Uno spaventoso flagello e le sue conseguenze morali (Thuc. II 47,2-53)

da BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. 2B. La prosa e forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 112-118.

 

All’invasione dell’Attica da parte spartana, Pericle aveva reagito con una strategia che puntava sulla possibilità di Atene di rifornirsi via mare: aveva fatto raccogliere tutta la popolazione attica entro le mura cittadine (decisione che era stata poco gradita ai contadini), abbandonando le campagne alle devastazioni del nemico. Senonché, a breve distanza dall’inizio delle ostilità, intervenne un fatto nuovo che sconvolse i piani strategici dello statista ateniese.

Nel corso del 430 a.C., infatti, dall’Etiopia, attraverso l’Egitto, la Libia e Lemno giunse ad Atene una spaventosa epidemia di peste polmonare, malattia fino ad allora sconosciuta (e ancor oggi imprecisata); il malanno, favorito dall’eccezionale calura estiva e dalle precarie condizioni igieniche della città, si diffuse rapidamente in tutta Atene, sovraffollata di profughi provenienti da ogni angolo dell’Attica.

Tucidide, che ne fu contagiato e sopravvisse, lasciò un’accurata e particolareggiata descrizione dei sintomi della malattia, certo di fare opera utile se essa fosse ricomparsa in seguito, visto che la mortalità fu indubbiamente accresciuta dall’ignoranza della tipologia del male e delle cure necessarie, se non per guarirlo, quantomeno per limitarne la diffusione.

 

Michael Sweerts, La pestilenza in un’antica città. Olio su tela, 1652-54.

 

[47, 2] τοῦ δὲ θέρους εὐθὺς ἀρχομένου Πελοποννήσιοι καὶ οἱ ξύμμαχοι τὰ δύο μέρη ὥσπερ καὶ τὸ πρῶτον ἐσέβαλον ἐς τὴν Ἀττικήν (ἡγεῖτο δὲ Ἀρχίδαμος ὁ Ζευξιδάμου Λακεδαιμονίων [3] βασιλεύς), καὶ καθεζόμενοι ἐδῄουν τὴν γῆν. καὶ ὄντων αὐτῶν οὐ πολλάς πω ἡμέρας ἐν τῇ Ἀττικῇ ἡ νόσος πρῶτον ἤρξατο γενέσθαι τοῖς Ἀθηναίοις, λεγόμενον μὲν καὶ πρότερον πολλαχόσε ἐγκατασκῆψαι καὶ περὶ Λῆμνον καὶ ἐν ἄλλοις χωρίοις, οὐ μέντοι τοσοῦτός γε λοιμὸς οὐδὲ φθορὰ [4] οὕτως ἀνθρώπων οὐδαμοῦ ἐμνημονεύετο γενέσθαι. οὔτε γὰρ ἰατροὶ ἤρκουν τὸ πρῶτον θεραπεύοντες ἀγνοίᾳ, ἀλλ’ αὐτοὶ μάλιστα ἔθνῃσκον ὅσῳ καὶ μάλιστα προσῇσαν, οὔτε ἄλλη ἀνθρωπεία τέχνη οὐδεμία· ὅσα τε πρὸς ἱεροῖς ἱκέτευσαν ἢ μαντείοις καὶ τοῖς τοιούτοις ἐχρήσαντο, πάντα ἀνωφελῆ ἦν, τελευτῶντές τε αὐτῶν ἀπέστησαν ὑπὸ τοῦ κακοῦ νικώμενοι. [48, 1] ἤρξατο δὲ τὸ μὲν πρῶτον, ὡς λέγεται, ἐξ Αἰθιοπίας τῆς ὑπὲρ Αἰγύπτου, ἔπειτα δὲ καὶ ἐς Αἴγυπτον καὶ Λιβύην [2] κατέβη καὶ ἐς τὴν βασιλέως γῆν τὴν πολλήν. ἐς δὲ τὴν Ἀθηναίων πόλιν ἐξαπιναίως ἐσέπεσε, καὶ τὸ πρῶτον ἐν τῷ Πειραιεῖ ἥψατο τῶν ἀνθρώπων, ὥστε καὶ ἐλέχθη ὑπ’ αὐτῶν ὡς οἱ Πελοποννήσιοι φάρμακα ἐσβεβλήκοιεν ἐς τὰ φρέατα· κρῆναι γὰρ οὔπω ἦσαν αὐτόθι. ὕστερον δὲ καὶ ἐς τὴν ἄνω [3] πόλιν ἀφίκετο, καὶ ἔθνῃσκον πολλῷ μᾶλλον ἤδη. λεγέτω μὲν οὖν περὶ αὐτοῦ ὡς ἕκαστος γιγνώσκει καὶ ἰατρὸς καὶ ἰδιώτης, ἀφ’ ὅτου εἰκὸς ἦν γενέσθαι αὐτό, καὶ τὰς αἰτίας ἅστινας νομίζει τοσαύτης μεταβολῆς ἱκανὰς εἶναι δύναμιν ἐς τὸ μεταστῆσαι σχεῖν· ἐγὼ δὲ οἷόν τε ἐγίγνετο λέξω, καὶ ἀφ’ ὧν ἄν τις σκοπῶν, εἴ ποτε καὶ αὖθις ἐπιπέσοι, μάλιστ’ ἂν ἔχοι τι προειδὼς μὴ ἀγνοεῖν, ταῦτα δηλώσω αὐτός τε νοσήσας καὶ αὐτὸς ἰδὼν ἄλλους πάσχοντας.

[49, 1] Τὸ μὲν γὰρ ἔτος, ὡς ὡμολογεῖτο, ἐκ πάντων μάλιστα δὴ ἐκεῖνο ἄνοσον ἐς τὰς ἄλλας ἀσθενείας ἐτύγχανεν ὄν· εἰ δέ [2] τις καὶ προύκαμνέ τι, ἐς τοῦτο πάντα ἀπεκρίθη. τοὺς δὲ ἄλλους ἀπ’ οὐδεμιᾶς προφάσεως, ἀλλ’ ἐξαίφνης ὑγιεῖς ὄντας πρῶτον μὲν τῆς κεφαλῆς θέρμαι ἰσχυραὶ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν ἐρυθήματα καὶ φλόγωσις ἐλάμβανε, καὶ τὰ ἐντός, ἥ τε φάρυγξ καὶ ἡ γλῶσσα, εὐθὺς αἱματώδη ἦν καὶ πνεῦμα [3] ἄτοπον καὶ δυσῶδες ἠφίει· ἔπειτα ἐξ αὐτῶν πταρμὸς καὶ βράγχος ἐπεγίγνετο, καὶ ἐν οὐ πολλῷ χρόνῳ κατέβαινεν ἐς τὰ στήθη ὁ πόνος μετὰ βηχὸς ἰσχυροῦ· καὶ ὁπότε ἐς τὴν καρδίαν στηρίξειεν, ἀνέστρεφέ τε αὐτὴν καὶ ἀποκαθάρσεις χολῆς πᾶσαι ὅσαι ὑπὸ ἰατρῶν ὠνομασμέναι εἰσὶν ἐπῇσαν, [4] καὶ αὗται μετὰ ταλαιπωρίας μεγάλης. λύγξ τε τοῖς πλέοσιν ἐνέπιπτε κενή, σπασμὸν ἐνδιδοῦσα ἰσχυρόν, τοῖς μὲν [5] μετὰ ταῦτα λωφήσαντα, τοῖς δὲ καὶ πολλῷ ὕστερον. καὶ τὸ μὲν ἔξωθεν ἁπτομένῳ σῶμα οὔτ’ ἄγαν θερμὸν ἦν οὔτε χλωρόν, ἀλλ’ ὑπέρυθρον, πελιτνόν, φλυκταίναις μικραῖς καὶ ἕλκεσιν ἐξηνθηκός· τὰ δὲ ἐντὸς οὕτως ἐκάετο ὥστε μήτε τῶν πάνυ λεπτῶν ἱματίων καὶ σινδόνων τὰς ἐπιβολὰς μηδ’ ἄλλο τι ἢ γυμνοὶ ἀνέχεσθαι, ἥδιστά τε ἂν ἐς ὕδωρ ψυχρὸν σφᾶς αὐτοὺς ῥίπτειν. καὶ πολλοὶ τοῦτο τῶν ἠμελημένων ἀνθρώπων καὶ ἔδρασαν ἐς φρέατα, τῇ δίψῃ ἀπαύστῳ ξυνεχόμενοι· καὶ ἐν τῷ ὁμοίῳ καθειστήκει τό τε πλέον καὶ [6] ἔλασσον ποτόν. καὶ ἡ ἀπορία τοῦ μὴ ἡσυχάζειν καὶ ἡ ἀγρυπνία ἐπέκειτο διὰ παντός. καὶ τὸ σῶμα, ὅσονπερ χρόνον καὶ ἡ νόσος ἀκμάζοι, οὐκ ἐμαραίνετο, ἀλλ’ ἀντεῖχε παρὰ δόξαν τῇ ταλαιπωρίᾳ, ὥστε ἢ διεφθείροντο οἱ πλεῖστοι ἐναταῖοι καὶ ἑβδομαῖοι ὑπὸ τοῦ ἐντὸς καύματος, ἔτι ἔχοντές τι δυνάμεως, ἢ εἰ διαφύγοιεν, ἐπικατιόντος τοῦ νοσήματος ἐς τὴν κοιλίαν καὶ ἑλκώσεώς τε αὐτῇ ἰσχυρᾶς ἐγγιγνομένης καὶ διαρροίας ἅμα ἀκράτου ἐπιπιπτούσης οἱ πολλοὶ ὕστερον [7] δι’ αὐτὴν ἀσθενείᾳ διεφθείροντο. διεξῄει γὰρ διὰ παντὸς τοῦ σώματος ἄνωθεν ἀρξάμενον τὸ ἐν τῇ κεφαλῇ πρῶτον ἱδρυθὲν κακόν, καὶ εἴ τις ἐκ τῶν μεγίστων περιγένοιτο, τῶν [8] γε ἀκρωτηρίων ἀντίληψις αὐτοῦ ἐπεσήμαινεν. κατέσκηπτε γὰρ ἐς αἰδοῖα καὶ ἐς ἄκρας χεῖρας καὶ πόδας, καὶ πολλοὶ στερισκόμενοι τούτων διέφευγον, εἰσὶ δ’ οἳ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν. τοὺς δὲ καὶ λήθη ἐλάμβανε παραυτίκα ἀναστάντας τῶν πάντων ὁμοίως, καὶ ἠγνόησαν σφᾶς τε αὐτοὺς καὶ τοὺς [50, 1] ἐπιτηδείους. γενόμενον γὰρ κρεῖσσον λόγου τὸ εἶδος τῆς νόσου τά τε ἄλλα χαλεπωτέρως ἢ κατὰ τὴν ἀνθρωπείαν φύσιν προσέπιπτεν ἑκάστῳ καὶ ἐν τῷδε ἐδήλωσε μάλιστα ἄλλο τι ὂν ἢ τῶν ξυντρόφων τι· τὰ γὰρ ὄρνεα καὶ τετράποδα ὅσα ἀνθρώπων ἅπτεται, πολλῶν ἀτάφων γιγνομένων ἢ οὐ [2] προσῄει ἢ γευσάμενα διεφθείρετο. τεκμήριον δέ· τῶν μὲν τοιούτων ὀρνίθων ἐπίλειψις σαφὴς ἐγένετο, καὶ οὐχ ἑωρῶντο οὔτε ἄλλως οὔτε περὶ τοιοῦτον οὐδέν· οἱ δὲ κύνες μᾶλλον αἴσθησιν παρεῖχον τοῦ ἀποβαίνοντος διὰ τὸ ξυνδιαιτᾶσθαι.

Tucidide. Busto, calco da copia romana del I sec. a.C. da originale greco del IV sec. a.C. Moskow, Pushkin Museum.

[47, 2] Subito all’inizio dell’estate [del 430] i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con due terzi delle loro forze, come avevano fatto in precedenza (li guidava Archidamo, figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni), e, dopo essersi accampati, cominciarono a devastare il territorio. [3] Non erano in Attica ancora da molti giorni, quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi: si diceva che fosse scoppiata anche prima, sia dalle parti di Lemno sia in altre località; tuttavia, non si ricordava che ci fosse mai stata da alcuna parte una pestilenza talmente estesa né una tale strage di persone. [4] Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra conoscenza umana. Tutte le suppliche che facevano nei templi o l’uso che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e, alla fine, essi se ne astennero, sgominati dal male. [48, 1] Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l’Etiopia, nella parte al di là dell’Egitto[1], poi scese anche in Egitto, in Libia e nella maggior parte del territorio del Re. [2] Nella città di Atene piombò all’improvviso, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; così da parte loro fu detto che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là, infatti, non c’erano ancora fontane. Successivamente giunse anche nella parte alta della città, e da quel momento i decessi aumentarono di molto. [3] Ora, sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le proprie conoscenze, dicendo da che cosa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare capaci di provocare il mutamento di salute; quanto a me, invece, io dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in anticipo qualcosa[2]: io stesso ho contratto la malattia e io stesso ho visto altri che ne hanno sofferto.

[49, 1] Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato eccezionalmente immune da altre malattie: ma se qualcuno aveva già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa. [2] Gli altri, invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani, improvvisamente erano colti da violente vampate di calore alla testa e da arrossamento e infiammazione agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. [3] Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva e ne derivavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza. [4] Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito a vuoto, ma producevano violente convulsioni: per alcuni ciò si verificò dopo che era trascorso molto tempo. [5] Esternamente il corpo non era troppo caldo al tatto, né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di ulcere. L’interno, invece, bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di essere coperti da vesti o tele di lino leggerissime, né sopportavano altro che l’esser nudi; e ciò che avrebbero fatto con il più grande piacere sarebbe stato gettarsi nell’acqua fredda: questo, in realtà, lo fecero molti dei degenti trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete inestinguibile; eppure, bere di più o di meno non faceva alcuna differenza. [6] E la difficoltà di riposare e l’insonnia li affliggevano costantemente. Il corpo per tutto il tempo in cui la malattia era nella fase acuta non deperiva, ma resisteva inaspettatamente alla sofferenza; e così la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno a causa del calore interno, sebbene avesse ancora un po’ di forza; oppure, se si salvavano, la malattia scendeva ancora nell’intestino, si produceva in esso un’ulcerazione violenta e insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea completamente liquida; e, in seguito, a causa della debolezza che essa provocava, i più decedevano. [7] Infatti, il male percorreva tutto il corpo partendo dall’alto, stabilendosi prima nella testa; e se uno si salvava dal pericolo più grave, l’ammalarsi delle estremità era un sintomo del malanno. [8] Colpiva infatti anche gli organi sessuali e le punte di mani e piedi; e molti sopravvivevano con la perdita di queste parti, alcuni anche rimettendoci gli occhi. Alcuni, quando si ristabilivano, sul momento furono colti da amnesia per tutte le cose, senza distinzioni, e perdettero la conoscenza di se stessi e dei propri familiari. [50, 1] La natura della malattia era inspiegabile, e furono vari i modi in cui essa si abbatté sui singoli individui con troppa violenza perché la natura umana potesse sopportarla: ma questo fu l’aspetto in cui più chiaramente si manifestò come un male diverso dalle solite malattie; infatti, gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, benché ci fossero molti cadaveri insepolti, non li toccavano, o se ne assaggiavano, morivano. [2] Questa ne è la prova: la sparizione di tali uccelli divenne chiara e non se ne vedevano vicino a un cadavere né altrove. I cani, però, offrivano una più evidente possibilità di osservazione di quanto stava accadendo, dacché vivono insieme all’uomo.

[trad. G. Donini]

 

 

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La peste e la forza dell’imprevedibile

Il brano considerato si colloca subito dopo la conclusione del λόγος ἐπιτάφιος («discorso funebre») pronunciato da Pericle in onore dei caduti dell’anno 431/0 a.C., così che la drammaticità e l’orrore di queste pagine assumono un risalto ancora maggiore dal confronto con le immagini di splendore e di grandiosità evocate dall’oratore con il suo elogio di Atene. All’inizio dell’estate del 430 a.C., dunque, dopo che l’esercito di Archidamo aveva invaso l’Attica, in Atene cominciarono a manifestarsi i sintomi della «malattia» (ἡ νόσος). Secondo una vaga indicazione cronologica di Tucidide, essa era apparsa «anche prima» nell’isola di Lemno, nell’Egeo settentrionale, e prima ancora, in Etiopia, in Egitto, in Libia e in Persia; perciò, anche se queste localizzazioni appaiono piuttosto imprecise, sembrerebbe contraddittoria la successiva affermazione dello storico, secondo la quale i medici non erano in grado di curare la malattia «per ignoranza» (ἀγνοίᾳ), perché si trovavano di fronte a essa per la prima volta. I progressi della medicina come scienza, al tempo di Tucidide, erano stati notevoli, tanto che i medici erano in grado di formulare diagnosi e di consigliare terapie in base all’osservazione dei sintomi e del decorso di una malattia; perché, dunque, essi apparvero così impotenti di fronte al λοιμὸς (alla «peste»)?

I testi medici del tempo non fanno parola del morbo e la prima descrizione dei sintomi e del decorso della malattia è proprio quella fornita da Tucidide; ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’epidemia sollevava un problema epistemologico che le teorie della medicina antica e l’eziologia abitualmente applicata per scoprire l’origine dei mali non erano in grado di risolvere. Si trattava, infatti, di spiegare un duplice fenomeno: da un lato, che uno stesso male potesse colpire un popolo nella quasi totalità, nello stesso tempo e nello stesso luogo; dall’altro, che questo male avesse origini geografiche lontane e diverse. La principale difficoltà consisteva nel trovare una spiegazione identica per i due fenomeni; infatti, se il primo poteva essere affrontato sulla base delle dottrine ippocratiche (anamnesi, prognosi e diagnosi), pur rimanendo insoluto il problema dell’efficacia saltuaria delle terapie, il secondo era destinato a rimanere inspiegato. Infatti, le teorie ippocratiche non fornivano alcuna informazione circa i concetti di veicolo, diffusione e meccanismo del contagio, e nemmeno una giustificazione agli spostamenti geografici della malattia. Inoltre, essa sembrava sottrarsi anche alle più comuni spiegazioni di carattere eziologico, visto che il contagio si estendeva senza tener conto dell’età, del sesso, della maggiore o minore robustezza della costituzione fisica degli individui.

La sola spiegazione che la medicina antica poteva fornire era quella di indicare l’aria come possibile veicolo di infezione, ma ciò non bastava a chiarire come il male potesse essersi sviluppato in regioni tanto lontane e attecchire, poi, con tanta virulenza in ambiti geografici del tutto diversi, visto che si era convinti che ogni luogo avesse una propria fisionomia ben differenziata da quella di altre zone.

Anche la medicina «clinica», cioè quella che si fondava sull’assistenza presso il «letto» (κλίνη) degli ammalati, era resa impossibile dalla rapidità con la quale il contagio si estendeva, impedendo l’utilizzazione delle indicazioni che essa forniva abitualmente per mezzo dell’analisi delle cause, dell’interpretazione dei sintomi e dell’osservazione del decorso del male. Tali deduzioni, infatti, si basavano sull’attenta analisi di casi individuali, mentre in presenza di un’epidemia, come quella descritta da Tucidide, l’individuo scompariva nella massa e non aveva più alcun significato in quanto singolo.

Pertanto, l’evidente inadeguatezza della scienza medica, dovuto i motivi che abbiamo appena accennato (oggi possiamo affermare che essa dipese dall’ignoranza della microbiologia), contribuì a creare in Atene quel clima di assoluta precarietà del vivere che fu, secondo Tucidide, la causa prima dello sfacelo morale che coinvolse i cittadini, in preda al terrore irrazionale della morte considerata ormai da ciascuno come un flagello imminente e inevitabile. In ultima analisi, ciò che accadde fu, per dirla in termini tucididei, una vittoria dell’ἀγνοίᾳ («ignoranza»), del παράλογον («imprevisto») e della τύχη («sorte»), sulla γνώμη («decisione») di chi aveva voluto la guerra senza poter umanamente prevedere quanto sarebbe accaduto, e anche di tutti coloro che rimasero vittime del contagio prima di potersi rendere conto di quale fosse la natura del male che li stava sterminando.

Robert Thom, La cura dei malati nel tempio di Asclepio.

 

Nella descrizione della peste di Atene, l’opera di Tucidide rivela, accanto all’accuratezza dello storico, una venatura di amaro pessimismo di fronte alle conseguenze morali suscitate nei singoli e nella collettività dalla presenza costante della morte e dal senso di totale impotenza e precarietà esistenziale che ne scaturisce. Secondo l’ottica dell’autore, la catastrofe ha contribuito, insieme ai disagi della guerra, a rivelare non solo la fragilità della natura umana, abbastanza prevedibile per chi, come il nostro storico, sia per carattere incline al pessimismo, ma ha messo anche in luce (e questo appare molto più grave) come un evento del genere possa, in un tempo relativamente breve, mettere in crisi regole di vita e istituzioni, ritenute saldissime per la loro stessa natura e perché sostenute da una lunghissima e rispettata tradizione.

