di R. MUGELLESI, Scienza, morale e altro, introduzione a Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, Milano 2004, pp. 7-36.
Nel corpus senecano a noi giunto le Naturales Quaestiones occupano uno spazio autonomo e, almeno nel contenuto, distinto dalle altre opere. L’argomento è lo studio della natura, in alcuni dei suoi aspetti scelti da Seneca nell’ambito della meteorologia[1] della geologia (mi riferisco al libro VI riguardante i terremoti). E sicuramente nell’antichità non conosciamo molte opere di questo genere, se escludiamo le trattazioni dei filosofi presocratici[2] – di alcuni dei quali Seneca è testimone autorevole –, Platone, ma soprattutto i Meteorologica[3] di Aristotele a noi giunti in quattro libri di cui forse il quarto è spurio.

I rapporti tra Seneca e la produzione scientifica greca sono stati analizzati da più studiosi, con diverse posizioni. Vottero[4] sottolinea la forte influenza della dossografia nell’opera senecana, contraddistinta dalla presenza di termini come quidam, sententia, auctor, e verbi come opinari e placere. I rinvii possono essere anonimi, ma per lo più compaiono i nomi degli autori antichi a cui Seneca fa riferimento, sia greci sia latini. Punto fisso è sicuramente la dipendenza nella trattazione di certi argomenti[5], ma difficile è stabilire se Seneca li conoscesse di prima mano o piuttosto non fosse la sua una conoscenza indiretta, magari su compendi a noi ignoti[6]. Occorre comunque dire che la Quellenforschung relativa alle Naturales Quaestiones sembra orientata a riconoscere un’unica fonte che, se per Zeller e Diels era da identificare con Posidonio, per altri doveva essere riconosciuta in Asclepiodoto, che è citato da Seneca ben cinque volte[7]. Non è comunque facile stabilire con certezza tali assunti. Nel caso di Posidonio, possiamo basarci, oltre che sui nove frammenti ricordati da Seneca[8], sui venti di Strabone e i sei di Diogene Laerzio, ma, come osserva giustamente Vottero[9], non è possibile sapere se appartenessero sicuramente all’opera sulla meteorologia e se provenissero direttamente da Posidonio. E anche per quanto concerne Asclepiodoto, scolaro di Posidonio (auditor Posidonii), nessun autore lo ricorda, a parte Seneca, e la citazione in VI 17, 3, ove qualcuno vorrebbe intravedere il titolo steso dell’opera, Naturalium Causae, è oggetto di molte discussioni[10]. È stata avanzata l’ipotesi[11] che Seneca abbia attinto le sue teorie da una raccolta dossografica denominata da Diels[12] Vetusta Placita e databile intorno alla metà del I sec. a.C., forse redatta dal filosofo Ario Didimo di Alessandria. Poiché i Vetusta Placita si dividevano in due parti, una dedicata all’Etica, l’altra alla Fisica, si è cercato di dimostrare che Seneca potrebbe aver tenuto presenti entrambe le sillogi, in particolare la prima per le altre opere in prosa, la seconda per le Naturales Quaestiones. Se riscontri puntuali sono stati notati, resta però da precisare che i cosiddetti Vetusta Placita sono giunti a noi attraverso un doppio strato di epitomi: senza contare – ma questo non stupisce più di tanto – che non troviamo in Seneca riferimento a tale florilegio. Le argomentazioni addotte per rispondere a questo dubbio si basano da una parte sulla prevalente consuetudine antica di non citare mai i florilegi, dall’altra sulla prassi senecana per cui gran parte della produzione letteraria a lui precedente, fatte le dovute eccezioni, non sarebbe stata letta direttamente[13]. Riteniamo che la Quellenforschung sia comunque ancora aperta e suscettibile di nuovi risultati: lasciamo dunque la ricerca agli esperti in questo campo e ritorniamo al nostro testo.
Nella prefazione al II libro Seneca afferma che la ricerca nel suo complesso sull’universo si suddivide in caelestia (astronomia), sublimia (meteorologia) e terrena (geologia): la prima parte indaga la natura degli astri in base alla loro grandezza e alla loro forma, ovvero i fenomeni celesti così definiti in quanto si verificano nella zona più alta dell’universo; la seconda si occupa dei fenomeni che accadono tra cielo e terra (nubi, piogge, neve, grandine, terremoti e tutte le alterazioni provocate o subite dall’aria); la terza parte si occupa di tutta la fenomenologia riguardante il suolo terrestre (tra geologia e geografia). La collocazione dei terremoti nei sublimia è spiegata dallo stesso Seneca attraverso la dottrina pneumatica in base alla quale tale fenomeno, pur rientrando propriamente nella geologia, di fatto è trattato alla stregua di un fenomeno meteorologico in quanto causato dall’aria: penetrata nella terra attraverso le sue porosità e non potendo più uscirne, essa finisce per causare gravi scuotimenti sussultori e ondulatori.
Per considerare più da vicino la trattazione dei singoli libri osserveremo innanzitutto che la scelta degli argomenti non sembra dettata da un intento particolare: l’unico legame sembra sussistere tra i libri III e IVa, tra la trattazione delle acque e quella del Nilo. […]. Il libro I si apre dunque con una lunga praefatio che, con tono e stile assai elevati, invita gli uomini a sollevarsi dalla propria pochezza verso la conoscenza di Dio a cui è possibile giungere solo attraverso lo studio attento della natura. Quindi, vengono trattati i fuochi celesti, non solo le meteore ignee di vario genere (la tipologia è assai vasta), ma, in particolare, gli aloni, l’arcobaleno, le verghe, i pareli e i paraseleni. Il libro II, dopo aver avanzato considerazioni di carattere generale sull’aria e sulla terra, prende in esame i tuoni, i fulmini e i lampi, non senza dedicare largo spazio alle opinioni degli scienziati antichi, tra cui Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Diogene di Apollonia, nonché al potere divinatorio del fulmine: nell’ampia digressione (capp. 32-52) non mancano riferimenti alla dottrina etrusca che Seneca mostra di conoscere assai bene e al rapporto tra divinità e fato. Il terzo analizza la diversa tipologia delle acque terrestri con riferimenti a teorie aristoteliche come quella presente in De gener. et corrupt. 2, 4, ovvero la reciproca mutabilità dei quattro elementi originari: nel cap. 10 è sostenuto, infatti, il concetto che anche la terra si può trasformare in acqua. E non meno interessante, al cap. 15, l’analogia istituita tra la terra e il corpo umano, secondo un principio medico di origine greca (forse Prassagora di Coo): come nelle vene scorre il sangue e nelle arterie l’aria, così nella terra scorrono insieme aria e acqua[14]. Il libro IVa presenta una lacuna nell’ultima parte: si conservano la praefatio imperniata sul sentito problema dell’adulazione e la parte relativa al Nilo e alle sue piene. Il libro IVb è, invece, acefalo e a noi è giunta solo la parte relativa alle nubi, alla grandine e alla neve. Il libro V considera i venti e la loro origine senza trascurare le brezze, i turbini, nonché la rosa dei venti e i venti locali. Il libro VI, come abbiamo già detto sopra, è tutto dedicato allo studio dei terremoti, mentre il libro VII si occupa delle comete riservando largo spazio alla dossografia relativa allo studio del fenomeno.
