In realtà, se per numero si intende l’ordine misurabile del mondo, il significato aritmetico e quello geometrico risultano fusi, giacché la misura suppone sempre una grandezza spaziale ordinata (quindi, geometrica) e, nello stesso tempo, un numero che la esprima. Si può dire che il vero significato del numero pitagorico sia espresso da quella figura sacra – la τετρακτύς (tetraktys) – per la quale i Pitagorici avevano l’abitudine di giurare e che era la seguente:

Tetraktys - Wikipedia

 

La τετρακτύς rappresenta il numero 10 come il triangolo che ha il 4 per lato. La figura costituisce, dunque, una disposizione geometrica che esprime un numero o un numero espresso con una disposizione geometrica: il concetto che essa presuppone è quello dell’ordine misurabile.

Se il numero è la sostanza delle cose, tutte le opposizioni delle cose vanno ricondotte a opposizioni tra numeri. Ora, l’opposizione fondamentale delle cose rispetto all’ordine misurabile che ne costituisce la sostanza è quella di limite e illimitato: il limite, che rende possibile la misura, e l’illimitato che la esclude. A questa opposizione corrisponde quella fondamentale tra i numeri, cioè pari e impari, dove l’impari corrisponde al limite e il pari all’illimitato. E difatti ne numero impari l’unità dispari costituisce il limite del processo di numerazione, mentre nel numero pari questo limite è assente e il processo rimane, perciò, inconcluso. L’unità è poi il parimpari, perché l’aggiunta di essa rende pari l’impari e impari il pari. A questa opposizione ne corrispondono altre nove fondamentali, secondo questo ordine: 1) limite vs illimitato; 2) impari vs pari; 3) unità vs molteplicità; 4) destra vs sinistra; 5) maschio vs femmina; 6) quiete vs movimento; 7) retta vs curva; 8) luce vs tenebre; 9) bene vs male; 10) quadrato vs rettangolo. Il limite, cioè l’ordine, è la perfezione; perciò, tutto ciò che si trova dalla stessa parte nella serie degli opposti è bene e ciò che si trova dall’altra parte è male.

Luca della Robbia. Euclide e Pitagora, o la Geometria e l’Aritmetica. Panello, marmo, 1437-1439. Dal basamento della Torre campanaria del Duomo di Firenze. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

 

I Pitagorici, tuttavia, sostenevano che la lotta tra gli opposti fosse conciliata da un principio di armonia; questa, in quanto fondamento e vincolo degli stessi opposti, costituiva per loro il significato ultimo della realtà. Filolao definiva l’armonia come «l’unità del molteplice e la concordia del discordante»[9]. Come dappertutto c’è l’opposizione degli elementi, così dappertutto c’è l’armonia; e si può altrettanto dire bene che tutto è numero o che tutto è armonia, perché ogni numero è un’armonia dell’impari e del pari. La natura dell’armonia è poi rivelata dalla musica: i rapporti musicali, infatti, esprimono nel modo più evidente la sostanza dell’armonia universale e, perciò, erano assunti dai Pitagorici come modello di tutte le armonie del cosmo[10].

 

Più o meno coerentemente alla dottrina metafisica del numero, i Pitagorici svilupparono una concezione cosmologica e antropologica di cui si conoscono soltanto scarsi elementi. Filolao affermò che il principio che la diversità degli elementi corporei (acqua, aria, fuoco, terra ed etere) dipendesse dalla diversità della forma geometrica delle particelle più piccole che li compongono. Questa teoria, che in lui si trova appena accennata, fu poi ripresa e precisata da Platone nel Timeo, in cui si attribuisce a ogni elemento la costituzione di un determinato solido geometrico; ma questa precisazione, resa possibile dallo sviluppo dato alla geometria solida dal matematico Teeteto (al quale fu intitolato l’omonimo dialogo platonico), non era stata possibile a Filolao. Circa la formazione del cosmo, i Pitagorici ritenevano, infatti, che al cuore dell’universo esistesse un fuoco centrale, chiamato madre degli dèi, perché da esso sarebbero nate tutte le creature e i corpi celesti; tale fuoco era anche detto Hestia, focolare o altare dell’universo, cittadella o trono di Zeus, perché era considerato il fulcro da cui emanava la forza capace di conservare il mondo. Nella concezione pitagorica, poi, da questo fuoco sarebbero attratte tutte le parti più vicine dell’illimitato che lo circonda (spazio o materia infinita), parti che da questa attrazione vengono limitate, e quindi plasmate dall’ordine. Questo processo, ripetuto più volte, avrebbe condotto, via via, alla formazione dell’intero universo, nel quale, perciò – come riferisce anche Aristotele – la perfezione non sarebbe al principio, ma al termine[11].

File:Terra e Antiterra nel pitagorismo.jpg
La costituzione dell’universo secondo i Pitagorici [link].

L’aspetto notevole di questa cosmogonia è il fatto che la concezione dell’universo che ne deriva fa annoverare i Pitagorici tra i primi anticipatori di Copernico. Essi, infatti, concepivano il mondo come una sfera, al centro della quale vi era il fuoco originario; attorno a esso orbitavano da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, che era più lontano dal centro, e poi, a distanze sempre minori, i cinque pianeti, il Sole – che, come una lente, raccoglieva i raggi del fuoco primordiale –, la Luna, la Terra e l’Anti-terra – un ipotetico pianeta che i Pitagorici calcolavano per completare la sacra decina. Il limite estremo del cosmo, dunque, doveva essere formato da una sfera avvolgente di fuoco, corrispondente al fuoco celeste.

Le stelle fisse erano credute fissate a sfere trasparenti dalla cui rotazione erano portate in giro[12]. Poiché ogni corpo mosso velocemente produce un proprio suono musicale, questo doveva accadere anche per i corpi celesti: il movimento delle sfere, così, dava origine a una serie di toni musicali che, nel loro complesso, formava un’ottava. Secondo i Pitagorici, i comuni mortali non potevano percepire queste musiche, perché li avevano sentiti ininterrottamente fin dalla nascita o anche perché i loro orecchi, nel corso del tempo, diventavano sempre meno adatti a udirle.

Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del sole. Olio su tela, 1899.

Come ogni altra cosa anche l’anima umana è armonia, quella che intercorre fra gli elementi che compongono il corpo. A questa dottrina, che è esposta da Simmia, discepolo di Filolao, nel Fedone platonico, Platone stesso obietta che, se considerata armonia, l’anima non potrebbe essere immortale perché dipenderebbe da elementi corporei, che si dissolvono con la morte. Tale obiezione è apparsa così seria che si è negato che la dottrina dell’anima-armonia fosse intesa dai Pitagorici nel senso chiarito da Platone e la si è riportata, invece, all’interpretazione di Claudiano Mamerto, secondo la quale l’anima sarebbe piuttosto la convenienza (cioè il vincolo che unisce anima e corpo)[13]. In realtà, se si tiene fermo il principio pitagorico che l’armonia è numero e il numero è sostanza, l’obiezione platonica perde valore: è l’armonia che determina e condiziona la mescolanza degli elementi corporei, non già questa è condizione di quella.

Alla dottrina dell’armonia si collega pure l’etica pitagorica con la sua definizione di giustizia. Quest’ultima è un numero quadrato; consiste cioè nel numero uguale moltiplicato per il numero uguale, perché rende l’uguale con l’uguale. Per questo, i Pitagorici la indicavano con il 4, che è il primo numero quadrato, o con il 9, che è il primo numero quadrato dispari. Per tutto il resto, l’etica pitagorica era di carattere eminentemente spirituale: il suo precetto fondamentale era, infatti, quello di seguire la divinità e di diventare simile a essa. Le massime e prescrizioni di carattere pratico, che costituiscono il patrimonio etico della scuola, non hanno uno speciale significato filosofico, se non in quanto, forse, si incomincia a intravedere in esse quella subordinazione dell’azione alla contemplazione, della morale pratica alla sapienza, che sarebbe riuscita vittoriosa con l’Aristotelismo. Il Pitagorismo aveva additato la purificazione dell’anima, che altre sette analoghe avevano conosciuto in riti e pratiche propiziatori, nell’attività teoretica, sola capace di sottrarre l’anima alla catena delle nascite e di ricondurla alla divinità.

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Nota bibliografica

Le testimonianze su Pitagora in H. Diels – W. Kranz (eds.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-19526, cap. XIV. Le Vite di Pitagora, composte da Porfirio e da Giamblico, sono utili per la conoscenza della leggenda del maestro e delle dottrine neopitagoriche e neoplatoniche, ma non per la ricostruzione della biografia storica dell’uomo. La Vita di Porfirio si legge nell’edizione di A. Nauck (Leipzig 1886); quella di Giamblico nell’edizione curata da L. Deubner (ibi 1937). Su Pitagora, si vd. Th. Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1869-1909 [= 1922-19232], I, 108 ss.; J. Burnet, Early Greek Philosophy, London 1920, 93 ss.; A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924. Cfr. anche K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus, Amsterdam-Leipzig 1940; E. Bindel, Pythagoras. Leben und Lehre in Wirkdichkeit und Legende, Stuttgart 1962; R. Cuccioli Melloni, Ricerche sul pitagorismo. I. Biografia di Pitagora, Bologna 1969; F. Gorman, Pythagoras: A Life, London 1979; A. Slosman, La vie extraordinaire de Pythagore, Paris 1983. I frammenti dei Pitagorici sono stati raccolti, con traduzione italiana, introduzione e commento da M. Timpanaro Cardini, Firenze 1958-1964 [19692], 3 voll.

Sulle vicende della scuola pitagorica, si vd. A. Rostagni, Pitagora e i Pitagorici in Timeo (1914), ora in Scritti minori, II 1, Torino 1956, 3-50. I frammenti di Filolao in Diels – Kranz, op. cit., cap. XLIV; quelli di Archita ibid., cap. XLVII; quelli di Alcmeone ibid., cap. XXIV. Su questi Pitagorici, si vd. A. Olivieri, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli 1931; K. von Fritz, Pythagorean Politics in Southern Italy, New York 1940; D. Teti, Alcmeone e Pitagora. Scuola medica crotoniate e scuola pitagorica italica, Padova 1970.

Sulla dottrina pitagorica, si vd. ancora E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Halle 1923 (rist. Darmstadt 1962); J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge 1948 (rist. Amsterdam 1966); H. Strainge Long, A Study of the Doctrine of Metempsychosis in Greece from Pythagoras to Plato, Princeton 1948; W. Burkert, Weisheit und Wissenshaft. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Plato, Nürnberg 1962 (trad. engl. Cambridge Mass. 1972); J.A. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Toronto 1966; C.J. De Vogel, Pythagoras and Early Pythagorism, Assen 1966; W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge Mass. 1972.

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Note

[1] Aristox. fr. 2 F.H.G. II = 15 Wehrli, in Diog. VIII 21: Ὁ δ᾽ αὐτός φησιν, ὡς προείρηται, καὶ τὰ δόγματα λαβεῖν αὐτὸν παρὰ τῆς ἐν Δελφοῖς Θεμιστοκλείας: «La stessa fonte [= Aristosseno], come abbiamo detto, asserisce che egli desunse le proprie dottrine da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi».

