Nicandro di Colofone

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 42.

I dati biografici e, soprattutto, cronologici relativi a Nicandro, nato a Claros presso Colofone, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio, appaiono piuttosto confusi già nelle fonti antiche. Alcuni lo considerarono infatti contemporaneo di Teocrito, altri lo assegnarono alla generazione successiva e altri ancora lo vollero coetaneo di Attalo III Filometore, che regnò su Pergamo dal 138 al 133 a.C. Tale incertezza sembra essere stata causata dall’esistenza di un altro Nicandro, storico e antiquario, forse antenato di questo autore, contemporaneo e amico di Teocrito, vissuto al tempo di Attalo I (241-197 a.C.) e ricordato come poeta epico in un’iscrizione delfica (Syll.³ 452). Al più giovane Nicandro, figlio di Dameo (quello più antico è figlio di Anassagora), sono attribuiti due poemi didascalici, uno intitolato Θηριακά (Rimedi contro i veleni animali) e l’altro Ἀλεξιφάρμακα (Antidoti, o Contravveleni)[1]. Il primo (958 versi), dedicato a un certo Ermesianatte, amico del poeta, si apre con alcune notizie generali sull’origine dei veleni, che sarebbero nati dal sangue dei Titani; poi, si descrive ogni specie animale letale, spiegando gli effetti dei loro sieri; quindi, si prendono in considerazione i rimedi più comuni contro i veleni animali, mescolando in modo abbastanza generico nozioni scientifiche e credenze popolari. Successivamente, il poeta dedica un’ampia trattazione al veleno dei serpenti, indicando i periodi dell’anno in cui essi sono più pericolosi e ritenendo le femmine più micidiali dei maschi. Segue un’ultima parte, dedicata ai rimedi contro le punture dei ragni e degli scorpioni. L’Ἀλεξιφάρμακα (630 versi), invece, descrive i vari tipi di pozione velenifera, i miasmi tossici e gli eventuali antidoti. Secondo le fonti antiche, il materiale di questi trattati proverrebbe dalle opere di due autori didascalici: Numenio, discepolo del medico Dieucle di Eraclea, vissuto verso la metà del III secolo a.C., e un tale Apollodoro, la cui attività risale agli inizi dello stesso secolo.

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου Ἀλεξιφάρμακα, f. 48r. Un pastore nel bosco.

 

In ogni caso, la fortuna dei Θηριακά e degli Ἀλεξιφάρμακα nel mondo antico fu notevole: il successo dei due poemetti si dové alla loro utilità per il vasto pubblico, alla perfezione dei versi (Nicandro era uno dei più fedeli assertori della perfezione armonica dell’esametro callimacheo), e a un’abile e innovativa manipolazione del linguaggio. Nicandro, infatti, aveva abilmente inserito nel verso dell’epica i termini zoologici e tossicologici più oscuri: di conseguenza, gli hapax legomena di queste opere divennero il terreno di caccia ideale per i grammatici antichi e tardi. Leggere questi testi è tuttavia esteticamente frustrante per i moderni: Nicandro ha accolto con indifferenza l’uniformità compilativa dei suoi modelli, intensificandola nei suoi trattati in versi: negli Ἀλεξιφάρμακα, dunque, si passano in rassegna le caratteristiche di ciascun veleno, la sintomatologia dei loro effetti, i possibili antidoti; nei Θηριακά si forniscono accurate descrizioni dei segni identificativi dei serpenti e dei sintomi del loro morso. Le digressioni perdono il loro effetto di animare la trattazione e mantengono una funzione eminentemente tecnica (per esempio, quella di segnare il passaggio da un capitolo all’altro).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου θηριακά, f. 6r. Una vipera maschio; una vipera femmina che attacca un uomo.

 

Altri poemi didascalici a cui è associato il nome di Nicandro, alcuni dei quali sono noti solo da frammenti o dal loro titolo, mostrano chiaramente l’ambizione di creare un’enciclopedia in versi: i due libri di Γεωργικά sulla coltivazione dei campi e sul giardinaggio[2]; i Μελισσουργικά, sull’apicultura; gli Ὀφιακά, una monografia sui serpenti e una raccolta di figure mitiche morse da questi rettili. A queste opere si aggiungono altri due titoli: Περὶ χρηστηρίων πάντων (Sulle medicine utili) e Ἰάσεων συναγωγή (Una raccolta di terapie). Ci sono alcuni indizi di due ulteriori testi che dovevano trattare rispettivamente di cinegetica e di mineralogia. Un’altra opera perduta dello stesso Nicandro, i Προγνωστικά, sarebbe, secondo la Suda, una parafrasi in esametri dell’omonimo trattato pseudo-ippocratico.

 

Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne. Olio su tavola, 1470. London, National Gallery.

 

Fra le opere non pervenute di Nicandro, però, non si può non ricordare il poema mitologico, intitolato Ἑτεροιούμενα (Metamorfosi), dedicato, secondo una consuetudine iniziata dagli Aἴτια callimachei, a leggende di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. I pochissimi versi sopravvissuti di quelli che dovevano essere quattro o cinque libri di poesia non potrebbero bastare a darci un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti, contenuti in un’opera di Partenio e nel compendio realizzato da Antonino Liberale, forse liberto di Antonino Pio. Non è certo che quest’opera abbia influenzato le Metamorfosi ovidiane.

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Bibliografia:

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Per un aggiornamento bibliografico, si vd. il sito A Hellenistic Bibliography [sites.google.com].

 

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Note:

[1] Ciononostante, Cameron (1995) attribuisce entrambi i poemi didascalici al Nicandro più vecchio e segue, perciò (se si dà credito alle vitae Arati), l’antica opinione che il poeta di Soli e questo autore fossero contemporanei.

[2] Il retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo, ci ha conservato circa cento versi di questo poema didascalico sull’agricoltura, che, secondo Quintiliano (Inst. X 1, 56), avrebbe fornito numerosi spunti all’omonima opera di Virgilio; ma si tratta di un’affermazione tutta da dimostrare, dato che non sembra che nessuno dei frammenti superstiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore, sia mai stato utilizzato da Virgilio.

L’arte di saper ascoltare

di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].

Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Frederic Leighton, Fatidica. Olio su tela, 1893. Liverpool, National Museum, Lady Lever Art Gallery.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Lottatori degli Uffizi. Marmo, copia romana da originale greco di III sec. a.C. Firenze, Museo degli Uffizi.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.

Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), f. 25r. Canto X, 31-33 Dante incontra Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».

Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).

Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.

Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».

Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.