Un’analisi delle N.Q. non può prescindere, innanzitutto, dal confronto con la produzione scientifica greca: di fronte a questo problema la prima risposta che ci diamo è che, richiamando i testi scientifici greci, le N.Q. non sembrano davvero distinguersi per originalità di contributi. Stahl[15], nel libro dedicato alla scienza romana, sostiene che essa «si mantenne sempre su un pino decisamente mediocre» e addirittura qualcuno[16] ha affermato che non c’è scienza romana. Pur senza essere così categorici, non si può negare che i Romani non hanno saputo sviluppare né superare l’alto livello scientifico e tecnologico raggiunto dalla civiltà greca, in particolare ellenistica: oltre ad Euclide e Archimede, numerosi furono in quel periodo gli scienziati a cui è debitrice la stessa scienza moderna: Eratostene è stato il primo matematico che ha fornito la misura della lunghezza del meridiano terrestre, mentre Aristarco di Samo ha ideato l’astronomia eliocentrica. Ebbene, prescindiamo pure da «Varrone, esponente di una cultura prescientifica, del tutto estranea alla scienza. Gli scrittori romani di epoca imperiale, come Plinio e Seneca, sono invece affascinati dalla lettura di opere scientifiche ellenistiche delle quali, non potendo seguire la logica delle argomentazioni, apprezzano le conclusioni proprio perché giungono loro inaspettate e meravigliose; credono quindi di poter emulare i loro modelli eliminando i nessi logici o sostituendoli con connessioni che, anche se arbitrarie, sono più facilmente immaginabili e portano più rapidamente al risultato voluto, che è la meraviglia del lettore»[17]. Così Plinio, Nat. hist. XI 29, nello spiegare la vita delle api, sostituirà alla dimostrazione scientifica del greco Pappo[18] la seguente semplicistica spiegazione a proposito della forma esagonale delle celle dei favi: «Ogni cella è esagonale, perché ognuna delle sei zampe dell’ape ha fatto un lato». E Seneca non è meno ascientifico quando sostiene in N.Q. II 31, 1 e 53, 1 che il vino colpito dal fulmine si congela, tornando allo stato liquido dopo non più di tre giorni e allora uccide o rende pazzo chi lo beve: al motivo di tale fenomeno egli avrebbe dedicato ricerche personali. Se, invece, guardiamo al resto della produzione scientifica latina, dovremmo prendere atto che, in questo ambito, l’opera senecana costituisce la trattazione più rappresentativa e forse l’unica in questo campo di prosa scientifica a orientamento filosofico: del resto, a Roma[19], specialmente nel I sec. dell’Impero, vi fu «une véritable vie scientifique».

Se altri autori hanno inteso inoltrarsi nel mondo della natura per cercare di comprendere gli intimi meccanismi e misteri, di nessuno a noi è giunta una trattazione articolata, anche se non del tutto coerente, come le Naturales Quaestiones. Più che opere scientifiche nel senso stretto, il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio[20] rientrano nel genere del poema didascalico, anche se entrambi, ma soprattutto Lucrezio, ne fanno un uso assai originale. Nell’uno, la trattazione della fisica epicurea è il tramite per assicurare agli uomini la serenità e liberarli dalla paura della morte, nell’altro, l’indagine degli astri, in una visione assolutamente stoica, diviene il mezzo per garantire all’umanità quel grado di conoscenza di certi fenomeni necessario per comprendere la legge cosmica. Ma l’intento poetico e il fervore filosofico allontanano le due opere dai postulati di una trattazione scientifica: anche in Seneca, come vedremo, la compresenza di scienza e filosofia diminuirà sovente la severità del trattato, ma restano comunque la vastità del materiale esaminato e, almeno in quelle sezioni, la ricerca di un’adesione alla mentalità scientifica.
Interesse per l’astronomia, di fatto coincidente con l’astrologia, aveva avuto in era repubblicana Nigidio Figulo[21], autore di diverse opere, tra cui anche un trattato De vento, riconducibile sempre ai suoi interessi astrologici. A lui si rifà Igino[22], forse il bibliotecario di Augusto, nel suo trattato sull’Astronomia, in quattro libri, in cui si occupa di costellazioni, di cosmologia e dei movimenti della sfera celeste. E potremmo aggiungere anche Pomponio Mela[23], vissuto sotto Claudio, che, nei tre libri De chorographia, seppur corredati di informazioni piuttosto arretrate, ci informa sulle conoscenze geografiche dei Romani.
Come si evince dalla praefatio all’opera di Pomponio Mela, era presente negli antichi la consapevolezza che la trattazione scientifica e tecnica rientrava nei canoni di un genere «minore»[24]: lo riscontriamo nell’epistola prefatoria del De architectura di Vitruvio così come in quella diretta a Tito nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio[25].
Un simile atteggiamento non traspare in alcuna delle prefazioni superstiti delle Naturales Quaestiones: non in quella dei toni moralistici del libro III, che molti ritengono il primo dell’ordinamento originale, non in quella del libro I: questo assai probabilmente non rappresenta il vero inizio dell’opera senecana, anche se proprio l’impegnativo prologo e l’argomento si presterebbero. Ma se pure il trattato si aprisse, come in molti manoscritti, con il libro IVb giuntoci acefalo, l’attuale primo, secondo la felice teoria del «proemio al mezzo», costituirebbe un luogo deputato per «dichiarazioni di poetica», ovvero per affermare un programma letterario nelle forme più consapevoli. Ebbene, che le Naturales Quaestiones si distinguano dal resto della produzione scientifica latina lo si può intuire subito se mettiamo a confronto proprio la praefatio del primo libro con quelle citate sopra, a cui possiamo aggiungere la praefatio agli Astronomica di Manilio: non c’è alcun riferimento a un presunto senso d’inferiorità nei confronti dei generi alti. Potrebbe bastare questa differenziazione a farci comprendere che Seneca non sentiva, nelle Naturales Quaestiones, un impegno diverso dalle altre opere morali e l’andamento ha in effetti i toni di tanti Epistulae morales. Ampia e articolata (ben cento paragrafi), essa non è legata al resto dell’opera se non nella misura in cui vuole chiarire il vero intento di Seneca al lettore-discepolo: così lo scienziato indossa le vesti del maestro filosofo e la scienza diventa il tramite per il raggiungimento della virtù. Secondo la teorizzazione esposta nelle Epistulae (89[26], ma soprattutto 88[27] e 90[28]), la philosophia si differenzia dalle ceterae artes come, all’interno della philosophia medesima, l’ambito etico (philosophia moralis) si distingue quello fisico (philosophia naturalis): Quantum inter philosophiam interest, Lucili virorum optime, et ceteras artes, tantum interesse existimo in ipsa philosophia inter illam partem quae ad homines et hanc quae ad deos pertinet (praef. 1). Alzare gli occhi al cielo, arrivare alla luce dalle tenebre terrene, penetrare nei profondi recessi della natura è conoscere Dio e misurare la nostra piccolezza: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit (praef. 5) e, alla fine, sciam omnia angusta esse mensus deum (praef. 17). L’impianto filosofico che Seneca intende dare alle sue ricerche scientifiche appare chiaro fin dall’esordio e tutta l’opera mostra l’urgenza del suo impegno: «Se la filosofia s’identifica con la scienza e la filosofia tende al perfezionamento morale, anche la scienza deve tendere al perfezionamento morale»[29].
L’impostazione dei libri, almeno di quelli completi, procede in modo simile e le argomentazioni filosofiche possono essere presenti, oltre che nelle praefationes, anche negli epiloghi e nelle digressioni.

Oltre che il libro I, le riflessioni del filosofo morale animano il proemio del III (forse l’originale libro I) in cui si ribadisce il concetto che lo studio della natura aiuta l’uomo ad allontanarsi dalle cose terrene e a comprendere i veri valori della vita: Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam: primo discedemus a sordidis; deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est, seducemus a corpore; deinde in occultis exercitata subtilitas non erit in aperta deterior; nihil est autem apertius his salutaribus quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur, quae damnamus nec ponimus (praef. 18).