 

[51, 1] Τὸ μὲν οὖν νόσημα, πολλὰ καὶ ἄλλα παραλιπόντι ἀτοπίας, ὡς ἑκάστῳ ἐτύγχανέ τι διαφερόντως ἑτέρῳ πρὸς ἕτερον γιγνόμενον, τοιοῦτον ἦν ἐπὶ πᾶν τὴν ἰδέαν. καὶ ἄλλο παρελύπει κατ’ ἐκεῖνον τὸν χρόνον οὐδὲν τῶν εἰωθότων· ὃ [2] δὲ καὶ γένοιτο, ἐς τοῦτο ἐτελεύτα. ἔθνῃσκον δὲ οἱ μὲν ἀμελείᾳ, οἱ δὲ καὶ πάνυ θεραπευόμενοι. ἕν τε οὐδὲ ἓν κατέστη ἴαμα ὡς εἰπεῖν ὅτι χρῆν προσφέροντας ὠφελεῖν· [3] τὸ γάρ τῳ ξυνενεγκὸν ἄλλον τοῦτο ἔβλαπτεν. σῶμά τε αὔταρκες ὂν οὐδὲν διεφάνη πρὸς αὐτὸ ἰσχύος πέρι ἢ ἀσθενείας, ἀλλὰ πάντα ξυνῄρει καὶ τὰ πάσῃ διαίτῃ θεραπευόμενα. [4] δεινότατον δὲ παντὸς ἦν τοῦ κακοῦ ἥ τε ἀθυμία ὁπότε τις αἴσθοιτο κάμνων (πρὸς γὰρ τὸ ἀνέλπιστον εὐθὺς τραπόμενοι τῇ γνώμῃ πολλῷ μᾶλλον προΐεντο σφᾶς αὐτοὺς καὶ οὐκ ἀντεῖχον), καὶ ὅτι ἕτερος ἀφ’ ἑτέρου θεραπείας ἀναπιμπλάμενοι ὥσπερ τὰ πρόβατα ἔθνῃσκον· καὶ τὸν πλεῖστον [5] φθόρον τοῦτο ἐνεποίει. εἴτε γὰρ μὴ ‘θέλοιεν δεδιότες ἀλλήλοις προσιέναι, ἀπώλλυντο ἐρῆμοι, καὶ οἰκίαι πολλαὶ ἐκενώθησαν ἀπορίᾳ τοῦ θεραπεύσοντος· εἴτε προσίοιεν, διεφθείροντο, καὶ μάλιστα οἱ ἀρετῆς τι μεταποιούμενοι· αἰσχύνῃ γὰρ ἠφείδουν σφῶν αὐτῶν ἐσιόντες παρὰ τοὺς φίλους, ἐπεὶ καὶ τὰς ὀλοφύρσεις τῶν ἀπογιγνομένων τελευτῶντες καὶ οἱ οἰκεῖοι ἐξέκαμνον ὑπὸ τοῦ πολλοῦ κακοῦ [6] νικώμενοι. ἐπὶ πλέον δ’ ὅμως οἱ διαπεφευγότες τόν τε θνῄσκοντα καὶ τὸν πονούμενον ᾠκτίζοντο διὰ τὸ προειδέναι τε καὶ αὐτοὶ ἤδη ἐν τῷ θαρσαλέῳ εἶναι· δὶς γὰρ τὸν αὐτόν, ὥστε καὶ κτείνειν, οὐκ ἐπελάμβανεν. καὶ ἐμακαρίζοντό τε ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ αὐτοὶ τῷ παραχρῆμα περιχαρεῖ καὶ ἐς τὸν ἔπειτα χρόνον ἐλπίδος τι εἶχον κούφης μηδ’ ἂν ὑπ’ ἄλλου νοσήματός ποτε ἔτι διαφθαρῆναι.

[52, 1] Ἐπίεσε δ’ αὐτοὺς μᾶλλον πρὸς τῷ ὑπάρχοντι πόνῳ καὶ ἡ ξυγκομιδὴ ἐκ τῶν ἀγρῶν ἐς τὸ ἄστυ, καὶ οὐχ ἧσσον τοὺς [2] ἐπελθόντας. οἰκιῶν γὰρ οὐχ ὑπαρχουσῶν, ἀλλ’ ἐν καλύβαις πνιγηραῖς ὥρᾳ ἔτους διαιτωμένων ὁ φθόρος ἐγίγνετο οὐδενὶ κόσμῳ, ἀλλὰ καὶ νεκροὶ ἐπ’ ἀλλήλοις ἀποθνῄσκοντες ἔκειντο καὶ ἐν ταῖς ὁδοῖς ἐκαλινδοῦντο καὶ περὶ τὰς κρήνας ἁπάσας [3] ἡμιθνῆτες τοῦ ὕδατος ἐπιθυμίᾳ. τά τε ἱερὰ ἐν οἷς ἐσκήνηντο νεκρῶν πλέα ἦν, αὐτοῦ ἐναποθνῃσκόντων· ὑπερβιαζομένου γὰρ τοῦ κακοῦ οἱ ἄνθρωποι, οὐκ ἔχοντες ὅτι γένωνται, ἐς [4] ὀλιγωρίαν ἐτράποντο καὶ ἱερῶν καὶ ὁσίων ὁμοίως. νόμοι τε πάντες ξυνεταράχθησαν οἷς ἐχρῶντο πρότερον περὶ τὰς ταφάς, ἔθαπτον δὲ ὡς ἕκαστος ἐδύνατο. καὶ πολλοὶ ἐς ἀναισχύντους θήκας ἐτράποντο σπάνει τῶν ἐπιτηδείων διὰ τὸ συχνοὺς ἤδη προτεθνάναι σφίσιν· ἐπὶ πυρὰς γὰρ ἀλλοτρίας φθάσαντες τοὺς νήσαντας οἱ μὲν ἐπιθέντες τὸν ἑαυτῶν νεκρὸν ὑφῆπτον, οἱ δὲ καιομένου ἄλλου ἐπιβαλόντες ἄνωθεν ὃν φέροιεν ἀπῇσαν.

[53, 1] Πρῶτόν τε ἦρξε καὶ ἐς τἆλλα τῇ πόλει ἐπὶ πλέον ἀνομίας τὸ νόσημα. ῥᾷον γὰρ ἐτόλμα τις ἃ πρότερον ἀπεκρύπτετο μὴ καθ’ ἡδονὴν ποιεῖν, ἀγχίστροφον τὴν μεταβολὴν ὁρῶντες τῶν τε εὐδαιμόνων καὶ αἰφνιδίως θνῃσκόντων καὶ τῶν οὐδὲν [2] πρότερον κεκτημένων, εὐθὺς δὲ τἀκείνων ἐχόντων. ὥστε ταχείας τὰς ἐπαυρέσεις καὶ πρὸς τὸ τερπνὸν ἠξίουν ποιεῖσθαι, ἐφήμερα τά τε σώματα καὶ τὰ χρήματα ὁμοίως ἡγούμενοι. [3] καὶ τὸ μὲν προσταλαιπωρεῖν τῷ δόξαντι καλῷ οὐδεὶς πρόθυμος ἦν, ἄδηλον νομίζων εἰ πρὶν ἐπ’ αὐτὸ ἐλθεῖν διαφθαρήσεται· ὅτι δὲ ἤδη τε ἡδὺ πανταχόθεν τε ἐς αὐτὸ κερδαλέον, [4] τοῦτο καὶ καλὸν καὶ χρήσιμον κατέστη. θεῶν δὲ φόβος ἢ ἀνθρώπων νόμος οὐδεὶς ἀπεῖργε, τὸ μὲν κρίνοντες ἐν ὁμοίῳ καὶ σέβειν καὶ μὴ ἐκ τοῦ πάντας ὁρᾶν ἐν ἴσῳ ἀπολλυμένους, τῶν δὲ ἁμαρτημάτων οὐδεὶς ἐλπίζων μέχρι τοῦ δίκην γενέσθαι βιοὺς ἂν τὴν τιμωρίαν ἀντιδοῦναι, πολὺ δὲ μείζω τὴν ἤδη κατεψηφισμένην σφῶν ἐπικρεμασθῆναι, ἣν πρὶν ἐμπεσεῖν εἰκὸς εἶναι τοῦ βίου τι ἀπολαῦσαι.

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

[51, 1] Tale era dunque, in generale, l’aspetto della malattia, se si tralasciano molti altri fenomeni straordinari, secondo il modo in cui essa si manifestava in ciascuno, diversamente da una persona all’altra. In quel periodo, nessuna delle solite malattie le affliggeva contemporaneamente a questa; e se anche c’era, si sommava a questa. [2] Alcuni morivano per mancanza di cure, altri anche accuditi con estrema attenzione. Non si affermò nemmeno un solo rimedio, per così dire, che si dovesse applicare per portare a un miglioramento: infatti, proprio quello che giovava a uno era dannoso ad altri. [3] Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al morbo, che fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. [4] Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoramento quando uno si accorgeva di essersi ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver contratto la malattia uno dall’altro, mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero dei decessi. [5] Da una parte, se non erano disposti a far visita gli uni agli altri, per paura, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di qualcuno che potesse venire a curare i malati che vi abitavano; d’altra parte, quelli che si recavano dagli afflitti perivano, soprattutto coloro che cercavano di praticare la bontà. Grazie al loro senso dell’onore non si risparmiavano nell’entrare nelle case degli amici, dato che, alla fine, addirittura i familiari interrompevano per stanchezza anche i lamenti per quelli che non ce la facevano, sopraffatti com’erano dall’immensità del male. [6] Tuttavia, più degli altri coloro che erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era ammalato, perché avevano già avuto l’esperienza della malattia e perché loro ormai erano in uno stato d’animo tranquillo. Il morbo, infatti, non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro; ed essi stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po’ di vana speranza che anche in futuro nessuna malattia li avrebbe mai più potuti annientare.

[52, 1] Oltre al male già esistente li opprimeva anche l’afflusso di gente dalla campagna alla città: ciò affliggeva maggiormente coloro che erano arrivati da fuori. [2] Poiché non c’erano alloggi disponibili, ma essi abitavano in capanne soffocanti per la stagione dell’anno, la strage avveniva con grande confusione: corpi di moribondi giacevano uno sopra l’altro, e persone mezze morte si muovevano barcollando per le strade e intorno a tutte le fontane per desiderio di abbeverarsi. [3] I templi, nei quali si erano sistemati, erano stracolmi di cadaveri, dato che la gente vi moriva: infatti, poiché il male imperversava, le persone, non sapendo che cosa ne sarebbe stato di loro, si volgevano al disprezzo tanto delle cose sacre quanto di quelle profane. [4

] Tutte le consuetudini che avevano seguito in precedenza per le sepolture furono sconvolte; e seppellivano i cadaveri, ciascuno come poteva. E molti ricorrevano a modi vergognosi di sepoltura, per mancanza delle attrezzature necessarie, poiché avevano già avuto parecchi morti in famiglia: mettevano il cadavere del proprio defunto su una pira altrui, anticipando quelli che l’avevano costruita, e poi vi appiccavano il fuoco. Altri gettavano la salma che stavano portando sopra un’altra che già bruciava, e poi se ne andavano.

[53, 1] Anche per altri aspetti la malattia segnò nella città l’inizio di un periodo in cui il disprezzo per le leggi era più diffuso. Infatti, più facilmente si osava fare cose che prima di allora si sarebbero fatte di nascosto, senza mostrare che si seguiva il proprio piacere: vedevano che era rapido il mutamento di sorte dei ricchi, che morivano improvvisamente e di coloro che prima non possedevano nulla, ma che subito divenivano padroni dei beni dei morti. [2] Così pensavano di dover godere rapidamente di ciò che avevano e di servirsene a loro capriccio, considerando le proprie vite e le proprie ricchezze egualmente effimere. [3] E nessuno era pronto a sopportare fatiche per ciò che era considerato onesto, poiché pensava che non vi era certezza di non perire prima: ciò che al momento presente era piacevole, e che in qualunque modo era vantaggioso ai fini del piacere, questo divenne onesto e utile. [4] Nessun timore degli dèi e nessuna legge umana li tratteneva: da una parte, giudicavano che fosse la stessa cosa essere religiosi o meno, dal momento che vedevano tutti morire egualmente, e, dall’altra, nessuno si aspettava di vivere fino a quando ci sarebbe stato un giudizio sulle proprie colpe e di scontarne la pena: pensavano che molto maggiore fosse l’incombente punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse ragionevole godersi un po’ la vita.

[trad. G. Donini]

The physician Hippocrates tries to save the locals during the plague of Athens
The physician Hippocrates tries to save the locals during the plague of Athens (alamy.com)

Sofferenza fisica e degradazione morale

Il brano esaminato, uno dei più noti di Tucidide, è unanimemente considerato l’archetipo di tutte le descrizioni delle epidemie che compaiono nella letteratura classica e moderna, da Lucrezio a Virgilio, da Giovanni Boccaccio ad Alessandro Manzoni, da Edgar Allan Poe a Albert Camus. In esso, lo storico affronta il tema del «cambiamento» (μεταβολή) che alcune circostanze provocano nel comportamento umano.

Secondo l’ottica di Tucidide, prima responsabile dello sconvolgimento delle abitudini di vita è la guerra, che, portando con sé disagi, privazioni e sofferenze, causa anche la perdita dei valori morali e un progressivo imbarbarimento. A tutto ciò si sovrappongono i disastrosi  effetti dell’epidemia scoppiata nell’estate del 430 a.C., durante l’invasione dell’Attica da parte delle truppe peloponnesiache, guidate da Archidamo. Ciò che particolarmente colpisce, nell’attenta analisi di Tucidide, è l’importanza attribuita al senso di precarietà dell’esistenza come causa scatenante di un processo di profonda e inarrestabile degradazione morale.

L’uomo dell’antichità ha sempre considerato la propria esistenza come qualcosa di estremamente breve e incerto di per sé; carestie, guerre, miseria, malattie, mortalità altissima in età infantile e giovanile la rendevano un bene tanto prezioso quanto poco duraturo, mentre la presenza della morte acquisiva, per questi stessi motivi, qualcosa di quotidiano e di familiare. Tuttavia, dalla fine delle Guerre persiane al secondo anno della Guerra del Peloponneso, e soprattutto nel quindicennio dal 445 al 430 a.C., Atene aveva goduto di un periodo di pace e di benessere economico mai prima visto – contesto, che aveva contribuito, almeno in parte, a diminuire quel senso di incertezza esistenziale di cui si è appena accennato. Di conseguenza, all’inizio della guerra, il peggioramento delle condizioni di vita individuali che aveva coinvolto, anche se in misura ben diversa, ricchi e poveri, e che era stato anche causa della diminuzione del favore popolare nei confronti di Pericle, si sommò improvvisamente, all’inizio dell’epidemia, a tutti gli errori derivanti dal dilagare inarrestabile di un flagello fino ad allora sconosciuto.

Di fronte al morbo che travolgeva in una strage indiscriminata che era amorevolmente assistito e chi organizzava abbandonato nei rifugi di fortuna, che uccideva o lasciava in vita senza un motivo apparente, chi dimostrava a ogni momento l’impotenza dei medici inaffidabilità dei rimedi, l’istinto di sopravvivenza assunse le forme dell’indifferenza verso uomini e dèi e della trasgressione più totale di ogni norma civica e religiosa. Infatti, abbandonati dei canoni di comportamento che si fondavano su ben consolidate tradizioni educative, di colpo divenute inutili di fronte alla presenza continua della morte che distruggeva ogni possibile idea di stabilità e di durata, le persone si abbandonarono il modo più semplice e istintuale per sentirsi vive: la ricerca del piacere, in ogni sua manifestazione e con ogni mezzo.

La legge divina non garantiva ai pii una vita più lunga, mentre alla legge umana mancava il tempo per essere applicata o per incutere l’antico, salutare, timore a chi era consapevole che forse, di lì a qualche ora, la morte avrebbe colto anche lui. Se è vero che Sofocle, componendo l’Edipo re, si ricordò della peste di Atene per descrivere quella di Tebe (cosa non impossibile, se la tragedia fu scritta fra il 425 e il 410 a.C., e non, come sostengono alcuni studiosi, nel 433), è interessante confrontare la sua ottica con quella di Tucidide. Per il poeta tragico, animato da una profonda religiosità, la pestilenza è dovuta all’ira di un dio, e basta un intervento di purificazione per farla cessare, anche se a prezzo delle terribili sofferenze di Edipo, che, da sovrano di Tebe, si trasforma nel φαρμακός («capro espiatorio»); per lo storico, che guarda gli eventi umani con un’ottica assolutamente immanente, al posto della collera divina si pone il παράλογον («l’imprevedibile»), che agisce nelle vicende umane e nella Storia senza possibilità di controllo. In questa situazione, caratterizzata da una tragicità ben diversa da quella sofoclea, non c’è spazio per un eroe liberatore; c’è invece una massa che, perduta ogni consapevolezza di umanità – se non quella, spaventosa, della propria mortalità –, si aggrappa istintivamente alla vita, a ogni mezzo, lecito o illecito, che possa far dimenticare che ogni attimo potrebbe essere l’ultimo, mostrandosi in tutta la sua miseria materiale e morale all’occhio distaccato, ma non impietoso, dello storico.

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Note:

[1] In realtà, le zone africane chiamate “Etiopia” dai Greci erano tutte a sud dell’Egitto, ma, a quanto pare, Tucidide distingue l’Etiopia propriamente detta da altre zone di quello che per i Greci era l’estremo meridione della Terra, come l’India, che si ritenevano abitate da Etiopi. Etimologicamente, infatti, gli Etiopi erano la “gente dalla faccia bruciata”.

[2] In realtà, non c’è accordo fra gli studiosi sulla natura di quell’epidemia: ha maggiore fondatezza l’opinione che si sia trattata di una forma di tifo.

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Sitografia:

Solving the Mystery of an Ancient Epidemic [theatlantic.com]

The Athenian Plague [wordpress.com]

The Plague at Athens430-427 BCE [ancient.eu]

The Plague of Athens and the Cult of Asclepius [brewminate.com]

Thucydides and the plague of Athens – what it can teach us now [theconversation.com]

Tucidide, Historiae II [poesialatina.it]

Tucidide, da Bibliothéke (2011) [academia.edu]

Scienza, morale e altro

di R. MUGELLESI, Scienza, morale e altro, introduzione a Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, Milano 2004, pp. 7-36.

Nel corpus senecano a noi giunto le Naturales Quaestiones occupano uno spazio autonomo e, almeno nel contenuto, distinto dalle altre opere. L’argomento è lo studio della natura, in alcuni dei suoi aspetti scelti da Seneca nell’ambito della meteorologia[1]  della geologia (mi riferisco al libro VI riguardante i terremoti). E sicuramente nell’antichità non conosciamo molte opere di questo genere, se escludiamo le trattazioni dei filosofi presocratici[2] – di alcuni dei quali Seneca è testimone autorevole –, Platone, ma soprattutto i Meteorologica[3] di Aristotele a noi giunti in quattro libri di cui forse il quarto è spurio.

Pseudo-Seneca. Statua, marmo, fine I sec. d.C. Museo Archeologico di Pozzuoli.

I rapporti tra Seneca e la produzione scientifica greca sono stati analizzati da più studiosi, con diverse posizioni. Vottero[4] sottolinea la forte influenza della dossografia nell’opera senecana, contraddistinta dalla presenza di termini come quidam, sententia, auctor, e verbi come opinari e placere. I rinvii possono essere anonimi, ma per lo più compaiono i nomi degli autori antichi a cui Seneca fa riferimento, sia greci sia latini. Punto fisso è sicuramente la dipendenza nella trattazione di certi argomenti[5], ma difficile è stabilire se Seneca li conoscesse di prima mano o piuttosto non fosse la sua una conoscenza indiretta, magari su compendi a noi ignoti[6]. Occorre comunque dire che la Quellenforschung relativa alle Naturales Quaestiones sembra orientata a riconoscere un’unica fonte che, se per Zeller e Diels era da identificare con Posidonio, per altri doveva essere riconosciuta in Asclepiodoto, che è citato da Seneca ben cinque volte[7]. Non è comunque facile stabilire con certezza tali assunti. Nel caso di Posidonio, possiamo basarci, oltre che sui nove frammenti ricordati da Seneca[8], sui venti di Strabone e i sei di Diogene Laerzio, ma, come osserva giustamente Vottero[9], non è possibile sapere se appartenessero sicuramente all’opera sulla meteorologia e se provenissero direttamente da Posidonio. E anche per quanto concerne Asclepiodoto, scolaro di Posidonio (auditor Posidonii), nessun autore lo ricorda, a parte Seneca, e la citazione in VI 17, 3, ove qualcuno vorrebbe intravedere il titolo steso dell’opera, Naturalium Causae, è oggetto di molte discussioni[10]. È stata avanzata l’ipotesi[11] che Seneca abbia attinto le sue teorie da una raccolta dossografica denominata da Diels[12] Vetusta Placita e databile intorno alla metà del I sec. a.C., forse redatta dal filosofo Ario Didimo di Alessandria. Poiché i Vetusta Placita si dividevano in due parti, una dedicata all’Etica, l’altra alla Fisica, si è cercato di dimostrare che Seneca potrebbe aver tenuto presenti entrambe le sillogi, in particolare la prima per le altre opere in prosa, la seconda per le Naturales Quaestiones. Se riscontri puntuali sono stati notati, resta però da precisare che i cosiddetti Vetusta Placita sono giunti a noi attraverso un doppio strato di epitomi: senza contare – ma questo non stupisce più di tanto – che non troviamo in Seneca riferimento a tale florilegio. Le argomentazioni addotte per rispondere a questo dubbio si basano da una parte sulla prevalente consuetudine antica di non citare mai i florilegi, dall’altra sulla prassi senecana per cui gran parte della produzione letteraria a lui precedente, fatte le dovute eccezioni, non sarebbe stata letta direttamente[13]. Riteniamo che la Quellenforschung sia comunque ancora aperta e suscettibile di nuovi risultati: lasciamo dunque la ricerca agli esperti in questo campo e ritorniamo al nostro testo.

Nella prefazione al II libro Seneca afferma che la ricerca nel suo complesso sull’universo si suddivide in caelestia (astronomia), sublimia (meteorologia) e terrena (geologia): la prima parte indaga la natura degli astri in base alla loro grandezza e alla loro forma, ovvero i fenomeni celesti così definiti in quanto si verificano nella zona più alta dell’universo; la seconda si occupa dei fenomeni che accadono tra cielo e terra (nubi, piogge, neve, grandine, terremoti e tutte le alterazioni provocate o subite dall’aria); la terza parte si occupa di tutta la fenomenologia riguardante il suolo terrestre (tra geologia e geografia). La collocazione dei terremoti nei sublimia è spiegata dallo stesso Seneca attraverso la dottrina pneumatica in base alla quale tale fenomeno, pur rientrando propriamente nella geologia, di fatto è trattato alla stregua di un fenomeno meteorologico in quanto causato dall’aria: penetrata nella terra attraverso le sue porosità e non potendo più uscirne, essa finisce per causare gravi scuotimenti sussultori e ondulatori.