[2] Iambl. v. Pyth. 199: θαυμάζεται δὲ καὶ ἡ τῆς φυλακῆς ἀκρίβεια˙ ἐν γὰρ τοσαύταις γενεαῖς ἐτῶν οὐθεὶς οὐδενὶ φαίνεται τῶν Πυθαγορείων ὑπομνημάτων περιτετευχὼς πρὸ τῆς Φιλολάου ἡλικίας, ἀλλ’ οὗτος πρῶτος ἐξήνεγκε τὰ θρυλούμενα ταῦτα τρία βιβλία, ἃ λέγεται Δίων ὁ Συρακούσιος ἑκατὸν μνῶν πρίασθαι Πλάτωνος κελεύσαντος, εἰς πενίαν τινὰ μεγάλην τε καὶ ἰσχυρὰν ἀφικομένου τοῦ Φιλολάου, ἐπειδὴ καὶ αὐτὸς ἦν ἀπὸ συγγενείας τῶν Πυθαγορείων, καὶ διὰ τοῦτο μετέλαβε τῶν βιβλίων: « S’ammira anche la cura che ebbero a tener segrete le loro dottrine. Perché in tante generazioni fino a Filolao nessuno conobbe memorie di Pitagorici: fu Filolao il primo a divulgare i tre libri famosi, di cui si dice che furono acquistati per cento mine da Dione siracusano per incarico di Platone, quando Filolao si trovò in dura e grave povertà. Filolao faceva parte della setta dei Pitagorici, e per questo aveva potuto avere i libri».

[3] Cfr. Plat. Gorg. 493a: καὶ ἡμεῖς τῷ ὄντι ἴσως τέθναμεν: ἤδη γάρ του ἔγωγε καὶ ἤκουσα τῶν σοφῶν ὡς νῦν ἡμεῖς τέθναμεν καὶ τὸ μὲν σῶμά ἐστιν ἡμῖν σῆμα, τῆς δὲ ψυχῆς τοῦτο ἐν ᾧ ἐπιθυμίαι εἰσὶ τυγχάνει ὂν οἷον ἀναπείθεσθαι καὶ μεταπίπτειν ἄνω κάτω, καὶ τοῦτο ἄρα τις μυθολογῶν κομψὸς ἀνήρ, ἴσως Σικελός τις ἢ Ἰταλικός, παράγων τῷ ὀνόματι διὰ τὸ πιθανόν τε καὶ πειστικὸν ὠνόμασε πίθον, τοὺς δὲ ἀνοήτους ἀμυήτους: «Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente direzione in su e in giù. Un uomo ingegnoso, un Siculo o forse un Italico, parlando per immagini, mutando di poco il suono del nome, chiamò “orcio” questa parte dell’anima perché seducibile e credula e chiamò “dissennati” i non iniziati».

[4] Aristot. Met. I 5.

[5] Sol. fr. 20 G.-P.2 = 16 W.2: γνωμοσύνης δ’ ἀφανὲς χαλεπώτατόν ἐστι νοῆσαι / μέτρον, ὃ δὴ πάντων πείρατα μοῦνον ἔχει.

[6] Aristot. Met. I 6, 987b 10.

[7] Aristot. Met. XIII 6, 1080b 18; VII 2, 1028b 15.

[8] Cfr. Alex. in Met. I 6, 987b 33, ed. Bonitz, p. 41.

[9] Philol. fr. 10 D.

[10] Id. fr. 6 D.

[11] Cfr. Aristot. Met. XII 7, 1072b 28.

[12] Aristot. Coel. II 13.

[13] Claud. Mam. de stat. anim. II 7 § 172.

L’uomo vitruviano (Vitr. III 1, 1-4)

da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 220-222.

All’inizio del III libro del De architectura, che apre la sezione dedicata all’architettura templare (la più nobile fra le forme di quest’arte) Vitruvio premette una riflessione sulla simmetria, osservando che gli antichi hanno fatto bene a impostare la progettazione dei templi su sistemi modulari, in quanto l’ordine cosmico risponde a criteri di simmetria che possono essere espressi con proporzioni numeriche. Il corpo umano, per esempio, ha proporzioni tanto perfette che può essere inscritto in un cerchio e in un quadrato.

 

[1, 1] Aedium compositio constat ex symmetria, cuius rationem diligentissime architecti tenere debent. ea autem paritur a proportione, quae graece ἀναλογία dicitur. Proportio est ratae partis membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum. namque non potest aedis ulla sine symmetria atque proportione rationem habere compositionis, nisi uti hominis bene figurati membrorum habuerit exactam rationem. [2] corpus enim hominis ita natura composuit, uti os capitis a mento ad frontem summam et radices imas capilli esset decimae partis, item manus pansa ab articulo ad extremum medium digitum tantundem, caput a mento ad summum uerticem octauae, cum ceruicibus imis ab summo pectore ad imas radices capillorum sextae, ‹a medio pectore› ad summum uerticem quartae. ipsius autem oris altitudinis tertia est pars ab imo mento ad imas nares, nasum ab imis naribus ad finem mediûm superciliorum tantundem, ab ea fine ad imas radices capilli frons efficitur item tertiae partis. pes uero altitudinis corporis sextae, cubitum quartae, pectus item quartae. reliqua quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti. [3] similiter uero sacrarum aedium membra ad uniuersam totius magnitudinis summam ex partibus singulis conuenientissimum debent habere commensus responsum. item corporis centrum medium naturaliter est umbilicus. namque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque manuum et pedum digiti linea tangentur. non minus quemadmodum schema rotundationis in corpore efficitur, item quadrata designatio in eo inuenietur. nam si a pedibus imis ad summum caput mensum erit eaque mensura relata fuerit ad manus pansas, inuenietur eadem latitudo uti altitudo, quemadmodum areae, quae ad normam sunt quadratae. [4] ergo si ita natura composuit corpus hominis, uti proportionibus membra ad summam figurationem eius respondeant, cum causa constituisse uidentur antiqui, ut etiam in operum perfectionibus singulorum membrorum ad uniuersam figurae speciem habeant commensus exactionem. igitur cum in omnibus operibus ordines traderent, maxime in aedibus deorum, ‹quod eorum› operum et laudes et culpae aeternae solent permanere.

 

Costruzione di un edificio sepolcrale, gru e apoteosi della defunta. Rilievo, marmo, inizio II sec. a.C. dalla Tomba degli Haterii su via Labicana (Roma). Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.

 

[1, 1] La composizione dei templi risulta dalla “simmetria”, e gli architetti devono osservare in modo estremamente scrupoloso i suoi principi. Ed essa nasce dalla proporzione, che in greco è detta analoghìa[1]. La proporzione è la commensurabilità sulla base di un’unità determinata delle membrature di ogni impianto e in tutta quanta tale opera, con cui viene tradotto in atto il criterio delle relazioni modulari. E infatti non può alcun tempio avere della composizione senza “simmetria” e proporzione, se non l’ha avuto aderente al principio razionale precisamente definito proprio dalle membra di un uomo dalla bella forma[2] [2] Poiché il corpo dell’uomo è così composto per natura, che nella testa il volto dal mento alla sommità della fronte e all’attaccatura inferiore dei capelli costituisce la decima parte[3], così pure il palmo della mano dal polso all’estremità del dito medio altrettanto, la testa dal mento alla sommità del cranio l’ottava, dalla sommità del petto con la parte più bassa del collo alle radici inferiori dei capelli la sesta, dal petto alla sommità del capo la quarta. E dalla stessa altezza del volto la parte dal limite inferiore del mento a quello delle narici è la terza, il naso dal limite inferiore delle narici al tratto intermedio della linea delle sopracciglia altrettanto. Da tale linea all’inizio inferiore della chioma la fronte è resa pure la terza parte. E il piede è la sesta parte dell’altezza del corpo, il cubito[4] la quarta, il petto pure la quarta. Anche le altre membra hanno le loro proporzioni reciprocamente commensurabili, valorizzando le quali pure rinomati antichi pittori e statuari conseguirono lodi grandi e illimitate. [3] E allo stesso modo le membrature dei sacri templi devono essere assai convenientemente rispondenti per commensurabilità alla somma totale di tutta quanta la grandezza risultante dalle singole parti. Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E, infatti, se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato nel suo ombelico[5], descrivendo una circonferenza, le dita di entrambe le mani e dei piedi sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato. Infatti, se si misura dalle piante dei piedi alla sommità del capo e tale misura è riferita alle mani distese, si trova che pure la larghezza è come l’altezza, come le aree che sono quadrate regolari[6]. [4] Pertanto, se così la natura compose il corpo umano, che nelle proporzioni le membra rispondono alla figura generale, sembra che gli antichi con ragione abbiano disposto che anche nella realizzazione di impianti questi presentino la perfezione della “simmetria” delle singole membrature rispetto alla configurazione complessiva della figura. Pertanto, come trasmisero le regole di tutte le opere, lo fecero anche e soprattutto nell’ambito dei templi degli dèi, costruzioni delle quali sia le lodi sia le colpe sogliono permanere in eterno.

 

Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano. Penna e inchiostro su carta, 1490 c. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

 

Da questo passo emerge con chiarezza la convinzione, presente in tutta la cultura greca, che la bellezza sia strettamente connessa con una serie di esatte proporzioni numeriche. In particolare l’affermazione di III 1, 3, in base alla quale ogni singola parte deve avere una relazione di proporzione con l’insieme e che il centro dell’edificio (l’umbilicus) rappresenti il punto di convergenza di ciascun elemento dell’insieme, ad alcuni interpreti ha fatto pensare che qui Vitruvio abbia voluto richiamare la tendenza dell’architettura greca, in particolare di età periclea, a far gravitare lo spazio architettonico attorno a centri nevralgici nodali, grazie all’uso di moduli prestabiliti (si pensi, per esempio, al Partenone secondo il progetto di Ictino, che in molte parti rivela l’impiego del modulo del rettangolo aureo). Tale punto focale dello spazio architettonico può essere messo in relazione con il concetto di καιρός, «giusta misura», che nella cultura greca ha anche il significato pregnante di «momento giusto», ossia tempo adatto per intraprendere un’azione positiva e feconda. Il καιρός personificato, l’Occasione, era ritenuto una vera e propria divinità e, non a caso, il grande scultore Lisippo dedicò a questo dio una statua rimasta celebre per l’esattezza delle sue proporzioni.

 

Rappresentazione dello schema delle proporzioni (sezione aurea = 1.1,618) sul Doriforo di Policleto (Di Dio, Macaluso, Rizzolatti, 2007).

