La similitudine che mette in relazione la stirpe umana con le foglie ricorre, con accenti e significati differenti, tre volte nei poemi omerici.
La prima – e più celebre – occorrenza dell’immagine è quella di Il. VI 145-149. Sul campo di battaglia si incontrano per la prima volta l’acheo Diomede e Glauco, greco d’origine ma naturalizzato licio e alleato dei Troiani. Diomede domanda allo sconosciuto avversario la sua identità – teme di trovarsi di fronte a un dio – e Glauco risponde:
Τυδεΐδη μεγάθυμε τί ἢ γενεὴν ἐρεείνεις;
οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν.
φύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη
τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη·
ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν φύει ἣ δ’ ἀπολήγε.
Grande Tidide, perché mi chiedi la stirpe?
Tale e quale la stirpe delle foglie è quella degli uomini.
Le foglie il vento fa cadere a terra, ma altre sugli alberi
in fiore ne spuntano, quando arriva la primavera;
così le stirpi degli uomini, una nasce l’altra svanisce.

Il tertium comparationis, ovvero l’elemento che accomuna i due termini messi a confronto, è la mancanza di rapporto fra una progenie (di uomini come di foglie) e quella precedente: il legame di stirpe sembra essere qui svuotato di significato e sostituito dal sentimento di appartenenza a una medesima generazione di coetanei. Senonché, subito dopo, Glauco indugia nel racconto della storia di suo nonno Bellerofonte, ed è proprio la constatazione di un’antica amicizia fra la stirpe di Glauco e quella di Diomede a determinare la conclusione positiva dell’episodio.
Con un significato leggermente diverso l’immagine delle foglie ritorna in Il. XXI 462-466, dove, a Poseidone che gli propone di intervenire in battaglia in aiuto degli Achei, Apollo risponde:
ἐννοσίγαι’ οὐκ ἄν με σαόφρονα μυθήσαιο
ἔμμεναι, εἰ δὴ σοί γε βροτῶν ἕνεκα πτολεμίξω
δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε
ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες,
ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι.
Scuotitore della terra, tu dovresti dirmi che non son saggio,
se con te mi mettessi a combattere per far piacere ai mortali
miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano
pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi,
un’altra volta cadono privi di vita.
Il tertium comparationis è in questo caso la brevità e la caducità della vita umana, contrapposta all’immortalità degli dèi.

Infine, il paragone tra uomini e foglie ricorre in Od. IX 51-52: i Ciconi sopraggiungono a vendicare la scorreria di Odisseo e dei suoi compagni ὅσα φύλλα καὶ ἄνθεα γίνεται ὥρῃ, / ἠέριοι («quante spuntano in primavera le foglie e i fiori, al mattino»). Qui ciò che accomuna i due elementi del confronto è la quantità, grande, e il palesarsi improvviso; le foglie sono osservate sul nascere come i nemici sopraggiungono al mattino.
La similitudine omerica ha avuto una notevole fortuna, nell’antichità e poi nella moderna letteratura europea. Tra le numerose riprese dell’immagine, quella del poeta lirico Mimnermo (VII-VI secolo a.C.) contiene una significativa innovazione rispetto al modello: mentre nel VI libro dell’Iliade il tema è quello del succedersi ininterrotto delle generazioni, nella continuità del ciclo naturale, in Mimnermo il paragone dà espressione al motivo della brevità della giovinezza, destinata a dileguarsi in fretta e a non fare mai più ritorno. Il poeta, cioè, ricorre alla similitudine non più per alludere al rinnovarsi ciclico delle stirpi, ma per connotare un’età dell’esistenza individuale, la giovinezza appunto, piacevole, ma destinata a breve durata (F 2 West², vv. 1-8):
ἡμεῖς δ’, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη
ἦρος, ὅτ’ αἶψ’ αὐγῇς αὔξεται ἠελίου,
τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης
τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν
οὔτ’ ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,
ἡ μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,
ἡ δ’ ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης
καρπός, ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.
E noi, come foglie che produce la primavera ricca di germogli,
quando ai raggi del Sole crescono tutt’a un tratto –,
simili a quelle, in un cubito di tempo, dei fiori della gioventù
godiamo, senza che dagli dèi ci giunga la nozione del male
né del bene: le nere Chere ci stanno addosso ormai,
e l’una regge il termine della penosa vecchiaia,
l’altra quello della morte; per un istante appena vive il frutto
della gioventù, per quanto si spande sulla Terra il Sole.
I primi due versi rimandano al passo di Il. VI, ma la prospettiva è diversa: la voce di Mimnermo non è distaccata come quella di Glauco e non si tratta più della vanità delle genealogie e dei vanti aristocratici, ma della brevità della giovinezza e dei piaceri della vita; non più eroica accettazione, dunque, ma drammatica protesta.