Per considerare più da vicino la trattazione dei singoli libri osserveremo innanzitutto che la scelta degli argomenti non sembra dettata da un intento particolare: l’unico legame sembra sussistere tra i libri III e IVa, tra la trattazione delle acque e quella del Nilo. […]. Il libro I si apre dunque con una lunga praefatio che, con tono e stile assai elevati, invita gli uomini a sollevarsi dalla propria pochezza verso la conoscenza di Dio a cui è possibile giungere solo attraverso lo studio attento della natura. Quindi, vengono trattati i fuochi celesti, non solo le meteore ignee di vario genere (la tipologia è assai vasta), ma, in particolare, gli aloni, l’arcobaleno, le verghe, i pareli e i paraseleni. Il libro II, dopo aver avanzato considerazioni di carattere generale sull’aria e sulla terra, prende in esame i tuoni, i fulmini e i lampi, non senza dedicare largo spazio alle opinioni degli scienziati antichi, tra cui Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Diogene di Apollonia, nonché al potere divinatorio del fulmine: nell’ampia digressione (capp. 32-52) non mancano riferimenti alla dottrina etrusca che Seneca mostra di conoscere assai bene e al rapporto tra divinità e fato. Il terzo analizza la diversa tipologia delle acque terrestri con riferimenti a teorie aristoteliche come quella presente in De gener. et corrupt. 2, 4, ovvero la reciproca mutabilità dei quattro elementi originari: nel cap. 10 è sostenuto, infatti, il concetto che anche la terra si può trasformare in acqua. E non meno interessante, al cap. 15, l’analogia istituita tra la terra e il corpo umano, secondo un principio medico di origine greca (forse Prassagora di Coo): come nelle vene scorre il sangue e nelle arterie l’aria, così nella terra scorrono insieme aria e acqua[14]. Il libro IVa presenta una lacuna nell’ultima parte: si conservano la praefatio imperniata sul sentito problema dell’adulazione e la parte relativa al Nilo e alle sue piene. Il libro IVb è, invece, acefalo e a noi è giunta solo la parte relativa alle nubi, alla grandine e alla neve. Il libro V considera i venti e la loro origine senza trascurare le brezze, i turbini, nonché la rosa dei venti e i venti locali. Il libro VI, come abbiamo già detto sopra, è tutto dedicato allo studio dei terremoti, mentre il libro VII si occupa delle comete riservando largo spazio alla dossografia relativa allo studio del fenomeno.

Un’analisi delle N.Q. non può prescindere, innanzitutto, dal confronto con la produzione scientifica greca: di fronte a questo problema la prima risposta che ci diamo è che, richiamando i testi scientifici greci, le N.Q. non sembrano davvero distinguersi per originalità di contributi. Stahl[15], nel libro dedicato alla scienza romana, sostiene che essa «si mantenne sempre su un pino decisamente mediocre» e addirittura qualcuno[16] ha affermato che non c’è scienza romana. Pur senza essere così categorici, non si può negare che i Romani non hanno saputo sviluppare né superare l’alto livello scientifico e tecnologico raggiunto dalla civiltà greca, in particolare ellenistica: oltre ad Euclide e Archimede, numerosi furono in quel periodo gli scienziati a cui è debitrice la stessa scienza moderna: Eratostene è stato il primo matematico che ha fornito la misura della lunghezza del meridiano terrestre, mentre Aristarco di Samo ha ideato l’astronomia eliocentrica. Ebbene, prescindiamo pure da «Varrone, esponente di una cultura prescientifica, del tutto estranea alla scienza. Gli scrittori romani di epoca imperiale, come Plinio e Seneca, sono invece affascinati dalla lettura di opere scientifiche ellenistiche delle quali, non potendo seguire la logica delle argomentazioni, apprezzano le conclusioni proprio perché giungono loro inaspettate e meravigliose; credono quindi di poter emulare i loro modelli eliminando i nessi logici o sostituendoli con connessioni che, anche se arbitrarie, sono più facilmente immaginabili e portano più rapidamente al risultato voluto, che è la meraviglia del lettore»[17]. Così Plinio, Nat. hist. XI 29, nello spiegare la vita delle api, sostituirà alla dimostrazione scientifica del greco Pappo[18] la seguente semplicistica spiegazione a proposito della forma esagonale delle celle dei favi: «Ogni cella è esagonale, perché ognuna delle sei zampe dell’ape ha fatto un lato». E Seneca non è meno ascientifico quando sostiene in N.Q. II 31, 1 e 53, 1 che il vino colpito dal fulmine si congela, tornando allo stato liquido dopo non più di tre giorni e allora uccide o rende pazzo chi lo beve: al motivo di tale fenomeno egli avrebbe dedicato ricerche personali. Se, invece, guardiamo al resto della produzione scientifica latina, dovremmo prendere atto che, in questo ambito, l’opera senecana costituisce la trattazione più rappresentativa e forse l’unica in questo campo di prosa scientifica a orientamento filosofico: del resto, a Roma[19], specialmente nel I sec. dell’Impero, vi fu «une véritable vie scientifique».

Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

Se altri autori hanno inteso inoltrarsi nel mondo della natura per cercare di comprendere gli intimi meccanismi e misteri, di nessuno a noi è giunta una trattazione articolata, anche se non del tutto coerente, come le Naturales Quaestiones. Più che opere scientifiche nel senso stretto, il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio[20] rientrano nel genere del poema didascalico, anche se entrambi, ma soprattutto Lucrezio, ne fanno un uso assai originale. Nell’uno, la trattazione della fisica epicurea è il tramite per assicurare agli uomini la serenità e liberarli dalla paura della morte, nell’altro, l’indagine degli astri, in una visione assolutamente stoica, diviene il mezzo per garantire all’umanità quel grado di conoscenza di certi fenomeni necessario per comprendere la legge cosmica. Ma l’intento poetico e il fervore filosofico allontanano le due opere dai postulati di una trattazione scientifica: anche in Seneca, come vedremo, la compresenza di scienza e filosofia diminuirà sovente la severità del trattato, ma restano comunque la vastità del materiale esaminato e, almeno in quelle sezioni, la ricerca di un’adesione alla mentalità scientifica.

Interesse per l’astronomia, di fatto coincidente con l’astrologia, aveva avuto in era repubblicana Nigidio Figulo[21], autore di diverse opere, tra cui anche un trattato De vento, riconducibile sempre ai suoi interessi astrologici. A lui si rifà Igino[22], forse il bibliotecario di Augusto, nel suo trattato sull’Astronomia, in quattro libri, in cui si occupa di costellazioni, di cosmologia e dei movimenti della sfera celeste. E potremmo aggiungere anche Pomponio Mela[23], vissuto sotto Claudio, che, nei tre libri De chorographia, seppur corredati di informazioni piuttosto arretrate, ci informa sulle conoscenze geografiche dei Romani.

Come si evince dalla praefatio all’opera di Pomponio Mela, era presente negli antichi la consapevolezza che la trattazione scientifica e tecnica rientrava nei canoni di un genere «minore»[24]: lo riscontriamo nell’epistola prefatoria del De architectura di Vitruvio così come in quella diretta a Tito nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio[25].

Un simile atteggiamento non traspare in alcuna delle prefazioni superstiti delle Naturales Quaestiones: non in quella dei toni moralistici del libro III, che molti ritengono il primo dell’ordinamento originale, non in quella del libro I: questo assai probabilmente non rappresenta il vero inizio dell’opera senecana, anche se proprio l’impegnativo prologo e l’argomento si presterebbero. Ma se pure il trattato si aprisse, come in molti manoscritti, con il libro IVb giuntoci acefalo, l’attuale primo, secondo la felice teoria del «proemio al mezzo», costituirebbe un luogo deputato per «dichiarazioni di poetica», ovvero per affermare un programma letterario nelle forme più consapevoli. Ebbene, che le Naturales Quaestiones si distinguano dal resto della produzione scientifica latina lo si può intuire subito se mettiamo a confronto proprio la praefatio del primo libro con quelle citate sopra, a cui possiamo aggiungere la praefatio agli Astronomica di Manilio: non c’è alcun riferimento a un presunto senso d’inferiorità nei confronti dei generi alti. Potrebbe bastare questa differenziazione a farci comprendere che Seneca non sentiva, nelle Naturales Quaestiones, un impegno diverso dalle altre opere morali e l’andamento ha in effetti i toni di tanti Epistulae morales. Ampia e articolata (ben cento paragrafi), essa non è legata al resto dell’opera se non nella misura in cui vuole chiarire il vero intento di Seneca al lettore-discepolo: così lo scienziato indossa le vesti del maestro filosofo e la scienza diventa il tramite per il raggiungimento della virtù. Secondo la teorizzazione esposta nelle Epistulae (89[26], ma soprattutto 88[27] e 90[28]), la philosophia si differenzia dalle ceterae artes come, all’interno della philosophia medesima, l’ambito etico (philosophia moralis) si distingue quello fisico (philosophia naturalis): Quantum inter philosophiam interest, Lucili virorum optime, et ceteras artes, tantum interesse existimo in ipsa philosophia inter illam partem quae ad homines et hanc quae ad deos pertinet (praef. 1). Alzare gli occhi al cielo, arrivare alla luce dalle tenebre terrene, penetrare nei profondi recessi della natura è conoscere Dio e misurare la nostra piccolezza: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit (praef. 5) e, alla fine, sciam omnia angusta esse mensus deum (praef. 17). L’impianto filosofico che Seneca intende dare alle sue ricerche scientifiche appare chiaro fin dall’esordio e tutta l’opera mostra l’urgenza del suo impegno: «Se la filosofia s’identifica con la scienza e la filosofia tende al perfezionamento morale, anche la scienza deve tendere al perfezionamento morale»[29].

L’impostazione dei libri, almeno di quelli completi, procede in modo simile e le argomentazioni filosofiche possono essere presenti, oltre che nelle praefationes, anche negli epiloghi e nelle digressioni.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Oltre che il libro I, le riflessioni del filosofo morale animano il proemio del III (forse l’originale libro I) in cui si ribadisce il concetto che lo studio della natura aiuta l’uomo ad allontanarsi dalle cose terrene e a comprendere i veri valori della vita: Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam: primo discedemus a sordidis; deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est, seducemus a corpore; deinde in occultis exercitata subtilitas non erit in aperta deterior; nihil est autem apertius his salutaribus quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur, quae damnamus nec ponimus (praef. 18).

L’incipit del libro IVa è una lunga condanna dell’adulazione e i toni che Seneca assume sono assolutamente quelli del predicatore e del maestro di virtù. L’invito a tenersi lontano dalla folla e a non prestare il fianco all’adulazione (a turba te, quantum potes, separa, ne adulatoribus latus praebeas, praef. 3) è un consiglio che ritroviamo nel De brev. vitae 18, 1 o nelle Ep. 7, 1; 8, 1; 10, 1: la conferma della propria saggezza «aristocratica»[30]. Analogamente l’invito rivolto a Lucilio affinché rivolga ogni suo interesse su se stesso (Fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum, praef. 20) si configura con la sentenziosità ricorrente nelle opere filosofiche: De tranquillitate animi 17, 3; De brev. vitae 2, 5[31]. Pur nella loro brevità, anche le aperture dei libri VI e VII offrono spunti di riflessione morale: la prima, invitando gli uomini a razionalizzare la paura dei terremoti (nullum malum sine effugio est, VI 1, 6), la seconda, a superare uno stadio di ottusità per innalzarsi verso il divino, ovvero verso la perfezione (Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad divina non erigatur ac tota mente consurgat, VII 1, 1).

Nell’organizzazione di ogni libro, dunque, alla prefazione, più o meno articolata, segue l’analisi del singolo fenomeno naturale e sono discusse le diverse teorie degli autori che lo hanno esaminato: quindi, si apre l’argomentazione di Seneca, che può accettare la tesi di altri o proporne una propria, di solito in linea con gli Stoici[32].

In pendant con la prefazione, il libro è provvisto di un epilogo. Nel I libro, dopo aver cercato di spiegare certi fenomeni (l’arcobaleno e i fuochi celesti) con la teoria speculare, Seneca introduce una digressione sull’uso perverso degli specchi, prendendo come esempio un personaggio sconosciuto, Ostio Quadra, che di essi si era servito in modo dissoluto. È l’occasione per mostrare la decadenza dei costumi e per condannare uno strumento che dovrebbe essere usato per diventare più virtuosi e non per abbandonarsi al vizio. Al termine del II libro compare una lunga riflessione sull’importanza di conoscere la teoria dei fulmini. Liberarsi dalla paura dei fulmini significa liberarsi anche da quella della morte[33] a cui nessuno può sottrarsi: O te dementem et oblitum fragilitatis tuae, si tunc mortem times cum tonat! (59, 9); eo itaque fortior aduersus caeli minas surge et, cum undique mundus exarserit, cogita nihil habere te tanta morte perdendum (59, 11). Il filosofo morale ricompare accanto allo scienziato anche al termine del III libro: alla descrizione «drammatica» del diluvio segue una breve riflessione sul ritorno del mondo all’antico ordine, secondo la nota teoria stoica della palingenesi del cosmo. Ma lo stato di innocenza non durerà a lungo poiché cito nequitia subrepit. Virtus difficilis inventu est, rectorem ducemque desiderat: etiam sine magistro vitia discuntur (30, 8). Analogamente il V libro si chiude con un’ampia argomentazione sul cattivo uso dei venti da parte degli uomini e, richiamando il ben noto tópos diatribico dei mali derivati dalla navigazione oltre i confini e dalle guerre di conquista. Seneca conclude minima esse quae homines emant vita. Immo, Lucili carissime, si bene illorum furorem aestimaveris, id est nostrum (in eadem enim turba volutamur), magis ridebis, cum cogitaveris vitae parari in quae vita consumitur (18, 16). Anche dalla conoscenza dei terremoti e delle loro cause (libro VI) l’uomo può trarre vantaggio e divenire più forte, il che, per il filosofo, conta maggiormente che divenire più dotto: ma l’uno non può sussistere senza l’altro, poiché la forza dell’animo proviene dai buoni studi e dallo studio della natura (non enim aliunde animo venit robur quam a bonis artibus, quam a contemplatione naturae, 32, 1). Comprendere che la morte è una legge di natura significherà affrontarla con animo sereno e addirittura (con la consueta ricerca senecana dell’effetto) andarle incontro (effice illam tibi cogitatione multa familiarem, ut, si ita tulerit, possis illi et obviam exire, 32, 12). Nei tre capitoli che chiudono il VII libro (30-32), Seneca ripete ampiamente il giudizio morale negativo sull’umanità che progredisce solo nel vizio, anziché concentrarsi sulla scienza e sulla conoscenza del divino. Ma le riflessioni si allargano a considerare la necessità di uno studio approfondito della natura a cui sono invitati i contemporanei e, insieme, le generazioni future: ne consegue una esaltazione del progresso scientifico (30, 5), che, secondo la prassi antica, andava distinto da quello tecnologico, nei confronti del quale sussiste la piena condanna[34]. Come è detto nell’Ep. 90, le conquiste tecnologiche nascono dal vizio, ma le conoscenze scientifiche aiutano il raggiungimento della virtù e quindi rientrano nelle competenze del filosofo. Per questo le amare considerazioni sulla decadenza delle scuole filosofiche[35], presenti nel cap. 32, sottolineano con forza lo stretto legame di questo problema con il dilagare della corruzione e il venir meno della virtù.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Non negheremo comunque che l’interesse di Seneca per la scienza fosse sincero e, del resto, sappiamo che lo aveva coltivato fin da giovane, scrivendo un trattato sui terremoti e altre opere scientifiche perdute: all’opera giovanile De motu terrarum allude egli stesso in VI 4, 2. Ma, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, sull’interesse scientifico si afferma la passione del filosofo, sulla scienza trionfa l’etica. In questo risiede il limite scientifico, se ci accostiamo alle analisi condotte nella prospettiva di uno scienziato moderno, eppure, in questo, si condensa l’impronta originale di un pensatore complesso e acuto che non riesce a distaccarsi dalla forte esigenza morale presente nel resto della sua produzione.

Gli studi compiuti sulle Naturales Quaestiones, numerosi, negli ultimi anni, hanno messo a fuoco tradizione e originalità: alcuni approfondendo la compresenza di scienza e filosofia[36], altri cercando di riconoscere la realtà dei dati riportati[37], altri indagando sul forte peso delle trattazioni scientifiche greche[38], altri soffermandosi in modo particolare sul rapporto con il resto della produzione senecana[39].

Una lettura critica delle Naturales Quaestiones non può ignorare i tanti contributi: eppure, è un’opera che ancora necessita di un’analisi d’insieme in cui, oltre a indagare sulle peculiarità della parte scientifica o le modalità della riflessione filosofica, si approfondisca e si metta in luce il rapporto tra forma e contenuto: si tratta dunque di un’analisi che evidenzi i diversi livelli linguistici e di stile nelle sezioni prettamente scientifiche da una parte, e dall’altra nelle sezioni (prefazioni, epiloghi e digressioni) ove prevale l’impegno filosofico o il tono moralizzante o l’attitudine predicatoria. Se, infatti, la filigrana di lettura è questa compresenza di scienza e morale, l’una condizionante l’altra, le scelte stilistiche nonché la ricchezza espressiva del linguaggio senecano costituiscono gli strumenti indispensabili per cogliere i movimenti profondi del suo pensiero.

Come abbiamo osservato sopra, le sezioni scientifiche seguono uno schema, non fisso, ma abbastanza regolare. Nella descrizione del fenomeno e della discussione delle teorie esistenti, non sembra che Seneca si preoccupi molto di ricostruire fedelmente i sistemi e i contorni storici degli autori citati; d’altra parte, raramente il fenomeno è spiegato in seguito a un’osservazione diretta e, quando si presenta il caso, si tratta sempre di brevi indicazioni. Prevale invece il principio[40] per cui la stessa esperienza è confrontata con la teoria già formulata, a conferma, cioè, di quanto è già noto, secondo un metodo che potremmo definire “deduttivo”, non induttivo: la conferma è data in parte dalla stessa frequenza delle formule che introducono la spiegazione del fenomeno «per analogia» o «verosimiglianza» (tam… quam; non aliter quam; ut… sic; veri ergo simile est; tale quiddam, ecc.). In I 12, 1, ad esempio, nell’esporre la teoria speculare, Seneca inizia con il riferimento all’esperienza dei catini pieni di olio o di pece per osservare meglio l’eclissi di sole; ma il ragionamento che segue è costruito su spiegazioni già esistenti richiamate da quemadmodum… ita (due volte) e sicut.

Ciò che sembra interessare maggiormente Seneca è invece l’esposizione di ipotesi diverse, più o meno condivisibili; anzi, quanto più sono complesse, tanto più sembra che gli interessino, come se discutere una pluralità di opinioni lo garantisse nella serietà del metodo d’indagine.

In questo confronto con gli autori che lo hanno preceduto, anche Stoici, non manca di dichiarare la sua libertà di vedute, criticando certe posizioni definite fabulae, mendacia o ineptiae: IVb 6, 1 non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; 7, 2 quanto expeditius erat dicere: mendacium et fabula est[41].

Un’esigenza sembra comunque essere primaria per Seneca ed è quella di dimostrare l’origine naturale dei fenomeni, quasi una prova di scientificità. Come è stato notato[42], tale atteggiamento non sempre è dichiarato apertamente, ma è certo presente in diversi passi dell’opera: particolarmente indicativo, nella sequenza di III 27-29 relativa al diluvio, il collegamento tra tale fenomeno e l’operato della natura: 27, 2 nihil difficile naturae est, utique ubi in finem sui properat. E anche se natura e Dio coincidono nella visione stoica del mondo, 28, 7 Utrumque fit, cum deo visum ordiri meliora, vetera finiri, è l’universo che racchiude in sé i suoi principi informativi, il sole, la luna, gli astri, gli animali e il diluvio che lege mundi venit, 29, 3. A riprova dell’intento senecano, la similitudine stabilita con l’organismo umano (già presente nello stoico Cleante), un’analogia che, diversamente articolata, ricorre in altri passi dell’opera (II 6, 6; V 4, 2; VI 14, 1-2, ecc.): anche nel seme (ut in semine) è contenuta la virtù informativa di tutto l’uomo futuro (omnis futuri hominis ratio) e il bambino non ancora nato racchiude in sé il principio che stabilirà la barba e i capelli bianchi (et legem barbae canorumque nondum natus infans habet).

Il manifestarsi di questa esigenza presuppone la stessa idealizzazione dello stato di natura, un concetto perdurante nello sviluppo del pensiero latino, a cui inevitabilmente è collegata la condanna del progresso, almeno di quello tecnologico. Qui sta il limite, come si è già accennato sopra, della ricerca scientifica a Roma. È evidente che a questa separazione tra scienza e tecnica avranno contribuito anche altri fattori, come quello socio-economico[43], ma è certo che Seneca rappresenta, nelle Naturales Quaestiones, l’autentico interprete del suo tempo: superiorità della teoria sulla pratica, dunque, e quindi del pensiero sull’attività manuale, aderenza e rispetto dei canoni «naturali» e, come logica conseguenza, l’inevitabile unione di scienza e morale, forse per la prima volta messa così bene in luce.

Siamo distanti dalla descrizione enciclopedica di Plinio il Vecchio, per il quale si trattava di mostrare i fenomeni della natura, in tutti i suoi aspetti, non di discuterne le cause: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias (Nat. hist. XI 8). Dietro a questo principio comprendiamo che l’unico atteggiamento possibile è quello del «catalogatore» o dell’archivista, che dovrà mettere ordine nello scibile umano[44] rischiando, in questo, di restare legato a una visione statica della realtà: più moderna la posizione critica di Seneca, per il quale lo studio della natura è un processo aperto agli sviluppi delle scoperte future (VII 30, 5 e 6; 32, 1).