Un oratore sulla Pnice. Illustrazione di Anna Tzortzi [link].
Plutarco biasima poi l’abitudine di rivolgere a chi parla, fosse anche il più grande oratore di tutti i tempi, complimenti quali “divino”, “ispirato”, “insuperabile”, come se non bastassero i “bene!”, i “bravo!” e i “giusto!” che si riservano ai grandi maestri: un vezzo che oggi è ancora più frequente quando i “personaggi” che appaiono in televisione sono tutti “magnifici”, “stupendi”, “sublimi”, “eccezionali”: attori, cantanti, calciatori e così via. Né bastano gli applausi: spesso, addirittura, tutti si alzano in piedi!

Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).

«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».

Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Louis J. Lebrun, Il discorso di Socrate. Olio su tela, 1867

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.

L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.

Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».

Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.

Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).

Le origini della medicina (Cels. praef. 1-4)

in PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 572-573.

[1] Ut alimenta sanis corporibus agricultura, sic sanitatem aegris medicina promittit. Haec nusquam quidem non est siquidem etiam inperitissimae gentes herbas aliaque prompta in auxilium uulnerum morborumque nouerunt. [2] uerum tamen apud Graecos aliquanto magis quam in ceteris nationibus exculta est, ac ne apud hos quidem a prima origine, sed paucis ante nos saeculis. Ut pote cum uetustissimus auctor Aesculapius celebretur, qui quoniam adhuc rudem et uulgarem hanc scientiam paulo subtilius excoluit, in deorum numerum receptus est. [3] huius deinde duo filii Podalirius et Machaon bello Troiano ducem Agamemnonem secuti non mediocrem opem commilitonibus suis attulerunt; quos tamen Homerus non in pestilentiā neque in uariis generibus morborum aliquid adtulisse auxilii, sed uulneribus tantummodo ferro et medicamentis mederi solitos esse proposuit. [4] Ex quo apparet has partes medicinae solas ab iis esse tentatas, easque esse uetustissimas. Eodem uero auctore disci potest morbos tum ad iram deorum immortalium relatos esse, et ab iisdem opem posci solitam uerique simile est interisse quidem tum morbis plurimos, cum fuerint nulla auxilia aduersae ualetudinis, plerumque tamen eam bonam contigisse ad bonos mores, quos neque desidia neque luxuria uitiarant.

Esculapio. Testa, marmo, II sec. d.C. Bad Deutsch-Altenburg, Museum Carnuntinum.

[1] Come l’agricoltura procura gli alimenti per i sani, così la medicina garantisce la salute per gli ammalati. Questa, in verità, non è assente in nessuna parte del mondo, se è vero che anche le popolazioni più arretrate conoscono erbe e altri preparati disponibili per la cura di ferite e di malattie. [2] Ma, tuttavia, presso i Greci fu perfezionata parecchio di più che tra le altre civiltà, e neppure presso di loro fin dalla prima origine, ma pochi secoli prima di noi, visto che Esculapio viene celebrato come l’inventore più antico, il quale, poiché perfezionò in modo un po’ più accurato questa scienza ancora arretrata e rozza, fu accolto nel novero degli dèi. [3] In séguito i suoi due figli, Podalirio e Macaone, che seguirono il capo Agamennone nella guerra di Troia, offrirono un aiuto non da poco ai propri commilitoni; eppure, Omero mostrò che essi non portarono alcun aiuto durante la pestilenza né in vari generi di malattie, ma che erano soliti soltanto curare le ferite con strumenti di ferro e con medicamenti. [4] E da ciò appare evidente che da costoro furono affrontate queste sole parti della medicina e che esse sono le più antiche. Inoltre, secondo la medesima testimonianza, si può apprendere che a quei tempi le malattie erano attribuite all’ira degli dèi immortali e che a loro di solito si chiedeva aiuto, ed è probabile che, fra i rimedi inesistenti alla malattia, non essendovi alcun aiuto per la salute inferma, la maggior parte godesse comunque di buona salute grazie a buoni comportamenti, che né la pigrizia né l’eccessiva agiatezza avevano guastato.

Scienza e tecnica nella prima età imperiale

di G.B. CONTE, Erudizione e discipline tecniche, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 324-330.

Alla scienza, nell’antichità, non era attribuito un valore autonomo. Infatti, era considerata un momento dell’indagine filosofica. La ricerca scientifica era un mero supporto alla visione generale del mondo prospettata dal filosofo e lo studio della natura serviva per liberare l’uomo da paure e superstizioni, come dimostrano le Naturales quaestiones di Seneca, un’opera nella quale la connessione stretta tra scienza e filosofia è particolarmente evidente. A maggior ragione non godeva di grande apprezzamento la ricerca tecnologica, in quanto sia la scienza applicata sia tutto ciò che aveva attinenza con il lavoro manuale era di competenza delle classi subalterne, dei «meccanici», che non potevano aspirare in alcun modo a raggiungere il prestigio riservato ai ceti dominanti.

Tuttavia, nella letteratura latina esiste una solida, ancorché esigua, tradizione di opere scientifiche, concepite con intento didascalico, in forma enciclopedica e rivolte a un pubblico di media cultura. Lo scopo di questi manuali era quello di fornire un’informazione il più possibile ampia, puntuale, precisa su tutti gli argomenti che il buon pater familias avrebbe dovuto conoscere. In generale, il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che – sul modello di quella filosofica di Aristotele – rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a che una vera e propria prosa scientifica non si formasse, contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico, cui aveva già fatto ricorso, per esempio, Lucrezio.

Saturnia Tellus. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Tra il 27 e il 23 a.C. Marco Vitruvio Pollione, che era stato ufficiale del genio sotto Cesare e addetto alla costruzione di macchine da guerra e che in tempo di pace aveva svolto la professione di architetto (egli stesso ricorda di aver progettato e costruito la basilica nel foro di Fano), pubblicò un trattato De architectura in dieci libri, dedicato ad Augusto, il quale gli aveva garantito una pensione, permettendogli così di mettere a frutto la sua cultura e la sua esperienza tecnica, componendo l’opera con cui voleva guadagnarsi la fama presso i posteri. Probabilmente non a caso il trattato comparve negli stessi anni in cui il princeps si era proposto un vasto programma di rinnovamento dell’edilizia pubblica sia a Roma sia nel resto dell’impero. Il I libro tratta dei luoghi adatti alle costruzioni, il II dei materiali da impiegare, il III e il IV degli edifici sacri, il V degli edifici amministrativi e pubblici in genere, il VI e il VII delle abitazioni private, l’VIII dell’idraulica, il IX degli orologi solari e il X di meccanica (cioè della costruzione di gru, ordigni idraulici e bellici). La tradizione ha privato, però, l’opera di Vitruvio dei disegni che – per sua stessa dichiarazione – la corredavano.

