Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

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[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.

La bellezza è nei capelli

di Lucio Apuleio, Metamorphoseon Libri XI, II 8-9

«[…] E che altro dovrei dire di tutto il resto quando, da sempre, io ho come unico pensiero le testa e i capelli delle donne! E mi piace guardarmeli per bene quando sono fuori e poi godermeli a casa, e la ragione di questa preferenza è per me chiara e indiscutibile. Forse perché questa parte del corpo che domina tutte le altre è quella che per prima viene incontro al nostro sguardo, posa com’è in bella vista e in evidenza, e perché quell’effetto che nel resto del corpo possono produrre i colori vivaci di una veste sgargiante, nella testa lo produce uno splendore che è tutto naturale; e poi, insomma, quasi tutte le donne che vogliano mostrare il loro fascino naturale, si spogliano di tutti i vestiti e si liberano di tutto ciò che le copre, perché vogliono esibire la loro bellezza nuda, certe di piacere più per il colorito delle loro vesti. Dirò di più: se uno, diciamo così […], se uno spogliasse completamente dei capelli la testa di una donna, e privasse il volto di quel suo ornamento naturale, fosse pure una donna di bellezza straordinaria, fosse pure discesa dal cielo, generata dal mare e cresciuta tra le onde, fosse pure, insomma, Venere in persona, circondata dal corteggio delle Grazie e accompagnata da tutto lo stuolo di Amorini, ornata della sua cintura, odorosa di cinnamomo e profumata di balsami, pure, se si presentasse calva, non potrebbe piacere nemmeno a suo marito Vulcano! Che dire poi della bellezza dei colori e di quella splendida lucentezza che brilla tra i capelli e che contro i raggi del sole lampeggia vivace, oppure rimanda tenui riflessi? O di quando muta aspetto assumendo un fascino completamente diverso: perché ora un dorato brillante può stemperarsi nel colore più scuro e delicato del miele, ora la cupezza di un nero corvino può attenuarsi e ricordare i disegni sul collo delle colombe. Quando poi, tutta intrisa di unguenti arabi e divisa in ciocche dai denti affilati di un pettine sottile, la chioma viene raccolta all’indietro sulla nuca, allora si offre allo sguardo dell’amante e, come in uno specchio, rimanda un’immagine ancor più graziosa. Per non parlare di quando la chioma è così folta che, distribuita in tantissime trecce, si ammassa sulla sommità del capo, o di quando scende fluente, in lunghe onde, sparsa su tutte le spalle. Insomma, l’importanza dei capelli è tale che se una donna si facesse avanti, fosse pure agghindata con oro, vestiti, gioielli e qualunque altro ornamento, se non avrà curato la sua pettinatura, non potrà essere ritenuta davvero elegante […]».

 

Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Lekythos attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Collezione archeologica del Banco di Sicilia
Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Lekythos attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Collezione archeologica del Banco di Sicilia.

 

«[…] Vel quid ego de ceteris aio? Cum semper mihi unica cura fuerit caput capillumque sedulo et publice prius intueri et domi postea perfrui, sitque iudicii huius apud me certa et statuta ratio, vel quod praecipua pars ista corporis in aperto et perspicuo posita prima nostris luminibus occurrit, et quod in ceteris membris floridae vestis hilaris color, hoc in capite nitor nativus operatur: denique pleraeque indolem gratiamque suam probaturae lacinias omnes exuunt, amicula dimovent, nudam pulchritudinem suam praebere se gestiunt, magis de cutis roseo rubore quam de vestis aureo colore placiturae. At vero […], si cuiuslibet eximiae pulcherrimaeque feminae caput capillo spoliaveris et faciem nativa specie nudaveris, licet illa caelo deiecta, mari edita, fluctibus educata—licet, inquam, Venus! ipsa fuerit, licet omni Gratiarum choro stipata et toto Cupidinum populo comitata et balteo suo cincta, cinnama fragrans et balsama rorans, calva processerit, I placere non poterit nec Vulcano suo. Quid cum capillis color gratus et nitor splendidus illucet et contra solis aciem vegetus fulgurat vel placidus renitet, aut in contrariam gratiam variat aspectum, et nunc aurum coruscans in lenem mellis deprimitur umbram, nunc corvina nigredine caeruleos columbarum collis flosculos aemulatur, vel cum guttis Arabicis obunctus et pectinis arguti dente tenui discriminatus et pone versum coactus amatoris oculis occurrens ad instar speculi reddit imaginem gratiorem? Quid cum frequenti subole spissus cumulat verticem vel prolixa serie porrectus dorsa permanat? Tanta denique est capillamenti dignitas, ut quamvis auro, veste, gemmis, omnique cetero mundo exornata mulier incedat, tamen, nisi capillum distinxerit, ornata non possit audire […]».