Se consideriamo adesso le parti scientifiche da un punto di vista linguistico e stilistico, appare evidente che la costruzione si presenta assai simile a quella dei Dialogi[45]: non ci soffermeremo qui sull’analisi dettagliata dei singoli aspetti, catalogati con estrema minuzia da Vottero[46], che passa in rassegna ogni fenomeno dello stile senecano, ivi compresi quelli peculiari delle sezioni moralizzanti. Vorremmo limitarci, nell’esame di queste parti, a segnare le modalità del rapporto tra Seneca e il destinatario, ovvero l’amico Lucilio Iuniore, a cui erano stati dedicati anche le Epistulae, il dialogo De providentia e i perduti Moralis philosophiae libri e del quale molti elementi biografici sono forniti nella prefazione del libro IVa. A Lucilio si rivolge in maniera continua, talora citandolo per nome, altre volte con appellativi che denotano affetto e stima, cosicché egli diventa il vero interlocutore e il referente di domande, interrogazioni retoriche, generiche osservazioni e obiezioni. E può egli stesso porre questioni a Seneca, l’occasione fittizia per sviluppare una controtesi; in questi casi si ricorre a inquis o al più generico (e diatribico) inquit. Non basta. Dobbiamo sottolineare che anche l’inserimento, nel corso della trattazione teorica, delle citazioni poetiche talora ha la stessa funzione di una voce «altra», che si inserisce nel contesto «dialogico», quasi fosse un altro interlocutore. È il caso di molte citazioni ovidiane che, tratte per lo più dalle Metamorfosi, non hanno «funzione morale, ma il preciso scopo d’illustrare vividamente l’imponente gamma dei fenomeni naturali, colti nella tensione perenne del loro dinamismo metamorfico»[47]. L’osservazione vale naturalmente, e a maggior motivo, per le citazioni virgiliane che, considerando la devozione di Seneca verso il grande maestro, sono le più numerose: anch’esse non appaiono mai all’improvviso e s’inseriscono nella stessa concatenazione logica del pensiero senecano di cui evidenziano e chiariscono il nodo importante, soprattutto nei passi di riflessione filosofica e morale, in un ricco gioco polifonico. Con ciò, non dimenticheremo di evidenziare, accanto alla funzione morale delle citazioni poetiche, l’altra funzione che lo stesso Seneca torna speso a chiarire, ovvero la necessità di concedere una pausa di «alleggerimento stilistico» all’interno di una prosa impegnata, filosofica e scientifica: Ep. 58, 25 sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere; e l’una deve coesistere accanto all’altra: Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare[48].

Uno specchio da toletta con scena mitologica di Leda e il cigno, in argento lavorato a sbalzo. Pezzo del tesoro di Boscoreale, I secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

L’andamento espositivo delle parti scientifiche non si discosta, nei suoi aspetti essenziali, dalle altre opere senecane: una prosa serrata che non rinuncia alla variatio né al gusto delle sententiae e che, ugualmente, attinge al bagaglio retorico privilegiato, ovvero le interrogazioni dirette, le opposizioni, le metafore e la consueta ricchezza di figure retoriche, connotative dello stile senecano, ma se anche abbellire il suo periodare con la battuta inattesa (ἀπροσδόκητον) o la ricerca di parole nuove o inconsuete. Seneca è consapevole della difficoltà della materia trattata: così, per maggiore chiarezza, ricorre più volte all’accostamento del termine greco[49] a quello latino, oppure adopera l’attenuazione (uso del verbo solere, ad es., o ut(i), quando si mette a confronto con gli altri), oppure ricerca la forza chiarificatrice delle imagines derivanti dall’ambito militare, giuridico o medico. I periodi sono di solito caratterizzati dalla tipica concisione senecana, ma non mancano sequenze espositive lunghe e complesse, di certo in coincidenza con la trattazione di teorie discusse da più autori e di difficile interpretazione.

Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione a quelle parti dell’opera in cui, come abbiamo già rilevato più volte, Seneca concentra ogni interesse sulla finalizzazione dello studio della natura a scopi morali, ci troveremo coinvolti da uno stile appassionato e da un linguaggio ricco di sfumature e di effetti, che riconduce il lettore all’ambito predicatorio e filosofeggiante dei Dialogi, delle Epistulae, e, non ultimo, al pathos e alle rappresentazioni drammatiche delle Tragoediae. In effetti, oltre al consueto impiego degli strumenti retorici caratterizzanti lo stile senecano dell’«interiorità»[50], che personalizzano i tratti salienti delle prefazioni e degli epiloghi, possiamo individuare accenti e risorse descrittive di notevole originalità, in particolare nelle digressioni presenti all’interno della trattazione scientifica. Tutte hanno in comune, come scopo ultimo, l’invito a meditare sulla decadenza dei costumi e sulla malattia morale della società contemporanea, sull’allontanamento dallo stato di natura a opera del lusso e dei vizi degli uomini: sono temi ben noti, tante volte trattati da Seneca nel resto della sua produzione, e nel commento spesso richiameremo i confronti diretti. Ma è ovvio che la nostra attenzione è richiamata non tanto dalla novità degli argomenti quanto dalla particolare collocazione in un’opera scientifica.

Anticipata dalla teoria speculare che nel primo libro è introdotta per spiegare certi fenomeni naturali e agganciandosi strettamente alla fine del cap. 15 in cui si presentano certe caratteristiche degli specchi (8 sunt specula, quae faciem prospicientium obliquent, sunt quae in infinitum augeant, ita ut humanum habitum modumque excedant nostrum corporum), la digressione sull’uso distorto degli specchi da parte di Ostio Quadra prepara le riflessioni generali dell’epilogo nel cap. 17[51]. Il passaggio dalla sezione scientifica al racconto è segnalato quasi formularmente: Hoc loco volo tibi narrare fabellam[52], e fabella (come fabula) è un segnale immediato per il lettore che, attraverso il divertimento della storiella, arriverà a comprendere più facilmente il messaggio sotteso, ovvero la condanna della libido e della perversione nella società contemporanea[53]. La distorsione morale di Ostio Quadra è costruita attraverso un’insistenza continua della terminologia afferente all’ambito della corruzione, della malattia, della colpa, della mostruosità (monstrum, portentum, portentuosus), ma soprattutto del furor (16, 1 libido… ingeniosa… ad incitandum furorem suum). E il furor evoca tutta una casistica di personaggi che da tale passione sono trascinati fuori dalla razionalità e dai comportamenti da essa dipendenti: così Caligola o Ciro in De ira III 21. Ma furor significa anche spingersi oltre ogni limite nell’odio o nell’amore fino a portare i personaggi a livelli animaleschi: sono questi i protagonisti delle tragedie senecane, da Atreo a Medea. La bestialità di Ostio Quadra ci è segnalata dal termine admissarius per indicare il partner: il termine indica lo stallone in Varrone, De re rust. 2, 7. E ancora, in 16, 3, allorché la fantasia di Seneca si spinge ad auspicargli quasi una morte per autocannibalismo, il verbo usato è lancinare, un verbo che proviene dalla sfera animale e significa appunto sbranare: come Atreo (Thy. 778-779) lancinat gnatos pater / artusque mandit ore funesto suos.

Se la descrizione della lussuria di Ostio Quadra si pone in forte contrasto con i toni elevati della praefatio, in cui si celebra la luce divina a cui l’anima deve tendere attraverso lo studio della natura, nella fabella domina l’oscurità della colpa, anzi nessuna notte potrebbe nascondere le sue mostruosità: 16, 6 At illud monstrum obscenitatem suam spectaculum fecerat et ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est.

È la ricerca del paradosso, dell’effetto, ricercato con gli strumenti retorici, le dilatazioni linguistiche, le esasperazioni delle imagines che sta alla base della «sua» nuova drammaticità teatrale. Seneca intende scuotere gli animi per spingerli alla virtù e la via percorsa è molto vicina al linguaggio delle tragedie: dall’exemplum negativo l’uomo può risalire alla luce della conoscenza. A ben guardare, i tratti salienti della sua negatività altro non sono che il ribaltamento degli aspetti positivi della divinità: è questo il paradosso estremo a cui si può arrivare! Ostio Quadra si connota come un autentico dio al contrario, un dio del male, e celebra da sacerdote il parossismo libidinoso come Atreo, nella tragedia citata, aveva osannato il trionfo del suo odio: Thy. 885-888 Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi. Nel monologo finale (un’importante tessera di questo breve mosaico drammatico) Ostio Quadra appare fiero del suo furor che ha escogitato mezzi oltre i limiti consentiti dalla natura, collocandolo in una sfera sovrumana: 16, 8 inveniam, quemadmodum morbo meo et imponam et satisfaciam. La stessa scelta del verbo invenire ci riconduce di nuovo al linguaggio dei personaggi tragici, per i quali la volontà di superare la norma viene evidenziata più volte da espressioni analoghe: è ancora Atreo che parla in 273-275 Fateor, immane est scelus, / sed occupatum: maius hoc aliquid dolor / inveniat[54]. In questa ottica i richiami linguistici tra la prefazione e la fabella ci appaiono più comprensibili: se nella praef. 13 si parla della magnitudo di Dio qua nihil maius cogitari potest, in 16, 2 sono gli specchi che fanno apparire più grandi le immagini e si richiama la magnitudo del partner, anche se falsa, (specula) imagines longe maiores reddentia… ac deinde falsa magnitudine ipsius membri tamquam vera gaudebat[55]. Questo meccanismo (consapevole o meno), che prevede la costruzione del personaggio «annerendo» i modelli positivi, è rintracciabile in altri confronti: così, ad es., il filosofo, in I praef. 3, dichiara che la sua conoscenza della natura non si limiterà agli aspetti esteriori, ma s’inoltrerà nei recessi più profondi (secretiora); analogamente, al negativo, Ostio Quadra non si contenterà di vedere, ma vorrà vedere meglio le sue nefandezze, con l’aiuto degli specchi. La «prova oculare», richiamata quasi ossessivamente nella fabella, rinvia, per contrasto, all’insistenza del vedere con gli occhi della mente presente nella praefatio, istanza primaria del filosofo-maestro[56]. Come ultima riprova di questa operazione senecana di «annerimento», vorremmo aggiungere il confronto con il protagonista di un exemplum positivo, un certo Tullio Marcellino, in Ep. 77, 5-9, in particolare per il ruolo della servitù. Avendo deciso di suicidarsi, servi parere nolebant, tanto erano a lui devoti, e, in punto di morte, distribuì loro del denaro mentre essi piangevano e cercò di confortarli: 8 minutas… summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. Ostio Quadra, al contrario, come fosse un tiranno, era odiato dai suoi servi al punto che saranno proprio loro a ucciderlo e il divino Augusto stesso ritenne che l’uccisione non dovesse essere vendicata, anzi, quasi dichiarò pubblicamente che era stato ucciso a ragione, 16, 1 et tantum non pronuntiavit iure caesum videri.

Specchio con figura maschile. Argento, I sec. d.C. da Pompei, Casa del Menandro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Come nella fabella di Ostio Quadra, ritroviamo lo stesso stile prorompente, figurato, ridondante in altre digressioni delle Naturales che sono accomunate dall’ansia moralistica del vecchio[57] filosofo e da un profondo pessimismo che emerge proprio nelle parti moraleggianti, un pessimismo comune a tante pagine delle Epistulae, forse una conferma che l’opera è stata probabilmente composta nel periodo tardo, dopo il ritiro dalla vita pubblica, più o meno contemporaneamente alle altre opere dedicate a Lucilio: concorre una serie di indicazioni temporali che delimitano il periodo agli anni dopo il 60, forse 62-63 d.C.[58]

È stato osservato molto giustamente che «la fabella di cui Ostio Quadra è il protagonista è un punto di condensazione del linguaggio moralistico: vi troviamo, in sovrabbondanza, i tratti di quel moralismo di tipo “sistematico” che abbiamo inizialmente rilevato in Seneca, ma uniti a una particolare ricerca di profondità simbolica»[59]. In effetti, come abbiamo visto, lo specchio è un oggetto con notevole valore simbolico in quanto, pur essendo un prodotto della natura, diventa poi, nelle mani di Ostio Quadra, lo strumento per saziare la sua lussuria e quindi l’elemento da cui muovere per una più profonda analisi della decadenza dei costumi (vd. cap. 17).

Un’analoga funzione di utilizzazione distorta di un oggetto «buono» la si può ritrovare nelle altre digressioni a fine moralistico presenti nelle Naturales: si tratta della morte della triglia in III 17-18, dei mangiatori di neve in IVb 13 e dell’affine fabula delle miniere in V 15. Preceduto da una descrizione a fosche tinte del mondo sotterraneo, del tutto assimilabile al paesaggio infernale e alla natura delle tragedie, abitato da animalia tarda et informia e da pesci che si scavano (eruuntur) anziché essere pescati, ha inizio l’inquietante affresco di un convivio malato, alla ricerca di sensazioni che accontentino gli occhi prima che la gola (oculos ante quam gulam, III 17, 3). Come in I 16, la lussuria è appagata dal «vedere»; qui la depravazione consiste nell’assistere alla morte di un pesce che poi verrà consumato e Seneca si sofferma, con dettagli quasi ossessivi, sullo spettacolo offerto dal cambiamento del colore, nel trapasso dalla vita alla morte: siamo molto vicini a quel gusto dell’orrido che informa le macabre descrizioni tragiche. Lingua e stile, in un unico sforzo, concorrono a evidenziare la perversione di uomini appartenenti alla classe sociale ricca, di uomini che non esitano a disertare il funerale di un parente, che rappresentava, per gli antichi, un momento importante e di coesione: ora non esiste più nemmeno il valore della tradizione, esiste solo la spasmodica ricerca, in particolare visiva, del piacere (III 18, 7 oculis quoque gulosi sunt) e quasi una follia collettiva all’inseguimento di sensazioni nuove (III 18, 3 tantum ad sollertiam luxuriae pereuntis accedit, tantoque subtilius cotidie et elegantius aliquid excogitat furor usitata contemnens!).

Anche la fabula di V 15, nel raccontare la spedizione ordinata da Filippo per verificare lo stato di una vecchia miniera, riconduce al tema dell’avaritia e dei vitia degli uomini che, per amore del guadagno, si spingono fino nelle profondità della terra a rischio della loro vita. L’oscurità del mondo sotterraneo, ancora una volta metafora della colpa, desta terrore (V 15, 1 non sine horrore visos) e, come in III 16, 5, evoca le tenebre infernali: là dove hanno osato discendere, potranno conoscere terrarum pendentium habitus ventosque per caecum inanes… et aquarum nulli fluentium horridos fontes et alteram perpetuamque noctem, V 15, 4. In un contesto di studio sulla natura come le Naturales, appare davvero distante una tale rappresentazione «innaturale» (si ricordino i pesci scavati!) e irreale. È l’ansia moralistica di Seneca che, nell’indicare le vie percorse dagli uomini per la loro rovina, violando la natura e i suoi misteri, non esita a introdurre descrizioni che lo avvicinano, ad es., ad Albinovano Pedone, trasmessoci da Seneca retore, Suas. 1, 15: in comune una natura senza luce, vaga e spaventosa, lo scenario per la sua dissuasio da imprese empie per troppa audacia e quindi sacrileghe, riferita alle conquiste militari e alla sete di dominio[60].

In una sequenza contraddistinta da un forte uso dell’ossimoro (4 pauperrimum… divitiae) e dalla ricorrente intensificazione di termini attinenti alla sfera della sete (5 aestus, ebrietas, torret, incalescit, ecc.) nonché a quella del commercio (3 mercemur, emere, emptus), ritroviamo l’utilizzazione deformata di un oggetto appartenente alla natura da parte di uomini ricchi e lussuriosi: si tratta della neve e dei mangiatori di neve in IVb 13.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

La digressione prende inizio dall’obiezione del discepolo Lucilio, che pone al maestro la domanda a cui Seneca ha risposto più volte nel corso dell’opera: perché soffermarsi sullo studio di certi aspetti della natura, in questo caso, della neve, quando si potrebbe divenire migliori sapendo perché essa non la si debba comprare? E il maestro risponderà con una lunga analisi del commercio e della consumazione della neve, che, in quanto acqua e, soprattutto, aria, non è niente: l’acqua stessa contra se ingeniosa luxuria redegit ad pretium: adeo nihil illi potest placere nisi carum, IVb 13, 4. In I 16, similmente, a proposito di Ostio Quadra, era la libido a essere ingeniosa… ad incitandum furorem suum. Questa società di ricchi, annoiati dal troppo cibo e dal benessere, ha reso la neve un bene commerciabile e ha «inventato» il modo di pressarla per superare l’estate (13, 3 invenimus quomodo stiparemus nivem ut ea aestatem evinceret). Come nelle altre digressioni, anche qui diviene importante la funzione visiva (10 videbis) sulla rappresentazione di uomini pallidi e ammalati (10 graciles et palliolo focalique circumdatos, pallentes et aegros) in preda all’arsura dei cibi e al gelo della neve: senza attenuazioni, febris est (11). Con un linguaggio fortemente metaforizzato Seneca ci offre ancora un esempio di trionfo della luxuria sulla ratio: 11 luxuria invictum mallum et ex molli fluidoque durum atque patiens! È il paradosso che chiude la digressione: la lussuria finisce per assumere addirittura le doti essenziali del saggio e dell’ottimo Romano, e forse più di questo non si poteva dire![61]

Vorremmo terminare l’analisi sulle diverse modalità del linguaggio e dello stile senecano nelle digressioni o excursus a sfondo moraleggiante e filosofico con alcune osservazioni sulla rappresentazione apocalittica del diluvio universale nel cap. 27 del III libro (l’argomento è presente anche nei capitoli finali 28-30). All’interno della trattazione sulle acque e sui mari, Seneca, consapevole di allontanarsi dall’argomento trattato, apre così il suo excursus: Sed monet me locus ut quaeram, cum fatalis dies diluvii venerit, quemadmodum magna pars terrarum undis obruatur. Segue un grandioso affresco dell’evento o κατακλυσμός, che, secondo la visione stoica, accompagnava l’ἐκπύρωσις alla fine di un ciclo nella vita del mondo, o anno cosmico[62]. Di nuovo la domanda: come si concilia tale descrizione con un’opera scientifica? Potremmo ipotizzare un pezzo di bravura per allentare la pesantezza della trattazione teorica, se i particolari descrittivi non fossero di così vasto respiro e se le finezze psicologiche nell’analisi degli stati d’animo non ci riconducessero ancora una volta alla profonda conoscenza dei sentimenti umani mostrata da Seneca in tanti passi delle sue opere filosofiche. In effetti, come nelle digressioni esaminate precedentemente lo specchio, la triglia, la neve rappresentavano oggetti «naturali», sui cui uso distorto si innestava la riflessione moralistica, così anche il diluvio nasce dalla natura ed è una legge dell’universo: all’origine il mondo racchiudeva in sé gli astri, gli animali e tutti quegli elementi da cui un giorno esso sarebbe stato cambiato (III 29, 34 In his fuit inundatio, quae non secus quam hiems, quam aestas, lege mundi venit… omnia adiuvabunt naturam, ut naturae constituta peregantur). Ma il senso sotteso è una riflessione ricorrente nel pensiero filosofico di Seneca: è il concetto che i casi della fortuna possono colpire, come e quando vogliono, opere umane e naturali: Ep. 91, 11 iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant. Anche il diluvio, dunque, è un accadimento previsto dalla natura e avrà fine una volta che sarà portata a compimento la rovina del genere umano, dopodiché avrà inizio una nuova era d’innocenza per l’umanità, l’età dell’oro; ma ben presto ritornerà la corruzione: 30, 8 cito nequitia subrepit. Le digressioni, dunque, non appaiono mai sganciate dalla natura e dai suoi elementi e le accomuna l’accostamento di costanti spunti di ragionamenti moralistici e filosofici, in uno stile serrato e figurato, teso alla ricerca di sensazioni forti e linguisticamente innovativo. In particolare, nella rappresentazione del diluvio, Seneca gareggia con il modello Ovidio, che in Met. I 253-312 aveva descritto il diluvio universale: ma alla descrizione epica ovidiana egli contrappone una rappresentazione che, nei suoi elementi costitutivi, è raffigurata con tinte forti, drammatiche, riecheggianti passi delle sue tragedie[63]. L’intensificazione drammatica è raggiunta attraverso l’insistenza crescente (αὔξησις) dei motivi: la nox e la mancanza della luce solare (cfr. Oed. 1-5), la nebbia fitta, la mancanza di vento, i crolli progressivi (27, 6 nihil stabile est), la paura e lo sbigottimento. L’apparato epico ovidiano affidato all’intervento divino è del tutto assente ed è sostituito da una visione catastrofica dell’evento, narrata al presente, per renderne più potente la drammaticità: se poi Seneca si permette di criticare il suo modello (sono sciocchezze aver detto che il lupo nuota tra le pecore!)[64], non viene comunque meno l’ammirazione per i suoi versi, e appare chiaro che il poeta tragico, più che il filosofo stoico, ha cercato il superamento del modello.

A ripercorrere la nostra analisi, ne scaturisce una complessità di motivi che rendono le Naturales Quaestiones una delle opere più rappresentative di Seneca, ma certo gli aspetti più originali sembrano proprio questa compresenza di interesse morale, filosofico e di studio scientifico, il dialogo continuo tra il maestro e il discepolo e, non ultimo, la potenza stilistica insieme all’intensità delle parole e dei colores.

Paul Merwart, Deucalione solleva la sposa. Olio su tela, 1880.

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Note:

[1] Molte buone osservazioni in O. Gilbert, Die meteorologischen Theorien des griechischen Altertums, Leipzig 1907 (rist. Hildesheim 1967).

[2] H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, vol. I 1903, 19526; vol. II 1903, 19526; vol. III 1910, 19526: nel commento le citazioni saranno indicate con la sigla D.-K.; e A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, Milano 1991.

[3] Aristotele, Meteorologica, ed., trad. e note di P. Louis, Paris 1982: nell’introduzione è discussa l’autenticità del libro IV che l’editore sostiene con vari argomenti: sarebbe stato composto da Aristotele, pur non corrispondendo che imperfettamente al progetto iniziale dell’autore (p. xviii).

[4] D. Vottero, Fonti e dossografia nelle “Naturales quaestiones” di Seneca, RAALBAN 61 (1987-1998), pp. 5-42.

[5] Sappiamo con certezza che l’opera aristotelica era nota ad Eratostene nell’elaborazione della teoria sulla formazione dei fiumi attraverso le acque fluviali, in particolare per la spiegazione delle piene del Nilo dovute alle piogge abbondanti (Proclo, In Plat. Tim. 37d). E possiamo aggiungere Strabone, Geografia IV 1, 7, che ricorda il parere di Aristotele per spiegare con un avvenuto terremoto la presenza di massi nella regione francese di Crau. Oltre a Seneca, del cui debito ad Aristotele avremo modo di occuparci ripetutamente nel commento, è probabile che lo stesso Lucrezio se ne sia ricordato quando descrive la violenza dei tifoni (VI 422 sgg.).

[6] Fra gli studi esistenti ricordiamo: E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen 1855-68, 19235, rist. Hildesheim 1963; H. Diels, Kleine Schriften zur Geschichte der antiken Philosophie, Hildesheim 1969, p. 384 (rist. di AKPAWB 3 [1885], p. 8).

[7] II 26, 6; II 30, 1; V 15, 1; VI 17, 3; VI 22, 2.