Nella concezione dell’autore, l’architettura era vista, in senso quasi aristotelico, come imitazione dell’ordine provvidenziale della natura. Perciò, Vitruvio richiedeva al suo architetto ideale il possesso di una cultura ricca e varia, quasi del tipo di quella che già Cicerone esigeva per l’oratore (il paragone non è peregrino, perché il modello del De oratore è effettivamente presente al pensiero vitruviano). Specialmente nei proemi, di grande interesse per la comprensione dello statuto delle discipline tecniche a Roma, Vitruvio insisteva sul fatto che l’architetto non dovesse essere solo uno specialista, ma doveva possedere una vasta cultura generale: la conoscenza dell’acustica era richiesta per la costruzione dei teatri, quella dell’ottica per l’illuminazione degli edifici, quella della medicina per l’igiene delle aree edificabili. Ma la preparazione enciclopedica che Vitruvio auspicava per l’architetto ideale, che gli avrebbe consentito di risolvere brillantemente qualsivoglia problema tecnico, faceva perno sostanzialmente sulla filosofia. Appare evidente, dai proemi di Vitruvio, l’esigenza di conferire all’architetto il prestigio sociale e culturale che gli antichi di solito negavano ai rappresentanti delle discipline tecniche e la giustificazione dell’architettura di fronte al pubblico è ricercata attraverso una connessione costante alla filosofia, che si risolve, però, in una subordinazione (almeno sul piano programmatico). L’ossequio alla filosofia, che Vitruvio proclama nei proemi, incide, in realtà, piuttosto scarsamente sulla trattazione vera e propria, dove la concreta esperienza dell’architetto è ovviamente predominante. La differenza tra le parti proemiali e quelle didascaliche dell’opera vitruviana si rispecchia anche nello stile: le prime fanno uso piuttosto abbondante di ornamenti retorici, mentre nelle seconde il periodare è asciutto e disadorno, e la lingua non si perita ad ammettere volgarismi e tecnicismi di origine greca.

Giacomo Grigolli, Ritratto di Vitruvio. Busto, marmo, 1878. Verona, Protomoteca della Biblioteca Civica.

Un diverso modo di conferire dignità alle discipline tecniche era quello di collocarle all’interno di una complessiva enciclopedia dedicata alle artes, come aveva fatto Varrone nei suoi Disciplinarum libri IX. Fu la strada scelta da Aulo Cornelio Celso, vissuto in età tiberiana, il quale fu autore di un vasto manuale enciclopedico, che trattava di ben sei artes: agronomia, medicina, arte militare, retorica, filosofia e giurisprudenza. Dell’opera sopravvivono solo gli otto libri relativi alla medicina (i libri VI-XIII dell’opera completa). La trattazione di Celso è estremamente chiara ed efficace, tanto da aver fatto supporre ad autorevoli studiosi della medicina antica che egli fosse un medico di professione; la questione, molto dibattuta, non ha ancora trovato una soluzione: Celso si serve sicuramente di fonti greche, ma la sua disquisizione presenta molte caratteristiche tipicamente romane, che inducono a credere che egli non fosse un semplice compilatore.

Rivelando notevoli doti di equilibrio e di spirito critico, l’autore evita infatti di addentrarsi nelle controversie dogmatiche delle scuole mediche greche e cerca di mantenere una posizione equidistante fra quelli che, utilizzando categorie moderne, si potrebbero definire «empiristi» e «razionalisti»: si trattava dei due opposti indirizzi che ancora al suo tempo si affrontavano alacremente, gli uni volti a indagare le «cause occulte» delle malattie e quindi propensi all’anatomia e alla vivisezione, gli altri limitantisi alla considerazione delle cause evidenti, sotto la guida dell’esperienza, e rivolti a curare più che a comprendere. Le doti di sobrietà e di equilibrio, unitamente a quelle, molto notevoli, dello stile (Quintiliano, in seguito, avrebbe giudicato Celso scrittore di discreta eleganza, e la tradizione umanistica lo avrebbe collocato fra i migliori prosatori latini) hanno contribuito a fare, nei secoli, la fortuna dei De medicina.

Medico che visita un giovane paziente. Rilievo, marmo. Getty Museum.

Di poco posteriore a Celso fu un altro scrittore, Scribonio Largo, il quale si occupò, a differenza di lui, esclusivamente di medicina. Si sa che visse al tempo di Claudio. Di lui rimane solo un libro di ricette (Compositiones), scritto senza pretese letterarie, unicamente per fini pratici. Invece, sotto il nome di Antonio Musa, medico di Augusto e di Orazio, rimane uno scritto intitolato De herba vettonica (ma si tratta di un’opera di età più tarda).

Fra le discipline tecnico-scientifiche, l’agronomia occupava una posizione di privilegio: data la tradizione di proprietari terrieri degli aristocratici romani, membri illustri della classe senatoria, come Catone e Varrone, non avevano disdegnato di scrivere di questo argomento. D’altra parte, infatti, quello romano era un popolo originariamente agricolo e la terra aveva da sempre rappresentato un elemento di sicurezza economica per chi l’avesse posseduta, garantendo profitti più elevati e ritenuti più sicuri rispetto a quelli derivanti da altre attività.

Un trattato ancora più impegnativo (De re rustica) fu pubblicato da Lucio Giunio Moderato Columella, contemporaneo di Seneca e originario di Gades in Hispania. Poco si sa, tuttavia, del suo ambiente sociale di provenienza, ma un’iscrizione di Taranto (CIL IX, 235 = ILS 2923 = AE 2000, 357) lo presenta come tribuno della legio VI Ferrata, di stanza in Syria: il tribunato nelle legioni costituiva spesso per l’aristocrazia provinciale il modo migliore di iniziare la carriera militare, politica o civile al di fuori della propria patria. Preso domicilio a Roma, o nei dintorni, Columella si dedicò prevalentemente alla pratica e allo studio dell’agricoltura.

Contadino intento alla mietitura. Bassorilievo, marmo, da Buzenol (Belgio).

Il suo trattato, dunque, ebbe due redazioni: della prima rimane solo il libro De arboribus, mentre si possiede interamente la seconda, molto più vasta, in dodici libri. Columella tratta successivamente della coltivazione dei campi, degli alberi, della vite, dell’allevamento degli animali di grossa taglia e di quelli da cortile, dell’allevamento delle api, della coltivazione degli orti e del mantenimento dei giardini, dei doveri del fattore e della fattoressa. Il libro X (De cultu hortorum) è in esametri: ciò rappresenta un omaggio dell’autore alla tradizione delle Georgiche virgiliane, e insieme il tentativo di colmare un vuoto lasciato consapevolmente da Virgilio che, nel VI libro del suo poema didascalico, dopo aver accennato brevemente ai giardini, lamentando la mancanza di spazio, aveva lasciato ad altri il compito di trattarne in maniera più accurata.