 

La possibilità di inserire la figura umana nel quadrato, oltre che nel cerchio, è una teoria di ascendenza pitagorica ripresa anche nell’ambito della scuola peripatetica: si tratta di una teoria particolarmente interessante perché permette all’architetto di fondare le proprie proporzioni su numeri razionali, dato che invece le misure inerenti alla circonferenza portano a numeri irrazionali. In ciò, dunque, si avverte l’eco del dibattito circa la possibilità di teorizzare una “quadratura” del cerchio, ossia di costruire un quadrato che abbia la medesima area di un cerchio dato. In un certo senso, inscrivere la figura umana nel cerchio significa sottolinearne l’irrazionalità, o meglio l’irriducibilità a proporzioni rigorosamente razionali, mentre inscriverla in un quadrato vale l’opposto.

 

Rappresentazione della sezione aurea applicata al Partenone.

 

Vitruvio adombra per l’architetto una funzione alta e importante, in quanto egli è chiamato in un certo senso a creare nel tempio un edificio che riproduca le proporzioni che regolano l’armonia dell’universo, e di cui l’uomo è espressione suprema. L’architettura come arte in sé ne risulta assai nobilitata, poiché ha una funzione di mimesi rispetto alla natura, riproducendone le perfette proporzioni. In questo senso come arte si pone sullo stesso piano della scultura e della pittura, che per vocazione sono mimesi della natura. Vitruvio, infatti, sottolinea che gli antichi maestri, che hanno rispettato le esatte proporzioni nella raffigurazione del corpo umano, hanno ottenuto la massima lode: Reliquia quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti (III 1, 2).

 

Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.

 

Oltre a ciò, l’architettura, pur rimanendo una ars, in quanto arte mimetica, può essere accostata alla poesia, che era in genere ritenuta come l’espressione più nobile delle facoltà dell’ingegno dell’uomo (tanto che a essa è lecito che si dedichino anche gli uomini liberi). L’architetto, quindi, è dedito a un’attività nobile, come Vitruvio specifica con cura nella prefazione all’intera opera, e non necessita solo di conoscenze tecniche, ma ha bisogno di un sapere completo, che si fondi anche sulla filosofia, sulla storia e sulla letteratura, in maniera simile al perfetto oratore delineato da Cicerone.

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Note al testo latino:

[1] Il termine è usato da Platone e dai matematici greci per indicare un sistema numerico nel quale siano ravvisabili relazioni ricorrenti. I retori, successivamente, impiegarono la stessa parola per esprimere la tendenza di un sistema linguistico a sottostare a leggi costanti.

[2] La concezione in base alla quale la simmetria sia fondamento dell’armonia e della bellezza ha probabilmente avuto origine nella scuola pitagorica; fu tuttavia affermato con chiarezza da Policleto, alla metà del V secolo a.C., non solo mediante le sue opere, ma anche attraverso il suo trattato sul Canone.

[3] Le misure riferite da Vitruvio risalgono innanzitutto a Policleto, di cui il Doriforo esprime le concezioni artistiche, ma ci sono influenze anche di trattatisti e artisti successivi.

[4] Letteralmente significa “gomito”, quindi indica l’intero avambraccio: è un’unità di misura greca del valore di 45 cm circa.

[5] La concezione in base alla quale l’ombelico sia il centro del corpo è assai diffusa nella cultura greca fin dalle sue origini, così come l’abitudine di avvalersi dello stesso termine per indicare il centro di qualsiasi entità spaziale: nel tempio di Apollo a Delfi, per esempio, era conservata una pietra ritenuta l’ombelico (cioè il centro) del mondo.

[6] La convinzione che il cerchio e il quadrato siano figure perfette è di origine pitagorica.

Scienza, morale e altro

di R. MUGELLESI, Scienza, morale e altro, introduzione a Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, Milano 2004, pp. 7-36.

Nel corpus senecano a noi giunto le Naturales Quaestiones occupano uno spazio autonomo e, almeno nel contenuto, distinto dalle altre opere. L’argomento è lo studio della natura, in alcuni dei suoi aspetti scelti da Seneca nell’ambito della meteorologia[1]  della geologia (mi riferisco al libro VI riguardante i terremoti). E sicuramente nell’antichità non conosciamo molte opere di questo genere, se escludiamo le trattazioni dei filosofi presocratici[2] – di alcuni dei quali Seneca è testimone autorevole –, Platone, ma soprattutto i Meteorologica[3] di Aristotele a noi giunti in quattro libri di cui forse il quarto è spurio.

Pseudo-Seneca. Statua, marmo, fine I sec. d.C. Museo Archeologico di Pozzuoli.

I rapporti tra Seneca e la produzione scientifica greca sono stati analizzati da più studiosi, con diverse posizioni. Vottero[4] sottolinea la forte influenza della dossografia nell’opera senecana, contraddistinta dalla presenza di termini come quidam, sententia, auctor, e verbi come opinari e placere. I rinvii possono essere anonimi, ma per lo più compaiono i nomi degli autori antichi a cui Seneca fa riferimento, sia greci sia latini. Punto fisso è sicuramente la dipendenza nella trattazione di certi argomenti[5], ma difficile è stabilire se Seneca li conoscesse di prima mano o piuttosto non fosse la sua una conoscenza indiretta, magari su compendi a noi ignoti[6]. Occorre comunque dire che la Quellenforschung relativa alle Naturales Quaestiones sembra orientata a riconoscere un’unica fonte che, se per Zeller e Diels era da identificare con Posidonio, per altri doveva essere riconosciuta in Asclepiodoto, che è citato da Seneca ben cinque volte[7]. Non è comunque facile stabilire con certezza tali assunti. Nel caso di Posidonio, possiamo basarci, oltre che sui nove frammenti ricordati da Seneca[8], sui venti di Strabone e i sei di Diogene Laerzio, ma, come osserva giustamente Vottero[9], non è possibile sapere se appartenessero sicuramente all’opera sulla meteorologia e se provenissero direttamente da Posidonio. E anche per quanto concerne Asclepiodoto, scolaro di Posidonio (auditor Posidonii), nessun autore lo ricorda, a parte Seneca, e la citazione in VI 17, 3, ove qualcuno vorrebbe intravedere il titolo steso dell’opera, Naturalium Causae, è oggetto di molte discussioni[10]. È stata avanzata l’ipotesi[11] che Seneca abbia attinto le sue teorie da una raccolta dossografica denominata da Diels[12] Vetusta Placita e databile intorno alla metà del I sec. a.C., forse redatta dal filosofo Ario Didimo di Alessandria. Poiché i Vetusta Placita si dividevano in due parti, una dedicata all’Etica, l’altra alla Fisica, si è cercato di dimostrare che Seneca potrebbe aver tenuto presenti entrambe le sillogi, in particolare la prima per le altre opere in prosa, la seconda per le Naturales Quaestiones. Se riscontri puntuali sono stati notati, resta però da precisare che i cosiddetti Vetusta Placita sono giunti a noi attraverso un doppio strato di epitomi: senza contare – ma questo non stupisce più di tanto – che non troviamo in Seneca riferimento a tale florilegio. Le argomentazioni addotte per rispondere a questo dubbio si basano da una parte sulla prevalente consuetudine antica di non citare mai i florilegi, dall’altra sulla prassi senecana per cui gran parte della produzione letteraria a lui precedente, fatte le dovute eccezioni, non sarebbe stata letta direttamente[13]. Riteniamo che la Quellenforschung sia comunque ancora aperta e suscettibile di nuovi risultati: lasciamo dunque la ricerca agli esperti in questo campo e ritorniamo al nostro testo.

Nella prefazione al II libro Seneca afferma che la ricerca nel suo complesso sull’universo si suddivide in caelestia (astronomia), sublimia (meteorologia) e terrena (geologia): la prima parte indaga la natura degli astri in base alla loro grandezza e alla loro forma, ovvero i fenomeni celesti così definiti in quanto si verificano nella zona più alta dell’universo; la seconda si occupa dei fenomeni che accadono tra cielo e terra (nubi, piogge, neve, grandine, terremoti e tutte le alterazioni provocate o subite dall’aria); la terza parte si occupa di tutta la fenomenologia riguardante il suolo terrestre (tra geologia e geografia). La collocazione dei terremoti nei sublimia è spiegata dallo stesso Seneca attraverso la dottrina pneumatica in base alla quale tale fenomeno, pur rientrando propriamente nella geologia, di fatto è trattato alla stregua di un fenomeno meteorologico in quanto causato dall’aria: penetrata nella terra attraverso le sue porosità e non potendo più uscirne, essa finisce per causare gravi scuotimenti sussultori e ondulatori.

Per considerare più da vicino la trattazione dei singoli libri osserveremo innanzitutto che la scelta degli argomenti non sembra dettata da un intento particolare: l’unico legame sembra sussistere tra i libri III e IVa, tra la trattazione delle acque e quella del Nilo. […]. Il libro I si apre dunque con una lunga praefatio che, con tono e stile assai elevati, invita gli uomini a sollevarsi dalla propria pochezza verso la conoscenza di Dio a cui è possibile giungere solo attraverso lo studio attento della natura. Quindi, vengono trattati i fuochi celesti, non solo le meteore ignee di vario genere (la tipologia è assai vasta), ma, in particolare, gli aloni, l’arcobaleno, le verghe, i pareli e i paraseleni. Il libro II, dopo aver avanzato considerazioni di carattere generale sull’aria e sulla terra, prende in esame i tuoni, i fulmini e i lampi, non senza dedicare largo spazio alle opinioni degli scienziati antichi, tra cui Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Diogene di Apollonia, nonché al potere divinatorio del fulmine: nell’ampia digressione (capp. 32-52) non mancano riferimenti alla dottrina etrusca che Seneca mostra di conoscere assai bene e al rapporto tra divinità e fato. Il terzo analizza la diversa tipologia delle acque terrestri con riferimenti a teorie aristoteliche come quella presente in De gener. et corrupt. 2, 4, ovvero la reciproca mutabilità dei quattro elementi originari: nel cap. 10 è sostenuto, infatti, il concetto che anche la terra si può trasformare in acqua. E non meno interessante, al cap. 15, l’analogia istituita tra la terra e il corpo umano, secondo un principio medico di origine greca (forse Prassagora di Coo): come nelle vene scorre il sangue e nelle arterie l’aria, così nella terra scorrono insieme aria e acqua[14]. Il libro IVa presenta una lacuna nell’ultima parte: si conservano la praefatio imperniata sul sentito problema dell’adulazione e la parte relativa al Nilo e alle sue piene. Il libro IVb è, invece, acefalo e a noi è giunta solo la parte relativa alle nubi, alla grandine e alla neve. Il libro V considera i venti e la loro origine senza trascurare le brezze, i turbini, nonché la rosa dei venti e i venti locali. Il libro VI, come abbiamo già detto sopra, è tutto dedicato allo studio dei terremoti, mentre il libro VII si occupa delle comete riservando largo spazio alla dossografia relativa allo studio del fenomeno.