[8] I 5, 10; I 5, 13; II 26, 4; II 54, 1; IVb 3, 2; VI 21, 2; VI 24, 6; VII 20, 2; VII 20, 4.

[9] Oltre all’articolo citato, rinviamo all’Introduzione delle Naturales Quaestiones, Torino 1990, pp. 26 sgg.

[10] Cfr. Vottero, Introd., pp. 29 sgg.

[11] Cfr. Vottero, Introd., pp. 32 sgg.: rinviamo alla sua precisa e ricca analisi per la trattazione del problema.

[12] H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin 1879 (rist. 1965), Prolegomena, pp. 214 sgg.

[13] Tra la biografia relativa a tale questione, ci limitiamo a citare J. Borucki, Seneca philosophus quam habeat auctoritatem in aliorum scriptorum locis afferendis, Diss. Borna-Leipzig 1926: la sua posizione è diversa da quella discussa subito sopra nella misura in cui sostiene che Seneca avrebbe, invece, letto molto, anche degli autori precedenti.

[14] Si rinvia al commento, ad loc. Su questo problema vedasi M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Firenze 1967, I, pp. 171 sgg.

[15] W.H. Stahl, La scienza dei Romani, trad. it., Roma-Bari 1974, p. 5.

[16] J. Beaujeu, Les Romains et la science, in La science antique et médiévale (des origines à 1450), Paris 1957, p. 310.

[17] L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 1996, pp. 226 sgg.

[18] Collezione, V, parte I, 1-2: egli spiega che la forma esagonale delle celle risponderebbe a un principio di ottimizzazione, in quanto tale forma geometrica, dato l’alto rapporto area-perimetro, garantisce più miele.

[19] J. Beaujeu, La vie scientifique à Rome au premier siècle de l’Empire, Conférence faite le 6 Avril 1957, Université de Paris 1957, p. 10.

[20] Buone osservazioni si leggono in E. Romano, Struttura degli ‘Astronomica’ di Manilio, AAPal 2 (1979), e in C. Salemme, Introduzione agli ‘Astronomica’ di Manilio, Napoli 1983.

[21] A. Della Casa, Nigidio Figulo, Roma 1962.

[22] A. Le Boeuffle, Hygin, L’astronomie, Paris 1983, e Hyginus De Astronomia, edidit G. Viré, Stuttgart-Leipzig 1992.

[23] Pomponii Melae De Chorographia libri tres, introd., ed. crit. e comm. a cura di P. Parroni, Roma 1984.

[24] P. Parroni, Scienza e produzione letteraria, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, La produzione del testo, Roma 1989, pp. 469-505: il problema è affrontato con precisione nei suoi aspetti più importanti e i contributi, di cui abbiamo tenuto conto, sono davvero numerosi.

[25] T. Janson, Latin Prose Preface, Studies in Literary Conventions, Stockholm-Götenborg-Uppsala 1964; A. Locher, The Structure of Pliny the Elder’s Natural History, in R. French – F. Greenaway, Science in the Early Roman Empire: Pliny the Elder, his Sources and Influence, London-Sydney 1986; AA.VV., Prefazioni, prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, a cura di C. Santini e N. Scivoletto, Roma 1990.

[26] Viene introdotta, nei paragrafi 9-17, la tripartizione della philosophia in moralis, naturalis, rationalis: alla prima Seneca dedicherà i suoi maggiori interessi, della seconda, che comprende anche la metafisica e la teologia, secondo la dottrina stoica che identificava Dio e la natura, si occuperà nelle Naturales, la terza, la logica, non è ricordata nella praefatio.

[27] La philosophia insegna la virtù, quindi l’arte del vivere; le artes vulgares, ludicrae, pueriles e liberale abbracciano diversi aspetti dello scibile e rientrano quindi nell’ambito della cultura e dell’erudizione, ma hanno solo una funzione propedeutica rispetto alla filosofia. Sull’interpretazione dell’Ep. 88, si veda A. Stückelberger, Senecas 88. Brief. Über Wert und Unwert der freien Kunste, Text, Übersetzung und Kommentar, Heidelberg 1965.

[28] Seneca polemizza con Posidonio che aveva attribuito ai sapientes l’invenzione delle artes e intende ribadire la superiorità del pensiero filosofico su di esse, prodottesi dal dilagare della luxuria: la semplicità della natura si afferma sul progresso legato alle artes, par. 9: Felix illud saeculum fuit ante architectos, ante lectores!

[29] I. Lana, La concezione della scienza e della tecnica a Roma da Augusto a Nerone, II, Torino 1971, p. 165.

[30] A. Traina, Introduzione a Seneca, Letture critiche, Milano 1976, pp. 12-13.

[31] Sul tema dell’interiorità in Seneca, si leggano le ricche osservazioni di G. Lotito, Suum esse. Forme dell’interiorità senecana, Bologna 2001.

[32] Per una valutazione degli aspetti compositivi delle Naturales Quaestiones rinviamo a G. Stahl, Aufbau, Darstellungsform und philosophischer Gehalt der Naturales Quaestiones des L. Annaeus Seneca, Diss. Kiel 1960 e a W. Trillitzsch, Senecas Beweisführung, Berlin 1962.

[33] La vicinanza alla teoria lucreziana, nei suoi vari aspetti, è presa in esame da I. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino 1955, pp. 1-19.

[34] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, trad. it., Bologna 1987: su Seneca si vedano le pp. 245-251.

[35] Sul problema, si vedano le osservazioni generali di E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Firenze 1979.

[36] P. Cubeddu, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle “Naturales Quaestiones” negli anni 1900-1970, Sandalion 1 (1978), pp. 123-152; O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, II, Bologna 1981, pp. 585-595; D. Weber, Ethik und Naturwissenschaft. Die Praefatio zu Senecas Naturales Quaestiones, Wien 1995.

[37] S. Chabert, Sismologie (Questions Naturelles, Liv. VI), AUG 15 (1903), pp. 154-190 ; G. Maurach, Zur Eigenart und Henkunft von Senecas Methode in den Naturales Quaestiones, Hermes 93 (1965), pp. 357-369.

[38] F.P. Waiblinger, Senecas Naturales Quaestiones. Griechische Wissenschaft und römische Form, München 1977; N. Gross, Senecas Naturales Quaestiones: Komposition, naturphilosophische Aussagen und ihre Quellen, Stuttgart 1989.

[39] J. Müller, Über die Originalität der Naturales Quaestiones Senecae, in Fest-Gruss aus Innsbruck, Innsbruck 1893, pp. 1-20. Osservazioni sparse si possono leggere nelle principali opere di carattere generale su Seneca, indicate nella ricca bibliografia di D. Vottero, op. cit., pp. 77 sgg.

[40] L’osservazione è di P. Parroni, op. cit., p. 475.

[41] Altri esempi si possono leggere in D. Vottero, op. cit., p. 41.

[42] L. Anneo Seneca, Trattato sui terremoti, introd., testo, trad. e note a cura di A. Traglia, Roma 1965, p. 7; D. Vottero, op. cit., p. 40.

[43] La tecnica rientrava nei compiti delle classi inferiori e degli schiavi e quindi veniva denigrata dal ceto intellettuale, ma, oltre a ciò, il progresso tecnologico poteva significare la perdita di un equilibrio sociale ed economico consolidato. A conferma si ricorda la storiella del vetro infrangibile il cui inventore fu fatto uccidere dal sovrano per timore di una svalutazione dell’oro! Narrata da Trimalcione in Petr. Sat. 51, si ritrova anche in Plinio, Nat. hist. XXXVI 195. Intorno a questa problematica si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, introd. e trad. di P. Zambelli, Torino 1967.

[44] Per un’interpretazione del pensiero pliniano si veda la lucida analisi di G.B. Conte, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, I, Torino 1982, pp. xvii-xlvii.

[45] R. Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, Leipzig 1895 (rist. Hildesheim 1963), vol. II, pp. 25, 33; C. Marchesi, Seneca, Messina-Milano 1944 (rist. Milano 1981), p. 192.

[46] D. Vottero, Note sulla lingua e lo stile delle “Naturales Quaestiones” di Seneca, AAST 119 (1985), pp. 61-86, di cui possiamo leggere una riduzione nell’Introduzione già citata, pp. 42 sgg.

[47] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 243, ed Enciclopedia virgiliana, s.v. Seneca, Lucio Anneo, vol. IV, pp. 766-768, Roma 1988; si veda, sull’argomento, G. Lurquin, Le citation poétique dans les ouvrages en prose de Sénèque le philosophe, Louvain 1947, assai utile per la raccolta completa delle citazioni, più discutibile per la classificazione, che si basa su principi non sempre convincenti. Accanto a Virgilio (in particolare, l’Eneide) e Ovidio (soprattutto le Metamorfosi, libri I e XV), sono citati Menando, Lucrezio, Tibullo (il verso è erroneamente attribuito a Ovidio), Nerone, Lucilio Iuniore e un certo Vagellio, autore sconosciuto.

[48] G. Mazzoli, op. cit., pp. 103 sgg.

[49] D. Vottero, La grafia dei termini d’origine greca nelle opere filosofiche di Seneca, AAST 118 (1974), pp. 311-339.

[50] A. Traina, Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca, Bologna 19874.

[51] Utili osservazioni in D.D. Leitao, Senecan Catoptrics and the Passion of Hostius Quadra (Sen. Nat. 1), MD 1998, pp. 127-160; S. Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano, Pisa 1991, pp. 116 sgg., e F.R. Berno, Lo specchio, il vizio e la virtù. Studio sulle Naturales Quaestiones di Seneca, Bologna 2003 (che abbiamo potuto leggere a lavoro ultimato).

[52] Cfr. III 18, 1; V 15, 1.

[53] Anche l’exemplum assolve un simile funzione didattica, come possiamo verificare in tutta la produzione senecana: il piacere associato all’insegnamento per aumentare la credibilità è confermato da Rhet. ad Her. IV 49, 62; Cicerone, Orat. 120 e Quintiliano, Inst. orat. V 11, 19.

[54] Ugualmente funzionali i verbi quaerere ed excogitare come l’affine pergere: Medea 898-900 Quaere poenarum genus / haut usitatum iamque sic temet para: / fas omne cedat, abeat expulsus pudor.

[55] Cfr. D.D. Leitao, art. cit., p. 146.

[56] Per ulteriori osservazioni si veda ad loc.

[57] È Seneca stesso che fa riferimento alla sua età ormai tarda nel libro III praef. 1; 2; 3 e nelle allusioni al suo precario stato di salute nel libro I praef. 4.

[58] Intorno al problema della datazione, rinviamo a D. Vottero, op. cit., pp. 20-21. Il terminus post quem è il 62, anno del terremoto in Campania ricordato in VI 1-2, il terminus ante quem forse il 64, di cui non sono ricordati eventi salienti.

[59] S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 153.

[60] V. Tandoi, Albinovano Pedone e la retorica giulio-claudia delle conquiste, SIFC 35 (1964), p. 537.

[61] Anche Plinio, in Nat. hist. XIX 55, fa riferimento al commercio dell’acqua e al costume di bere la neve e il ghiaccio, ma, come osserva acutamente S. Citroni Marchetti, op. cit., pp. 170-171, «Plinio appartiene in parte a questo tipo di moralismo, ma vi appartiene senza vera consapevolezza: più che dipingere con gli stessi colori egli parla, spontaneamente, usando il medesimo linguaggio».

[62] Vasta la bibliografia sull’argomento; si veda D. Vottero, op. cit., pp. 440-441, note 1 e 2.

[63] F. Levy, Der Weltuntergang in Senecas Naturales Quaestiones, Philologus 83 (1928), pp. 459-466; R. Dell’Innocenti Pierini, Seneca emulo di Ovidio nella rappresentazione del diluvio universale (Nat. Quaest. 3, 27, 13 sgg.), A&R 29 (1984), pp. 143-161.

[64] III 27, 13 Ni tantum impetum ingenii et materiae ad pueriles ineptias reduxisset: nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones: il richiamo critico è a Ov. Met. I 304. Cfr. G. Mazzoli, op. cit., pp. 245-247.

Tutte le morti di Alessandro Magno

di F.M. Galassi, in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 376 (Domenica, 10 febbraio 2019), pp. 18-19.

 

L’improvvisa scomparsa del grande condottiero ha colpito la fantasia e generato infinite illazioni sulle cause del decesso (l’ultima, recentissima, parla di malattia neurologica autoimmune). Le ipotesi più probabili sono tifo addominale e malaria. Inverosimile pensare che sia stato considerato defunto quand’era ancora in vita.

 

Menas. Alessandro in nudità eroica. Statua, marmo, III sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.

 

La morte di Alessandro Magno, avvenuta nel giugno del 323 a.C. a Babilonia, rappresenta da 2.342 anni il più grande mistero medico della storia. La sola idea che un condottiero capace, così giovane, di piegare l’antico ed acerrimo nemico dell’Ellade, l’Impero persiano, in pochi anni, estendendo i confini del mondo greco all’Egitto e all’India, potesse spegnersi così repentinamente, il solo pensiero che una storia così travolgente potesse interrompersi proprio nel momento in cui le armate macedoni stavano per invadere – e scoprire – l’Arabia, è stata assai difficile da accettare per generazioni di appassionati di storia antica. Questa mancata accettazione di un fenomeno naturale, la morte, insieme alla miriade di versioni contrastanti, spesso di dubbia veridicità, degli ultimi giorni di vita del condottiero, è all’origine della lunga lista di interpretazioni sulla fine di Alessandro.

 

Alessandro disarciona un cavaliere persiano (dettaglio). Rilievo, IV sec. a.C. dal cosiddetto “Sarcofago di Alessandro”. Istanbul, Museo Archeologico.

 

Quot capita, tot sententiae, avrebbero detto gli antichi… noi parafrasiamo «quanti gli esperti, tanti i pareri». E di pareri ne sono stati formulati davvero tanti, raggruppabili in due macro-aree, quella a cura degli storici e quella prodotta dai medici appassionati di storia. La prima schiera si è sostanzialmente attestata su due teorie: l’avvelenamento (teoria facilmente confutabile e più volte confutata, ma antica e ciclicamente riproposta) e la malaria, malattia infettiva oggi di fatto scomparsa alle nostre latitudini, ma un tempo flagello del mondo mediterraneo. La seconda schiera, anche grazie al superiore grado di approfondimento delle scienze biomediche, è stata quella più prolifica nel produrre nuove interpretazioni sulla morte di Alessandro, tra cui l’intossicazione acuta da alcool, l’epatopatia alcolica, una depressione seguita da immunodepressione, dissecazione post-traumatica della carotide interna, sindrome di Boerhaave, encefalite causata dal virus del Nilo occidentale, leucemia, ecc. In Italia, la teoria che ha avuto più successo, anche in conseguenze dall’ampio spazio datole dal celebre romanziere Valerio Massimo Manfredi nel suo saggio La tomba di Alessandro, è quella che vuole il re vittima di una pancreatite acuta necrotizzante, una infiammazione devastante del pancreas, teoria proposta per la prima volta da Sbarounis negli anni Novanta. Non si può negare che alcune fonti antiche, quali Giustino e Diodoro Siculo, menzionino un dolore improvviso, quasi venisse trafitto da un giavellotto, avvertito da Alessandro (evento che precede l’inizio del suo declino fisico). La diagnosi di pancreatite acuta necessiterebbe, però, anche di altri sintomi, tra cui il vomito e la dolorabilità addominale, mai citati nelle fonti antiche.

 

Karl Theodor von Piloty, La morte di Alessandro il Grande. Olio su tela, 1886. München, Bayerische Staatsgemäldesammlungen.

 

L’ultima ipotesi è quella della dottoressa neozelandese Katherine Hall, che propone una malattia neurologica autoimmune, la sindrome di Guillain-Barré, quale spiegazione del decesso di Alessandro, che addirittura sarebbe stato considerato morto, pur essendo ancora vivo. Da qui è derivata e si è diffusa in maniera virale la versione vulgata, ancora più fantasiosa, secondo cui «Alessandro fu sepolto vivo». Giova ricordare che il cadavere del Macedone non fu mai sepolto, bensì venne imbalsamato. Tolomeo, un tempo generale di Alessandro e ormai padrone dell’Egitto, non perse tempo e si impossessò del feretro che trasportava le spoglie del suo antico signore: la mummia di Alessandro venne traportata nella terra dei Faraoni. Per secoli la mummia si trovò ad Alessandria d’Egitto, città fondata da Alessandro stesso, e fu oggetto di visite celebri, forse anche di quella di Giulio Cesare, certamente da parte di Augusto che, piegandosi su di essa, finì per fratturarne accidentalmente il naso, per concludere con l’intervento dell’imperatore romano Caligola, che fece rimuovere la corazza del condottiero per possederla egli stesso.

Sul finire dell’antichità classica, in seguito alle numerose devastazioni della città di Alessandria, si è perso traccia sia della tomba che della mummia di Alessandro. Questo solo elemento – l’assenza del corpo – limita fortemente la nostra capacità di effettuare una diagnosi retrospettiva accurata, determinando una volta per tutte la causa mortis. Rimangono le già citate fonti, successive peraltro all’epoca in cui si svolsero i fatti, che richiedono grande cautela interpretativa. Formulare nuove ipotesi sulle cause di morte dei grandi del passato è senz’altro legittimo e lo studio della Hall presenta elementi di grande interesse, quali l’effettiva capacità degli antichi di certificare il decesso di un individuo sulla base dei parametri fisiologici (circolazione, respirazione).

Questo genere di studi, tuttavia, per poter rivendicare credibilità in seno alla ricerca, dovrebbe seguire le linee guida proposte dalla Paleopathology Association o, comunque, sforzarsi di raccordare le interessanti speculazioni mediche con la storia della malattia analizzata e con il contesto storico e culturale in cui questa diagnosi è formulata. Lo studio della Hall, per esempio, omette di analizzare filologicamente nelle lingue originali (greco e latino) i passi chiave portati a supporto della propria tesi, non fornisce argomentazioni sufficienti a confutare teorie proposte in precedenza, non considera il fatto che non c’è prova dell’esistenza della sindrome di Guillain-Barré nel IV secolo a.C. (venne descritta scientificamente solo nel 1916), come pure manca l’evidenza (e le fonti letterarie comunque non basterebbero a fornirci questo dato) che Alessandro avesse sviluppato un’infezione da Campylobacter pylori o altri patogeni, a cui sarebbe seguita una risposta del sistema immunitario capace di aggredire paradossalmente il corpo del Macedone. Infine, il dato più contestabile: la probabilità della diagnosi asserita sulla base della attuale epidemiologia della sindrome nell’Iraq contemporaneo!

Attenendoci ai dati ricevuti dalle fonti antiche, analizzati attraverso le lenti della filologia e della medicina moderna, le due diagnosi più probabili e realistiche nel caso di Alessandro restano la malaria terzana maligna e il tifo addominale, tesi quest’ultima sostenuta da Ernesto Damiani nel suo saggio meticoloso La piccola morte di Alessandro Magno (Padova, 2012).

Il caso è aperto, forse lo sarà per l’eternità, ma il fatto che non possa essere messa la parola fine al mistero non significa che qualsiasi diagnosi possa essere formulata in barba al rigore logico e ai dati a nostra disposizione. Il dibattito andrà avanti ancora per molti anni. A vincere sarà forse il diagnosta più preciso oppure quello più spettacolare? Alessandro stesso, in punto di morte, a chi gli domandava a chi avrebbe lasciato il suo regno pare abbia risposto: «Al più forte». Così forse sarà anche nell’agone intorno alle cause del suo decesso.

Prof. Francesco Maria Galassi

Dipartimento di Archeologia,

Flinders University.

La medicina greca: da superstizione a tecnica

di G. Cambiano, Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 36-43.

 

Medicina e superstizione

 

La medicina greca si era già da tempo allontanata da quel miscuglio di empiria e magia che caratterizzava la medicina religiosa dell’Oriente: Erodoto era ben consapevole della differenza esistente fra la medicina greca e quella babilonese ed egiziana[1]. Ma la decisiva presa di coscienza metodologica della medicina greca dovette aver luogo in concomitanza della peste che invase l’Attica nel 430, con una ripresa nell’inverno 427[2]. Secondo Tucidide, i medici si trovavano disarmati di fronte a questa malattia sconosciuta, che per la prima volta si trovavano a curare; non solo, ma il contatto con i malati faceva sì che essi fossero i più numerosi a morire. Anche celebri medici forestieri, giunti in Attica per esibire la propria abilità, si erano dovuti ritirare impotenti di fronte a questa malattia[3]. Allo stesso modo erano falliti tutti i tentativi di spiegazione teorica del morbo[4]. In questa situazione di impasse totale della medicina era naturale e facilitato il ricorso a pratiche magico-superstiziose, che appellandosi a un intervento salvifico diretto della divinità, tendevano a contrapporsi polemicamente all’inefficienza della medicina[5]. Già l’invasione dell’Attica nel 431 ad opera di Archidamo aveva incrementato il successo della divinazione e il proliferare degli indovini nell’interpretazione dell’esito futuro della guerra[6]. Sono gli anni in cui più acuta è la reazione a Pericle e alla sua politica: gli intellettuali della sua cerchia sono sottoposti a processo e in tal modo tutto l’orientamento razionalistico della ricerca filosofica e scientifica è messo sotto accusa[7]. Nel 420 il dio Asclepio è solennemente introdotto in Atene da Epidauro, ove da tempo aveva un santuario, in cui fioriva una scuola di medicina religiosa[8]. In pochi anni il suo culto, connesso alla pratica di una medicina magica, ebbe un rapidissimo incremento[9]. Per la medicina razionalistica, che intendeva fondarsi su basi scientifiche, l’esigenza di difendersi dall’invadenza polemica di una medicina non scientifica presentava, dunque, in quegli anni una grande urgenza. Ad aggravare questo contesto polemico contribuiva la possibilità di utilizzare le tesi esiziali per la medicina espresse nello scritto di Melisso. Nel 427, cioè proprio quando la peste ebbe una ripresa, Gorgia si recò ad Atene come ambasciatore di Leontini e vi diffuse le sue dottrine, non ultima la sua polemica antieleatica – d’altronde impregnata di eleatismo –, avanzata nel suo scritto Sul non essere o sulla natura, che già nel titolo presentava una netta antitesi con quello dell’opera di Melisso Sull’essere o sulla natura[10]. È significativo, allora, che in questo stesso periodo, storicamente cruciale per la medicina, siano databili gli scritti più antichi del Corpus Hippocraticum a carattere prevalentemente metodologico[11]: l’urgenza della difesa conduceva a un radicale approfondimento dei metodi di ricerca e di cura della medicina.