L’incipit del libro IVa è una lunga condanna dell’adulazione e i toni che Seneca assume sono assolutamente quelli del predicatore e del maestro di virtù. L’invito a tenersi lontano dalla folla e a non prestare il fianco all’adulazione (a turba te, quantum potes, separa, ne adulatoribus latus praebeas, praef. 3) è un consiglio che ritroviamo nel De brev. vitae 18, 1 o nelle Ep. 7, 1; 8, 1; 10, 1: la conferma della propria saggezza «aristocratica»[30]. Analogamente l’invito rivolto a Lucilio affinché rivolga ogni suo interesse su se stesso (Fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum, praef. 20) si configura con la sentenziosità ricorrente nelle opere filosofiche: De tranquillitate animi 17, 3; De brev. vitae 2, 5[31]. Pur nella loro brevità, anche le aperture dei libri VI e VII offrono spunti di riflessione morale: la prima, invitando gli uomini a razionalizzare la paura dei terremoti (nullum malum sine effugio est, VI 1, 6), la seconda, a superare uno stadio di ottusità per innalzarsi verso il divino, ovvero verso la perfezione (Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad divina non erigatur ac tota mente consurgat, VII 1, 1).
Nell’organizzazione di ogni libro, dunque, alla prefazione, più o meno articolata, segue l’analisi del singolo fenomeno naturale e sono discusse le diverse teorie degli autori che lo hanno esaminato: quindi, si apre l’argomentazione di Seneca, che può accettare la tesi di altri o proporne una propria, di solito in linea con gli Stoici[32].
In pendant con la prefazione, il libro è provvisto di un epilogo. Nel I libro, dopo aver cercato di spiegare certi fenomeni (l’arcobaleno e i fuochi celesti) con la teoria speculare, Seneca introduce una digressione sull’uso perverso degli specchi, prendendo come esempio un personaggio sconosciuto, Ostio Quadra, che di essi si era servito in modo dissoluto. È l’occasione per mostrare la decadenza dei costumi e per condannare uno strumento che dovrebbe essere usato per diventare più virtuosi e non per abbandonarsi al vizio. Al termine del II libro compare una lunga riflessione sull’importanza di conoscere la teoria dei fulmini. Liberarsi dalla paura dei fulmini significa liberarsi anche da quella della morte[33] a cui nessuno può sottrarsi: O te dementem et oblitum fragilitatis tuae, si tunc mortem times cum tonat! (59, 9); eo itaque fortior aduersus caeli minas surge et, cum undique mundus exarserit, cogita nihil habere te tanta morte perdendum (59, 11). Il filosofo morale ricompare accanto allo scienziato anche al termine del III libro: alla descrizione «drammatica» del diluvio segue una breve riflessione sul ritorno del mondo all’antico ordine, secondo la nota teoria stoica della palingenesi del cosmo. Ma lo stato di innocenza non durerà a lungo poiché cito nequitia subrepit. Virtus difficilis inventu est, rectorem ducemque desiderat: etiam sine magistro vitia discuntur (30, 8). Analogamente il V libro si chiude con un’ampia argomentazione sul cattivo uso dei venti da parte degli uomini e, richiamando il ben noto tópos diatribico dei mali derivati dalla navigazione oltre i confini e dalle guerre di conquista. Seneca conclude minima esse quae homines emant vita. Immo, Lucili carissime, si bene illorum furorem aestimaveris, id est nostrum (in eadem enim turba volutamur), magis ridebis, cum cogitaveris vitae parari in quae vita consumitur (18, 16). Anche dalla conoscenza dei terremoti e delle loro cause (libro VI) l’uomo può trarre vantaggio e divenire più forte, il che, per il filosofo, conta maggiormente che divenire più dotto: ma l’uno non può sussistere senza l’altro, poiché la forza dell’animo proviene dai buoni studi e dallo studio della natura (non enim aliunde animo venit robur quam a bonis artibus, quam a contemplatione naturae, 32, 1). Comprendere che la morte è una legge di natura significherà affrontarla con animo sereno e addirittura (con la consueta ricerca senecana dell’effetto) andarle incontro (effice illam tibi cogitatione multa familiarem, ut, si ita tulerit, possis illi et obviam exire, 32, 12). Nei tre capitoli che chiudono il VII libro (30-32), Seneca ripete ampiamente il giudizio morale negativo sull’umanità che progredisce solo nel vizio, anziché concentrarsi sulla scienza e sulla conoscenza del divino. Ma le riflessioni si allargano a considerare la necessità di uno studio approfondito della natura a cui sono invitati i contemporanei e, insieme, le generazioni future: ne consegue una esaltazione del progresso scientifico (30, 5), che, secondo la prassi antica, andava distinto da quello tecnologico, nei confronti del quale sussiste la piena condanna[34]. Come è detto nell’Ep. 90, le conquiste tecnologiche nascono dal vizio, ma le conoscenze scientifiche aiutano il raggiungimento della virtù e quindi rientrano nelle competenze del filosofo. Per questo le amare considerazioni sulla decadenza delle scuole filosofiche[35], presenti nel cap. 32, sottolineano con forza lo stretto legame di questo problema con il dilagare della corruzione e il venir meno della virtù.

Non negheremo comunque che l’interesse di Seneca per la scienza fosse sincero e, del resto, sappiamo che lo aveva coltivato fin da giovane, scrivendo un trattato sui terremoti e altre opere scientifiche perdute: all’opera giovanile De motu terrarum allude egli stesso in VI 4, 2. Ma, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, sull’interesse scientifico si afferma la passione del filosofo, sulla scienza trionfa l’etica. In questo risiede il limite scientifico, se ci accostiamo alle analisi condotte nella prospettiva di uno scienziato moderno, eppure, in questo, si condensa l’impronta originale di un pensatore complesso e acuto che non riesce a distaccarsi dalla forte esigenza morale presente nel resto della sua produzione.
Gli studi compiuti sulle Naturales Quaestiones, numerosi, negli ultimi anni, hanno messo a fuoco tradizione e originalità: alcuni approfondendo la compresenza di scienza e filosofia[36], altri cercando di riconoscere la realtà dei dati riportati[37], altri indagando sul forte peso delle trattazioni scientifiche greche[38], altri soffermandosi in modo particolare sul rapporto con il resto della produzione senecana[39].
Una lettura critica delle Naturales Quaestiones non può ignorare i tanti contributi: eppure, è un’opera che ancora necessita di un’analisi d’insieme in cui, oltre a indagare sulle peculiarità della parte scientifica o le modalità della riflessione filosofica, si approfondisca e si metta in luce il rapporto tra forma e contenuto: si tratta dunque di un’analisi che evidenzi i diversi livelli linguistici e di stile nelle sezioni prettamente scientifiche da una parte, e dall’altra nelle sezioni (prefazioni, epiloghi e digressioni) ove prevale l’impegno filosofico o il tono moralizzante o l’attitudine predicatoria. Se, infatti, la filigrana di lettura è questa compresenza di scienza e morale, l’una condizionante l’altra, le scelte stilistiche nonché la ricchezza espressiva del linguaggio senecano costituiscono gli strumenti indispensabili per cogliere i movimenti profondi del suo pensiero.
Come abbiamo osservato sopra, le sezioni scientifiche seguono uno schema, non fisso, ma abbastanza regolare. Nella descrizione del fenomeno e della discussione delle teorie esistenti, non sembra che Seneca si preoccupi molto di ricostruire fedelmente i sistemi e i contorni storici degli autori citati; d’altra parte, raramente il fenomeno è spiegato in seguito a un’osservazione diretta e, quando si presenta il caso, si tratta sempre di brevi indicazioni. Prevale invece il principio[40] per cui la stessa esperienza è confrontata con la teoria già formulata, a conferma, cioè, di quanto è già noto, secondo un metodo che potremmo definire “deduttivo”, non induttivo: la conferma è data in parte dalla stessa frequenza delle formule che introducono la spiegazione del fenomeno «per analogia» o «verosimiglianza» (tam… quam; non aliter quam; ut… sic; veri ergo simile est; tale quiddam, ecc.). In I 12, 1, ad esempio, nell’esporre la teoria speculare, Seneca inizia con il riferimento all’esperienza dei catini pieni di olio o di pece per osservare meglio l’eclissi di sole; ma il ragionamento che segue è costruito su spiegazioni già esistenti richiamate da quemadmodum… ita (due volte) e sicut.