(Lucio Apuleio, Metamorphoseon Libri XI, II 8-9)

La “fabella” di Amore e Psiche

di L. Nicolini (ed.), Apuleio, Le Metamorfosi (o l’Asino d’oro), Milano 2005, pp. 32-38.

[…] Introdotto in maniera fortemente allusiva da un incipit che è una chiara eco del prologo[1], il racconto si mostra in effetti come un vero e proprio modello in scala ridotta dell’intero romanzo[2], un segno di come la storia principale andrebbe letta. Questa volta le spie, gli indizi che guidano il lettore a cogliere il senso e l’importanza cruciale dell’inserto narrativo, sono reali e inequivocabili.

Scena erotica. Mosaico, III-IV sec. d.C. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Al di là della trama generale, che rispecchia tradizioni narrative diffuse in ogni tempo[3], e degli apporti originali con cui il letterato Apuleio contamina e impreziosisce l’elemento folclorico-favolistico proiettandolo nella sfera del mito[4], il nucleo della vicenda presenta molti elementi a noi ben noti: un protagonista curioso e sordo agli avvertimenti; la sua curiositas come un peccato di cui dovrà scontare le conseguenze; le peripezie di cui lo costringe un atto di trasgressione dovuto appunto alla curiositas (anzi, quasi a ribadirne il valore paradigmatico, nel caso di Psiche questi atti di trasgressione sono due); la persecuzione sofferta ad opera di una Fortuna maligna (la dea Venere nella storia di Psiche); infine, a sciogliere l’impasse, l’intervento di un deus ex machina, di una divinità amica che improvvisamente – e gratuitamente – concede al protagonista una salvezza insperata quanto immeritata, unendolo a sé ed elevandolo a una condizione super-umana.

Ma questa è la storia di Psiche, come è pure la storia del suo doppione, del suo alter-ego Lucio, fin qui, è vero, rivelatasi solo nella sua prima parte; starà poi al lettore consapevole del finale cogliere nella sua pienezza il senso di parabola della storia di Psiche, come storia di «un’anima» nel suo percorso di caduta e risurrezione e, più specificamente, come storia di Lucio. Anche per il lettore ignaro dell’undicesimo libro, comunque – e questo è ciò che più conta – , è impossibile continuare a leggere come ha fatto finora: che il peso specifico di questa novella non sia lo stesso di una qualsiasi delle altre inserzioni secondarie del romanzo è fin troppo evidente, non fosse altro che dalle sue stesse sproporzionate dimensioni, come dalla posizione privilegiata al centro del romanzo[5]. È dunque inevitabile che sulla lettura passiva e poco impegnata di una sequenza di avventure incredibili ed episodi scabrosi s’innesti adesso una più profonda linea tematica che, se non può ancora immaginare lo sviluppo isiaco della vicenda, ne prefiguri almeno il possibile senso filosofico o iniziatico[6]. Al di là delle diverse interpretazioni che fin dai tempi di Fulgenzio sono state poste per la bella fabella[7], l’effetto decisivo che essa ottiene è che, a partire da questo punto, noi non leggiamo più nello stesso modo, siamo diventati qui dei lettori allertati. L’aiuto di Apuleio però si ferma qui. E allo stesso modo […] deve fermarsi qui la ricezione del lettore che, pur comprendendo che c’è una lezione da imparare, deve pure tener conto delle diversità tra il tema principale e questa «variazione», per non cadere nel rischio opposto della sovra-interpretazione.

Amore e Psiche. Mosaico, II-III sec. d.C. Cordoba, Alcázar de los Reyes Cristianos.