Bassorilievo votivo dedicato ad Asclepio. Il dio, assistito da Igea, compie una guarigione taumaturgica. Marmo, inizi IV secolo a.C. dal Pireo.
Bassorilievo votivo dedicato ad Asclepio. Il dio, assistito da Igea, compie una guarigione taumaturgica. Marmo, inizi IV secolo a.C. dal Pireo.

 

Contro la superstizione e la magia si pone decisamente l’autore de La malattia sacra[12]. Attribuire a una malattia, per le caratteristiche che la differenziano dalle altre, una qualità divina equivale a sottrarre tale malattia alle competenze della medicina e, di riflesso, a giustificare un tipo di cura magica. Il criterio di differenziazione fra malattie divine e umane è costituito dall’aspetto meraviglioso (θαυμάσιον) delle prime, cioè dall’incapacità di cogliere le cause reali, approfondendo le ragioni dello stupore che producono. Di tale situazione, secondo il nostro autore, hanno approfittato maghi e ciarlatani per qualificare come sacra questa malattia straordinaria e giustificare, in tal modo, da una parte, la propria attività e, dall’altra, l’incapacità nel trovare rimedi effettivi. La prescrizione di purificazioni e incantamenti, l’ingiunzione di astenersi da bagni, cibi e attività particolari sono garantite dal presunto carattere divino della malattia: se il malato guarisce, il merito è dei maghi, ai quali va fama di abilità; se muore, la responsabilità è attribuita agli dèi[13]. La demistificazione di questo tipo di terapia mette in chiaro la portata per così dire “ideologica” dell’attribuzione dell’aggettivo sacro al morbo in questione. L’impiego di una terapia di tipo magico implica la credenza nel possesso di un potere illimitato nei confronti della malattia e della natura. Dietro il paravento dell’apparente religiosità della tesi del carattere sacro della malattia, si cela in realtà un atteggiamento empio e antireligioso[14]. La conclusione dell’autore è che tutte le malattie hanno la stessa natura (φύσις) e una causa (πρόφασις) specifica e tutte sono ugualmente curabili, se prese in tempo[15]. È chiaro che una tale conclusione è la condizione indispensabile per ogni medicina che intenda costituirsi come tecnica autonoma. Partendo da essa l’autore può procedere a sviluppare un’eziologia della malattia, individuandone la causa fondamentale nel cervello, considerato il centro di ogni attività psichica e mentale, e indicarne le terapie appropriate da applicare nel momento opportuno[16].

 

La medicina e l’eleatismo

 

parmenide. testa, marmo, i sec. a.c. da velia
Parmenide. Testa, marmo, I sec. a.C. da Velia.

Se sul piano pratico la superstizione e le terapie magiche erano l’ostacolo più forte per l’affermazione della medicina come tecnica di cura, l’avversario più pericoloso per la costruzione di una teoria della medicina come campo di sapere autonomo era rappresentato dall’eleatismo. Contro Melisso e i medici che di fatto implicitamente si mantenevano nell’area dell’eleatismo si colloca esplicitamente l’autore de La natura dell’uomo[17]. Ciò che egli rifiuta e combatte a fondo è la tesi che l’uomo sia un’entità unica. Non importa che tale entità, a livello cosmologico, sia denominata aria o fuoco o acqua o terra o, a livello più specificatamente medico, sangue o bile o flegma[18]; quel che importa è, invece, l’orizzonte categoriale comune a tutte queste posizioni apparentemente distanti. Tale orizzonte è la fondamentale concezione (γνώμη) di Melisso dell’unità rigorosa dell’essere[19]. Per mostrare la contraddittorietà dei medici che, pur volendo mantenersi sul terreno del naturalismo ionico, interpretando l’unità dell’essere come unità di una precisa entità biologica, finiscono per cadere in un’impostazione eleatica, l’autore de La natura dell’uomo ricorre a un’argomentazione, che abbiamo trovata chiaramente espressa da Melisso: l’uomo, se fosse un’entità singola, non proverebbe dolore[20], perché non vi sarebbe nulla a produrgli dolore. La nozione di dolore presuppone quella più ampia di relazione. L’unità, invece, esclude assolutamente la possibilità di qualsiasi relazione. Ammettere una relazione tra fare e subire, cioè il dolore, equivale a negare l’unità-totalità dell’essere. Se la malattia esiste, essa presuppone l’esistenza di una molteplicità articolata. L’alternativa fondamentale, allora, consiste o nel negare l’esistenza delle malattie e, conseguentemente, della medicina, come aveva fatto Melisso, o nell’ammettere che l’uomo sia una molteplicità. I medici, avversari del nostro autore, non hanno colto la portata esiziale delle tesi di Melisso e hanno preteso di conservare una posizione ambigua tra i due corni dell’alternativa, sostenendo contraddittoriamente una teoria monistica della malattia[21]. Ad essi l’autore contrappone una teoria che spiega la formazione delle malattie con una molteplicità di umori interagenti fra loro. In tal modo si può render conto della pluralità dei tipi di malattia e della conseguenza pluralità di cure[22]. Ma l’autore fissa pregiudizialmente il numero dei fattori della malattia, affermando che se venisse a mancare uno solo dei quattro umori costitutivi dell’uomo, l’uomo non potrebbe più vivere[23]. Su questo punto La natura dell’uomo perviene stranamente a incontrarsi con le tesi di Melisso, che già aveva usato la connessione tra un mutamento minimo e l’annullamento di tutto il cosmo nella totalità del tempo per negare la molteplicità. Qui, invece, si tratta di giustificare l’esistenza di una pluralità numericamente ben definita e inalterabile. Ma l’impostazione di fondo rimane comune: la condizione dell’immutabilità riposa sulla necessità che domina l’essere[24], sulla legge che già Parmenide aveva enunciato e alla quale anche Empedocle, con la sua teoria delle quattro “radici”, si era mantenuto fedele. La limitazione numericamente definita dei fattori della malattia e dei costituenti della natura umana aveva certo il vantaggio (apparente) di facilitare la diagnosi e la cura, perché era già esclusa anticipatamente l’esistenza di elementi perturbatori non riconducibili ai quattro umori, ma in realtà non comportava un guadagno in cautela, precisione ed efficacia, perché il mondo dell’esperienza nei suoi molteplici aspetti rimaneva pur sempre inattingibile. La fondazione della medicina doveva prescindere completamente dalle ipoteche eleatiche – anche nelle estreme propaggini del naturalismo di Empedocle – e per far questo doveva chiarire la propria portata di tecnica. Il nucleo centrale del problema consisteva nel reperimento di criteri capaci di fondare l’esistenza della medicina come tecnica e in un preliminare approfondimento metodologico del termine “tecnica”. Solo a questa condizione poteva diventare effettivo lo sganciamento dall’eleatismo.

 

La medicina come «τέχνη»

 

Questo compito è centrale per uno scritto metodologico che compare nella raccolta ippocratica col titolo περὶ τέχνης, il quale, anche se non è attribuibile con sicurezza a Ippocrate stesso o a medici della sua scuola, riflette tuttavia la problematica e l’impostazione metodologica di fondo, che contrassegna, come si vedrà meglio in seguito, la medicina ippocratica[25]. Il suo obiettivo polemico è costituito da coloro che considerano una tecnica la critica demolitrice delle altre tecniche e contestano le scoperte altrui, senza l’apporto di alcuna correzione[26]. La tecnica, invece, secondo il nostro autore, è costituita da scoperte utili. Ma per determinare la condizione d’esistenza della tecnica, egli stabilisce la tesi che gli enti sono sempre visti e conosciuti, mentre i non-enti non sono né visti né conosciuti[27]. Partendo da questo presupposto e passando attraverso un’altra affermazione, cioè che ogni tecnica possiede un εἶδος che la rende visibile e, dunque, conoscibile, può giungere alla conclusione che ogni tecnica è un ente, ossia esiste[28]. Mentre per Gorgia nulla è e, se anche fosse, non sarebbe conoscibile[29], qui l’essere è, ma non è più l’essere eleatico come totalità autosufficiente che non ha bisogno di criteri che ne garantiscano l’esistenza. Qui l’essere è l’essere di un ente fra molti, il quale deve essere qualificato in base alla visibilità dell’εἶδος che lo caratterizza.

 

Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Musée du Louvre.
Pittore della Clinica. Un medico esamina il paziente. Pittura vascolare su aryballos a figure rosse, V sec. a.C. Musée du Louvre.

 

La medicina può essere chiarita nel suo significato di tecnica, se si assume per vera la tesi che la guarigione dipenda dal caso. Intanto il fatto che un paziente si affidi a un medico è indice che egli non si accontenta del caso, ma si rivolge alla tecnica ritenendola capace di operare positivamente[30]. Ma a ciò si può anche obiettare che molti sono guariti senza valersi del medico. A questo punto l’autore introduce la caratterizzazione fondamentale di una tecnica, cioè la distinzione (ὅρος) tra corretto (ὀρθόν) e scorretto[31]. Se un malato riesce a guarire da solo, lo deve soltanto al fatto di essersi valso degli stessi rimedi che avrebbe usato un medico: impiegando ciò che è corretto, pur senza sapere che cosa sia corretto, egli si comporta inconsapevolmente come un medico, usando correttamente la tecnica. In ultima analisi, dunque, la guarigione è dovuta soltanto alla medicina. Naturalmente il medico autentico possiede la consapevolezza delle proprie procedure perché, oltre ad avere doti naturali appropriate all’esercizio della medicina, riceve un’educazione approfondita e specifica[32]. Questa gli procura il possesso del διὰ τὶ, cioè di un complesso di ragioni e di eventi osservati che rendono conto del verificarsi di determinati fenomeni[33]; è la base sulla quale il medico può effettuare le distinzioni fra corretto e scorretto. Ogni procedimento adottato dalla medicina è così motivato dal riferimento a fatti e fenomeni osservabili che ne giustificano l’impiego: chiarito il quadro dei sintomi, diventa possibile effettuare previsioni e adeguare la cura[34].

La tecnica medica, dunque, esiste, ma non esiste allo stesso titolo dell’essere eleatico. L’esistenza della tecnica è provata da criteri che ne determinano l’ambito di esistenza in base alle sue possibilità costitutive di intervento efficace, cioè all’interno di un campo in cui i suoi strumenti di diagnosi, di previsione e di cura si mostrino operanti. Si comprende, allora, come sia proprio della medicina non solo l’eliminazione delle malattie, ma anche il non intraprendere tentativi su pazienti ormai vinti dal morbo, quando si sa di non avere la possibilità di guarirli[35]. La medicina non deve curare tutto, non deve pretendere di disporre di possibilità positive nei confronti di ciò che sfugge alla sua portata[36]. L’uomo ha la possibilità di dominare alcune cose con gli strumenti della natura e delle tecniche. Ma se un individuo è in preda a un male che eccede gli strumenti della medicina, non ha alcun significato aspettarsi che esso sia vinto dalla medicina stessa. La medicina ha un campo autonomo all’interno del quale può esplicare la sua δύναμις[37]: osservazioni, esperimenti e analogie sono gli strumenti che le permettono una diagnosi[38]. Ma, estrapolata da tale campo, la medicina perde ogni possibilità ed efficacia. Un mutamento di campo implica un mutamento di strumenti e, quindi, un mutamento di tecnica. Gli esiti negativi, dunque, non devono essere imputati alla medicina, ma devono essere utilizzati per chiarire i difetti e correggerli[39]. In ultima analisi, la correggibilità della tecnica viene a connettersi alla sua capacità costitutiva di operare distinzioni tra corretto e scorretto.

 

***

 

Note:

 

[1] Hdt. I 197; II 77, 84 e la storia di Democede di Crotone (III 129-137). Sullo scarso rigore della medicina egiziana cfr. anche Aristot. Polit. III 15, 1286a.

[2] Thuc. II 47 ss. e III 87. La mortalità fu enorme (cfr. Diod. XII 58, 2). Una rassegna sulle interpretazioni mediche di tale pestilenza in A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, vol. II, Oxford 1956, pp. 150-153.

[3] Ad esempio, Plin. Nat. Hist. VII 37, 123 afferma che Ippocrate si recò ad Atene per curare la peste. Così avrebbe fatto anche Acrone di Agrigento, che avrebbe tentato la cura con cauterizzazioni (Plut. de Is. et Os. 79, p. 383 = DK 31 A 3; cfr. anche Suid. s.v. Ἄκρων, secondo cui avrebbe scritto un περὶ ἰατρικῆς in dorico). Un fondo di verità in queste notizie non è da escludere. Sulla fama di Ippocrate ad Atene cfr. Plato, Prot. 311bc.

[4] Che tali tentativi fossero avanzati è argomento di A.W. Gomme, op. cit., p. 148, in base a Thuc. II 48, 3, che mostra una certa impazienza contro le spiegazioni proposte.

[5] Thuc. II 47, pur riconoscendo che suppliche nei templi, oracoli e mezzi simili erano anch’essi inefficienti, testimonia che effettivamente si ricorse ad essi. Cfr. anche II 54 a proposito di discussioni sull’interpretazione di un oracolo.

[6] Thuc. II 21. Sulle pratiche superstiziose in questo periodo cfr. R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro, Torino 19542, pp. 198 ss., e P.-M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la philosophie platonicienne, Paris 19492, pp. 367-68.

[7] Plut. Per. 3132. Sui processi di ἀσέβεια si vd. W. Nestle, Vom Mythos zum Logos: Die Selbstentfaltung Des Griechischen Denkens Von Homer Bis Auf Die Sophistik Und Sokrates, Stuttgart 19422, pp. 479-485. È interessante la notizia (Plut. Per. 34) che Pericle sarebbe stato accusato di aver causato la pestilenza, rinchiudendo i cittadini a sostenere l’assedio. Sulla reazione antirazionalistica degli ultimi decenni del secolo V, si vd. E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, (tr. it) Firenze 1959, pp. 227-242.

[8] E. e L. Edelstein, Asclepius. A Collection and Interpretation of the Testimonies, Baltimore 1945, test. 720. Questi autori escludono che l’ingresso in Atene sia dovuto alla protezione del dio durante la pestilenza (II, p. 120, nota 4). Ma favorevoli ad una connessione sono, invece, P.-M. Schuhl, op. cit., p. 365 e E.R. Dodds, op. cit., p. 238.

[9] Aristoph. Plut. 659 ss.

[10] Sull’ambasceria si vd. Thuc. III 86; Diod. XII 53 = DK 82 A 4. Cfr. F. Jacoby, Apollodors Chronik, Berlin 1902, pp. 261-266. Lo scritto di Gorgia è datato nel 444-441 da Olympiod. in Plat. Gorg., p. 112 (= DK 82 A 10), ma è data sospetta. È comunque abbastanza probabile che esso sia anteriore al 427 (cfr. W. Nestle, Die Schrift des Gorgias «Über die Natur oder über das Nichtseiende», Hermes 57 [1922], pp. 551-562 e M. Untersteiner, I Sofisti, Torino 1949, p. 124, nota 26, e pp. 177-178 per la corrispondenza antitetica col titolo dell’opera di Melisso).

[11] Gli scritti del Corpus sono prearistotelici, ma formano quasi sicuramente una raccolta di quanto i filologi alessandrini trovarono nella biblioteca e nell’archivio della scuola di Cos (cfr. C. Fredrich, Hippokratische Untersuchungen, Berlin 1899, p. 80; M. Wellmann, Hippokrates, des Herakleides Sohn, Hermes 64 [1929], pp. 16-21). Ciò spiegherebbe l’appartenenza al Corpus di scritti contenenti dottrine, per esempio, della scuola di Cnido.

[12] Cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Die hippokratische Schrift περὶ ἱρῆς νούσου, SBKPrAW 1901, pp. 2-23. Secondo H. Diller, Wanderarzt und Aitiologie. Sudien zur hippokratischen Schrift περὶ ἀέρων ὑδάτων τόπων, Leipzig 1934, pp. 89-114, l’autore di quest’opera, pur scrivendo in epoca anteriore, sarebbe identico a quello dei cc. 1-11 di Le arie, le acque e i luoghi. Al contrario F. Heinimann, Nomos und Physis. Herkunft und Bedeutung einer Antithese im griechischen Denken des 5. Jahrhunderts, Basel 1945, sostiene che è posteriore e di autore diverso. Sulla datazione dell’opera (430-415) cfr. M. Pohlenz, Hippokrates und die Begründung der wissenschaftlichen Medizin, Berlin 1938, p. 45. H. Grensemann, Die hippokratische Schrift «Über die heilige Krankheit», Berlin 1968, ha messo in dubbio che tale scritto appartenga non solo a Ippocrate, ma addirittura alla scuola di Cos, per le sue affinità con la scuola di Cnido. Ma a livello metodologico tali affinità scompaiono, perché la scuola di Cnido non sa oltrepassare lo stadio descrittivo delle malattie per formulare teorie e quadri patologici più generali e, tanto meno, dunque, sa sollevarsi alla discussione dei problemi metodologici della medicina (sulla scuola di Cnido cfr. L. Bourgey, Observation et expérience ches les médicins de la Collection Hippocratique, Paris 1953, pp. 50-56; 145-188).

[13] cc. 1-2 = VI, 352-356 Littré = 1, 1-20 Grensemann.

[14] cc. 3-4 = VI, 358-360 Littré = 1, 24-31 Grensemann.

[15] c. 5 = VI, 364 Littré = 2, 1-3 Grensemann. Cfr. c. 16 = VI, 386 Littré = 13, 13 Grensemann; c. 21 = VI, 394 Littré = 18, 1-2 Grensemann. Cfr. anche Περὶ ἀέρων ὑδάτων τόπων c. 22 = II, 78 Littré.

[16] Sul cervello, c. 6 = VI, 364 Littré = 3, 1 ss. Grensemann; c. 17 = VI, 386-388 Littré = 14, 1-7 Grensemann; c. 19 = VI, 390-392 Littré = 16, 1-6 Grensemann.

[17] Sulle questioni di attribuzione (Ippocrate o suo genero Polibo o altri) cfr. C. Friedrich, op. cit., pp. 13-32; 51-56. È datato generalmente verso il 400 (cfr. K. Deichgräber, Die Epidemien und das Corpus Hippocraticum. Voruntersuchungen zu einer Geschichte der Koischern ärzteschule, Berlin 1933, pp. 105-111; F. Heinimann, op. cit., p. 158), ma non escluderei la possibilità di anticipare la data per la vivacità della polemica contro Melisso e determinati ambienti sofistici. In particolare espressioni come ἀμφί τῶν πρηγμάτων, ἀντιλέγειν o καταβάλλειν (c. 1 = VI 34 Littré) non possono non richiamare Protagora (cfr. DK 80 B 6a, B 9, B 5, B 1, A 19).

[18] cc. 1-2 = VI 32-34 Littré.

[19] c. 1 = VI 34 Littré cita esplicitamente Melisso.

[20] c. 2 = VI 34 Littré (e mettere a confronto con p. 20). Cfr. anche c. 3 = VI 36-36 Littré: l’unità rende impossibile la γένεσις.

[21] Alla base di tale monismo sta la generalizzazione eccessiva di alcuni dati (cfr. c. 6 = VI 44 Littré).

[22] c. 2 = VI 36 Littré.

[23] c. 7 = VI 48-50 Littré. I quattro umori, cioè sangue, flegma, bile gialla e bile nera, non sono una cosa sola per il nostro autore, perché non presentano caratteristiche simili alla vista e al tatto, ma differiscono τὴν ἰδέην τε καὶ τὴν δύναμιν (c. 5 = VI 42 Littré). Sui limiti scientifici di tale teoria cfr. R. Joly, La niveau de la science hippocratique. Contribution à la psychologie de l’histoire des sciences, Paris 1966, pp. 170-179. Un’analoga teoria dei quattro umori si può trovare sostenuta anche dal pitagorico Filolao (DK 44 A 27).

[24] c. 7 = VI 50 Littré: ἀπὸ γὰρ τῆς αὐτέης ἀνάγκης πάντα ξυνέστηκέ τε καὶ τρέφεται ὑπ’ ἀλλήλων. Giustamente M. Vegetti, Ippocrate. Opere, Torino 1965, p. 416, nota 7, parla a proposito di questo scritto di «eleatizzazione del molteplice».

[25] T. Gomperz, Pensatori greci, II, trad. it. Firenze 1933, pp. 230-231 (ma già in Die Apologie der Heilkunst, Leipzig 19102) sostenne che tale scritto non è opera di un medico e credette di poterne ravvisare l’autore in Protagora. Che sia opera di Protagora è tesi ormai generalmente respinta (cfr. M. Untersteiner, op. cit., p. 25, nota 37), né vi sono motivi sufficientemente validi per accettare l’opinione di E. Dupréel, Les Sophistes. Protagoras, Gorgias, Prodicus, Hippias, Neuchâtel 1948 (ma 1949), pp. 242-251, che sia opera di Ippia. Per una collocazione di tale scritto nel contesto storico-culturale, cfr. ora M. Vegetti, Technai e filosofia nel «Perì technes» pseudo-ippocratico, Acc. Scienze Torino. Atti 98 (1964).

[26] c. 1 = VI 2 Littré.

[27] c. 2 = VI 4 Littré.

[28] Ibid.

[29] Cfr. Sext. Emp. adv. math. VII 65 ss. (= DK 82 B 3) e De Melisso Xenophane Gorgia 5.6.979a 11-980b 21. R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze 1958, coglie esattamente come il nostro scritto si allontani dall’eleatismo ancor più dell’antieleata Gorgia (p. 136), ma sottolinea eccessivamente la preoccupazione gnoseologica.

[30] c. 4 = VI 6 Littré.

[31] c. 5 = VI 8 Littré.

[32] c. 9.

[33] c. 6 = VI 10 Littré. La sostantivazione (τῷ διὰ τὶ) esprime la portata concettuale del διὰ τὶ come strumento della spiegazione causale.

[34] c. 6 = VI 10 Littré.

[35] c. 3 = VI 4-6 Littré.

[36] c. 8 = VI 12-14 Littré.

[37] Cfr. τῆς γε τέχνης τὴν δύναμιν (c. 11 = VI 22 Littré).