Un’analisi delle N.Q. non può prescindere, innanzitutto, dal confronto con la produzione scientifica greca: di fronte a questo problema la prima risposta che ci diamo è che, richiamando i testi scientifici greci, le N.Q. non sembrano davvero distinguersi per originalità di contributi. Stahl[15], nel libro dedicato alla scienza romana, sostiene che essa «si mantenne sempre su un pino decisamente mediocre» e addirittura qualcuno[16] ha affermato che non c’è scienza romana. Pur senza essere così categorici, non si può negare che i Romani non hanno saputo sviluppare né superare l’alto livello scientifico e tecnologico raggiunto dalla civiltà greca, in particolare ellenistica: oltre ad Euclide e Archimede, numerosi furono in quel periodo gli scienziati a cui è debitrice la stessa scienza moderna: Eratostene è stato il primo matematico che ha fornito la misura della lunghezza del meridiano terrestre, mentre Aristarco di Samo ha ideato l’astronomia eliocentrica. Ebbene, prescindiamo pure da «Varrone, esponente di una cultura prescientifica, del tutto estranea alla scienza. Gli scrittori romani di epoca imperiale, come Plinio e Seneca, sono invece affascinati dalla lettura di opere scientifiche ellenistiche delle quali, non potendo seguire la logica delle argomentazioni, apprezzano le conclusioni proprio perché giungono loro inaspettate e meravigliose; credono quindi di poter emulare i loro modelli eliminando i nessi logici o sostituendoli con connessioni che, anche se arbitrarie, sono più facilmente immaginabili e portano più rapidamente al risultato voluto, che è la meraviglia del lettore»[17]. Così Plinio, Nat. hist. XI 29, nello spiegare la vita delle api, sostituirà alla dimostrazione scientifica del greco Pappo[18] la seguente semplicistica spiegazione a proposito della forma esagonale delle celle dei favi: «Ogni cella è esagonale, perché ognuna delle sei zampe dell’ape ha fatto un lato». E Seneca non è meno ascientifico quando sostiene in N.Q. II 31, 1 e 53, 1 che il vino colpito dal fulmine si congela, tornando allo stato liquido dopo non più di tre giorni e allora uccide o rende pazzo chi lo beve: al motivo di tale fenomeno egli avrebbe dedicato ricerche personali. Se, invece, guardiamo al resto della produzione scientifica latina, dovremmo prendere atto che, in questo ambito, l’opera senecana costituisce la trattazione più rappresentativa e forse l’unica in questo campo di prosa scientifica a orientamento filosofico: del resto, a Roma[19], specialmente nel I sec. dell’Impero, vi fu «une véritable vie scientifique».

Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

Se altri autori hanno inteso inoltrarsi nel mondo della natura per cercare di comprendere gli intimi meccanismi e misteri, di nessuno a noi è giunta una trattazione articolata, anche se non del tutto coerente, come le Naturales Quaestiones. Più che opere scientifiche nel senso stretto, il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio[20] rientrano nel genere del poema didascalico, anche se entrambi, ma soprattutto Lucrezio, ne fanno un uso assai originale. Nell’uno, la trattazione della fisica epicurea è il tramite per assicurare agli uomini la serenità e liberarli dalla paura della morte, nell’altro, l’indagine degli astri, in una visione assolutamente stoica, diviene il mezzo per garantire all’umanità quel grado di conoscenza di certi fenomeni necessario per comprendere la legge cosmica. Ma l’intento poetico e il fervore filosofico allontanano le due opere dai postulati di una trattazione scientifica: anche in Seneca, come vedremo, la compresenza di scienza e filosofia diminuirà sovente la severità del trattato, ma restano comunque la vastità del materiale esaminato e, almeno in quelle sezioni, la ricerca di un’adesione alla mentalità scientifica.

Interesse per l’astronomia, di fatto coincidente con l’astrologia, aveva avuto in era repubblicana Nigidio Figulo[21], autore di diverse opere, tra cui anche un trattato De vento, riconducibile sempre ai suoi interessi astrologici. A lui si rifà Igino[22], forse il bibliotecario di Augusto, nel suo trattato sull’Astronomia, in quattro libri, in cui si occupa di costellazioni, di cosmologia e dei movimenti della sfera celeste. E potremmo aggiungere anche Pomponio Mela[23], vissuto sotto Claudio, che, nei tre libri De chorographia, seppur corredati di informazioni piuttosto arretrate, ci informa sulle conoscenze geografiche dei Romani.

Come si evince dalla praefatio all’opera di Pomponio Mela, era presente negli antichi la consapevolezza che la trattazione scientifica e tecnica rientrava nei canoni di un genere «minore»[24]: lo riscontriamo nell’epistola prefatoria del De architectura di Vitruvio così come in quella diretta a Tito nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio[25].

Un simile atteggiamento non traspare in alcuna delle prefazioni superstiti delle Naturales Quaestiones: non in quella dei toni moralistici del libro III, che molti ritengono il primo dell’ordinamento originale, non in quella del libro I: questo assai probabilmente non rappresenta il vero inizio dell’opera senecana, anche se proprio l’impegnativo prologo e l’argomento si presterebbero. Ma se pure il trattato si aprisse, come in molti manoscritti, con il libro IVb giuntoci acefalo, l’attuale primo, secondo la felice teoria del «proemio al mezzo», costituirebbe un luogo deputato per «dichiarazioni di poetica», ovvero per affermare un programma letterario nelle forme più consapevoli. Ebbene, che le Naturales Quaestiones si distinguano dal resto della produzione scientifica latina lo si può intuire subito se mettiamo a confronto proprio la praefatio del primo libro con quelle citate sopra, a cui possiamo aggiungere la praefatio agli Astronomica di Manilio: non c’è alcun riferimento a un presunto senso d’inferiorità nei confronti dei generi alti. Potrebbe bastare questa differenziazione a farci comprendere che Seneca non sentiva, nelle Naturales Quaestiones, un impegno diverso dalle altre opere morali e l’andamento ha in effetti i toni di tanti Epistulae morales. Ampia e articolata (ben cento paragrafi), essa non è legata al resto dell’opera se non nella misura in cui vuole chiarire il vero intento di Seneca al lettore-discepolo: così lo scienziato indossa le vesti del maestro filosofo e la scienza diventa il tramite per il raggiungimento della virtù. Secondo la teorizzazione esposta nelle Epistulae (89[26], ma soprattutto 88[27] e 90[28]), la philosophia si differenzia dalle ceterae artes come, all’interno della philosophia medesima, l’ambito etico (philosophia moralis) si distingue quello fisico (philosophia naturalis): Quantum inter philosophiam interest, Lucili virorum optime, et ceteras artes, tantum interesse existimo in ipsa philosophia inter illam partem quae ad homines et hanc quae ad deos pertinet (praef. 1). Alzare gli occhi al cielo, arrivare alla luce dalle tenebre terrene, penetrare nei profondi recessi della natura è conoscere Dio e misurare la nostra piccolezza: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit (praef. 5) e, alla fine, sciam omnia angusta esse mensus deum (praef. 17). L’impianto filosofico che Seneca intende dare alle sue ricerche scientifiche appare chiaro fin dall’esordio e tutta l’opera mostra l’urgenza del suo impegno: «Se la filosofia s’identifica con la scienza e la filosofia tende al perfezionamento morale, anche la scienza deve tendere al perfezionamento morale»[29].

L’impostazione dei libri, almeno di quelli completi, procede in modo simile e le argomentazioni filosofiche possono essere presenti, oltre che nelle praefationes, anche negli epiloghi e nelle digressioni.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Oltre che il libro I, le riflessioni del filosofo morale animano il proemio del III (forse l’originale libro I) in cui si ribadisce il concetto che lo studio della natura aiuta l’uomo ad allontanarsi dalle cose terrene e a comprendere i veri valori della vita: Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam: primo discedemus a sordidis; deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est, seducemus a corpore; deinde in occultis exercitata subtilitas non erit in aperta deterior; nihil est autem apertius his salutaribus quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur, quae damnamus nec ponimus (praef. 18).

L’incipit del libro IVa è una lunga condanna dell’adulazione e i toni che Seneca assume sono assolutamente quelli del predicatore e del maestro di virtù. L’invito a tenersi lontano dalla folla e a non prestare il fianco all’adulazione (a turba te, quantum potes, separa, ne adulatoribus latus praebeas, praef. 3) è un consiglio che ritroviamo nel De brev. vitae 18, 1 o nelle Ep. 7, 1; 8, 1; 10, 1: la conferma della propria saggezza «aristocratica»[30]. Analogamente l’invito rivolto a Lucilio affinché rivolga ogni suo interesse su se stesso (Fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum, praef. 20) si configura con la sentenziosità ricorrente nelle opere filosofiche: De tranquillitate animi 17, 3; De brev. vitae 2, 5[31]. Pur nella loro brevità, anche le aperture dei libri VI e VII offrono spunti di riflessione morale: la prima, invitando gli uomini a razionalizzare la paura dei terremoti (nullum malum sine effugio est, VI 1, 6), la seconda, a superare uno stadio di ottusità per innalzarsi verso il divino, ovvero verso la perfezione (Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad divina non erigatur ac tota mente consurgat, VII 1, 1).

Nell’organizzazione di ogni libro, dunque, alla prefazione, più o meno articolata, segue l’analisi del singolo fenomeno naturale e sono discusse le diverse teorie degli autori che lo hanno esaminato: quindi, si apre l’argomentazione di Seneca, che può accettare la tesi di altri o proporne una propria, di solito in linea con gli Stoici[32].