Ciò che sembra interessare maggiormente Seneca è invece l’esposizione di ipotesi diverse, più o meno condivisibili; anzi, quanto più sono complesse, tanto più sembra che gli interessino, come se discutere una pluralità di opinioni lo garantisse nella serietà del metodo d’indagine.
In questo confronto con gli autori che lo hanno preceduto, anche Stoici, non manca di dichiarare la sua libertà di vedute, criticando certe posizioni definite fabulae, mendacia o ineptiae: IVb 6, 1 non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; 7, 2 quanto expeditius erat dicere: mendacium et fabula est[41].
Un’esigenza sembra comunque essere primaria per Seneca ed è quella di dimostrare l’origine naturale dei fenomeni, quasi una prova di scientificità. Come è stato notato[42], tale atteggiamento non sempre è dichiarato apertamente, ma è certo presente in diversi passi dell’opera: particolarmente indicativo, nella sequenza di III 27-29 relativa al diluvio, il collegamento tra tale fenomeno e l’operato della natura: 27, 2 nihil difficile naturae est, utique ubi in finem sui properat. E anche se natura e Dio coincidono nella visione stoica del mondo, 28, 7 Utrumque fit, cum deo visum ordiri meliora, vetera finiri, è l’universo che racchiude in sé i suoi principi informativi, il sole, la luna, gli astri, gli animali e il diluvio che lege mundi venit, 29, 3. A riprova dell’intento senecano, la similitudine stabilita con l’organismo umano (già presente nello stoico Cleante), un’analogia che, diversamente articolata, ricorre in altri passi dell’opera (II 6, 6; V 4, 2; VI 14, 1-2, ecc.): anche nel seme (ut in semine) è contenuta la virtù informativa di tutto l’uomo futuro (omnis futuri hominis ratio) e il bambino non ancora nato racchiude in sé il principio che stabilirà la barba e i capelli bianchi (et legem barbae canorumque nondum natus infans habet).
Il manifestarsi di questa esigenza presuppone la stessa idealizzazione dello stato di natura, un concetto perdurante nello sviluppo del pensiero latino, a cui inevitabilmente è collegata la condanna del progresso, almeno di quello tecnologico. Qui sta il limite, come si è già accennato sopra, della ricerca scientifica a Roma. È evidente che a questa separazione tra scienza e tecnica avranno contribuito anche altri fattori, come quello socio-economico[43], ma è certo che Seneca rappresenta, nelle Naturales Quaestiones, l’autentico interprete del suo tempo: superiorità della teoria sulla pratica, dunque, e quindi del pensiero sull’attività manuale, aderenza e rispetto dei canoni «naturali» e, come logica conseguenza, l’inevitabile unione di scienza e morale, forse per la prima volta messa così bene in luce.
Siamo distanti dalla descrizione enciclopedica di Plinio il Vecchio, per il quale si trattava di mostrare i fenomeni della natura, in tutti i suoi aspetti, non di discuterne le cause: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias (Nat. hist. XI 8). Dietro a questo principio comprendiamo che l’unico atteggiamento possibile è quello del «catalogatore» o dell’archivista, che dovrà mettere ordine nello scibile umano[44] rischiando, in questo, di restare legato a una visione statica della realtà: più moderna la posizione critica di Seneca, per il quale lo studio della natura è un processo aperto agli sviluppi delle scoperte future (VII 30, 5 e 6; 32, 1).
Se consideriamo adesso le parti scientifiche da un punto di vista linguistico e stilistico, appare evidente che la costruzione si presenta assai simile a quella dei Dialogi[45]: non ci soffermeremo qui sull’analisi dettagliata dei singoli aspetti, catalogati con estrema minuzia da Vottero[46], che passa in rassegna ogni fenomeno dello stile senecano, ivi compresi quelli peculiari delle sezioni moralizzanti. Vorremmo limitarci, nell’esame di queste parti, a segnare le modalità del rapporto tra Seneca e il destinatario, ovvero l’amico Lucilio Iuniore, a cui erano stati dedicati anche le Epistulae, il dialogo De providentia e i perduti Moralis philosophiae libri e del quale molti elementi biografici sono forniti nella prefazione del libro IVa. A Lucilio si rivolge in maniera continua, talora citandolo per nome, altre volte con appellativi che denotano affetto e stima, cosicché egli diventa il vero interlocutore e il referente di domande, interrogazioni retoriche, generiche osservazioni e obiezioni. E può egli stesso porre questioni a Seneca, l’occasione fittizia per sviluppare una controtesi; in questi casi si ricorre a inquis o al più generico (e diatribico) inquit. Non basta. Dobbiamo sottolineare che anche l’inserimento, nel corso della trattazione teorica, delle citazioni poetiche talora ha la stessa funzione di una voce «altra», che si inserisce nel contesto «dialogico», quasi fosse un altro interlocutore. È il caso di molte citazioni ovidiane che, tratte per lo più dalle Metamorfosi, non hanno «funzione morale, ma il preciso scopo d’illustrare vividamente l’imponente gamma dei fenomeni naturali, colti nella tensione perenne del loro dinamismo metamorfico»[47]. L’osservazione vale naturalmente, e a maggior motivo, per le citazioni virgiliane che, considerando la devozione di Seneca verso il grande maestro, sono le più numerose: anch’esse non appaiono mai all’improvviso e s’inseriscono nella stessa concatenazione logica del pensiero senecano di cui evidenziano e chiariscono il nodo importante, soprattutto nei passi di riflessione filosofica e morale, in un ricco gioco polifonico. Con ciò, non dimenticheremo di evidenziare, accanto alla funzione morale delle citazioni poetiche, l’altra funzione che lo stesso Seneca torna speso a chiarire, ovvero la necessità di concedere una pausa di «alleggerimento stilistico» all’interno di una prosa impegnata, filosofica e scientifica: Ep. 58, 25 sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere; e l’una deve coesistere accanto all’altra: Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare[48].

L’andamento espositivo delle parti scientifiche non si discosta, nei suoi aspetti essenziali, dalle altre opere senecane: una prosa serrata che non rinuncia alla variatio né al gusto delle sententiae e che, ugualmente, attinge al bagaglio retorico privilegiato, ovvero le interrogazioni dirette, le opposizioni, le metafore e la consueta ricchezza di figure retoriche, connotative dello stile senecano, ma se anche abbellire il suo periodare con la battuta inattesa (ἀπροσδόκητον) o la ricerca di parole nuove o inconsuete. Seneca è consapevole della difficoltà della materia trattata: così, per maggiore chiarezza, ricorre più volte all’accostamento del termine greco[49] a quello latino, oppure adopera l’attenuazione (uso del verbo solere, ad es., o ut(i), quando si mette a confronto con gli altri), oppure ricerca la forza chiarificatrice delle imagines derivanti dall’ambito militare, giuridico o medico. I periodi sono di solito caratterizzati dalla tipica concisione senecana, ma non mancano sequenze espositive lunghe e complesse, di certo in coincidenza con la trattazione di teorie discusse da più autori e di difficile interpretazione.
Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione a quelle parti dell’opera in cui, come abbiamo già rilevato più volte, Seneca concentra ogni interesse sulla finalizzazione dello studio della natura a scopi morali, ci troveremo coinvolti da uno stile appassionato e da un linguaggio ricco di sfumature e di effetti, che riconduce il lettore all’ambito predicatorio e filosofeggiante dei Dialogi, delle Epistulae, e, non ultimo, al pathos e alle rappresentazioni drammatiche delle Tragoediae. In effetti, oltre al consueto impiego degli strumenti retorici caratterizzanti lo stile senecano dell’«interiorità»[50], che personalizzano i tratti salienti delle prefazioni e degli epiloghi, possiamo individuare accenti e risorse descrittive di notevole originalità, in particolare nelle digressioni presenti all’interno della trattazione scientifica. Tutte hanno in comune, come scopo ultimo, l’invito a meditare sulla decadenza dei costumi e sulla malattia morale della società contemporanea, sull’allontanamento dallo stato di natura a opera del lusso e dei vizi degli uomini: sono temi ben noti, tante volte trattati da Seneca nel resto della sua produzione, e nel commento spesso richiameremo i confronti diretti. Ma è ovvio che la nostra attenzione è richiamata non tanto dalla novità degli argomenti quanto dalla particolare collocazione in un’opera scientifica.