[38] Questi tre strumenti sono distinti nel c. 13. Sull’analogia nel Corpus cfr. G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy. Two Types of Argumentation in Early Greek Thought, Cambridge 1966, pp. 345-356.

[39] c. 8 = VI 14 Littré. Qui c’è un chiaro riferimento ad accuse di insuccesso mosse alla medicina: la peste poteva esserne stata l’occasione?

Saffo fr. 31 Voigt

di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp.191-197; testo greco ediz. critica di Eva-Maria Voigt, Sappho et Alcaeus. Fragmenta, Amsterdam 1971; note ed integrazioni da S. Laconi, Il tema dell’amore in Saffo. Unità didattica per una seconda liceo classico (a cura di D. Puddu), Cagliari 2005-2006; note ed integrazioni dagli appunti delle lezioni universitarie di Letteratura greca II della prof.ssa M.P. Pattoni, Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore, a.a. 2013-2014.

È forse l’ode più letta e più ammirata di Saffo, citata dall’Anonimo del Sublime (Pseudo-Longino) come capolavoro di poesia amorosa per l’abilità con cui Saffo sceglie e collega le circostanze più salienti della passione (cap. X, 1-3):

οἷον ἡ Σαπφὼ τὰ συμβαίνοντα ταῖς ἐρωτικαῖς μανίαις παθήματα ἐκ τῶν παρεπομένων καὶ ἐκ τῆς ἀληθείας αὐτῆς ἑκάστοτε λαμβάνει. ποῦ δὲ τὴν ἀρετὴν ἀποδείκνυται; ὅτε τὰ ἄκρα αὐτῶν καὶ ὑπερτεταμένα δεινὴ καὶ ἐκλέξαι καὶ εἰς ἄλληλα συνδῆσαι… [citazione dell’ode]… οὐ θαυμάζεις, ὡς ὑπὸ τὸ αὐτὸ τὴν ψυχὴν τὸ σῶμα τὰς ἀκοὰς τὴν γλῶσσαν τὰς ὄψεις τὴν χρόαν, πάνθ̓ ὡς ἀλλότρια διοιχόμενα ἐπιζητεῖ καὶ καθ̓ ὑπεναντιώσεις ἅμα ψύχεται κᾴεται, ἀλογιστεῖ φρονεῖ; ἢ γὰρ φοβεῖται ἢ παῤ ὀλίγον τέθνηκεν· ἵνα μὴ ἕν τι περὶ αὐτὴν πάθος φαίνηται, παθῶν δὲ σύνοδος. πάντα μὲν τοιαῦτα γίνεται περὶ τοὺς ἐρῶντας, ἡ λῆψις δ̓ ὡς ἔφην τῶν ἄκρων καὶ ἡ εἰς ταὐτὸ συναίρεσις ἀπειργάσατο τὴν ἐξοχήν.

«Saffo, ad esempio, descrive le folli sofferenze d’amore ogni volta traendo spunto dalla realtà stessa delle circostanze. E dove mostra la sua grandezza? Quando è straordinaria nello scegliere e nl connettere tra loro i momenti più intensi ed acuti… [citazione dell’ode]… Non resti ammirato di come ripercorre nello stesso tempo l’anima, il corpo, le orecchie, la lingua gli occhi, la pelle, come se fossero cose a lei estranee, e disperse: e passando da un posto all’altro gela, brucia contemporaneamente, è fuori di sé, sragiona, è sconvolta dal timore e poco manca che muoia, tanto che sembra provare non una sola ma un groviglio [σύνοδος] di passioni? Tutto questo, infatti, accade a chi ama: ma, come dicevo, la scelta dei momenti più intensi e il loro collegamento ha prodotto il capolavoro».

(trad. it. di G. Guidorizzi)

John William Godward, Al tempo di Saffo. Olio su tela, 1904..jpg
John William Godward, Al tempo di Saffo. Olio su tela, 1904.

D’altra parte, questo carme è anche poesia di controversa interpretazione: chi è l’uomo che siede di fronte alla ragazza? Qual è l’occasione che provoca il turbamento di Saffo? Un tipo di lettura che incontrò largo favore fu proposto da Ulrich von Wilamowitz (1913, 71 ss.) e da Bruno Snell (Hermes 66 [1931], 71-90), che individuarono l’occasione in un convito nuziale: si tratterebbe in sostanza di un componimento imenaico, dove ὤνηρ sarebbe lo sposo e «pari agli dèi» (ἴϲοϲ θέοιϲιν) riprodurrebbe una formula augurale (μακαρισμός) connessa alla festa nuziale. Senonché tale formula non è esclusiva dei carmi legati alle cerimonie matrimoniali, e riesce difficile, pur astraendoci dalla nostra mentalità e tenendo conto degli usi nuziali della Grecia arcaica, immaginare in un tale contesto una simile confessione di dolorosa passione.

Altri interpreti (ad esempio, Gennaro Perrotta e Denys Page) hanno colto nella descrizione dei sintomi enucleati da Saffo l’espressione di un’ardente gelosia nei confronti dell’uomo, tanto che si usa richiamarsi a questo carme come all’Ode della gelosia; e tuttavia c’è da osservare che la reazione della poetessa non si origina propriamente – come segnala il γὰρ del v.7 – dal rapporto fra l’uomo e la ragazza quanto invece dalla vista di costei, che genera nell’io che si confessa il prodursi di un concorso di sintomi, dallo spezzarsi della lingua fino all’essere più verde dell’erba, fissati con una rigorosa esattezza che trova un termine di confronto solo negli scritti medici.

Non solo per i singoli sintomi è possibile richiamare precisi paralleli ma lo stesso quadro clinico complessivo è affine – come ha osservato Vincenzo Di Benedetto, Hermes 113, 1985, 145-156 [147] e Saffo, 27-29 – a un passo del trattato ippocratico Sulle affezioni interne, 49:

ἐνίοτε δὲ καὶ ἐς τὴν κεφαλήν ἐξαπίνης ὀδύνη στηρίζει ὀξείη· καὶ τοῖσιν ὠσίν ὀξέως ἀκούειν οὐ δύναται οὐδέ τοῖσιν ὀφθαλμοῖσιν ὁρῆν ὑπὸ τοῦ βάρεος· ἱδρώς τε πολλός καταχέεται κάκοδμος, μάλιστα μέν ἢν ἡ ὀδύνη ἔχῃ, καταχέεται δὲ καὶ ἢν ἡ ὀδύνη ᾖ καὶ λωφᾷ, καὶ τῆς νυκτός μάλιστα· ἡ δὲ χροιή αὐτοῦ ἰκτερώδης δείκνυται.

«Alcune volte il dolore arriva improvvisamente anche alla testa, dimodoché il malato per la pesantezza non può tenere sollevate le palpebre né ascoltare con le orecchie. E del sudore abbondante e maleodorante si diffonde sul paziente soprattutto quando il dolore lo prende, e si diffonde anche quando il dolore si allenta, e soprattutto durante la notte. E il colorito della pelle del malato diventa quasi completamente itterico».

Asclepio. Statua, marmo, IV sec. d.C. ca. da Mediana, presso Naissus (Niš, Serbia)
Asclepio. Statua, marmo, IV sec. d.C. ca. da Mediana, presso Naissus (Niš, Serbia).

La scheda, come quasi sempre nella medicina ippocratica, attribuisce a un’alterazione biologica una serie di sintomi di cui non ci è detto il contesto psicologico nel cui ambito si sono manifestati. Possiamo appurare tutt’al più che il medico ha proceduto per parallelismo/antitesi con la scheda precedente, quella del capitolo 48, in cui si trattava di una «malattia spessa» prodotta non dal flegma ma dalla bile e che dava luogo a manifestazioni aggressive (attacchi fisici, minacce) alternate a stati depressivi. Tuttavia l’assenza di qualsiasi indicazione sul carattere fobico del pathḗma di Sulle affezioni interne, 49 e la precisazione che il sudore continua a colare anche quando, e soprattutto di notte, vi è remissione del dolore escludono che qui abbiamo a che fare con la sindrome descritta da Saffo, che è innegabilmente una sindrome da attacco di panico.

La serie dei sintomi enucleati dalla poetessa, e cioè:

  1. Palpitazioni (vv. 5-6);
  2. Afasia (vv. 7-9);
  3. Improvvise vampate di calore (vv. 9-10);
  4. Ottenebramento della vista (vv. 11);
  5. Ronzio alle orecchie (vv. 11-12);
  6. Sudore (v. 13);
  7. Tremito (vv. 13-14);
  8. Pallore mortale (vv. 15-16),

si sovrappone infatti in convincente misura alla serie dei sintomi atti a diagnosticare un attacco di panico secondo i criteri riconosciuti ufficialmente per la prima volta in sede ufficiale con la pubblicazione del DSM (Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder), III ed. (1980) della «American Psychiatric Association» e lievemente modificati in DSM-III-R (1987) e in DSM-IV (1994):

  1. Palpitazioni o tachicardia;
  2. Sudore (più precisamente Giovanni Battista Cassano, 205 parla di «vampate con iper-sudorazione: il paziente si sente sciogliere dal sudore, a volte sudore gelato»);
  3. Tremito o convulsioni;
  4. Sensazioni di respiro corto;
  5. Senso di soffocamento;
  6. Pena al petto;
  7. Nausea o disagio addominale;
  8. Vertigini, instabilità, stordimento o svenimento;
  9. Derealizzazione (senso d’irrealtà) o depersonalizzazione (distacco da se stessi);
  10. Paura di perdere il controllo o d’impazzire;
  11. Paura di morire;
  12. Parestesie (senso di intorpidimento);
  13. Brividi o vampate di calore.

Del resto nella prospettiva medica antica la paura si collega, come vediamo da De morbo sacro 15, 2, a un’alterazione del cervello a causa delle bile, non del flegma:

ἢν δὲ δείματα καὶ φόβοι παριστῶνται, ὑπὸ μεταστάσιος τοῦ ἐγκεφάλου· μεθίσταται δὲ θερμαινόμενος· θερμαίνεται δὲ ὑπὸ τῆς χολῆς, ὁκόταν ὁρμήσῃ ἐπὶ τὸν ἐγκέφαλον, κατὰ τὰς φλέβας τὰς αἱματίτιδας ἐκ τοῦ σώματος· καὶ φόβος παρέστηκε μέχρις ἀπέλθῃ πάλιν ἐπὶ τὰς φλέβας καὶ τὸ σῶμα· ἔπειτα πέπαυται.

«Se sovrastano timori e paure (δείματα καὶ φόβοι), ciò avviene per effetto di un cambiamento di stato (μεταστάσιος) del cervello: esso cambia per effetto del calore, si riscalda per effetto della bile quando essa muove verso il cervello dal corpo attraverso le vene del sangue, e la paura resta finché la bile non torni di nuovo nelle vene e nel corpo: quindi cessa».

In effetti il morbo descritto nel passo sopra citato di Sulle affezioni interne, 49 (e cfr. anche De mulierum affectibus, 151) e il cui agente patogeno è il flegma (umore freddo: muco, catarro e sim.) trova riscontro in De morbo sacro 11 («Il cervello è molle, pieno di liquido e ha cattivo odore… il cervello viene corroso dal flegma e si liquefa») e non è altro che una forma di attacco epilettico, il quale solitamente è preceduto da ansia anticipatoria e agorafobia ma non si accompagna, nel corso della crisi, a manifestazioni fobiche.

La parziale convergenza fra Sulle affezioni interne, 49 e la diagnosi odierna di Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) si spiega nel senso di «una vasta area di sovrapposizione sintomatologica tra DAP ed epilessia del lobo temporale. Ora, il fatto che sintomi “nevrotici” caratterizzanti il panico-agorafobia siano in larga misura presenti anche in una malattia neurologica che si produce per una lesione che ha sede nel lobo temporale, ci ha consentito di formulare nuove ipotesi sulla genesi di una malattia un tempo ritenuta di natura “psicologica”. Si può dire che nel DAP il lobo temporale è molto spesso chiamato in causa. Naturalmente non si può confondere il DAP con l’epilessia. Si tratta di due malattie radicalmente diverse» (Cassano, 210).

Se quello che dal punto di vista espressivo appare il più dettagliato termine di confronto nella letteratura medica antica con il carme di Saffo non è pertinente quanto alla sindrome offerta, siamo tuttavia in grado di riconoscere o almeno di sospettare veri attacchi di panico in alcune «cartelle» mediche antiche molto più brevi e lacunose ma sufficientemente attendibili quanto a sintomi fobici:

1-2. Due casi da manuale per l’evidenza dei fattori scatenanti sono quelli, appaiati nel testo, di Nicanore e di Democle (Epidemie, V 81-82): il primo, «allorché si reca a bere in compagnia, è colto da paura della flautista: non appena ode le prime note dell’aulo durante il simposio è preso da disturbi indotti da paura e si trattiene a stento se è notte mentre se li ascolta di giorno resta tranquillo»; il secondo «crede di avere la vista debole e di svenire e non è in grado di passare lungo uno strapiombo o su un ponte né di superare la minima profondità di un fossato» (cfr. Maria Grazia Ciani, 25, che vede giustamente nelle due schede due rari casi di «affezione mentale “pura”, indipendente da influssi somatici»).

3. Un altro caso molto chiaro è ricordato nel II secolo d.C. da Areteo di Cappadocia, De causis et signis acutorum morborum, I 6, 6: «Si racconta anche questo caso: c’era in passato un carpentiere molto bravo sul lavoro nel misurare, tagliare, piallare, inchiodare, adattare il legname e nel portare a termine lucidamente un edificio e nel frequentare i datori di lavoro e trattare con essi e farsi pagare i lavori a giusto prezzo. Costui insomma era sempre equilibrato sul luogo di lavoro, ma se si recava in piazza o ai bagni o in qualunque altro luogo fosse necessario prendeva a gemere già mentre deponeva gli attrezzi e finché non se li rimettesse in spalla uscendo; e quando era lontano dalla vista degli operai e del lavoro e del cantiere, era preso da totale pazzia e ritornava immediatamente equilibrato quando rientrava sul luogo di lavoro». Come commenta Cassano, 210 «in questo brano c’è l’ansia anticipatoria legata al timore di affrontare uno spazio aperto, pubblico; c’è la crisi di panico con la perdita di controllo e l’impressione di impazzire; e c’è la sensibilità alla rassicurazione con il ritorno al luogo familiare».

D’altra parte c’è un’evidente tensione, nell’orientamento comunicativo del canto di Saffo, tra i sintomi che hanno caratterizzato l’attacco di panico e l’esecuzione (e già la composizione) del canto. Questo traspone sul piano illusionistico del presente un attacco fobico che, per essere espresso e comunicato, ha bisogno di essere stato non solo superato ma riassorbito nella coscienza, distaccato e «visualizzato». Rievocare all’amata la serie dei sintomi patiti come se fossero attualmente in atto è il risultato di una sceneggiatura realizzata secondo una palese strategia: rivendicare l’investimento emotivo riversato su di lei, fare appello alla catastrofe psichica subita e alla rassegnazione con cui viene accettata.

Di nuovo ci può soccorrere la ricerca clinica contemporanea, che ha rilevato come l’attacco di panico si scatena «in situazioni o ambienti in cui la persona avverte costrizione, isolamento, solitudine-abbandono o, comunque, limitazione della propria autonomia e libertà» (Cassano, 208). Il distacco di una ragazza dalla comunità per andare sposa a un uomo dell’isola o della costa anatolica rappresentava per Saffo e il suo gruppo un evento a cui istituzionalmente mirava la paideía offerta dalle consuetudini del tiaso, ma insieme significava l’interruzione di un periodo di vita comunitaria e di scambi affettivi basati sull’amicizia e sul piacere della bellezza e dell’eleganza. Non è difficile immaginare che Saffo sperimentasse in simili occasioni una situazione conflittuale o almeno che ella fosse indotta a rappresentare la separazione in questi termini perché all’interno della comunità si era ormai venuta instaurando una convenzione espressiva di questo tipo, capace di rispondere a tensioni immanenti alla fenomenologia del distacco.

La trasposizione delle pulsioni provate nei confronti della ragazza vicina alle nozze (eros, gelosia, dolore…) nei termini di un attacco di panico non si spiega, come supponeva Georges Devereux in «CQ» n.s. 20 (1979), 17-31, in relazione alla natura omoerotica del rapporto fra Saffo e la ragazza – un rapporto che la società lesbia del tempo non ci risulta caricasse di alcuna censura – , ma come conseguenza della consapevolezza che fra breve la ragazza lascerà il gruppo per sempre: è la crisi del distacco, l’angoscia dell’assenza che, come percepiamo da altri carmi e in particolare dai frr. 94 e 96, scatena un’angoscia che solo la parola poetica, e soprattutto la sua comunicazione alle ragazze che restano nel gruppo, poteva in qualche misura compensare e lenire.

Per quanto concerne le interpretazioni del testo, oltre a quella avanzata da Wilamowitz e supportata da Snell e a quella di Perrotta e altri, ne esiste un’altra, alquanto bizzarra – e pertanto rimasta isolata – proposta da Carlo Del Grande. Questi muoveva dal presupposto che il nesso ἴϲοϲ θέοιϲιν («simile agli dèi») fosse piuttosto da intendere come «imperturbabile come un dio», immaginando in maniera astrusa questo componimento come un’ode consolatoria per una ragazza ancora prima delle nozze, in cui appunto l’io lirico si chiede come l’uomo che le starà accanto possa essere così «imperturbabile come un dio» e non cedere ai suoi piedi. Un’ulteriore interpretazione è stata avanzata da Gabriele Burzacchini, che insieme ad altri studiosi, ha visto in questo componimento un’ode d’amore: beato chi siede presso la ragazza, impassibile e composto, mentre Saffo è in preda allo sconvolgimento interiore. Le letture più recenti e concordi sono quelle di Joachim Latacz (1985) e di Franco Ferrari (1990), che collegano fra loro le proposte precedenti e rielaborano in maniera più raffinata la tesi del Wilamowitz (1913). Si tratta dunque di un’Ode dell’Amore e non della Gelosia; ὤνηρ non è l’«uomo» generico – di cui tra l’altro congetturava Burzacchini – ma è lo «sposo», è κῆνοϲ ὤνηρ (= att. ἐκεῖνος ὁ ἀνήρ), «quell’uomo»: il riferimento è, quindi, ad una persona ben precisa, il «fidanzato» (cfr. Alceo fr. 72, 7 s. Voigt). L’occasione sarebbe dunque proprio il momento della partenza della ragazza, che Saffo, poetessa arcaica, sa ben modulare e rappresentare contemporanea agli eventi che seguiranno (cioè, il turbamento psicofisico).

Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.
Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.

Il metro del carme è costituito da quattro strofe saffiche, costituite da tre endecasillabi saffici (cretico+ipponatteo acefalo) e da un adonio in funzione di clausola; quattro versi secondo la colometria stabilita dai grammatici alessandrini, tre in realtà, dal momento che fra il terzo endecasillabo e l’adonio non c’è pausa ma continuità ritmica (sinafia):

Strofe saffica
Strofe saffica.

φαίνεταί μοι κῆνοϲ ἴϲοϲ θέοιϲιν

ἔμμεν’ ὤνηρ, ὄττιϲ ἐνάντιόϲ τοι

ἰϲδάνει καὶ πλάϲιον ἆδυ φωνεί-

ϲαϲ ὐπακούει                                                          4

καὶ γελαίϲαϲ ἰμέροεν, τό μ’ ἦ μὰν

καρδίαν ἐν ϲτήθεϲιν ἐπτόαιϲεν,

ὠϲ γὰρ ‹ἔϲ› ϲ’ ἴδω βρόχε’ ὤϲ με φώνη-

ϲ’οὐδέν ἔτ’ εἴκει,                                                    8

ἀλλὰ †κὰμ† μὲν γλῶϲϲα †ἔαγε†, λέπτον

δ’ αὔτικα χρῶι πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,

ὀππάτεϲϲι δ’ οὐδέν ὄρημμ’, ἐπιβρό-

μειϲι δ’ ἄκουαι,                                                      12

†έκαδε†μ’ ἴδρως κακχέεται τρόμοϲ δὲ

παῖϲαν ἄγρει, χλωροτ˻έρα δὲ πο˼ίαϲ

ἔμμι, τεθν˻άκην δ’ ὀ˼λίγω ’πιδε˻ύηϲ

φα˼ίνομ’ ἔμ’ αὔτ[αι.                                               16

ἀλλὰ πὰν τόλματον ἐπεί † καὶ πένητα †

Edward Poynter, La sirena. Olio su tela, 1864.
Edward Poynter, La sirena. Olio su tela, 1864.

«A me pare che sia uguale agli dèi quell’uomo – chiunque egli sia – che di fronte a te siede, e accanto, mentre così dolcemente parli, ti ascolta, e sorridi e susciti desiderio, ciò che mi sconvolge davvero il cuore nel petto: ché, appena ti vedo, non mi è concesso dire più nulla, ma la lingua si è franta e un sottile fuoco tosto corre sotto la pelle, con gli occhi non vedo nulla e risuonano le mie orecchie, e freddo sudore si diffonde, e un fremito tutta mi cattura, e sono più verde dell’erba, e al morire poco lontana paio a me stessa. Ma tutto si può sopportare, dacché †…†».

Secondo l’apparato dei Testimonia indicato dalla Voigt (1971) nella sua edizione dei frammenti di Saffo, l’ode è riportata non solo dall’Anonimo del Sublime (X, 2), ma è tràdita – tra gli altri – anche da Apollonio Discolo, grammatico vissuto all’epoca di Marco Aurelio, autore di diversi trattati di linguistica e di grammatica, nel suo Sui pronomi (159, 9 ss.): in questo passo, l’erudito discute dell’utilizzo del pronome dimostrativo κῆνοϲ nel dialetto eolico, citando i vv. 1-2 dell’ode in questione. Altro testimone è un’opera minore (Sui progressi della virtù, 81d) di Plutarco. Inoltre, come indicato dalle mezze parentesi quadre ( ˻ ˼ ), l’editrice riporta sul testo le parti integrate trasmesse dal P.S.I. (Papiro della Società Italiana), XV pubblicato nel 1968 e che cita i vv. 14-16.

Ulpiano Checa, Innamorati a Pompei. Olio su tela, 1890.jpg
Ulpiano Checa, Innamorati a Pompei. Olio su tela, 1890.