Il poeta lirico Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.) risente sia di Omero sia di Mimnermo; egli cita esplicitamente il primo, «l’uomo di Chio» (una delle località che si vantava di essere stata la patria di Omero), ma, come Mimnermo, si serve del paragone fra uomini e foglie per lamentare la brevità dell’esistenza e della giovinezza, di cui gli uomini peraltro, nutrendo speranze irrealizzabili, mostrano di non essere consapevoli (F 8 West²):
ἓν δὲ τὸ κάλλιστον Χῖος ἔειπεν ἀνήρ·
‘οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν’·
παῦροί μιν θνητῶν οὔασι δεξάμενοι
στέρνοις ἐγκατέθεντο· πάρεστι γὰρ ἐλπὶς ἑκάστῳ
ἀνδρῶν, ἥ τε νέων στήθεσιν ἐμφύεται.
θνητῶν δ’ ὄφρά τις ἄνθος ἔχῃ πολυήρατον ἥβης,
κοῦφον ἔχων θυμὸν πόλλ’ ἀτέλεστα νοεῖ·
οὔτε γὰρ ἐλπίδ’ ἔχει γηρασέμεν οὔτε θανεῖσθαι,
οὐδ’, ὑγιὴς ὅταν ᾖ, φροντίδ’ ἔχει καμάτου.
νήπιοι, οἷς ταύτῃ κεῖται νόος, οὐδὲ ἴσασιν
ὡς χρόνος ἔσθ’ ἥβης καὶ βιότου ὀλίγος
θηντοῖς. ἀλλὰ σὺ ταῦτα μαθὼν βιότου ποτὶ τέρμα
ψυχῇ τῶν ἀγαθῶν τλῆθι χαριζόμενος.
Una sola cosa, bellissima, disse l’uomo di Chio:
“Quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini”.
Pochi tra i mortali, dopo aver accolto nelle orecchie
queste parole, se le impressero in cuore: in ciascuno,
infatti, innata è la speranza, che sboccia nel cuore dei giovani.
Quando qualcuno dei mortali possiede l’amabile fiore di gioventù,
con animo leggero progetta cose irrealizzabili;
né ha alcun pensiero della vecchiaia o della morte,
né, quando è sano, si preoccupa della malattia.
Sciocchi, quelli che hanno questa mentalità, e non sanno
che il tempo della giovinezza e dell’esistenza è breve
per i mortali. Ma tu che l’hai capito, al limitare della vita,
fatti forza, godendoti nell’anima i beni.
(trad. it. I. Biondi)

Anche Virgilio riprende nell’Eneide (VI 306-310) l’immagine delle foglie che in autunno cadono a terra numerose, come termine di paragone per la condizione delle anime dei defunti che si accalcano sulla riva dell’Acheronte:
huc omnis turba ad ripas effuse ruebat,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia.
Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte ragazze,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d’autunno
cadono scosse le foglie.
(trad. it. R. Calzecchi Onesti)

Come nel passo dell’Odissea ricordato sopra, qui il tertium comparationis è la quantità (quam multa): le foglie, numerose, sono però questa volta osservate alla fine della loro stagione, non all’inizio, coerentemente con la situazione dei defunti nell’Oltretomba.
Di questo passo virgiliano si sarebbe ricordato Dante (1265-1321) nell’Inferno (III 112-117):
Come d’autunno si levan le foglie
una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Le anime si gettano nella barca di Caronte come le foglie, una dietro l’altra, in ottobre cadono dal ramo; a «levan» corrisponde «gittansi», a «una appresso de l’altra» corrisponde «ad una ad una».

Lorenzo de’ Medici (1449-1492) nel poemetto Corinto, ricco di reminiscenze letterarie, riprende il parallelo fra uomini e foglie: il tema è quello del rimpianto del tempo breve della giovinezza. Il pastore Corinto, proiezione autobiografica del Magnifico, effonde al lume della Luna i suoi lamenti d’amore per la giovane e bella ninfa Galatea, ritrosa a ogni suo approccio; il suo discorso si conclude con l’immagine delle rose candide e rosse, appena sbocciate nel giardino e ben presto sfiorite. Il malinconico motivo delle rose, che si vedono nascere e morire «in men d’un’ora» (v. 177), offre lo spunto per un invito a cogliere senza indugio il fiore della gioventù e della bellezza, destinato inesorabilmente ad appassire nel più breve spazio di tempo (vv. 178-183):
Quando languenti e pallidi vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne in mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.
Nostro solo è quel poco ch’è presente,
né il passato o il futuro è nostro tempo:
un non è più, e l’altro è ancor nïente.
Infine, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), nella lirica Soldati, composta nel bosco di Courton, in Francia, sul limitare della Grande guerra (nel luglio 1918), attraverso la similitudine uomini-foglie, resa in forma epigrammatica, sottolinea, come già Mimnermo, la fragilità della condizione umana, accentuata in questo caso dalla drammatica esperienza bellica:
Soldati
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
Il titolo, Soldati, è il primo termine del paragone che viene svolto nei quattro versi del testo; il tertium comparationis è il modo di stare, precario: quello dei soldati in attesa del distacco definitivo e inevitabile della vita e quello delle foglie in autunno, quando un soffio di vento basta per farle cadere.
***
Riferimenti bibliografici:
M. Barbi, Per due similitudini dell’Inferno, SD 11 (1927), 121-128.
B. Maier, Lorenzo de’ Medici, in W. Binni (ed.), Da Dante al Tasso, I, Firenze 1954, 257-276.
G. Regoliosi, Il tertium comparationis fra uomini e foglie, Zetesis 1 (1994) [www.rivistazetesis.it].
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.