Anticipata dalla teoria speculare che nel primo libro è introdotta per spiegare certi fenomeni naturali e agganciandosi strettamente alla fine del cap. 15 in cui si presentano certe caratteristiche degli specchi (8 sunt specula, quae faciem prospicientium obliquent, sunt quae in infinitum augeant, ita ut humanum habitum modumque excedant nostrum corporum), la digressione sull’uso distorto degli specchi da parte di Ostio Quadra prepara le riflessioni generali dell’epilogo nel cap. 17[51]. Il passaggio dalla sezione scientifica al racconto è segnalato quasi formularmente: Hoc loco volo tibi narrare fabellam[52], e fabella (come fabula) è un segnale immediato per il lettore che, attraverso il divertimento della storiella, arriverà a comprendere più facilmente il messaggio sotteso, ovvero la condanna della libido e della perversione nella società contemporanea[53]. La distorsione morale di Ostio Quadra è costruita attraverso un’insistenza continua della terminologia afferente all’ambito della corruzione, della malattia, della colpa, della mostruosità (monstrum, portentum, portentuosus), ma soprattutto del furor (16, 1 libido… ingeniosa… ad incitandum furorem suum). E il furor evoca tutta una casistica di personaggi che da tale passione sono trascinati fuori dalla razionalità e dai comportamenti da essa dipendenti: così Caligola o Ciro in De ira III 21. Ma furor significa anche spingersi oltre ogni limite nell’odio o nell’amore fino a portare i personaggi a livelli animaleschi: sono questi i protagonisti delle tragedie senecane, da Atreo a Medea. La bestialità di Ostio Quadra ci è segnalata dal termine admissarius per indicare il partner: il termine indica lo stallone in Varrone, De re rust. 2, 7. E ancora, in 16, 3, allorché la fantasia di Seneca si spinge ad auspicargli quasi una morte per autocannibalismo, il verbo usato è lancinare, un verbo che proviene dalla sfera animale e significa appunto sbranare: come Atreo (Thy. 778-779) lancinat gnatos pater / artusque mandit ore funesto suos.
Se la descrizione della lussuria di Ostio Quadra si pone in forte contrasto con i toni elevati della praefatio, in cui si celebra la luce divina a cui l’anima deve tendere attraverso lo studio della natura, nella fabella domina l’oscurità della colpa, anzi nessuna notte potrebbe nascondere le sue mostruosità: 16, 6 At illud monstrum obscenitatem suam spectaculum fecerat et ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est.
È la ricerca del paradosso, dell’effetto, ricercato con gli strumenti retorici, le dilatazioni linguistiche, le esasperazioni delle imagines che sta alla base della «sua» nuova drammaticità teatrale. Seneca intende scuotere gli animi per spingerli alla virtù e la via percorsa è molto vicina al linguaggio delle tragedie: dall’exemplum negativo l’uomo può risalire alla luce della conoscenza. A ben guardare, i tratti salienti della sua negatività altro non sono che il ribaltamento degli aspetti positivi della divinità: è questo il paradosso estremo a cui si può arrivare! Ostio Quadra si connota come un autentico dio al contrario, un dio del male, e celebra da sacerdote il parossismo libidinoso come Atreo, nella tragedia citata, aveva osannato il trionfo del suo odio: Thy. 885-888 Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi. Nel monologo finale (un’importante tessera di questo breve mosaico drammatico) Ostio Quadra appare fiero del suo furor che ha escogitato mezzi oltre i limiti consentiti dalla natura, collocandolo in una sfera sovrumana: 16, 8 inveniam, quemadmodum morbo meo et imponam et satisfaciam. La stessa scelta del verbo invenire ci riconduce di nuovo al linguaggio dei personaggi tragici, per i quali la volontà di superare la norma viene evidenziata più volte da espressioni analoghe: è ancora Atreo che parla in 273-275 Fateor, immane est scelus, / sed occupatum: maius hoc aliquid dolor / inveniat[54]. In questa ottica i richiami linguistici tra la prefazione e la fabella ci appaiono più comprensibili: se nella praef. 13 si parla della magnitudo di Dio qua nihil maius cogitari potest, in 16, 2 sono gli specchi che fanno apparire più grandi le immagini e si richiama la magnitudo del partner, anche se falsa, (specula) imagines longe maiores reddentia… ac deinde falsa magnitudine ipsius membri tamquam vera gaudebat[55]. Questo meccanismo (consapevole o meno), che prevede la costruzione del personaggio «annerendo» i modelli positivi, è rintracciabile in altri confronti: così, ad es., il filosofo, in I praef. 3, dichiara che la sua conoscenza della natura non si limiterà agli aspetti esteriori, ma s’inoltrerà nei recessi più profondi (secretiora); analogamente, al negativo, Ostio Quadra non si contenterà di vedere, ma vorrà vedere meglio le sue nefandezze, con l’aiuto degli specchi. La «prova oculare», richiamata quasi ossessivamente nella fabella, rinvia, per contrasto, all’insistenza del vedere con gli occhi della mente presente nella praefatio, istanza primaria del filosofo-maestro[56]. Come ultima riprova di questa operazione senecana di «annerimento», vorremmo aggiungere il confronto con il protagonista di un exemplum positivo, un certo Tullio Marcellino, in Ep. 77, 5-9, in particolare per il ruolo della servitù. Avendo deciso di suicidarsi, servi parere nolebant, tanto erano a lui devoti, e, in punto di morte, distribuì loro del denaro mentre essi piangevano e cercò di confortarli: 8 minutas… summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. Ostio Quadra, al contrario, come fosse un tiranno, era odiato dai suoi servi al punto che saranno proprio loro a ucciderlo e il divino Augusto stesso ritenne che l’uccisione non dovesse essere vendicata, anzi, quasi dichiarò pubblicamente che era stato ucciso a ragione, 16, 1 et tantum non pronuntiavit iure caesum videri.

Come nella fabella di Ostio Quadra, ritroviamo lo stesso stile prorompente, figurato, ridondante in altre digressioni delle Naturales che sono accomunate dall’ansia moralistica del vecchio[57] filosofo e da un profondo pessimismo che emerge proprio nelle parti moraleggianti, un pessimismo comune a tante pagine delle Epistulae, forse una conferma che l’opera è stata probabilmente composta nel periodo tardo, dopo il ritiro dalla vita pubblica, più o meno contemporaneamente alle altre opere dedicate a Lucilio: concorre una serie di indicazioni temporali che delimitano il periodo agli anni dopo il 60, forse 62-63 d.C.[58]
È stato osservato molto giustamente che «la fabella di cui Ostio Quadra è il protagonista è un punto di condensazione del linguaggio moralistico: vi troviamo, in sovrabbondanza, i tratti di quel moralismo di tipo “sistematico” che abbiamo inizialmente rilevato in Seneca, ma uniti a una particolare ricerca di profondità simbolica»[59]. In effetti, come abbiamo visto, lo specchio è un oggetto con notevole valore simbolico in quanto, pur essendo un prodotto della natura, diventa poi, nelle mani di Ostio Quadra, lo strumento per saziare la sua lussuria e quindi l’elemento da cui muovere per una più profonda analisi della decadenza dei costumi (vd. cap. 17).