Columella scrive in una prosa limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono di fattura discreta; le fonti sono quelle consuete: gli scrittori di agricoltura greci e latini, da Senofonte a Catone e a Varrone, mentre è spesso presente, anche nelle parti in prosa, il ricordo di Virgilio. Ma predominante è l’esperienza personale dell’autore. L’opera di Columella si apre con il riconoscimento di una vasta crisi dell’agricoltura italica, le cui cause sono da ricercarsi nel disinteresse dei proprietari, nell’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, nella mancanza di una seria preparazione scientifica in materia. Ciò ha determinato una deficienza ormai strutturale dell’agricoltura in Italia, portando alla supremazia di alcune province nell’esportazione di prodotti d’eccellenza, come vino e olio.

Mercato ortofrutticolo e seminatura dei campi. Rilievo, dal Belgio. Luxembourg, Musée Luxembourgeois

Nelle pagine introduttive, l’autore critica il fatto che non vi siano scuole e maestri per agricoltori, a differenza di quanto avviene per le altre arti e professioni, pur essendo l’agricoltura la più bella e la più nobile delle attività. Ma la formazione dell’agricoltore perfetto pare un compito impossibile, tanto vaste e varie sono le competenze necessarie. A soluzione del problema, Columella sembra affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica quale quella che Cicerone aveva prospettato per l’oratore (non a caso i trattati ciceroniani sono frequentemente richiamati da Columella) o quella che Vitruvio richiedeva per il suo architetto. Il diffondersi, nelle varie discipline, di questo ideale enciclopedico è prova della persistente necessità della loro subordinazione alla filosofia, che sembra la via obbligata attraverso la quale esse devono passare per acquisire dignità e, paradossalmente, statuto autonomo.

Il richiamo, frequente nelle pagine di Columella, alle figure idealizzate degli antichi proprietari terrieri, che dividevano la propria vita fra la cura dei campi e l’attività politica, può far credere che la preferenza dell’autore vada al piccolo podere, il cui proprietario possa facilmente e direttamente controllare; una conferma di ciò sembrerebbe potersi trovare nella frequente critica all’assenteismo dei proprietari latifondisti. In realtà, anche se Columella non dà indicazioni esplicite sulle dimensioni del suo podere ideale, dal complesso dell’opera si evince che i suoi precetti sono per la massima parte rivolti a proprietà di grande estensione. Ciò risulta chiaro, per esempio, dalla sezione I 6 dedicata all’estensione della villa e delle sue parti, in cui vengono descritti sia i locali destinati ai servi e alla lavorazione e alla conversazione dei prodotti, sia quelli, rigorosamente distinti, destinati alla residenza del proprietario; a tal proposito viene elencata tutta una serie di commoda che avrebbe fatto gridare allo scandalo i Romani di antico stampo, di cui pure Columella tesse l’elogio. Il richiamo alla prisca moralità non è, probabilmente, solo di maniera: una contraddizione non dissimile da quella che si riscontra in Columella affiorava, forse con maggiore consapevolezza da parte dell’autore, anche in Vitruvio, che, mentre continuava a privilegiare l’antico modello del cittadino parsimonioso, forniva indicazioni per la costruzione delle sontuose dimore dei ricchi romani. Columella si rivela realisticamente consapevole del fatto che per richiamare in campagna i proprietari inurbati – il mezzo migliore di incrementare la produzione era, infatti, individuato nel sottoporla alla sorveglianza diretta del dominus, che avrebbe dovuto effettuare frequenti soggiorni nei propri poderi – non sarebbe bastata l’esortazione moralistica, ma sarebbe stato più opportuno provvedere le villae agricole di tutte le comodità offerte da un palazzo cittadino.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Columella era fautore di una tendenza che proponeva la massima intensificazione e realizzazione dell’attività agricola, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda; perciò, sincera appare, nell’opera, una certa ostilità verso il latifondo, abbandonato e trascurato dai ricchi proprietari, e sempre più improduttivo. Al contrario, si rivelano acute le sue proposte di organizzazione del lavoro dei servi, sottoposti al ferreo controllo che avrebbe dovuto essere esercitato dal villicus. Tuttavia, il rimedio proposto dall’autore era largamente utopistico: più realisticamente Plinio il Vecchio si sarebbe reso conto del fatto che, finché fosse perdurato il predominio della manodopera servile, sarebbe stata impossibile ogni effettiva razionalizzazione della produzione agricola; i servi, privi d’iniziativa e disinteressati al lavoro, non avrebbero mai lavorato al massimo delle proprie energie.

Si capisce come, nel momento in cui il dominio di Roma andava estendendosi fino ad abbracciare gran parte del mondo conosciuto, e anche terre fino ad allora ignote, la geografia acquistasse sempre più importanza, sia per fini pratici sia per intenti celebrativi: infatti, proprio a partire dall’età augustea, si assiste a un fiorire di testi assai vasti, complessi, quasi monumentali, che trattavano degli argomenti più disparati, offrendo una vera e propria sintesi del sapere dell’epoca. Il benessere diffuso, inoltre, consentiva a intellettuali, eruditi e tecnici di attendere ai propri interessi culturali e scientifici, con l’assenso del princeps cui le opere erano dedicate. Dal canto suo, l’imperatore vedeva nella letteratura tecnico-scientifica un ulteriore strumento di propaganda del buon governo. Quanto alla geografia, se ne era già occupato Varrone, il quale vi aveva dedicato pure opere specifiche, come fa pensare, per esempio, il titolo De ora maritima citato da Servio. Dai pochi frammenti che si conservano è possibile supporre che nei libri di geografia Varrone fondesse il taglio erudito e antiquario, a lui consueto, con l’attenzione ad aspetti più pratici, come, per esempio, le distanze fra i vari luoghi.

Anche di Cornelio Nepote sono tramandate notizie di carattere geografico, ma della sua opera in questo ambito, si sa molto poco.