Nel corso dei secoli in effetti la tradizione e l’esegesi di questa sezione delle Metamorfosi hanno avuto una storia indipendente e parallela a quella del romanzo. Staccata e isolata dalla cornice in cui è contenuta, la favola di Amore e Psiche ha conosciuto rifacimenti, imitazioni, trasposizioni, valicando anche i confini della letteratura per penetrare nella sfera delle arti figurative[8] e caricandosi, di volta in volta, di una congerie di significati sicuramente estranei al primo intento dell’autore[9].

Com’è prevedibile, comunque, l’interpretazione che ha prevalso è quella platonica, ultimamente ripresa da Kenney, un fatto naturale visto che il senso platonico è quello che meglio riesce a spiegare la connessione tra le due storie, alla luce delle tante analogie che già al tempo di Apuleio venivano riconosciute tra la religione isiaca e la filosofia platonica[10]. Sono stati dunque chiamati in causa di volta in volta, e in maniera più o meno opportuna, diversi dialoghi platonici come fonti variamente riconoscibili della storia di Psiche, dal Fedro al Simposio. E da un famoso motivo presente nel Simposio platonico, la dottrina della duplice natura di Eros e di Afrodite[11], riformulata in chiave letteraria, prende le mosse l’analisi di Kenney basata sul riconoscimento di questa dicotomia nei vari momenti della trama[12].

Ma l’interpretazione platonica, come tutte le altre, risulta soddisfacente se applicata alla novella in quanto racconto separato, a sé stante, piuttosto che se messa in connessione con il resto della storia, come però il contesto e la struttura narrativa impongono. Per di più, qui come altrove in Apuleio, il prestito di moduli platonici sembra essere soprattutto un fatto artistico, avere un fine decorativo, e anche le contraddizioni nel comportamento dei personaggi, più che rimandare al dualismo platonico, appartengono a una memoria mitologica e letteraria recuperata in modi e momenti diversi senza troppa attenzione alla coerenza dell’allegoria filosofica.

Non ci si deve spingere troppo oltre nel gioco esegetico: il rischio è quello di sovraccaricare di significati una creazione letteraria che già per il suo carattere composito e polifonico scoraggia, esattamente come il romanzo nel quale è contenuta, ogni interpretazione troppo univoca […]. Perché, certo, la storia di Amore e Psiche è elevata ad allegoria universale già dagli stessi nomi simbolici attribuiti ai protagonisti di quello che in origine doveva essere un racconto popolare di tono ben diverso; ma qui ciò che conta nell’architettura principale della narrazione non è tanto il suo simboleggiare la storia di un’anima, quanto soprattutto il suo alludere alla storia di Lucio[13]. […]

François-Édouard Picot, Amore e Psiche. Olio su tela, 1817.

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Note:

[1] La ripresa, a livello formulare, della parte iniziale del prologo è stata da tempo osservata: si notino in particolare l’apertura caratterizzata dall’avversativa (at/sed) e dall’accostamento dei pronomi di prima e seconda persona (ego tibi/ego te), la promessa di divertire e distrarre l’ascoltatore (permulceam/avocabo) insieme alla garanzia della piacevolezza del racconto (lepido/lepidis), il plurale adoperato per la narrazione annunciata (varias fabulas/narrationibusfabulis) e naturalmente la stessa fondamentale classificazione del materiale narrativo nella categoria della fabula. Viene suggerita chiaramente l’analogia tra l’atteggiamento di Lucio che, in linea con l’effetto fuorviante di queste parole, mancherà di cogliere il significato della parabola, e quello possibile del lettore che ugualmente, come Apuleio suppone, sta sottovalutando il lepidus susurrus del narratore deve fungere da raccomandazione, da richiamo a una più attenta valutazione di quanto precede e di quanto segue.

[2] Una «variante semantica… dell’intreccio principale» la definiva M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 259.

[3] Sulla storia di Amore e Psiche come folk-tale e sulla diffusione di certi suoi tratti anche nel folclore moderno cfr. J.Ö. Swahn, The Tale of Cupid and Psyche, C.W.K. Gleerup, Lund 1955; J.R.G. Wright, Folk-Tale and Literary Technique in Cupid and Psyche, «Classical Quarterly» 21 (1971), pp. 273-284.

[4] Sui debiti di Apuleio nei confronti della tradizione letteraria greca e latina si rimanda all’esaustivo commento di Kenney (Kenney 1990, del quale cfr. anche l’introduzione, in particolare pp. 18 sg.).