In pendant con la prefazione, il libro è provvisto di un epilogo. Nel I libro, dopo aver cercato di spiegare certi fenomeni (l’arcobaleno e i fuochi celesti) con la teoria speculare, Seneca introduce una digressione sull’uso perverso degli specchi, prendendo come esempio un personaggio sconosciuto, Ostio Quadra, che di essi si era servito in modo dissoluto. È l’occasione per mostrare la decadenza dei costumi e per condannare uno strumento che dovrebbe essere usato per diventare più virtuosi e non per abbandonarsi al vizio. Al termine del II libro compare una lunga riflessione sull’importanza di conoscere la teoria dei fulmini. Liberarsi dalla paura dei fulmini significa liberarsi anche da quella della morte[33] a cui nessuno può sottrarsi: O te dementem et oblitum fragilitatis tuae, si tunc mortem times cum tonat! (59, 9); eo itaque fortior aduersus caeli minas surge et, cum undique mundus exarserit, cogita nihil habere te tanta morte perdendum (59, 11). Il filosofo morale ricompare accanto allo scienziato anche al termine del III libro: alla descrizione «drammatica» del diluvio segue una breve riflessione sul ritorno del mondo all’antico ordine, secondo la nota teoria stoica della palingenesi del cosmo. Ma lo stato di innocenza non durerà a lungo poiché cito nequitia subrepit. Virtus difficilis inventu est, rectorem ducemque desiderat: etiam sine magistro vitia discuntur (30, 8). Analogamente il V libro si chiude con un’ampia argomentazione sul cattivo uso dei venti da parte degli uomini e, richiamando il ben noto tópos diatribico dei mali derivati dalla navigazione oltre i confini e dalle guerre di conquista. Seneca conclude minima esse quae homines emant vita. Immo, Lucili carissime, si bene illorum furorem aestimaveris, id est nostrum (in eadem enim turba volutamur), magis ridebis, cum cogitaveris vitae parari in quae vita consumitur (18, 16). Anche dalla conoscenza dei terremoti e delle loro cause (libro VI) l’uomo può trarre vantaggio e divenire più forte, il che, per il filosofo, conta maggiormente che divenire più dotto: ma l’uno non può sussistere senza l’altro, poiché la forza dell’animo proviene dai buoni studi e dallo studio della natura (non enim aliunde animo venit robur quam a bonis artibus, quam a contemplatione naturae, 32, 1). Comprendere che la morte è una legge di natura significherà affrontarla con animo sereno e addirittura (con la consueta ricerca senecana dell’effetto) andarle incontro (effice illam tibi cogitatione multa familiarem, ut, si ita tulerit, possis illi et obviam exire, 32, 12). Nei tre capitoli che chiudono il VII libro (30-32), Seneca ripete ampiamente il giudizio morale negativo sull’umanità che progredisce solo nel vizio, anziché concentrarsi sulla scienza e sulla conoscenza del divino. Ma le riflessioni si allargano a considerare la necessità di uno studio approfondito della natura a cui sono invitati i contemporanei e, insieme, le generazioni future: ne consegue una esaltazione del progresso scientifico (30, 5), che, secondo la prassi antica, andava distinto da quello tecnologico, nei confronti del quale sussiste la piena condanna[34]. Come è detto nell’Ep. 90, le conquiste tecnologiche nascono dal vizio, ma le conoscenze scientifiche aiutano il raggiungimento della virtù e quindi rientrano nelle competenze del filosofo. Per questo le amare considerazioni sulla decadenza delle scuole filosofiche[35], presenti nel cap. 32, sottolineano con forza lo stretto legame di questo problema con il dilagare della corruzione e il venir meno della virtù.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Non negheremo comunque che l’interesse di Seneca per la scienza fosse sincero e, del resto, sappiamo che lo aveva coltivato fin da giovane, scrivendo un trattato sui terremoti e altre opere scientifiche perdute: all’opera giovanile De motu terrarum allude egli stesso in VI 4, 2. Ma, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, sull’interesse scientifico si afferma la passione del filosofo, sulla scienza trionfa l’etica. In questo risiede il limite scientifico, se ci accostiamo alle analisi condotte nella prospettiva di uno scienziato moderno, eppure, in questo, si condensa l’impronta originale di un pensatore complesso e acuto che non riesce a distaccarsi dalla forte esigenza morale presente nel resto della sua produzione.

Gli studi compiuti sulle Naturales Quaestiones, numerosi, negli ultimi anni, hanno messo a fuoco tradizione e originalità: alcuni approfondendo la compresenza di scienza e filosofia[36], altri cercando di riconoscere la realtà dei dati riportati[37], altri indagando sul forte peso delle trattazioni scientifiche greche[38], altri soffermandosi in modo particolare sul rapporto con il resto della produzione senecana[39].

Una lettura critica delle Naturales Quaestiones non può ignorare i tanti contributi: eppure, è un’opera che ancora necessita di un’analisi d’insieme in cui, oltre a indagare sulle peculiarità della parte scientifica o le modalità della riflessione filosofica, si approfondisca e si metta in luce il rapporto tra forma e contenuto: si tratta dunque di un’analisi che evidenzi i diversi livelli linguistici e di stile nelle sezioni prettamente scientifiche da una parte, e dall’altra nelle sezioni (prefazioni, epiloghi e digressioni) ove prevale l’impegno filosofico o il tono moralizzante o l’attitudine predicatoria. Se, infatti, la filigrana di lettura è questa compresenza di scienza e morale, l’una condizionante l’altra, le scelte stilistiche nonché la ricchezza espressiva del linguaggio senecano costituiscono gli strumenti indispensabili per cogliere i movimenti profondi del suo pensiero.

Come abbiamo osservato sopra, le sezioni scientifiche seguono uno schema, non fisso, ma abbastanza regolare. Nella descrizione del fenomeno e della discussione delle teorie esistenti, non sembra che Seneca si preoccupi molto di ricostruire fedelmente i sistemi e i contorni storici degli autori citati; d’altra parte, raramente il fenomeno è spiegato in seguito a un’osservazione diretta e, quando si presenta il caso, si tratta sempre di brevi indicazioni. Prevale invece il principio[40] per cui la stessa esperienza è confrontata con la teoria già formulata, a conferma, cioè, di quanto è già noto, secondo un metodo che potremmo definire “deduttivo”, non induttivo: la conferma è data in parte dalla stessa frequenza delle formule che introducono la spiegazione del fenomeno «per analogia» o «verosimiglianza» (tam… quam; non aliter quam; ut… sic; veri ergo simile est; tale quiddam, ecc.). In I 12, 1, ad esempio, nell’esporre la teoria speculare, Seneca inizia con il riferimento all’esperienza dei catini pieni di olio o di pece per osservare meglio l’eclissi di sole; ma il ragionamento che segue è costruito su spiegazioni già esistenti richiamate da quemadmodum… ita (due volte) e sicut.

Ciò che sembra interessare maggiormente Seneca è invece l’esposizione di ipotesi diverse, più o meno condivisibili; anzi, quanto più sono complesse, tanto più sembra che gli interessino, come se discutere una pluralità di opinioni lo garantisse nella serietà del metodo d’indagine.

In questo confronto con gli autori che lo hanno preceduto, anche Stoici, non manca di dichiarare la sua libertà di vedute, criticando certe posizioni definite fabulae, mendacia o ineptiae: IVb 6, 1 non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; 7, 2 quanto expeditius erat dicere: mendacium et fabula est[41].

Un’esigenza sembra comunque essere primaria per Seneca ed è quella di dimostrare l’origine naturale dei fenomeni, quasi una prova di scientificità. Come è stato notato[42], tale atteggiamento non sempre è dichiarato apertamente, ma è certo presente in diversi passi dell’opera: particolarmente indicativo, nella sequenza di III 27-29 relativa al diluvio, il collegamento tra tale fenomeno e l’operato della natura: 27, 2 nihil difficile naturae est, utique ubi in finem sui properat. E anche se natura e Dio coincidono nella visione stoica del mondo, 28, 7 Utrumque fit, cum deo visum ordiri meliora, vetera finiri, è l’universo che racchiude in sé i suoi principi informativi, il sole, la luna, gli astri, gli animali e il diluvio che lege mundi venit, 29, 3. A riprova dell’intento senecano, la similitudine stabilita con l’organismo umano (già presente nello stoico Cleante), un’analogia che, diversamente articolata, ricorre in altri passi dell’opera (II 6, 6; V 4, 2; VI 14, 1-2, ecc.): anche nel seme (ut in semine) è contenuta la virtù informativa di tutto l’uomo futuro (omnis futuri hominis ratio) e il bambino non ancora nato racchiude in sé il principio che stabilirà la barba e i capelli bianchi (et legem barbae canorumque nondum natus infans habet).

Il manifestarsi di questa esigenza presuppone la stessa idealizzazione dello stato di natura, un concetto perdurante nello sviluppo del pensiero latino, a cui inevitabilmente è collegata la condanna del progresso, almeno di quello tecnologico. Qui sta il limite, come si è già accennato sopra, della ricerca scientifica a Roma. È evidente che a questa separazione tra scienza e tecnica avranno contribuito anche altri fattori, come quello socio-economico[43], ma è certo che Seneca rappresenta, nelle Naturales Quaestiones, l’autentico interprete del suo tempo: superiorità della teoria sulla pratica, dunque, e quindi del pensiero sull’attività manuale, aderenza e rispetto dei canoni «naturali» e, come logica conseguenza, l’inevitabile unione di scienza e morale, forse per la prima volta messa così bene in luce.

Siamo distanti dalla descrizione enciclopedica di Plinio il Vecchio, per il quale si trattava di mostrare i fenomeni della natura, in tutti i suoi aspetti, non di discuterne le cause: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias (Nat. hist. XI 8). Dietro a questo principio comprendiamo che l’unico atteggiamento possibile è quello del «catalogatore» o dell’archivista, che dovrà mettere ordine nello scibile umano[44] rischiando, in questo, di restare legato a una visione statica della realtà: più moderna la posizione critica di Seneca, per il quale lo studio della natura è un processo aperto agli sviluppi delle scoperte future (VII 30, 5 e 6; 32, 1).

Se consideriamo adesso le parti scientifiche da un punto di vista linguistico e stilistico, appare evidente che la costruzione si presenta assai simile a quella dei Dialogi[45]: non ci soffermeremo qui sull’analisi dettagliata dei singoli aspetti, catalogati con estrema minuzia da Vottero[46], che passa in rassegna ogni fenomeno dello stile senecano, ivi compresi quelli peculiari delle sezioni moralizzanti. Vorremmo limitarci, nell’esame di queste parti, a segnare le modalità del rapporto tra Seneca e il destinatario, ovvero l’amico Lucilio Iuniore, a cui erano stati dedicati anche le Epistulae, il dialogo De providentia e i perduti Moralis philosophiae libri e del quale molti elementi biografici sono forniti nella prefazione del libro IVa. A Lucilio si rivolge in maniera continua, talora citandolo per nome, altre volte con appellativi che denotano affetto e stima, cosicché egli diventa il vero interlocutore e il referente di domande, interrogazioni retoriche, generiche osservazioni e obiezioni. E può egli stesso porre questioni a Seneca, l’occasione fittizia per sviluppare una controtesi; in questi casi si ricorre a inquis o al più generico (e diatribico) inquit. Non basta. Dobbiamo sottolineare che anche l’inserimento, nel corso della trattazione teorica, delle citazioni poetiche talora ha la stessa funzione di una voce «altra», che si inserisce nel contesto «dialogico», quasi fosse un altro interlocutore. È il caso di molte citazioni ovidiane che, tratte per lo più dalle Metamorfosi, non hanno «funzione morale, ma il preciso scopo d’illustrare vividamente l’imponente gamma dei fenomeni naturali, colti nella tensione perenne del loro dinamismo metamorfico»[47]. L’osservazione vale naturalmente, e a maggior motivo, per le citazioni virgiliane che, considerando la devozione di Seneca verso il grande maestro, sono le più numerose: anch’esse non appaiono mai all’improvviso e s’inseriscono nella stessa concatenazione logica del pensiero senecano di cui evidenziano e chiariscono il nodo importante, soprattutto nei passi di riflessione filosofica e morale, in un ricco gioco polifonico. Con ciò, non dimenticheremo di evidenziare, accanto alla funzione morale delle citazioni poetiche, l’altra funzione che lo stesso Seneca torna speso a chiarire, ovvero la necessità di concedere una pausa di «alleggerimento stilistico» all’interno di una prosa impegnata, filosofica e scientifica: Ep. 58, 25 sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere; e l’una deve coesistere accanto all’altra: Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare[48].