M. Vipsanio Agrippa. Testa, bronzo, fine I sec. a.C.

Si occupò della materia uno dei personaggi politici più importanti dell’età augustea, Marco Vipsanio Agrippa, nientemeno che comandante supremo dell’esercito di Ottaviano, suo genero (ne sposò la figlia Giulia) e suo coetaneo (essendo nato, come lui, nel 63 a.C.). Agrippa, mosso certamente anche da finalità egemoniche, compose una gigantesca carta geografica del mondo allora conosciuto. Questa carta era accompagnata da commentarii – non è chiaro se fossero pubblicati a parte o anche riportati in calce alla carta stessa – i quali fornivano dati sull’estensione dei diversi territori, sulle distanze tra i luoghi, ecc. Quando, nel 12 a.C., Agrippa scomparve, Augusto in persona si premurò che l’opera del genero fosse portata a compimento e sistemata in una porticus, appositamente costruita nel Campo Marzio. Plinio il Vecchio, nella sezione della Naturalis historia dedicata alla geografia (altra testimonianza di quanto fosse importante questa scienza), cita con sommo rispetto Varrone e Agrippa.

Una generazione prima di Plinio, sotto il principato di Caligola o di Claudio, si colloca il primo autore latino che si possa definire, per quel che si sa, un geografo “puro”, e la cui opera sia interamente pervenuta. Si tratta di Pomponio Mela, spagnolo di Tingentera, del quale si possiede una Chorogràphia («Descrizione dei luoghi») in tre libri.

Rimini sulla Tabula Peutingeriana, esemplare del XII-XIII secolo di una carta delle principali vie dell’Impero romano.

Nella premessa alla sua Chorogràphia l’autore si lamenta che gli argomenti di cui si accinge a parlare non lascino spazio a uno stile elevato e al dispiegarsi dell’eloquenza. Questo «complesso d’inferiorità» sembra comune a molta parte della prosa tecnica latina, la quale si caratterizza proprio per la ricerca costante di uno stile più alto e spesso ricco di arcaismi, in contrasto con la prosaicità del contenuto. Lo stile di Mela, per esempio, si ispira principalmente a quello di Sallustio, e abbonda in arcaismi e ricercatezze linguistiche.

Sul piano contenutistico, la Chorogràphia descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo, che segue in senso antiorario partendo dalle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), dove fa ritorno alla fine della descrizione.

L’autore non sembra affatto interessato agli aspetti più specificamente “tecnici” della sua disciplina: in lui, infatti, mancano cifre e dati, nonostante si riveli ottimo conoscitore delle fonti greche e latine. Mela è mosso piuttosto da interessi etnografici, e la sua facundia si dispiega soprattutto quando si trova a parlare di regioni lontane o poco conosciute; in quel caso, si lascia anche spesso trasportare dal gusto per i dettagli fiabeschi e meravigliosi.

Justus Perthes, Orbis Terrarum secundum Pomponium Melam, in W.H. Schoff, The Periplus of the Erythraean Sea. Travel and Trade in the Indian Ocean, London-Bombay-Calcutta 1912, p. 100

A Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Tiberio, i manoscritti assegnano un corpus di ricette culinarie diviso in dieci libri – in realtà, formatosi con l’apporto di varie stratificazioni successive al IV secolo – che prende il titolo di De re coquinaria. Il nucleo apiciano di questa raccolta, derivato probabilmente, a sua volta, da due diverse opere (una sulle salse e una sull’elaborazione completa di alcuni piatti) non è facilmente ricavabile dalla massa composita di ricette che è pervenuta, dovuta a un maldestro compilatore tardoantico che dimostra di conoscere assai poco la terminologia tecnica e, in generale, la materia culinaria.

Alla base del De re coquinaria stanno opere di carattere medico (spesso, infatti, le ricette sono fornite in funzione delle loro proprietà dietetiche o come medicinali per disfunzioni dell’apparato digerente) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di qualsiasi eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità in una lingua spesso pedestre; ma dietro questa totale semplicità si scorge pur sempre l’attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti, la cui punta estrema può essere riassunta con la stessa paradossale conclusione dell’autore: «A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia».

Gatto che azzanna un anatra. Uccelli, pesci e conchiglie. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La peste di Atene (Lucr. VI 1145-1196; 1230-1286)

Cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, 513-520; CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 586-589; BALESTRA A. et alii, In partes tres. 1. Dalle origini all’età di Cicerone, Bologna 2016, 316-319.

 

Nel VI libro del De rerum natura, alla luce della fisica epicurea, Lucrezio spiega svariati fenomeni naturali di fronte ai quali l’uomo si sente talmente impotente da provare una profonda angoscia: terremoti, fulmini, eruzioni vulcaniche ed epidemie. Da qui prende le mosse l’excursus finale contenente l’agghiacciante e macabra descrizione della peste di Atene (430 a.C.), mediata dal racconto di Tucidide, che ne fu diretto testimone e vittima.

Per il poeta latino la peste è certo un’orribile realtà, ma è anche un fenomeno prodotto da cause naturali (l’alterazione dell’aria dovuta a turbamenti dell’equilibrio atmosferico). Perciò, la descrizione dell’epidemia che colpì Atene rientra perfettamente nell’argomento del VI libro, che fornisce spiegazioni razionali di calamità, che altrimenti creerebbero terrore e religio nell’animo del lettore-discepolo.

Per spiegare perché il poema della ragione e della voluptas termini con immagini di morte e di desolazione si è supposta l’incompiutezza dell’opera, cui sarebbe mancata l’ultima revisione. E poiché Lucrezio, nel libro precedente, aveva annunciato la descrizione delle sedi beate degli dèi, senza però tener fede alla promessa, si è pensato che quella rappresentazione di suprema atarassia fosse la chiusa originariamente progettata.

Non sono mancati, fra i critici, coloro che, sempre preoccupati di accertare l’ortodossia epicurea del poeta, hanno cercato in questa pagina la conferma estrema di un presunto «pessimismo lucreziano», di una «tragica antinomia […] tra la dottrina e il carattere del poeta» (Giussani), applicando all’episodio le categorie rigide e forzatamente attualizzanti del “pessimista” (in senso leopardiano), dell’“antiepicureo”, dell’“esistenzialista”, talora invocando seducenti, ma poco pertinenti, ermeneutiche psicanalitiche[1].

C’è stato, poi, chi ha addotto ragioni d’ordine strutturale: negli antichi trattati di Fisica le malattie vengono all’ultimo posto nella rassegna dei fenomeni naturali. E c’è stato anche chi ha visto questo «trionfo della Morte» in un rapporto di contrapposizione isonomica con il «trionfo della Vita», rappresentato dall’Inno a Venere dell’ouverture. La contrapposizione di queste due parti, programmaticamente «forti», sarebbe l’esito strutturale più vistoso di una polarità che attraversa l’intero poema, opponendo ansia e ragione, ignoranza e sapienza, religione e filosofia, schiavitù e liberazione, ecc. «All’interno di tale sistema oppositivo […] in particolare il primo proemio e l’ultimo finale sembrano fissare definitivamente questo carico di tensione in un ideale e meraviglioso duello tra le forze della vita e quelle della morte» (Dionigi).