Ma vediamo nel dettaglio di analizzare i termini e i vari nessi che compaiono nel testo, avvalendoci, ove è necessario, dell’apparato critico di Eva Maria Voigt.

v.1 φαίνεταί μοι: «mi sembra» o più propriamente «mi appare»; in unione con il verbo all’infinito (eol. ἔμμεν’= att. εἶναι) si indica un’impressione soggettiva. Catullo 51, 1, che com’è noto riprese in chiave alessandrino-neoterica questo carme, rende il costrutto con mi…esse…videtur. Per qualcuno invece, specialmente per chi vede nell’ode un epitalamio e nell’inizio il μακαρισμός dello sposo, il verbo vale oggettivamente «presentarsi», «apparire»: ma, osserva giustamente Giuliana Lanata, la stessa ripresa φαίνομ’ ἔμ’ αὔτ[αι (v.16) esclude questa interpretazione. La lezione ϝοι, data da Apollonio Discolo (Sui pronomi, 82, 17), è ancora sostenuta da Carlo Gallavotti: quell’uomo risulta a se stesso, cioè si reputa, felice come un dio, mentre Saffo è sbigottita e manifesta invece il suo tormento. Ma non è improbabile che il φαίνεταί ϝοι κῆνοϲ di Apollonio appartenga a un altro carme saffico, ovvero il fr. 165 Voigt, tanto più che lo stesso grammatico altrove (Sui pronomi, 59) e tutti i codici dell’Anonimo del Sublime danno μοι, confermato per giunta dallo stesso Catullo 51, 1 (ille mi par esse deo videtur).

Il nesso ἴϲοϲ θέοιϲιν («pari agli dèi») è esemplato da Saffo su una grande quantità di nessi omerici simili, quali: ἰσόθεος («simile a un dio»), con dodici occorrenze nell’Iliade e due nell’Odissea; δαίμονι ἶσος («simile a un demone»); e le varianti avvebiali θεοῖσι ἶσα/ἶσον («alla maniera degli dèi»). Nonostante tanta ricchezza di moduli e riscontri formali, in realtà, da più di un secolo gli studiosi discutono sul significato preciso da attribuire al passo saffico e le interpretazioni variano a seconda del contesto che si immagina afferisca all’ode. Si potrebbe pensare sostanzialmente a un «pari agli dèi» che sottolinea uno stato di beatitudine  e di felicità, in riferimento alla μακαριότης che caratterizza le divinità, oppure ad un epiteto che esprime la forza, la temperanza e l’autocontrollo che si avvicinano a quelli degli dèi.

v.2 ὄττιϲ: corrisponde all’att. ὅστις (in cui non è avvenuta l’assimilazione di -στ- nella geminata -ττ-): denota una persona definita di cui però non si conosce l’identità; secondo altri il pronome ha un valore fondamentalmente relativo, come già in alcuni passi omerici. Una valenza del tutto indefinita di ὄττιϲ paiono confermare le allusive riprese di Eronda, VII 111 s. e Rufino, Anthologia Palatina, V 94,3 s.

vv.2-3 ἐνάντιόϲ τοι/ἰϲδάνει: Wilamowitz, Latacz e Ferrari intendono questo nesso come tipico modulo imenaico, che rappresenta la posizione dello sposo rispetto alla donna al banchetto nuziale. Il verbo ἰϲδάνει («egli siede») mantiene la forma originaria in -σδ- che l’attico muta in -ζ- > ἱζάνει; ἐνάντιοϲ è la forma eolica con baritonesi dell’att. ἐναντίος. Il modulo ha anche in questo caso ascendenza omerica: Iliade IX, 190 Πάτροκλος δέ οἱ οἶος ἐναντίος ἧστο… («Patroclo, solo con lui, gli sedeva davanti…»; Odissea V, 198 αὐτὴ δ᾽ ἀντίον ἷζεν Ὀδυσσῆος θείοιο («lei stessa [Calipso] sedette di fronte a Odisseo divino»); Odissea XXIII, 89 ἕζετ᾽ ἔπειτ᾽ Ὀδυσῆος ἐναντίη («[Penelope] sedette di fronte a Odisseo»).

v.3 πλάϲιον: ha valore enfatico e secondo Ferrari ridetermina il significato di ἐνάντιόϲ, sottolineando il contrasto tra l’uomo e l’io lirico della poetessa, che evidentemente lontana assiste alla scena.

v.3-5 ἆδυ φωνεί/ϲαϲ …/…γελαίϲαϲ ἰμέροεν: «che dolcemente parli… che ridi amorosamente»; si tratta di un elegante chiasmo composto dalla sequenza avverbio+participio – participio+avverbio, in dipendenza dal verbo ὐπακούει («egli ascolta») che si trova esattamente al centro della struttura. Inoltre, il chiasmo blocca in una microunità l’idillio fra l’uomo e la ragazza; Catullo 51, 3-5 rende con te/spectat et audit/dulce ridentem; e cfr. Orazio, Carmina I 22, 23 s. dulce ridentem Lalagen amabo,/dulce loquentem.

v.4 ὐπακούει: ha il significato preciso di «egli ascolta ammirato», «egli ascolta con dedizione/attenzione»; l’idea di subalternità è espressa dalla preposizione prefisso ὑπ- (cfr. lat. sub), «sotto». Anche l’utilizzo di questo verbo è un’eco omerica: cfr. Iliade VIII, 4 θεοὶ δ᾽ ὑπὸ πάντες ἄκουον («gli dèi ascoltavano tutti con attenzione»).

v.5 ἰμέροεν: «in modo tale da suscitare l’ ἵμερος», è avverbio nella forma eolica per l’attico ἱμερόεν; il neutro singolare dell’aggettivo  con funzione avverbiale richiama il δακρυόεν γελάσασα («insieme ridendo e piangendo») di Iliade VI, 484. La formulazione contenente l’idea di ἵμερος – di per sé concetto intraducibile in italiano, ma reso solitamente con «desiderio» – ha precedenti epici come in Iliade III, 446, dove Paride, salvato da Afrodite e condotto nel talamo, una volta fra le braccia di Elena, dice: ὥς σεο νῦν ἔραμαι καί με γλυκὺς ἵμερος αἱρεῖ («tanto adesso ho voglia di te e mi prende il desiderio»); il nesso è lo stesso che s’incontra in Iliade XIV, 315 s. nella celeberrima scena dell’amplesso fra Zeus ed Hera: οὐ γάρ πώ ποτέ μ᾽ὧδε θεᾶς ἔρος οὐδὲ γυναικὸς/θυμὸν ἐνὶ στήθεσσι περιπροχυθεὶς ἐδάμασσεν («Mai tanto il desiderio né di una dea né di una donna/mi ha prostrato l’animo diffondendosi nel petto»).

Il pronome τό nei poeti eolici ha valore di relativo (che Catullo traduce con quod). Si è discusso su a cosa si riferisca. Da una parte, Gennaro Perrotta e altri erano favorevoli a riferirlo agli indicativi ἰϲδάνει e ὐπακούει, quindi all’uomo che siede di fronte alla ragazza; i critici che interpretano questo carme come l’Ode dell’Amore, ritengono che vada collegato ai participi che immediatamente precedono, ossia all’atteggiamento che mostra la giovane, alla sua voce e al sorriso; ma certo in primo piano, come abbrivio alla reazione dell’io lirico, è il καὶ γελαίϲαϲ ἰμέροεν, posto in enjambement a principio di verso e di strofe.

Il nesso ἦ μὰν (= att. μήν) ha una connotazione fortemente asseverativa (cfr. Saffo fr. 94, 5 Voigt; Iliade VII, 393; Ibico fr. 287, 5 Davies).

v.6 ἐπτόαιϲεν: «esso sbigottisce», letteralmente, in unione a μ’(=μοι, «a me»), «ha preso a sconvolgermi», che sottolinea l’immanenza (qui ed ora) e la rapidità con cui si svolge l’azione. In Omero il verbo πτοιέω è connesso con la paura, cfr. Odissea XXII, 298 τῶν δὲ φρένες ἐπτοίηθεν («lo colpì nell’animo»); il modulo saffico trova attestazione anche in Iliade I, 189  e in Odissea IV, 548 s., nei quali si vede codificato l’uso del dativo plurale στήθεσσι (più che altro per motivi metrici). Nel nostro testo ἐπτόαιϲεν implica chiaramente lo sbigottimento e il turbamento fisiopsichico provocato dall’amore. Confrontando Archiloco, Epodi 191 τοῖος γὰρ φιλότητος ἔρως ὑπὸ καρδίην ἐλυσθείς/πολλὴν κατ᾽ ἀχλὺν ὀμμάτων ἔχευεν («Tale brama d’amore che nel mio cuore si è insinuata/versò sui miei occhi densa nebbia») e altri frammenti dello stesso autore, Bruno Snell affermò perentoriamente che «è da Archiloco che Saffo ha imparato a sentire e ad esprimere questa sensazione di smarrimento e di debolezza simile alla morte, che le è data dall’amore». Da rilevare l’omoteleuto fonico (-ν) in tutte le parole del verso.

v.7 ὠϲ … ἴδω … ὤϲ: è un nesso correlativo esemplato dall’epica; cfr. Iliade XIV, 294 ὡς δ᾽ ἴδεν, ὥς μιν ἔρως πυκινὰς φρένας ἀμφεκάλυψεν («[Zeus] come la [Hera] vide, subito il desiderio gli avviluppò la mente»). Il modulo di Saffo viene esasperato da Teocrito 2, 82 χὡς ἴδον, ὡς ἐμάνην, ὥς μευ πέρι θυμὸς ἰάφθη («Come lo vidi, all’istante impazzii, e di me misera il cuore fu lacerato»); si tratta evidentemente del tópos letterario del coup de foudre.

La Voigt riporta nel testo φώνη|ϲ’, infinito corrispondente all’att. φωνῆσαι, come correzione di Olof A. Danielsson per il tràdito φωνάϲ, del Codice P dell’Anonimo del Sublime. Altri critici vi hanno letto φώναϲ come variante eolica per l’attico φωνῆς, genitivo partitivo retto da οὐδέν o οὐδ’ἒν, che significherebbe «nulla di voce». Appare tuttavia migliore l’interpretazione di Danielsson.

v.8 εἴκει: è stato interpretato con valore impersonale, come παρείκει, nel modo attestato in Iliade XVIII, 520; la proposizione che esso regge nell’ode saffica ha, dunque, per soggetto με e come verbo φώνηϲ(αι) del v.7. Una glossa ad Esichio, grammatico tardoantico, propone astrusamente di intendere εἴκει come variante di ἥκει («giunge»). L’incapacità di parlare è espressa da un nesso simile anche da Teocrito II, 108 οὐδέ τι φωνᾶσαι δυνάμαν («non riuscivo a dire nulla»).

v.9 Comincia a questo punto l’elenco dei segni della passione amorosa suscitati in Saffo dalla vista dell’amata, come attesta Plutarco, Erotikos, 763 a. Tra i latini, Lucrezio (De rerum natura III, 152-158) riferisce i sintomi alla paura anziché all’amore, mentre Ovidio (Heroides XV,110-112) imita scialbamente. L’indicazione nel testo di cruces desperationis (†) segnala la presenza di una corruttela, che l’editrice ha preferito evidenziare senza emendarle e senza proporre correzioni alternative. Diversi critici infatti hanno avanzato qualche ipotesi di emendamento; per quanto concerne ἀλλὰ †κὰμ† il Codice P dà ἀλλὰ κἄν, ma la lezione κὰμ (ossia κάτ(α), con apocope e assimilazione), fornita dagli apografi e dai recentiores (gli Anectoda Parisina, I 339, 26 ss.) e accolta dalla maggior parte degli editori (sebbene Jean Boivin, filologo del ‘600, e gli editori Lobel-Page abbiano modificato il nesso, rispettivamente in ἀλλ’ἀκὰν e ἄκαν), sembra inequivocabilmente sostenuta da Plutarco (Erotikos, 763 a) che riporta ἀλλὰ κατὰ. Riguardo ad †ἔαγε†, si tratta di un perfetto intensivo del verbo ἄγνυμι («rompere», «spezzare»), che secondo la maggior parte degli editori va unita per tmesi a κὰμ, e quindi κατέαγε. È ripreso da Lucrezio (De rerum natura III, 155) et infringi linguam, nell’ambito della descrizione della sindrome da panico.

v.10 αὔτικα: forma eolica per l’attico αὐτίκα, è un avverbio «tipico delle descrizioni sintomatologiche dei trattati medici» (Di Benedetto, 1985, 146), cfr. ad esempio Epidemie VII, 118.

χρῶι: può significare sia «sotto la pelle», sia anche «per (entro) le membra». Giuliana Lanata osserva finemente, rinviando a Saffo fr. 48, 2 Voigt, che qui πῦρ deve avere «un significato vicino a quello di “febbre”, attestato dalla letteratura medica», che ritornerà poi in età ellenistica. Facile constatare di qui la diffusione del tópos anche nella letteratura latina, soprattutto in Catullo 51, 9 s. dove il nesso λέπτον/… πῦρ è reso congruentemente con tenuis… flamma.

v.11 ὀππάτεϲϲι δ’ οὐδ’ ἒν ὄρημμ’: ὀππάτεϲϲι sta per ὄμμασι o ὀφθαλμοῖς, dativo plurale con valore strumentale; ὄρημμ(ι) sta per ὁράω. L’incapacità di vedere è un tópos erotico: questi versi, infatti, vennero interpretati da Lucrezio (De rerum natura III, 156) con caligare oculos. Catullo 51, 11-12 presenta un’espressione più leziosa, alla maniera più confacente a un poeta neoterico e alessandrino: teguntur/lumina nocte. L’ottenebramento della vista è una situazione frequente nell’épos omerico in cui segnala il momento del trapasso dell’eroe, come in Iliade V, 696 κατὰ δ᾽ ὀφθαλμῶν κέχυτ᾽ ἀχλύς («sugli occhi gli scese una nebbia»); è già riferito ad una situazione amorosa nel passo già citato di Archiloco fr. 191, 2 πολλὴν κατ᾽ ἀχλὺν ὀμμάτων ἔχευεν («versò sui miei occhi densa nebbia»). Del resto anche Saffo stessa si sente vicina allo stato di morte (cfr. i vv. 15 s.).

vv.11-12 ἐπιβρόμειϲι: sta per ἐπιβρομοῦσι; la Voigt riporta la proposta di Theodor Bergk sulla base di Apollonio Rodio (Argonautiche IV, 908) ἐπιβρομέωνται ἀκουαὶ («le rombarono le orecchie»), che descrive la scena dell’innamoramento di Medea, rispetto a ἐπιρρόμβεισι del Codice P dell’Anonimo del Sublime. Catullo 51, 10 s. con la solita verve neoterica rende, amplificando, con sonitu suopte/tintinnant aures.

v.13 Il Codice P del Sublime  riporta il nesso ΈKAΔΕΜΙΔPΩCΨYXPOCKAKXΈETAI, ossia έκαδε μ’ ἱδρῶϲ ψυχρόϲ κακχέεται (cioè l’att. καταχεῖται, «scende giù»); Alcuni apografi recentiores, tendenzialmente meno valutati dai filologi, hanno ἐκ δὲ μ’ ἱδρῶϲ ψυχρόϲ κακχέεται. Gli Anecdota Oxoniensia I 208, 13 ss. Cramer riportano questo verso come ἀδεμ’ (cioè ἀ δὲ μ’) ἱδρῶϲ κακόϲ χέεται, una sorta di glossa per  «sudore cattivo», e che confermano la presenza dell’articolo femminile (ἀ) con la nota ἱδρώς· τοῦτο πάρ’ Aἰολεῦσιν θηλυκός λέγεται («sudore: questo nel dialetto eolico si esprime al femminile»). Leonhard Spengel per primo espunse l’aggettivo ψυχρόϲ («freddo») riferito a ἱδρῶϲ dall’Anonimo del Sublime, ritenendo che fosse una semplice glossa. Friedrich W. Schneidewin suppose che κακόϲ degli Anecdota Oxoniensia fosse sorto dalla falsa interpretazione della serie KAKXΈETAI, con KAK quale abbreviazione. In seguito, varie furono le ipotesi di lettura.

Il Bergk immaginava che il testo potesse essere ἀ δὲ μ’ ἱδρῶϲ κακχέεται («giù mi cola il sudore»), dando maggior credito agli Anecdota Oxoniensia; questa lezione fu poi sostenuta da diversi critici, quali John Maxwell Edmonds, Gennaro Perrotta e Bruno Gentili. La congettura dell’articolo e tutto il giro espressivo troverebbe preciso riscontro in Saffo fr. 96, 12 Voigt.

Il Gallavotti suggerì la variante iniziale di ἐκ δὲ μ’ ἱδρῶϲ κακχέεται («il sudore cola giù da me») ed espunse ψυχρόϲ, avvalorando comunque il testo tràdito dal Codice P; la sua congettura ha avuto maggior fortuna fra gli esperti e, fra le due letture, pare certamente la più preferibile, dal momento che l’articolo – che invece propose Bergk – non risulta appropriato al contesto: di solito, infatti, nei poeti eolici l’articolo ha valore dimostrativo. Inoltre, gli altri testimoni – a parte gli Anecdota Oxoniensia – non lo riportano.

In ultima analisi, la terza ipotesi, che effettivamente è stata poco considerata, è in realtà quella che dal punto di vista letterario a riscosso maggior successo: si tratta della lezione accolta da Denys Page che conserva l’aggettivo ψυχρόϲ (eol. ψῦχροϲ): κάδ δὲ μ’ ἵδρωϲ ψῦχροϲ ἔχει («freddo sudore mi prende giù»).

Finora la soluzione che ha messo tutti d’accordo ancora non esiste; fondamentalmente il dilemma sta nel mantenere o meno ψυχρόϲ. A favore della sua conservazione depongono alcuni aspetti; innanzitutto l’imitazione di Teocrito III, 106 ἐψύχθεν («mi raffreddai»); poi il commento dell’Anonimo del Sublime X, 3 che riporta ἅμα ψύχεται κᾴεται («gela, brucia contemporaneamente»). In effetti, se si rinunciasse a ψῦχροϲ nelle fonti non emergerebbe alcun riferimento al “raffreddamento”. L’uso di ἵδρωϲ in nesso con κακχέεται può richiamare la frase ἱδρώς τε πολλός καταχέεται κάκοδμος («e del sudore abbondante e maleodorante si diffonde »); il nesso fra sbigottimento e sudore è anche in Teognide 1017 s. e in Mimnermo, fr. 5, 1 s. «subito a me cola sudore infinito sulla pelle/e sbigottisco a guardare il fiore dell’età verde».

Per quanto concerne l’immagine dello «scorrere giù/da», si può citare il caso epico di Iliade XVI, 109 s. … κὰδ δέ οἱ ἱδρὼς/πάντοθεν ἐκ μελέων πολὺς ἔρρεεν… («…il sudore gli scorreva abbondante da tutte le membra…»).

Il termine τρόμοϲ («tremito») utilizzato in contesto erotico ha anche una certa diffusione in ambito omerico; cfr. Iliade XIX, 14 …πάντας ἕλε τρόμος… («…un tremito afferrò tutti…»). Si suole dire che ἄγρει (ἀγρέω), v.14 , già presente nell’épos, corrisponda ad αἱρέω («prendere»), di cui ἕλε è aoristo indicativo; in realtà, ἀγρέω è il denominativo di ἄγρα («caccia») e letteralmente significa «catturare», «afferrare», «ghermire».

v.14 χλωροτέρα δὲ ποίαϲ: χλωρός in greco allude a uno spettro cromatico piuttosto ampio, dal giallo pallido al verde scuro. Anche in questo caso l’archetipo deriva da nessi omerici; l’aggettivo viene spesso tradotto con «verde», ma nell’epica indica più l’idea di «pallido», «livido»; per antonomasia è tanto il terrore, quanto la persona che lo prova. In Pseudo-Esiodo, Lo scudo di Eracle 264 s., «verde» è l’Ἀχλύς («Oscurità»). Cfr. Iliade VII, 479 χλωρὸν δέος («la verde paura»); Iliade X, 376 χλωρὸς ὑπαὶ δείους («verde dalla paura»); Odissea XI, 43 ἐμὲ δὲ χλωρὸν δέος ᾕρει («livida paura mi prese»). Il nesso saffico ispirò Longo Sofista (Dafni e Cloe, I 17, 4) χλωρότερον τὸ πρόσωπον ἦν πόας θερινῆς («il suo volto era più pallido dell’erba estiva»). Il pallore del volto è colto soprattutto nei trattati medici.

v.15 τεθνάκην: è un perfetto risultativo; è come se la poetessa fosse già morta.

v.16 φαίνομ’ ἔμ’ αὔτ[αι: «sembro a me stessa». È una lezione restituita dal P.S.I. 1470, del III secolo d.C., grazie agli studi di Manfredo Manfredi (1968): propriamente il papiro è riporta un commento critico all’ode saffica che tramanda soltanto i vv.14-16. Questa lezione ha fatto giustizia delle innumerevoli, e spesso sconcertanti, congetture avanzate dagli studiosi: mancando il v.16, si era ipotizzata la presenza del nome della ragazza cui il carme è rivolto, e fra i tanti quello che ebbe maggior successo è stato Ἄγαλλ[ι («o Agallide»). Più semplicemente si è di fronte alla ripresa, secondo il modulo tipicamente arcaico della Ringkomposition, del v.1che segna la netta contrapposizione dell’atteggiamento di Saffo nei confronti del personaggio maschile.

v.17 Il Codice P riporta ἀλλὰ παντόλματον ἐπεί καὶ πένητα, parole problematiche che alcuni hanno considerato una corruttela della ripresa della prosa di Pseudo-Longino e per i quali l’ode si concluderebbe al v.16; secondo altri critici, la presenza della grafia τόλματον, aggettivo verbale di τολμάω («avere coraggio»), farebbe pensare proprio a Saffo, poiché non risulta infrequente nel suo “canzoniere” l’uso di moduli autoconsolatori dopo l’esternazione di un patema d’amore. La Voigt preferisce porre ἐπεί καὶ πένητα fra cruces, siccome è il vero dilemma del verso. Wilamowitz, a suo tempo, aveva congetturato ἐπεί κεν ᾖ τά («dal momento che le cose stanno così»), ma in effetti ai più risulta poco convincente.

PSI XV 1470, prosa su Saffo fr. 31 Voigt
P.S.I. XV 1470, prosa su Saffo fr. 31 Voigt.

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Edizione di riferimento:

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