Uno specchio da toletta con scena mitologica di Leda e il cigno, in argento lavorato a sbalzo. Pezzo del tesoro di Boscoreale, I secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

L’andamento espositivo delle parti scientifiche non si discosta, nei suoi aspetti essenziali, dalle altre opere senecane: una prosa serrata che non rinuncia alla variatio né al gusto delle sententiae e che, ugualmente, attinge al bagaglio retorico privilegiato, ovvero le interrogazioni dirette, le opposizioni, le metafore e la consueta ricchezza di figure retoriche, connotative dello stile senecano, ma se anche abbellire il suo periodare con la battuta inattesa (ἀπροσδόκητον) o la ricerca di parole nuove o inconsuete. Seneca è consapevole della difficoltà della materia trattata: così, per maggiore chiarezza, ricorre più volte all’accostamento del termine greco[49] a quello latino, oppure adopera l’attenuazione (uso del verbo solere, ad es., o ut(i), quando si mette a confronto con gli altri), oppure ricerca la forza chiarificatrice delle imagines derivanti dall’ambito militare, giuridico o medico. I periodi sono di solito caratterizzati dalla tipica concisione senecana, ma non mancano sequenze espositive lunghe e complesse, di certo in coincidenza con la trattazione di teorie discusse da più autori e di difficile interpretazione.

Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione a quelle parti dell’opera in cui, come abbiamo già rilevato più volte, Seneca concentra ogni interesse sulla finalizzazione dello studio della natura a scopi morali, ci troveremo coinvolti da uno stile appassionato e da un linguaggio ricco di sfumature e di effetti, che riconduce il lettore all’ambito predicatorio e filosofeggiante dei Dialogi, delle Epistulae, e, non ultimo, al pathos e alle rappresentazioni drammatiche delle Tragoediae. In effetti, oltre al consueto impiego degli strumenti retorici caratterizzanti lo stile senecano dell’«interiorità»[50], che personalizzano i tratti salienti delle prefazioni e degli epiloghi, possiamo individuare accenti e risorse descrittive di notevole originalità, in particolare nelle digressioni presenti all’interno della trattazione scientifica. Tutte hanno in comune, come scopo ultimo, l’invito a meditare sulla decadenza dei costumi e sulla malattia morale della società contemporanea, sull’allontanamento dallo stato di natura a opera del lusso e dei vizi degli uomini: sono temi ben noti, tante volte trattati da Seneca nel resto della sua produzione, e nel commento spesso richiameremo i confronti diretti. Ma è ovvio che la nostra attenzione è richiamata non tanto dalla novità degli argomenti quanto dalla particolare collocazione in un’opera scientifica.

Anticipata dalla teoria speculare che nel primo libro è introdotta per spiegare certi fenomeni naturali e agganciandosi strettamente alla fine del cap. 15 in cui si presentano certe caratteristiche degli specchi (8 sunt specula, quae faciem prospicientium obliquent, sunt quae in infinitum augeant, ita ut humanum habitum modumque excedant nostrum corporum), la digressione sull’uso distorto degli specchi da parte di Ostio Quadra prepara le riflessioni generali dell’epilogo nel cap. 17[51]. Il passaggio dalla sezione scientifica al racconto è segnalato quasi formularmente: Hoc loco volo tibi narrare fabellam[52], e fabella (come fabula) è un segnale immediato per il lettore che, attraverso il divertimento della storiella, arriverà a comprendere più facilmente il messaggio sotteso, ovvero la condanna della libido e della perversione nella società contemporanea[53]. La distorsione morale di Ostio Quadra è costruita attraverso un’insistenza continua della terminologia afferente all’ambito della corruzione, della malattia, della colpa, della mostruosità (monstrum, portentum, portentuosus), ma soprattutto del furor (16, 1 libido… ingeniosa… ad incitandum furorem suum). E il furor evoca tutta una casistica di personaggi che da tale passione sono trascinati fuori dalla razionalità e dai comportamenti da essa dipendenti: così Caligola o Ciro in De ira III 21. Ma furor significa anche spingersi oltre ogni limite nell’odio o nell’amore fino a portare i personaggi a livelli animaleschi: sono questi i protagonisti delle tragedie senecane, da Atreo a Medea. La bestialità di Ostio Quadra ci è segnalata dal termine admissarius per indicare il partner: il termine indica lo stallone in Varrone, De re rust. 2, 7. E ancora, in 16, 3, allorché la fantasia di Seneca si spinge ad auspicargli quasi una morte per autocannibalismo, il verbo usato è lancinare, un verbo che proviene dalla sfera animale e significa appunto sbranare: come Atreo (Thy. 778-779) lancinat gnatos pater / artusque mandit ore funesto suos.

Se la descrizione della lussuria di Ostio Quadra si pone in forte contrasto con i toni elevati della praefatio, in cui si celebra la luce divina a cui l’anima deve tendere attraverso lo studio della natura, nella fabella domina l’oscurità della colpa, anzi nessuna notte potrebbe nascondere le sue mostruosità: 16, 6 At illud monstrum obscenitatem suam spectaculum fecerat et ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est.

È la ricerca del paradosso, dell’effetto, ricercato con gli strumenti retorici, le dilatazioni linguistiche, le esasperazioni delle imagines che sta alla base della «sua» nuova drammaticità teatrale. Seneca intende scuotere gli animi per spingerli alla virtù e la via percorsa è molto vicina al linguaggio delle tragedie: dall’exemplum negativo l’uomo può risalire alla luce della conoscenza. A ben guardare, i tratti salienti della sua negatività altro non sono che il ribaltamento degli aspetti positivi della divinità: è questo il paradosso estremo a cui si può arrivare! Ostio Quadra si connota come un autentico dio al contrario, un dio del male, e celebra da sacerdote il parossismo libidinoso come Atreo, nella tragedia citata, aveva osannato il trionfo del suo odio: Thy. 885-888 Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi. Nel monologo finale (un’importante tessera di questo breve mosaico drammatico) Ostio Quadra appare fiero del suo furor che ha escogitato mezzi oltre i limiti consentiti dalla natura, collocandolo in una sfera sovrumana: 16, 8 inveniam, quemadmodum morbo meo et imponam et satisfaciam. La stessa scelta del verbo invenire ci riconduce di nuovo al linguaggio dei personaggi tragici, per i quali la volontà di superare la norma viene evidenziata più volte da espressioni analoghe: è ancora Atreo che parla in 273-275 Fateor, immane est scelus, / sed occupatum: maius hoc aliquid dolor / inveniat[54]. In questa ottica i richiami linguistici tra la prefazione e la fabella ci appaiono più comprensibili: se nella praef. 13 si parla della magnitudo di Dio qua nihil maius cogitari potest, in 16, 2 sono gli specchi che fanno apparire più grandi le immagini e si richiama la magnitudo del partner, anche se falsa, (specula) imagines longe maiores reddentia… ac deinde falsa magnitudine ipsius membri tamquam vera gaudebat[55]. Questo meccanismo (consapevole o meno), che prevede la costruzione del personaggio «annerendo» i modelli positivi, è rintracciabile in altri confronti: così, ad es., il filosofo, in I praef. 3, dichiara che la sua conoscenza della natura non si limiterà agli aspetti esteriori, ma s’inoltrerà nei recessi più profondi (secretiora); analogamente, al negativo, Ostio Quadra non si contenterà di vedere, ma vorrà vedere meglio le sue nefandezze, con l’aiuto degli specchi. La «prova oculare», richiamata quasi ossessivamente nella fabella, rinvia, per contrasto, all’insistenza del vedere con gli occhi della mente presente nella praefatio, istanza primaria del filosofo-maestro[56]. Come ultima riprova di questa operazione senecana di «annerimento», vorremmo aggiungere il confronto con il protagonista di un exemplum positivo, un certo Tullio Marcellino, in Ep. 77, 5-9, in particolare per il ruolo della servitù. Avendo deciso di suicidarsi, servi parere nolebant, tanto erano a lui devoti, e, in punto di morte, distribuì loro del denaro mentre essi piangevano e cercò di confortarli: 8 minutas… summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. Ostio Quadra, al contrario, come fosse un tiranno, era odiato dai suoi servi al punto che saranno proprio loro a ucciderlo e il divino Augusto stesso ritenne che l’uccisione non dovesse essere vendicata, anzi, quasi dichiarò pubblicamente che era stato ucciso a ragione, 16, 1 et tantum non pronuntiavit iure caesum videri.

Specchio con figura maschile. Argento, I sec. d.C. da Pompei, Casa del Menandro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Come nella fabella di Ostio Quadra, ritroviamo lo stesso stile prorompente, figurato, ridondante in altre digressioni delle Naturales che sono accomunate dall’ansia moralistica del vecchio[57] filosofo e da un profondo pessimismo che emerge proprio nelle parti moraleggianti, un pessimismo comune a tante pagine delle Epistulae, forse una conferma che l’opera è stata probabilmente composta nel periodo tardo, dopo il ritiro dalla vita pubblica, più o meno contemporaneamente alle altre opere dedicate a Lucilio: concorre una serie di indicazioni temporali che delimitano il periodo agli anni dopo il 60, forse 62-63 d.C.[58]

È stato osservato molto giustamente che «la fabella di cui Ostio Quadra è il protagonista è un punto di condensazione del linguaggio moralistico: vi troviamo, in sovrabbondanza, i tratti di quel moralismo di tipo “sistematico” che abbiamo inizialmente rilevato in Seneca, ma uniti a una particolare ricerca di profondità simbolica»[59]. In effetti, come abbiamo visto, lo specchio è un oggetto con notevole valore simbolico in quanto, pur essendo un prodotto della natura, diventa poi, nelle mani di Ostio Quadra, lo strumento per saziare la sua lussuria e quindi l’elemento da cui muovere per una più profonda analisi della decadenza dei costumi (vd. cap. 17).

Un’analoga funzione di utilizzazione distorta di un oggetto «buono» la si può ritrovare nelle altre digressioni a fine moralistico presenti nelle Naturales: si tratta della morte della triglia in III 17-18, dei mangiatori di neve in IVb 13 e dell’affine fabula delle miniere in V 15. Preceduto da una descrizione a fosche tinte del mondo sotterraneo, del tutto assimilabile al paesaggio infernale e alla natura delle tragedie, abitato da animalia tarda et informia e da pesci che si scavano (eruuntur) anziché essere pescati, ha inizio l’inquietante affresco di un convivio malato, alla ricerca di sensazioni che accontentino gli occhi prima che la gola (oculos ante quam gulam, III 17, 3). Come in I 16, la lussuria è appagata dal «vedere»; qui la depravazione consiste nell’assistere alla morte di un pesce che poi verrà consumato e Seneca si sofferma, con dettagli quasi ossessivi, sullo spettacolo offerto dal cambiamento del colore, nel trapasso dalla vita alla morte: siamo molto vicini a quel gusto dell’orrido che informa le macabre descrizioni tragiche. Lingua e stile, in un unico sforzo, concorrono a evidenziare la perversione di uomini appartenenti alla classe sociale ricca, di uomini che non esitano a disertare il funerale di un parente, che rappresentava, per gli antichi, un momento importante e di coesione: ora non esiste più nemmeno il valore della tradizione, esiste solo la spasmodica ricerca, in particolare visiva, del piacere (III 18, 7 oculis quoque gulosi sunt) e quasi una follia collettiva all’inseguimento di sensazioni nuove (III 18, 3 tantum ad sollertiam luxuriae pereuntis accedit, tantoque subtilius cotidie et elegantius aliquid excogitat furor usitata contemnens!).