Secondo Commager, il quadro tucidideo di un popolo malato, arso dalla sete insaziabile e autodistruttiva, assurge nel finale lucreziano a simbolo dello stato di malattia mentale dei tempi di Cesare, e, in genere, dei mali cronici dello spirito umano[2].

C’è stato, infine, chi ha ravvisato nella chiusa espressionistica sulla peste l’ultima e più compiuta manifestazione del lepos, che è alla base della poetica del De rerum natura. Lucrezio – con la parafrasi erudita della scrittura tucididea, impreziosita da contaminazioni con altri autori e tesa all’effetto patetico conforme ai modi del vertere latino – intenderebbe fornire al suo pubblico colto l’estrema prova di consumata perizia tecnica. Così l’episodio avrebbe il valore di un preciso «segno culturale», nell’ambito di una concezione allusiva dell’arte fondata sull’aemulatio con il modello illustre, che nel caso specifico era un autore assai in voga a Roma (come dimostra l’opera di Sallustio)[3].

Pedro Atanasio Bocanegra, Alegoría de la Peste. Olio su tela, XVII sec.

 

Metro: esametri

 

1145 Principio caput incensum feruore gerebant

et duplices oculos suffusa luce rubentis.

Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae

sanguine et ulceribus uocis uia saepta coibat

atque animi interpres manabat lingua cruore

1150 debilitata malis, motu grauis, aspera tactu.

Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum

morbida uis in cor maestum confluxerat aegris,

omnia tum uero uitai claustra lababant.

Spiritus ore foras taetrum uoluebat odorem,

1155 rancida quo perolent proiecta cadauera ritu.

Atque animi prorsum uires totius ‹et› omne

languebat corpus leti iam limine in ipso.

Intolerabilibusque malis erat anxius angor

assidue comes et gemitu commixta querela.

1160 Singultusque frequens noctem per saepe diemque

corripere assidue neruos et membra coactans

dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.

Nec nimio cuiquam posses ardore tueri

corporis in summo summam feruescere partem,

1165 sed potius tepidum manibus proponere tactum

et simul ulceribus quasi inustis omne rubere

corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.

Intima pars hominum uero flagrabat ad ossa,

flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.

1170 Nil adeo posses cuiquam leue tenueque membris

uertere in utilitatem, at uentum et frigora semper.

In fluuios partim gelidos ardentia morbo

membra dabant nudum iacientes corpus in undas.

Multi praecipites lymphis putealibus alte

1175 inciderunt ipso uenientes ore patente:

insedabiliter sitis arida, corpora mersans,

aequabat multum paruis umoribus imbrem.

Nec requies erat ulla mali: defessa iacebant

corpora. Mussabat tacito medicina timore,

1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis

lumina uersarent oculorum expertia somno.

Multaque praeterea mortis tum signa dabantur,

perturbata animi mens in maerore metuque,

triste supercilium, furiosus uultus et acer,

1185 sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,

creber spiritus aut ingens raroque coortus,

sudorisque madens per collum splendidus umor,

tenuia sputa minuta, croci contacta colore

salsaque, per fauces rauca uix edita tussi.

1190 In manibus uero nerui trahere et tremere artus

a pedibusque minutatim succedere frigus

non dubitabat. Item ad supremum denique tempus

compressae nares, nasi primoris acumen

tenue, cauati oculi, caua tempora, frigida pellis

1195 duraque, in ore truci rictum, frons tenta tumebat.

Nec nimio rigida post artus morte iacebant. […]

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

1145 Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infuocato,

gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.

E dentro le livide fauci sudavano sangue,

si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,

e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,

1150 fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.

Quando poi il violento contagio attraverso le fauci

invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,

tutte davvero le barriere della vita vacillavano.

L’alito effondeva dalla bocca un orribile olezzo

1155 come quello che emanano le marce carogne insepolte.

Le forze dell’animo intero e tutta la fibra

del corpo languivano sulle soglie stesse della morte.

Agli atroci dolori era assidua compagna un’ansiosa

angoscia, e un pianto mischiato a continui lamenti.

1160 E spesso un singulto incessante di giorno e di notte,

costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,

tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.

Né avresti potuto notare sulla superficie del corpo

la parte esteriore avvampare di ardore eccessivo,

1165 ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto

e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,

come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.

Ma l’intima parte dell’uomo ardeva fino al fondo delle ossa,

una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.

1170 Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra

inferme, ma vento e frescura sempre.

Alcuni, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo

ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.

Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,

1175 protesi verso di essi con bocca anelante:

un’arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,

uguagliava gran copia di liquido a povere stille.

Né vi era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.

In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,

1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo

dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.

Allora apparivano numerosi presagi di morte:

la mente sconvolta e in preda al terrore e all’affanno,

il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,

1185 e, inoltre, l’udito assillato da una folla di suoni,

il respiro affrettato, oppure lento e profondo,

il collo madido di sudore e lucente umore,

rari ed esili gli sputi, amari, d’un giallo rossastro,

espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.

1190 I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti

a tremare, e man mano a succedere un gelo alla pianta

dei piedi. E, infine, nell’ora suprema, le nari sottili,

la punta del naso affilata, gli occhi infossati,

le concave tempie, la gelida pelle indurita,

1195 sul volto un’immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.

Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. […]

[trad. Canali]

 

Scheletro coppiere. Mosaico, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

1230 Illud in his rebus miserandum magnopere unum

aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat

implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

deficiens animo maesto cum corde iacebat,

funera respectans animam amittebat ibidem.

1235 Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

ex aliis alios auidi contagia morbi,

lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.

Idque uel in primis cumulabat funere funus.

Nam quicumque suos fugitabat uisere ad aegros,

1240 uitai nimium cupidos mortisque timentis

poenibat paulo post turpi morte malaque,

desertos, opis expertis, incuria mactans.

Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

atque labore, pudor quem tum cogebat obire

1245 blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

***

Inque aliis alium, populum sepelire suorum

certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

1250 Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus

nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

et robustus item curui moderator aratri

languebat, penitusque casa contrusa iacebant

1255 corpora paupertate et morbo dedita morti.

Exanimis pueris super exanimata parentum

corpora nonnumquam posses retroque uidere

matribus et patribus natos super edere uitam.

Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem

1260 confluxit, languens quem contulit agricolarum

copia conueniens ex omni morbida parte.

Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu

confertos ita aceruatim mors accumulabat.

Multa siti prostrata uiam per proque uoluta

1265 corpora silanos ad aquarum strata iacebant

interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

multaque per populi passim loca prompta uiasque

languida semanimo cum corpore membra uideres

horrida paedore et pannis cooperta perire

1270 corporis inluuie, pelli super ossibus una,

ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Omnia denique sancta deum delubra replerat

corporibus mors exanimis onerataque passim

cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,

1275 hospitibus loca quae complerant aedituentes.

Nec iam religio diuum nec numina magni

pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

quo prius hic populus semper consuerat humari;

1280 perturbatus enim totus trepidabat, et unus

quisque suum pro re ‹compostum› maestus humabat.

Multaque ‹res› subita et paupertas horrida suasit.

Namque suos consanguineos aliena rogorum

insuper exstructa ingenti clamore locabant

1285 subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

rixantes potius quam corpora desererentur.

 

1230 Ma in tal frangente, questo era più miserabile

e doloroso, che, quando ciascuno vedeva se stesso

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con il cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

1235 Infatti, davvero non cessavano mai di raccogliere

gli uni dagli altri il contagio dell’avido morbo,

come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.

Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.

Quanti, infatti, rifuggivano dal visitare i parenti infermi,

1240 troppo cupidi della vita e timorosi della morte,

poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,

derelitti e privi d’aiuto, con una morte vergognosa e infame.

Chi, invece, era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio

e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,

1245 tra le fievoli voci dei malati, miste a lamenti.

Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.

***

gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei propri defunti,

e, infine, tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;

e gran parte di loro cadeva affranta sui letti.

1250 Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente

non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.

Inoltre, già il pastore e il guardiano di armenti

e il robusto guidatore dell’aratro ricurvo

languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi

1255 i corpi dati alla morte dalla miseria e dal morbo.

Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi

dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,

e, al contrario, spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.

Il contagio in gran parte si diffuse dai campi

1260 nella grande città, portato da una folla sfinita

di bifolchi, affluita da tutte le zone già infette.

Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte

più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.

Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano

1265 riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,

il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,

e molti ne avresti veduti qua e là per la strada

e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,

e squallidi e lerci perire, coperti di cenci

1270 e lordure sul corpo; sulle ossa soltanto la pelle

quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.

La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi

di corpi inerti, e tutti i tempi dei celesti

restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,

1275 luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.

Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino

e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.

Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti

che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;

1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,

e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.

La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.

Con alto clamore ponevano i loro congiunti

sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,

1285 appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro

in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.

[trad. Canali]

Scheletro (γνῶθι σαυτόν). Mosaico pavimentale. Roma, Museo Nazionale Romano P.zzo Massimo alle Terme.

 

Una chiusa inadeguata? | Un poema che si apre con il trionfo della vita (l’inno a Venere, premio al I libro) e si chiude con quello della morte: l’accanita esposizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., nel finale del VI (e ultimo) libro ha sempre turbato lettori e critici. Si è pensato che il finale sia incompiuto, che il poema dovesse concludersi con la descrizione delle sede dei beati degli dèi.

Si è detto anche che la peste, con le sue scene di morte, è una manifestazione del pessimismo lucreziano: ma la morte, in tutte le sue forme, è per Lucrezio (e per Epicuro) l’altra faccia della vita, un aspetto, terribile ma necessario, della natura. E, in effetti, la dialettica tra vita e morte non resta isolata ai “margini” del poema, all’inizio e alla fine, ma prosegue al suo interno, ripetuta in mille contesti più limitati, fino a creare nel lettore l’impressione che tale alternativa sia una regola fondamentale dell’universo, in cui creazione e distruzione si susseguono senza pause. D’altra parte, questo grandioso affresco finale di morte sembra davvero contenere in sé l’ultima lezione moral del poema: giunto al termine del viaggio verso la sapientia, il lettore-discepolo deve saper guardare senza sgomento anche agli aspetti più scabrosi della natura; conquistare le vette dei sapientum templa serena (II 8), riscattato dall’asservimento ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, è ormai in grado di contemplare dall’alto, senza vertigini d’orrore, l’abisso delle profondità cosmiche.

I signa della peste | Nella sua opera storica Tucidide decise di descrivere l’epidemia di peste che colpì Atene a memoria dei posteri, affinché potesse essere riconosciuta fin da suoi prodromi, se si fosse ripresentata (II 48, 3), e la descrisse in modo affidabile, essendone rimasto contagiato anche lui, anche se in modo guaribile. Nei confronti del brano tucidideo Lucrezio esegue una vera e propria opera di riscrittura, operando scarti significativi che danno un senso nuovo all’evento.

I primi sintomi | Riguardo ai prodromi della malattia Tucidide scrisse: «Dapprima erano colti da forti calori alla testa e da arrossamenti e bruciori agli occhi: e gli organi interni, cioè la gola e la lingua, subito erano di colore sanguigno ed emanavano un alito strano e fetido» (II 49, 2). Lucrezio, significativamente, inserisce qui la descrizione della voce soffocata e della lingua inerte (vv. 1148-1150): in polemica con gli stoici, che consideravano la gola come via vocis per dimostrare il mirabile funzionamento del corpo umano, opera della divina provvidenza, Lucrezio la applica alla degenerazione patologica di quell’organismo, attaccato dal male, per mostrare l’assenza di ogni tipo di disegno divino.

L’avanzare della malattia | Nel descrivere la progressione della peste, Tucidide (II 49, 3) procede dalla testa alla gola, dalla gola al petto e dal petto allo stomaco, dove la malattia provoca dolorosi travasi di bile. Lucrezio (vv. 1151-1159) sostituisce allo stomaco il cuore, che per gli epicurei era la sede dell’intelletto, perché nella sua descrizione la degenerazione fisica è strettamente correlata alla degenerazione delle facoltà intellettuali (si noti anche l’aggettivo maestum, indicante un’emozione, v. 1152). Nel testo lucreziano, dunque, l’epidemia viene vista da vicino, nei suoi dettagli più brutali, e, per raggiungere un tono il più possibile macabro, il poeta fa ricorso al registro dell’orrido: volvebat, «riversava (l’odore)», v. 1154; cadavera e il raro composto perolent (v. 1155, marcato dall’allitterazione con proiecta).