Un’analoga funzione di utilizzazione distorta di un oggetto «buono» la si può ritrovare nelle altre digressioni a fine moralistico presenti nelle Naturales: si tratta della morte della triglia in III 17-18, dei mangiatori di neve in IVb 13 e dell’affine fabula delle miniere in V 15. Preceduto da una descrizione a fosche tinte del mondo sotterraneo, del tutto assimilabile al paesaggio infernale e alla natura delle tragedie, abitato da animalia tarda et informia e da pesci che si scavano (eruuntur) anziché essere pescati, ha inizio l’inquietante affresco di un convivio malato, alla ricerca di sensazioni che accontentino gli occhi prima che la gola (oculos ante quam gulam, III 17, 3). Come in I 16, la lussuria è appagata dal «vedere»; qui la depravazione consiste nell’assistere alla morte di un pesce che poi verrà consumato e Seneca si sofferma, con dettagli quasi ossessivi, sullo spettacolo offerto dal cambiamento del colore, nel trapasso dalla vita alla morte: siamo molto vicini a quel gusto dell’orrido che informa le macabre descrizioni tragiche. Lingua e stile, in un unico sforzo, concorrono a evidenziare la perversione di uomini appartenenti alla classe sociale ricca, di uomini che non esitano a disertare il funerale di un parente, che rappresentava, per gli antichi, un momento importante e di coesione: ora non esiste più nemmeno il valore della tradizione, esiste solo la spasmodica ricerca, in particolare visiva, del piacere (III 18, 7 oculis quoque gulosi sunt) e quasi una follia collettiva all’inseguimento di sensazioni nuove (III 18, 3 tantum ad sollertiam luxuriae pereuntis accedit, tantoque subtilius cotidie et elegantius aliquid excogitat furor usitata contemnens!).
Anche la fabula di V 15, nel raccontare la spedizione ordinata da Filippo per verificare lo stato di una vecchia miniera, riconduce al tema dell’avaritia e dei vitia degli uomini che, per amore del guadagno, si spingono fino nelle profondità della terra a rischio della loro vita. L’oscurità del mondo sotterraneo, ancora una volta metafora della colpa, desta terrore (V 15, 1 non sine horrore visos) e, come in III 16, 5, evoca le tenebre infernali: là dove hanno osato discendere, potranno conoscere terrarum pendentium habitus ventosque per caecum inanes… et aquarum nulli fluentium horridos fontes et alteram perpetuamque noctem, V 15, 4. In un contesto di studio sulla natura come le Naturales, appare davvero distante una tale rappresentazione «innaturale» (si ricordino i pesci scavati!) e irreale. È l’ansia moralistica di Seneca che, nell’indicare le vie percorse dagli uomini per la loro rovina, violando la natura e i suoi misteri, non esita a introdurre descrizioni che lo avvicinano, ad es., ad Albinovano Pedone, trasmessoci da Seneca retore, Suas. 1, 15: in comune una natura senza luce, vaga e spaventosa, lo scenario per la sua dissuasio da imprese empie per troppa audacia e quindi sacrileghe, riferita alle conquiste militari e alla sete di dominio[60].
In una sequenza contraddistinta da un forte uso dell’ossimoro (4 pauperrimum… divitiae) e dalla ricorrente intensificazione di termini attinenti alla sfera della sete (5 aestus, ebrietas, torret, incalescit, ecc.) nonché a quella del commercio (3 mercemur, emere, emptus), ritroviamo l’utilizzazione deformata di un oggetto appartenente alla natura da parte di uomini ricchi e lussuriosi: si tratta della neve e dei mangiatori di neve in IVb 13.

La digressione prende inizio dall’obiezione del discepolo Lucilio, che pone al maestro la domanda a cui Seneca ha risposto più volte nel corso dell’opera: perché soffermarsi sullo studio di certi aspetti della natura, in questo caso, della neve, quando si potrebbe divenire migliori sapendo perché essa non la si debba comprare? E il maestro risponderà con una lunga analisi del commercio e della consumazione della neve, che, in quanto acqua e, soprattutto, aria, non è niente: l’acqua stessa contra se ingeniosa luxuria redegit ad pretium: adeo nihil illi potest placere nisi carum, IVb 13, 4. In I 16, similmente, a proposito di Ostio Quadra, era la libido a essere ingeniosa… ad incitandum furorem suum. Questa società di ricchi, annoiati dal troppo cibo e dal benessere, ha reso la neve un bene commerciabile e ha «inventato» il modo di pressarla per superare l’estate (13, 3 invenimus quomodo stiparemus nivem ut ea aestatem evinceret). Come nelle altre digressioni, anche qui diviene importante la funzione visiva (10 videbis) sulla rappresentazione di uomini pallidi e ammalati (10 graciles et palliolo focalique circumdatos, pallentes et aegros) in preda all’arsura dei cibi e al gelo della neve: senza attenuazioni, febris est (11). Con un linguaggio fortemente metaforizzato Seneca ci offre ancora un esempio di trionfo della luxuria sulla ratio: 11 luxuria invictum mallum et ex molli fluidoque durum atque patiens! È il paradosso che chiude la digressione: la lussuria finisce per assumere addirittura le doti essenziali del saggio e dell’ottimo Romano, e forse più di questo non si poteva dire![61]
Vorremmo terminare l’analisi sulle diverse modalità del linguaggio e dello stile senecano nelle digressioni o excursus a sfondo moraleggiante e filosofico con alcune osservazioni sulla rappresentazione apocalittica del diluvio universale nel cap. 27 del III libro (l’argomento è presente anche nei capitoli finali 28-30). All’interno della trattazione sulle acque e sui mari, Seneca, consapevole di allontanarsi dall’argomento trattato, apre così il suo excursus: Sed monet me locus ut quaeram, cum fatalis dies diluvii venerit, quemadmodum magna pars terrarum undis obruatur. Segue un grandioso affresco dell’evento o κατακλυσμός, che, secondo la visione stoica, accompagnava l’ἐκπύρωσις alla fine di un ciclo nella vita del mondo, o anno cosmico[62]. Di nuovo la domanda: come si concilia tale descrizione con un’opera scientifica? Potremmo ipotizzare un pezzo di bravura per allentare la pesantezza della trattazione teorica, se i particolari descrittivi non fossero di così vasto respiro e se le finezze psicologiche nell’analisi degli stati d’animo non ci riconducessero ancora una volta alla profonda conoscenza dei sentimenti umani mostrata da Seneca in tanti passi delle sue opere filosofiche. In effetti, come nelle digressioni esaminate precedentemente lo specchio, la triglia, la neve rappresentavano oggetti «naturali», sui cui uso distorto si innestava la riflessione moralistica, così anche il diluvio nasce dalla natura ed è una legge dell’universo: all’origine il mondo racchiudeva in sé gli astri, gli animali e tutti quegli elementi da cui un giorno esso sarebbe stato cambiato (III 29, 3–4 In his fuit inundatio, quae non secus quam hiems, quam aestas, lege mundi venit… omnia adiuvabunt naturam, ut naturae constituta peregantur). Ma il senso sotteso è una riflessione ricorrente nel pensiero filosofico di Seneca: è il concetto che i casi della fortuna possono colpire, come e quando vogliono, opere umane e naturali: Ep. 91, 11 iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant. Anche il diluvio, dunque, è un accadimento previsto dalla natura e avrà fine una volta che sarà portata a compimento la rovina del genere umano, dopodiché avrà inizio una nuova era d’innocenza per l’umanità, l’età dell’oro; ma ben presto ritornerà la corruzione: 30, 8 cito nequitia subrepit. Le digressioni, dunque, non appaiono mai sganciate dalla natura e dai suoi elementi e le accomuna l’accostamento di costanti spunti di ragionamenti moralistici e filosofici, in uno stile serrato e figurato, teso alla ricerca di sensazioni forti e linguisticamente innovativo. In particolare, nella rappresentazione del diluvio, Seneca gareggia con il modello Ovidio, che in Met. I 253-312 aveva descritto il diluvio universale: ma alla descrizione epica ovidiana egli contrappone una rappresentazione che, nei suoi elementi costitutivi, è raffigurata con tinte forti, drammatiche, riecheggianti passi delle sue tragedie[63]. L’intensificazione drammatica è raggiunta attraverso l’insistenza crescente (αὔξησις) dei motivi: la nox e la mancanza della luce solare (cfr. Oed. 1-5), la nebbia fitta, la mancanza di vento, i crolli progressivi (27, 6 nihil stabile est), la paura e lo sbigottimento. L’apparato epico ovidiano affidato all’intervento divino è del tutto assente ed è sostituito da una visione catastrofica dell’evento, narrata al presente, per renderne più potente la drammaticità: se poi Seneca si permette di criticare il suo modello (sono sciocchezze aver detto che il lupo nuota tra le pecore!)[64], non viene comunque meno l’ammirazione per i suoi versi, e appare chiaro che il poeta tragico, più che il filosofo stoico, ha cercato il superamento del modello.