[5] L’incastonamento di un racconto all’interno di un altro, al fine di illuminare il senso del primo, era peraltro una tecnica ben conosciuta dalla poesia antica da Omero in poi e particolarmente amata dagli alessandrini; basti poi ricordare l’esempio catulliano dell’epillio di Peleo e Teti per intuire quanto questa pratica dovesse risultare familiare al lettore romano colto (su questi argomenti cfr. P.G. Walsh, The Roman Novel. The Satyricon of Petronius and the Metamorphoseon of Apuleius, Cambridge University Press, Cambridge 1970, p. 190).

[6] Naturalmente neanche alla fine del libro sarà possibile istituire una corrispondenza perfetta, né una sovrapposizione tra le due storie: la vicenda “platonica” di Psiche non si riflette in quella “isiaca” di Lucio, ma, come ricorda Kenney, «this is a matter of “un autre type d’expérience spirituelle possible” than the use of a different style of imagery to express the same idea, the progress of the soul towards a mystical union» (Kenney 1990, p. 12, n. 53).

[7] Dall’allegoria al mito platonico e persino all’interpretazione cristianeggiante.

[8] Sulla vastissima tradizione iconografica della favola apuleiana si può ancora utilmente consultare lo studio di U. De Maria, La favola di Amore e Psiche nella letteratura e nell’arte italiana, Bologna 1899, o E.H. Haight, Apuleius and His Influence, Cooper Square, New York 1963, pp. 135-181; i più recenti A. Scobie, The Influence of Apuleius’ Metamorphoses in Renaissance Italy and Spain, in «AAGA» 1978, pp. 211-230; M. Masskant-Kleibrink, Psyche’s Birth, «CGN» 3 (1990), pp. 13-33; e soprattutto G. Sandy, The Tale of Cupid and Psyche, in H. Hoffmann 1999, pp. 126-138; la seconda parte di M. Acocella, L’asino d’oro nel Rinascimento. Dai volgarizzamenti alle raffigurazioni pittoriche, Longo Editore, Ravenna 2001.

[9] Dopo la prima interpretazione simbolica di Fulgenzio, basti pensare all’erudita interpretazione allegorica che ne dà Boccaccio nella sua Genealogia Deorum Gentilium o alla versione in ottava rima di Nicolò da Correggio, in cui la favola diviene addirittura un exemplum dell’amore infelice, con tanto di allocuzione finale di tono gnomico agli amanti.

[10] Proprio sul tentativo di conciliazione tra il platonismo e la religione isiaca si fonda, com’è noto, un trattatello plutarcheo.

[11] Cfr. Plat. Symp. 180d 2181b 8. È il passo molto noto in cui Pausania fa rilevare a Fedro come la semplice idea di elogiare Eros non si accordi con la duplice natura del dio: alle due Afroditi infatti, Urania e Pandemia, corrispondono anche due diversi Eros, chiamati allo stesso modo, le cui rispettive sfere d’azione sono l’amore dell’anima e dei corpi; l’amore degno di essere elogiato è naturalmente solo quello che si accompagna ad Afrodite Urania.

[12] Cfr. Kenney 1990, introd. p. 20: «in Cupid & Pysche he portrays these dichotomous deities contending for Psyche – a human soul – just as in the body of the novel the higher pleasure which is seen in the end to be the service of Isis contents for the mastery of Lucius with the lower, servile, pleasures typified by his infatuation with Photis. In Cupid & Psyche the power which eventually wins the battle is Cupid, revealed in his higher, Platonic quise (Amor I), and the power which loses is Venus Vulgaris (Venus II) … This battle is what the story is really about»; e anche Kenney 1998, introd. pp. XXV sg.; in entrambi i casi l’autore riprende osservazioni esposte in modo più completo in E.J. Kenney, Psyche and Her Mysterious Husband, in D.A. Russell (ed.), Antonine Literature, Claredon Press, Oxford 1990, pp. 175-198.

[13] Risale, come si è accennato, già a Fulgenzio (che, secondo una tendenza culturale tipica della sua epoca, offrì la prima interpretazione simbolica della novella) la prassi, decisamente sconsigliabile, di leggere in chiave allegorica la novella senza peraltro metterla in connessione con una visione generale dell’intero romanzo.