Anche la fabula di V 15, nel raccontare la spedizione ordinata da Filippo per verificare lo stato di una vecchia miniera, riconduce al tema dell’avaritia e dei vitia degli uomini che, per amore del guadagno, si spingono fino nelle profondità della terra a rischio della loro vita. L’oscurità del mondo sotterraneo, ancora una volta metafora della colpa, desta terrore (V 15, 1 non sine horrore visos) e, come in III 16, 5, evoca le tenebre infernali: là dove hanno osato discendere, potranno conoscere terrarum pendentium habitus ventosque per caecum inanes… et aquarum nulli fluentium horridos fontes et alteram perpetuamque noctem, V 15, 4. In un contesto di studio sulla natura come le Naturales, appare davvero distante una tale rappresentazione «innaturale» (si ricordino i pesci scavati!) e irreale. È l’ansia moralistica di Seneca che, nell’indicare le vie percorse dagli uomini per la loro rovina, violando la natura e i suoi misteri, non esita a introdurre descrizioni che lo avvicinano, ad es., ad Albinovano Pedone, trasmessoci da Seneca retore, Suas. 1, 15: in comune una natura senza luce, vaga e spaventosa, lo scenario per la sua dissuasio da imprese empie per troppa audacia e quindi sacrileghe, riferita alle conquiste militari e alla sete di dominio[60].

In una sequenza contraddistinta da un forte uso dell’ossimoro (4 pauperrimum… divitiae) e dalla ricorrente intensificazione di termini attinenti alla sfera della sete (5 aestus, ebrietas, torret, incalescit, ecc.) nonché a quella del commercio (3 mercemur, emere, emptus), ritroviamo l’utilizzazione deformata di un oggetto appartenente alla natura da parte di uomini ricchi e lussuriosi: si tratta della neve e dei mangiatori di neve in IVb 13.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

La digressione prende inizio dall’obiezione del discepolo Lucilio, che pone al maestro la domanda a cui Seneca ha risposto più volte nel corso dell’opera: perché soffermarsi sullo studio di certi aspetti della natura, in questo caso, della neve, quando si potrebbe divenire migliori sapendo perché essa non la si debba comprare? E il maestro risponderà con una lunga analisi del commercio e della consumazione della neve, che, in quanto acqua e, soprattutto, aria, non è niente: l’acqua stessa contra se ingeniosa luxuria redegit ad pretium: adeo nihil illi potest placere nisi carum, IVb 13, 4. In I 16, similmente, a proposito di Ostio Quadra, era la libido a essere ingeniosa… ad incitandum furorem suum. Questa società di ricchi, annoiati dal troppo cibo e dal benessere, ha reso la neve un bene commerciabile e ha «inventato» il modo di pressarla per superare l’estate (13, 3 invenimus quomodo stiparemus nivem ut ea aestatem evinceret). Come nelle altre digressioni, anche qui diviene importante la funzione visiva (10 videbis) sulla rappresentazione di uomini pallidi e ammalati (10 graciles et palliolo focalique circumdatos, pallentes et aegros) in preda all’arsura dei cibi e al gelo della neve: senza attenuazioni, febris est (11). Con un linguaggio fortemente metaforizzato Seneca ci offre ancora un esempio di trionfo della luxuria sulla ratio: 11 luxuria invictum mallum et ex molli fluidoque durum atque patiens! È il paradosso che chiude la digressione: la lussuria finisce per assumere addirittura le doti essenziali del saggio e dell’ottimo Romano, e forse più di questo non si poteva dire![61]

Vorremmo terminare l’analisi sulle diverse modalità del linguaggio e dello stile senecano nelle digressioni o excursus a sfondo moraleggiante e filosofico con alcune osservazioni sulla rappresentazione apocalittica del diluvio universale nel cap. 27 del III libro (l’argomento è presente anche nei capitoli finali 28-30). All’interno della trattazione sulle acque e sui mari, Seneca, consapevole di allontanarsi dall’argomento trattato, apre così il suo excursus: Sed monet me locus ut quaeram, cum fatalis dies diluvii venerit, quemadmodum magna pars terrarum undis obruatur. Segue un grandioso affresco dell’evento o κατακλυσμός, che, secondo la visione stoica, accompagnava l’ἐκπύρωσις alla fine di un ciclo nella vita del mondo, o anno cosmico[62]. Di nuovo la domanda: come si concilia tale descrizione con un’opera scientifica? Potremmo ipotizzare un pezzo di bravura per allentare la pesantezza della trattazione teorica, se i particolari descrittivi non fossero di così vasto respiro e se le finezze psicologiche nell’analisi degli stati d’animo non ci riconducessero ancora una volta alla profonda conoscenza dei sentimenti umani mostrata da Seneca in tanti passi delle sue opere filosofiche. In effetti, come nelle digressioni esaminate precedentemente lo specchio, la triglia, la neve rappresentavano oggetti «naturali», sui cui uso distorto si innestava la riflessione moralistica, così anche il diluvio nasce dalla natura ed è una legge dell’universo: all’origine il mondo racchiudeva in sé gli astri, gli animali e tutti quegli elementi da cui un giorno esso sarebbe stato cambiato (III 29, 34 In his fuit inundatio, quae non secus quam hiems, quam aestas, lege mundi venit… omnia adiuvabunt naturam, ut naturae constituta peregantur). Ma il senso sotteso è una riflessione ricorrente nel pensiero filosofico di Seneca: è il concetto che i casi della fortuna possono colpire, come e quando vogliono, opere umane e naturali: Ep. 91, 11 iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant. Anche il diluvio, dunque, è un accadimento previsto dalla natura e avrà fine una volta che sarà portata a compimento la rovina del genere umano, dopodiché avrà inizio una nuova era d’innocenza per l’umanità, l’età dell’oro; ma ben presto ritornerà la corruzione: 30, 8 cito nequitia subrepit. Le digressioni, dunque, non appaiono mai sganciate dalla natura e dai suoi elementi e le accomuna l’accostamento di costanti spunti di ragionamenti moralistici e filosofici, in uno stile serrato e figurato, teso alla ricerca di sensazioni forti e linguisticamente innovativo. In particolare, nella rappresentazione del diluvio, Seneca gareggia con il modello Ovidio, che in Met. I 253-312 aveva descritto il diluvio universale: ma alla descrizione epica ovidiana egli contrappone una rappresentazione che, nei suoi elementi costitutivi, è raffigurata con tinte forti, drammatiche, riecheggianti passi delle sue tragedie[63]. L’intensificazione drammatica è raggiunta attraverso l’insistenza crescente (αὔξησις) dei motivi: la nox e la mancanza della luce solare (cfr. Oed. 1-5), la nebbia fitta, la mancanza di vento, i crolli progressivi (27, 6 nihil stabile est), la paura e lo sbigottimento. L’apparato epico ovidiano affidato all’intervento divino è del tutto assente ed è sostituito da una visione catastrofica dell’evento, narrata al presente, per renderne più potente la drammaticità: se poi Seneca si permette di criticare il suo modello (sono sciocchezze aver detto che il lupo nuota tra le pecore!)[64], non viene comunque meno l’ammirazione per i suoi versi, e appare chiaro che il poeta tragico, più che il filosofo stoico, ha cercato il superamento del modello.

A ripercorrere la nostra analisi, ne scaturisce una complessità di motivi che rendono le Naturales Quaestiones una delle opere più rappresentative di Seneca, ma certo gli aspetti più originali sembrano proprio questa compresenza di interesse morale, filosofico e di studio scientifico, il dialogo continuo tra il maestro e il discepolo e, non ultimo, la potenza stilistica insieme all’intensità delle parole e dei colores.

Paul Merwart, Deucalione solleva la sposa. Olio su tela, 1880.

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Note:

[1] Molte buone osservazioni in O. Gilbert, Die meteorologischen Theorien des griechischen Altertums, Leipzig 1907 (rist. Hildesheim 1967).

[2] H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, vol. I 1903, 19526; vol. II 1903, 19526; vol. III 1910, 19526: nel commento le citazioni saranno indicate con la sigla D.-K.; e A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, Milano 1991.

[3] Aristotele, Meteorologica, ed., trad. e note di P. Louis, Paris 1982: nell’introduzione è discussa l’autenticità del libro IV che l’editore sostiene con vari argomenti: sarebbe stato composto da Aristotele, pur non corrispondendo che imperfettamente al progetto iniziale dell’autore (p. xviii).

[4] D. Vottero, Fonti e dossografia nelle “Naturales quaestiones” di Seneca, RAALBAN 61 (1987-1998), pp. 5-42.

[5] Sappiamo con certezza che l’opera aristotelica era nota ad Eratostene nell’elaborazione della teoria sulla formazione dei fiumi attraverso le acque fluviali, in particolare per la spiegazione delle piene del Nilo dovute alle piogge abbondanti (Proclo, In Plat. Tim. 37d). E possiamo aggiungere Strabone, Geografia IV 1, 7, che ricorda il parere di Aristotele per spiegare con un avvenuto terremoto la presenza di massi nella regione francese di Crau. Oltre a Seneca, del cui debito ad Aristotele avremo modo di occuparci ripetutamente nel commento, è probabile che lo stesso Lucrezio se ne sia ricordato quando descrive la violenza dei tifoni (VI 422 sgg.).

[6] Fra gli studi esistenti ricordiamo: E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen 1855-68, 19235, rist. Hildesheim 1963; H. Diels, Kleine Schriften zur Geschichte der antiken Philosophie, Hildesheim 1969, p. 384 (rist. di AKPAWB 3 [1885], p. 8).

[7] II 26, 6; II 30, 1; V 15, 1; VI 17, 3; VI 22, 2.

[8] I 5, 10; I 5, 13; II 26, 4; II 54, 1; IVb 3, 2; VI 21, 2; VI 24, 6; VII 20, 2; VII 20, 4.

[9] Oltre all’articolo citato, rinviamo all’Introduzione delle Naturales Quaestiones, Torino 1990, pp. 26 sgg.

[10] Cfr. Vottero, Introd., pp. 29 sgg.

[11] Cfr. Vottero, Introd., pp. 32 sgg.: rinviamo alla sua precisa e ricca analisi per la trattazione del problema.

[12] H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin 1879 (rist. 1965), Prolegomena, pp. 214 sgg.

[13] Tra la biografia relativa a tale questione, ci limitiamo a citare J. Borucki, Seneca philosophus quam habeat auctoritatem in aliorum scriptorum locis afferendis, Diss. Borna-Leipzig 1926: la sua posizione è diversa da quella discussa subito sopra nella misura in cui sostiene che Seneca avrebbe, invece, letto molto, anche degli autori precedenti.

[14] Si rinvia al commento, ad loc. Su questo problema vedasi M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Firenze 1967, I, pp. 171 sgg.