A ripercorrere la nostra analisi, ne scaturisce una complessità di motivi che rendono le Naturales Quaestiones una delle opere più rappresentative di Seneca, ma certo gli aspetti più originali sembrano proprio questa compresenza di interesse morale, filosofico e di studio scientifico, il dialogo continuo tra il maestro e il discepolo e, non ultimo, la potenza stilistica insieme all’intensità delle parole e dei colores.

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Note:
[1] Molte buone osservazioni in O. Gilbert, Die meteorologischen Theorien des griechischen Altertums, Leipzig 1907 (rist. Hildesheim 1967).
[2] H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, vol. I 1903, 19526; vol. II 1903, 19526; vol. III 1910, 19526: nel commento le citazioni saranno indicate con la sigla D.-K.; e A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, Milano 1991.
[3] Aristotele, Meteorologica, ed., trad. e note di P. Louis, Paris 1982: nell’introduzione è discussa l’autenticità del libro IV che l’editore sostiene con vari argomenti: sarebbe stato composto da Aristotele, pur non corrispondendo che imperfettamente al progetto iniziale dell’autore (p. xviii).
[4] D. Vottero, Fonti e dossografia nelle “Naturales quaestiones” di Seneca, RAALBAN 61 (1987-1998), pp. 5-42.
[5] Sappiamo con certezza che l’opera aristotelica era nota ad Eratostene nell’elaborazione della teoria sulla formazione dei fiumi attraverso le acque fluviali, in particolare per la spiegazione delle piene del Nilo dovute alle piogge abbondanti (Proclo, In Plat. Tim. 37d). E possiamo aggiungere Strabone, Geografia IV 1, 7, che ricorda il parere di Aristotele per spiegare con un avvenuto terremoto la presenza di massi nella regione francese di Crau. Oltre a Seneca, del cui debito ad Aristotele avremo modo di occuparci ripetutamente nel commento, è probabile che lo stesso Lucrezio se ne sia ricordato quando descrive la violenza dei tifoni (VI 422 sgg.).
[6] Fra gli studi esistenti ricordiamo: E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen 1855-68, 19235, rist. Hildesheim 1963; H. Diels, Kleine Schriften zur Geschichte der antiken Philosophie, Hildesheim 1969, p. 384 (rist. di AKPAWB 3 [1885], p. 8).
[7] II 26, 6; II 30, 1; V 15, 1; VI 17, 3; VI 22, 2.
[8] I 5, 10; I 5, 13; II 26, 4; II 54, 1; IVb 3, 2; VI 21, 2; VI 24, 6; VII 20, 2; VII 20, 4.
[9] Oltre all’articolo citato, rinviamo all’Introduzione delle Naturales Quaestiones, Torino 1990, pp. 26 sgg.
[10] Cfr. Vottero, Introd., pp. 29 sgg.
[11] Cfr. Vottero, Introd., pp. 32 sgg.: rinviamo alla sua precisa e ricca analisi per la trattazione del problema.
[12] H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin 1879 (rist. 1965), Prolegomena, pp. 214 sgg.
[13] Tra la biografia relativa a tale questione, ci limitiamo a citare J. Borucki, Seneca philosophus quam habeat auctoritatem in aliorum scriptorum locis afferendis, Diss. Borna-Leipzig 1926: la sua posizione è diversa da quella discussa subito sopra nella misura in cui sostiene che Seneca avrebbe, invece, letto molto, anche degli autori precedenti.
[14] Si rinvia al commento, ad loc. Su questo problema vedasi M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Firenze 1967, I, pp. 171 sgg.
[15] W.H. Stahl, La scienza dei Romani, trad. it., Roma-Bari 1974, p. 5.
[16] J. Beaujeu, Les Romains et la science, in La science antique et médiévale (des origines à 1450), Paris 1957, p. 310.
[17] L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 1996, pp. 226 sgg.
[18] Collezione, V, parte I, 1-2: egli spiega che la forma esagonale delle celle risponderebbe a un principio di ottimizzazione, in quanto tale forma geometrica, dato l’alto rapporto area-perimetro, garantisce più miele.
[19] J. Beaujeu, La vie scientifique à Rome au premier siècle de l’Empire, Conférence faite le 6 Avril 1957, Université de Paris 1957, p. 10.
[20] Buone osservazioni si leggono in E. Romano, Struttura degli ‘Astronomica’ di Manilio, AAPal 2 (1979), e in C. Salemme, Introduzione agli ‘Astronomica’ di Manilio, Napoli 1983.
[21] A. Della Casa, Nigidio Figulo, Roma 1962.
[22] A. Le Boeuffle, Hygin, L’astronomie, Paris 1983, e Hyginus De Astronomia, edidit G. Viré, Stuttgart-Leipzig 1992.
[23] Pomponii Melae De Chorographia libri tres, introd., ed. crit. e comm. a cura di P. Parroni, Roma 1984.
[24] P. Parroni, Scienza e produzione letteraria, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, La produzione del testo, Roma 1989, pp. 469-505: il problema è affrontato con precisione nei suoi aspetti più importanti e i contributi, di cui abbiamo tenuto conto, sono davvero numerosi.
[25] T. Janson, Latin Prose Preface, Studies in Literary Conventions, Stockholm-Götenborg-Uppsala 1964; A. Locher, The Structure of Pliny the Elder’s Natural History, in R. French – F. Greenaway, Science in the Early Roman Empire: Pliny the Elder, his Sources and Influence, London-Sydney 1986; AA.VV., Prefazioni, prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, a cura di C. Santini e N. Scivoletto, Roma 1990.
[26] Viene introdotta, nei paragrafi 9-17, la tripartizione della philosophia in moralis, naturalis, rationalis: alla prima Seneca dedicherà i suoi maggiori interessi, della seconda, che comprende anche la metafisica e la teologia, secondo la dottrina stoica che identificava Dio e la natura, si occuperà nelle Naturales, la terza, la logica, non è ricordata nella praefatio.
[27] La philosophia insegna la virtù, quindi l’arte del vivere; le artes vulgares, ludicrae, pueriles e liberale abbracciano diversi aspetti dello scibile e rientrano quindi nell’ambito della cultura e dell’erudizione, ma hanno solo una funzione propedeutica rispetto alla filosofia. Sull’interpretazione dell’Ep. 88, si veda A. Stückelberger, Senecas 88. Brief. Über Wert und Unwert der freien Kunste, Text, Übersetzung und Kommentar, Heidelberg 1965.
[28] Seneca polemizza con Posidonio che aveva attribuito ai sapientes l’invenzione delle artes e intende ribadire la superiorità del pensiero filosofico su di esse, prodottesi dal dilagare della luxuria: la semplicità della natura si afferma sul progresso legato alle artes, par. 9: Felix illud saeculum fuit ante architectos, ante lectores!