La fase acuta | Nel descrivere gli effetti del calore interno (Thuc. II 49, 5: «Ma gli organi interni bruciavano a tal punto che non sopportavano di essere coperti né da vesti assolutamente leggere o da lini, né da altro che non fosse l’essere nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda»), Lucrezio dà rilievo al rovesciamento dell’ordine naturale nei bisogni sentiti dall’uomo e rimanda il lettore al proemio del II libro (vv. 34 ss.), in cui aveva già descritto l’inquietudine dei febbricitanti come esempio emblematico dell’angoscia esistenziale che opprima l’umanità stolta.

L’ultimo stadio | Il fitto dialogo con Tucidide si interrompe nel quarto stadio della malattia (i segni di morte imminente, vv. 1182-1196): l’argomento non era stato affrontato dallo storico greco e Lucrezio utilizza come fonte il corpus delle opere ippocratiche, in cui, tuttavia, la trattazione non aveva riferimento specifico alla peste. I materiali della scienza medica – un sapere fondato, al pari della fisiologia epicurea, sull’osservazione dei signa – permettono di seguire fino in fondo lo stravolgimento operato dalla peste nella psiche e nel corpo.

La morte in Epicuro e in Lucrezio | Negli scritti di Epicuro pervenuti, la morte è un argomento trattato con astrattezza intellettuale: essa è vista come la dispersione degli atomi che prima erano aggregati tra loro. Lucrezio, invece, nell’ambito della rievocazione della peste di Atene, si sofferma sugli aspetti più concreti e materiali del fenomeno, facendo appello a diverse percezioni sensoriali: l’olfatto (per il puzzo della decomposizione dei cadaveri), la vista (per il rossore delle pustole nelle quali il sangue si coagula), l’udito (per il lamento dei malati), il tatto (per le insopportabili sensazioni di caldo e di freddo connesse al decorso della malattia).

***

Note

[1] Perelli L., Lucrezio, in La Penna A. (ed.), Cultura latina, 3, Firenze 1986, 222: «Il confronto [con Thuc. II 47-53] è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte, Lucrezio sostituisce all’esattezza scientifica e positivistica di Tucidide una visione surrealistica e magica, e le variazioni al testo tucidideo si svolgono lungo tre linee direttrici: l’esasperazione dei particolari orripilanti e ripugnanti, la sottolineatura delle ripercussioni del male fisico sugli animi e dell’angoscia di fronte alla morte, e l’ingigantire delle proporzioni e della violenza del morbo, che condanna gli uomini ad universale e inarrestabile rovina. Inoltre, Tucidide non lascia trasparire alcuna emozione, mentre Lucrezio qui più che altrove partecipa alle sofferenze dell’umanità e cede alla voce della pietà e della compassione. Il sentimento di pietà per la sofferenza umana, che nel corso del poema affiora solo episodicamente, dominato, o almeno mascherato, dall’opposto atteggiamento di sdegno e di condanna, investe diffusamente la pagina della peste. Di fronte all’estrema miseria dell’uomo oppresso dalla natura crudele il poeta svela una commozione dolente e pietosa per la sorte dell’umanità, in una tacita e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana della Ginestra. […] Nella descrizione della peste si assommano gli aspetti, per così dire, antiepicurei della poesia lucreziana: il senso attonito del mistero, l’orrore della vita come sofferenza, tormento e degradazione, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele. La scienza si rivela inutile e incapace a strappare alla natura il suo segreto, a lenire la sofferenza dell’uomo; la natura ostile non distingue nella sua furia devastatrice il malvagio dall’onesto, l’ignorante dal saggio, e anche gli animali sono coinvolti nell’universale rovina.

[2] Commager H.S., Lucretius’ Interpretation of the Plague, HSCPh 62 (1957), 115-118 [trad. it. Perelli] [Jstor]: «Per Tucidide, due sono le cose più terribili (II 51, 4): da un lato l’apatia, dall’altro il pericolo di contagio. Lucrezio vede solo una cosa come miserandum magnopere (VI 1230). Egli attribuisce massima importanza all’apatia (deficiens animo, 1233), mentre il diffondersi del contagio acquista una posizione subordinata (quippe etenim, 1235). La disposizione mentale o psicologica, che deriva dalla mancanza di ogni certa ratio, appare a Lucrezio come l’aspetto principale. L’aspetto fisico è relegato in una posizione dipendente, con un notevole disordine sintattico. Implicitum morbo (v. 1232) sembra indicare la via in cui si muove il pensiero di Lucrezio. Il termine compare solo una volta altrove. L’uomo può sfuggire dalle reti d’amore, implicitus, a meno che egli da sé non si ostacoli nel suo cammino (nisi tute tibi obuius obstes, IV 1150). Le forze esterne non sono più di pari importanza, come erano per Tucidide. La disperazione dell’uomo davanti al suo stato incurabile è assai significativa: egli si ostacola nel suo stesso cammino. […] Io avanzo solo l’ipotesi che il quadro tucidideo di un popolo malato, ardente di una sete insaziabile e autodistruttiva, spossato e incerto, può oscuramente aver richiamato a Lucrezio la sua personale immagine dell’umanità. Per questo motivo egli fa proprio il racconto di Tucidide. Esso diventa non la mera climax fisica dei fenomeni fisici del VI libro, ma il culmine morale dell’intero poema. Mentre Tucidide menziona la peste come un esempio utile per le future generazioni (II 48, 3), Lucrezio la assume come un simbolo del presente stato di malattia mentale».

[3] Salemme C., Strutture semiologiche nel De rerum natura di Lucrezio, Napoli 1980, 86-87: «A motivare l’episodio della peste di Atene e nell’espressione poetica e nella struttura generale del libro e del poema è stato proprio quel lepos, col quale è così apparentemente in contrasto. Nel brano finale Lucrezio ha dato un quadro poetico di finissima fattura: lo spunto gli veniva direttamente dall’argomento trattato prima, i morbi, prodotti dalla vis, in relazione con la summa rerum; ma i “modi” della resa del brano dovevano conferire all’episodio un tono particolarmente sostenuto e dotto, un tono attraverso il quale il lepos e la consumata perizia poetica dello scrittore dovevano celebrare la loro ultima, più scaltrita manifestazione. E, in realtà, il brano non è altro che una serie di dotte, allusive parafrasi del testo tucidideo, di accurate inserzioni, di contaminazioni da altri autori, di precise intensificazioni patetiche sulla scia della vetusta tradizione del vertere latino. Il pubblico colto, al quale il poema era in particolare destinato, non poteva non affermare la consumata perizia poetica dell’autore: in tal senso, l’intero episodio della peste d’Atene s’atteggia a preciso segno culturale e, proprio per il carattere composito e inconfondibile della sua “scrittura”, mostra le interrelazioni tra autore e destinatario dell’opera».

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Riferimenti bibliografici

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