[15] W.H. Stahl, La scienza dei Romani, trad. it., Roma-Bari 1974, p. 5.

[16] J. Beaujeu, Les Romains et la science, in La science antique et médiévale (des origines à 1450), Paris 1957, p. 310.

[17] L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 1996, pp. 226 sgg.

[18] Collezione, V, parte I, 1-2: egli spiega che la forma esagonale delle celle risponderebbe a un principio di ottimizzazione, in quanto tale forma geometrica, dato l’alto rapporto area-perimetro, garantisce più miele.

[19] J. Beaujeu, La vie scientifique à Rome au premier siècle de l’Empire, Conférence faite le 6 Avril 1957, Université de Paris 1957, p. 10.

[20] Buone osservazioni si leggono in E. Romano, Struttura degli ‘Astronomica’ di Manilio, AAPal 2 (1979), e in C. Salemme, Introduzione agli ‘Astronomica’ di Manilio, Napoli 1983.

[21] A. Della Casa, Nigidio Figulo, Roma 1962.

[22] A. Le Boeuffle, Hygin, L’astronomie, Paris 1983, e Hyginus De Astronomia, edidit G. Viré, Stuttgart-Leipzig 1992.

[23] Pomponii Melae De Chorographia libri tres, introd., ed. crit. e comm. a cura di P. Parroni, Roma 1984.

[24] P. Parroni, Scienza e produzione letteraria, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, La produzione del testo, Roma 1989, pp. 469-505: il problema è affrontato con precisione nei suoi aspetti più importanti e i contributi, di cui abbiamo tenuto conto, sono davvero numerosi.

[25] T. Janson, Latin Prose Preface, Studies in Literary Conventions, Stockholm-Götenborg-Uppsala 1964; A. Locher, The Structure of Pliny the Elder’s Natural History, in R. French – F. Greenaway, Science in the Early Roman Empire: Pliny the Elder, his Sources and Influence, London-Sydney 1986; AA.VV., Prefazioni, prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, a cura di C. Santini e N. Scivoletto, Roma 1990.

[26] Viene introdotta, nei paragrafi 9-17, la tripartizione della philosophia in moralis, naturalis, rationalis: alla prima Seneca dedicherà i suoi maggiori interessi, della seconda, che comprende anche la metafisica e la teologia, secondo la dottrina stoica che identificava Dio e la natura, si occuperà nelle Naturales, la terza, la logica, non è ricordata nella praefatio.

[27] La philosophia insegna la virtù, quindi l’arte del vivere; le artes vulgares, ludicrae, pueriles e liberale abbracciano diversi aspetti dello scibile e rientrano quindi nell’ambito della cultura e dell’erudizione, ma hanno solo una funzione propedeutica rispetto alla filosofia. Sull’interpretazione dell’Ep. 88, si veda A. Stückelberger, Senecas 88. Brief. Über Wert und Unwert der freien Kunste, Text, Übersetzung und Kommentar, Heidelberg 1965.

[28] Seneca polemizza con Posidonio che aveva attribuito ai sapientes l’invenzione delle artes e intende ribadire la superiorità del pensiero filosofico su di esse, prodottesi dal dilagare della luxuria: la semplicità della natura si afferma sul progresso legato alle artes, par. 9: Felix illud saeculum fuit ante architectos, ante lectores!

[29] I. Lana, La concezione della scienza e della tecnica a Roma da Augusto a Nerone, II, Torino 1971, p. 165.

[30] A. Traina, Introduzione a Seneca, Letture critiche, Milano 1976, pp. 12-13.

[31] Sul tema dell’interiorità in Seneca, si leggano le ricche osservazioni di G. Lotito, Suum esse. Forme dell’interiorità senecana, Bologna 2001.

[32] Per una valutazione degli aspetti compositivi delle Naturales Quaestiones rinviamo a G. Stahl, Aufbau, Darstellungsform und philosophischer Gehalt der Naturales Quaestiones des L. Annaeus Seneca, Diss. Kiel 1960 e a W. Trillitzsch, Senecas Beweisführung, Berlin 1962.

[33] La vicinanza alla teoria lucreziana, nei suoi vari aspetti, è presa in esame da I. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino 1955, pp. 1-19.

[34] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, trad. it., Bologna 1987: su Seneca si vedano le pp. 245-251.

[35] Sul problema, si vedano le osservazioni generali di E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Firenze 1979.

[36] P. Cubeddu, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle “Naturales Quaestiones” negli anni 1900-1970, Sandalion 1 (1978), pp. 123-152; O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, II, Bologna 1981, pp. 585-595; D. Weber, Ethik und Naturwissenschaft. Die Praefatio zu Senecas Naturales Quaestiones, Wien 1995.

[37] S. Chabert, Sismologie (Questions Naturelles, Liv. VI), AUG 15 (1903), pp. 154-190 ; G. Maurach, Zur Eigenart und Henkunft von Senecas Methode in den Naturales Quaestiones, Hermes 93 (1965), pp. 357-369.

[38] F.P. Waiblinger, Senecas Naturales Quaestiones. Griechische Wissenschaft und römische Form, München 1977; N. Gross, Senecas Naturales Quaestiones: Komposition, naturphilosophische Aussagen und ihre Quellen, Stuttgart 1989.

[39] J. Müller, Über die Originalität der Naturales Quaestiones Senecae, in Fest-Gruss aus Innsbruck, Innsbruck 1893, pp. 1-20. Osservazioni sparse si possono leggere nelle principali opere di carattere generale su Seneca, indicate nella ricca bibliografia di D. Vottero, op. cit., pp. 77 sgg.

[40] L’osservazione è di P. Parroni, op. cit., p. 475.

[41] Altri esempi si possono leggere in D. Vottero, op. cit., p. 41.

[42] L. Anneo Seneca, Trattato sui terremoti, introd., testo, trad. e note a cura di A. Traglia, Roma 1965, p. 7; D. Vottero, op. cit., p. 40.

[43] La tecnica rientrava nei compiti delle classi inferiori e degli schiavi e quindi veniva denigrata dal ceto intellettuale, ma, oltre a ciò, il progresso tecnologico poteva significare la perdita di un equilibrio sociale ed economico consolidato. A conferma si ricorda la storiella del vetro infrangibile il cui inventore fu fatto uccidere dal sovrano per timore di una svalutazione dell’oro! Narrata da Trimalcione in Petr. Sat. 51, si ritrova anche in Plinio, Nat. hist. XXXVI 195. Intorno a questa problematica si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, introd. e trad. di P. Zambelli, Torino 1967.

[44] Per un’interpretazione del pensiero pliniano si veda la lucida analisi di G.B. Conte, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, I, Torino 1982, pp. xvii-xlvii.

[45] R. Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, Leipzig 1895 (rist. Hildesheim 1963), vol. II, pp. 25, 33; C. Marchesi, Seneca, Messina-Milano 1944 (rist. Milano 1981), p. 192.

[46] D. Vottero, Note sulla lingua e lo stile delle “Naturales Quaestiones” di Seneca, AAST 119 (1985), pp. 61-86, di cui possiamo leggere una riduzione nell’Introduzione già citata, pp. 42 sgg.

[47] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 243, ed Enciclopedia virgiliana, s.v. Seneca, Lucio Anneo, vol. IV, pp. 766-768, Roma 1988; si veda, sull’argomento, G. Lurquin, Le citation poétique dans les ouvrages en prose de Sénèque le philosophe, Louvain 1947, assai utile per la raccolta completa delle citazioni, più discutibile per la classificazione, che si basa su principi non sempre convincenti. Accanto a Virgilio (in particolare, l’Eneide) e Ovidio (soprattutto le Metamorfosi, libri I e XV), sono citati Menando, Lucrezio, Tibullo (il verso è erroneamente attribuito a Ovidio), Nerone, Lucilio Iuniore e un certo Vagellio, autore sconosciuto.

[48] G. Mazzoli, op. cit., pp. 103 sgg.

[49] D. Vottero, La grafia dei termini d’origine greca nelle opere filosofiche di Seneca, AAST 118 (1974), pp. 311-339.

[50] A. Traina, Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca, Bologna 19874.

[51] Utili osservazioni in D.D. Leitao, Senecan Catoptrics and the Passion of Hostius Quadra (Sen. Nat. 1), MD 1998, pp. 127-160; S. Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano, Pisa 1991, pp. 116 sgg., e F.R. Berno, Lo specchio, il vizio e la virtù. Studio sulle Naturales Quaestiones di Seneca, Bologna 2003 (che abbiamo potuto leggere a lavoro ultimato).

[52] Cfr. III 18, 1; V 15, 1.

[53] Anche l’exemplum assolve un simile funzione didattica, come possiamo verificare in tutta la produzione senecana: il piacere associato all’insegnamento per aumentare la credibilità è confermato da Rhet. ad Her. IV 49, 62; Cicerone, Orat. 120 e Quintiliano, Inst. orat. V 11, 19.

[54] Ugualmente funzionali i verbi quaerere ed excogitare come l’affine pergere: Medea 898-900 Quaere poenarum genus / haut usitatum iamque sic temet para: / fas omne cedat, abeat expulsus pudor.

[55] Cfr. D.D. Leitao, art. cit., p. 146.

[56] Per ulteriori osservazioni si veda ad loc.

[57] È Seneca stesso che fa riferimento alla sua età ormai tarda nel libro III praef. 1; 2; 3 e nelle allusioni al suo precario stato di salute nel libro I praef. 4.

[58] Intorno al problema della datazione, rinviamo a D. Vottero, op. cit., pp. 20-21. Il terminus post quem è il 62, anno del terremoto in Campania ricordato in VI 1-2, il terminus ante quem forse il 64, di cui non sono ricordati eventi salienti.

[59] S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 153.

[60] V. Tandoi, Albinovano Pedone e la retorica giulio-claudia delle conquiste, SIFC 35 (1964), p. 537.

[61] Anche Plinio, in Nat. hist. XIX 55, fa riferimento al commercio dell’acqua e al costume di bere la neve e il ghiaccio, ma, come osserva acutamente S. Citroni Marchetti, op. cit., pp. 170-171, «Plinio appartiene in parte a questo tipo di moralismo, ma vi appartiene senza vera consapevolezza: più che dipingere con gli stessi colori egli parla, spontaneamente, usando il medesimo linguaggio».

[62] Vasta la bibliografia sull’argomento; si veda D. Vottero, op. cit., pp. 440-441, note 1 e 2.

[63] F. Levy, Der Weltuntergang in Senecas Naturales Quaestiones, Philologus 83 (1928), pp. 459-466; R. Dell’Innocenti Pierini, Seneca emulo di Ovidio nella rappresentazione del diluvio universale (Nat. Quaest. 3, 27, 13 sgg.), A&R 29 (1984), pp. 143-161.

[64] III 27, 13 Ni tantum impetum ingenii et materiae ad pueriles ineptias reduxisset: nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones: il richiamo critico è a Ov. Met. I 304. Cfr. G. Mazzoli, op. cit., pp. 245-247.