[29] I. Lana, La concezione della scienza e della tecnica a Roma da Augusto a Nerone, II, Torino 1971, p. 165.
[30] A. Traina, Introduzione a Seneca, Letture critiche, Milano 1976, pp. 12-13.
[31] Sul tema dell’interiorità in Seneca, si leggano le ricche osservazioni di G. Lotito, Suum esse. Forme dell’interiorità senecana, Bologna 2001.
[32] Per una valutazione degli aspetti compositivi delle Naturales Quaestiones rinviamo a G. Stahl, Aufbau, Darstellungsform und philosophischer Gehalt der Naturales Quaestiones des L. Annaeus Seneca, Diss. Kiel 1960 e a W. Trillitzsch, Senecas Beweisführung, Berlin 1962.
[33] La vicinanza alla teoria lucreziana, nei suoi vari aspetti, è presa in esame da I. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino 1955, pp. 1-19.
[34] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, trad. it., Bologna 1987: su Seneca si vedano le pp. 245-251.
[35] Sul problema, si vedano le osservazioni generali di E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Firenze 1979.
[36] P. Cubeddu, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle “Naturales Quaestiones” negli anni 1900-1970, Sandalion 1 (1978), pp. 123-152; O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, II, Bologna 1981, pp. 585-595; D. Weber, Ethik und Naturwissenschaft. Die Praefatio zu Senecas Naturales Quaestiones, Wien 1995.
[37] S. Chabert, Sismologie (Questions Naturelles, Liv. VI), AUG 15 (1903), pp. 154-190 ; G. Maurach, Zur Eigenart und Henkunft von Senecas Methode in den Naturales Quaestiones, Hermes 93 (1965), pp. 357-369.
[38] F.P. Waiblinger, Senecas Naturales Quaestiones. Griechische Wissenschaft und römische Form, München 1977; N. Gross, Senecas Naturales Quaestiones: Komposition, naturphilosophische Aussagen und ihre Quellen, Stuttgart 1989.
[39] J. Müller, Über die Originalität der Naturales Quaestiones Senecae, in Fest-Gruss aus Innsbruck, Innsbruck 1893, pp. 1-20. Osservazioni sparse si possono leggere nelle principali opere di carattere generale su Seneca, indicate nella ricca bibliografia di D. Vottero, op. cit., pp. 77 sgg.
[40] L’osservazione è di P. Parroni, op. cit., p. 475.
[41] Altri esempi si possono leggere in D. Vottero, op. cit., p. 41.
[42] L. Anneo Seneca, Trattato sui terremoti, introd., testo, trad. e note a cura di A. Traglia, Roma 1965, p. 7; D. Vottero, op. cit., p. 40.
[43] La tecnica rientrava nei compiti delle classi inferiori e degli schiavi e quindi veniva denigrata dal ceto intellettuale, ma, oltre a ciò, il progresso tecnologico poteva significare la perdita di un equilibrio sociale ed economico consolidato. A conferma si ricorda la storiella del vetro infrangibile il cui inventore fu fatto uccidere dal sovrano per timore di una svalutazione dell’oro! Narrata da Trimalcione in Petr. Sat. 51, si ritrova anche in Plinio, Nat. hist. XXXVI 195. Intorno a questa problematica si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, introd. e trad. di P. Zambelli, Torino 1967.
[44] Per un’interpretazione del pensiero pliniano si veda la lucida analisi di G.B. Conte, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, I, Torino 1982, pp. xvii-xlvii.
[45] R. Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, Leipzig 1895 (rist. Hildesheim 1963), vol. II, pp. 25, 33; C. Marchesi, Seneca, Messina-Milano 1944 (rist. Milano 1981), p. 192.
[46] D. Vottero, Note sulla lingua e lo stile delle “Naturales Quaestiones” di Seneca, AAST 119 (1985), pp. 61-86, di cui possiamo leggere una riduzione nell’Introduzione già citata, pp. 42 sgg.
[47] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 243, ed Enciclopedia virgiliana, s.v. Seneca, Lucio Anneo, vol. IV, pp. 766-768, Roma 1988; si veda, sull’argomento, G. Lurquin, Le citation poétique dans les ouvrages en prose de Sénèque le philosophe, Louvain 1947, assai utile per la raccolta completa delle citazioni, più discutibile per la classificazione, che si basa su principi non sempre convincenti. Accanto a Virgilio (in particolare, l’Eneide) e Ovidio (soprattutto le Metamorfosi, libri I e XV), sono citati Menando, Lucrezio, Tibullo (il verso è erroneamente attribuito a Ovidio), Nerone, Lucilio Iuniore e un certo Vagellio, autore sconosciuto.
[48] G. Mazzoli, op. cit., pp. 103 sgg.
[49] D. Vottero, La grafia dei termini d’origine greca nelle opere filosofiche di Seneca, AAST 118 (1974), pp. 311-339.
[50] A. Traina, Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca, Bologna 19874.
[51] Utili osservazioni in D.D. Leitao, Senecan Catoptrics and the Passion of Hostius Quadra (Sen. Nat. 1), MD 1998, pp. 127-160; S. Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio e la tradizione del moralismo romano, Pisa 1991, pp. 116 sgg., e F.R. Berno, Lo specchio, il vizio e la virtù. Studio sulle Naturales Quaestiones di Seneca, Bologna 2003 (che abbiamo potuto leggere a lavoro ultimato).
[52] Cfr. III 18, 1; V 15, 1.
[53] Anche l’exemplum assolve un simile funzione didattica, come possiamo verificare in tutta la produzione senecana: il piacere associato all’insegnamento per aumentare la credibilità è confermato da Rhet. ad Her. IV 49, 62; Cicerone, Orat. 120 e Quintiliano, Inst. orat. V 11, 19.
[54] Ugualmente funzionali i verbi quaerere ed excogitare come l’affine pergere: Medea 898-900 Quaere poenarum genus / haut usitatum iamque sic temet para: / fas omne cedat, abeat expulsus pudor.
[55] Cfr. D.D. Leitao, art. cit., p. 146.
[56] Per ulteriori osservazioni si veda ad loc.
[57] È Seneca stesso che fa riferimento alla sua età ormai tarda nel libro III praef. 1; 2; 3 e nelle allusioni al suo precario stato di salute nel libro I praef. 4.
[58] Intorno al problema della datazione, rinviamo a D. Vottero, op. cit., pp. 20-21. Il terminus post quem è il 62, anno del terremoto in Campania ricordato in VI 1-2, il terminus ante quem forse il 64, di cui non sono ricordati eventi salienti.
[59] S. Citroni Marchetti, op. cit., p. 153.
[60] V. Tandoi, Albinovano Pedone e la retorica giulio-claudia delle conquiste, SIFC 35 (1964), p. 537.
[61] Anche Plinio, in Nat. hist. XIX 55, fa riferimento al commercio dell’acqua e al costume di bere la neve e il ghiaccio, ma, come osserva acutamente S. Citroni Marchetti, op. cit., pp. 170-171, «Plinio appartiene in parte a questo tipo di moralismo, ma vi appartiene senza vera consapevolezza: più che dipingere con gli stessi colori egli parla, spontaneamente, usando il medesimo linguaggio».
[62] Vasta la bibliografia sull’argomento; si veda D. Vottero, op. cit., pp. 440-441, note 1 e 2.
[63] F. Levy, Der Weltuntergang in Senecas Naturales Quaestiones, Philologus 83 (1928), pp. 459-466; R. Dell’Innocenti Pierini, Seneca emulo di Ovidio nella rappresentazione del diluvio universale (Nat. Quaest. 3, 27, 13 sgg.), A&R 29 (1984), pp. 143-161.
[64] III 27, 13 Ni tantum impetum ingenii et materiae ad pueriles ineptias reduxisset: nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones: il richiamo critico è a Ov. Met. I 304. Cfr. G. Mazzoli, op. cit., pp. 245-247.
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