P. Ovidio Nasone

da G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, pp. 370-387.

1. Un poeta di eccezionale valore

Ovidio, uno dei maggiori poeti dell’età augustea nonché dell’intera storia della letteratura latina, ha esercitato la propria influenza letteraria per secoli, consegnando alla tradizione occidentale opere di eccezionale valore poetico e culturale. I suoi versi rivelano una sorprendente capacità affabulatoria, punteggiata da un’ironia sottile e discreta, che rappresenta uno dei tratti più caratteristici della sua sapienza narrativa.

La poesia ovidiana ha, inoltre, l’indubbio merito di aver veicolato un ricchissimo bagaglio di immagini e di storie mitiche, che riescono ancora a esercitare il loro fascino straordinario sul lettore.

P. Ovidio Nasone. Busto, marmo, I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

2. Una vita brillante che si conclude in esilio

Ovidio parlò spesso di sé e, dunque, molte delle notizie sulla sua vita provengono direttamente dalle sue opere (uno dei testi principali in proposito è l’elegia IV 10 dei Tristia, che offre importanti informazioni biografiche). Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona, città dei Peligni (nell’attuale Abruzzo), da agiata famiglia equestre, il 20 marzo del 43 a.C. Frequentò a Roma le migliori scuole di retorica (quelle di Arellio Fusco e di Porcio Latrone), in vista della carriera forense e politica. Completò, quindi, gli studi con il canonico soggiorno in Grecia, ma, al ritorno a Roma, dopo aver ricoperto alcune cariche minori, abbandonò la carriera politica.

Entrato nel circolo letterario di Messalla Corvino, Ovidio strinse rapporti con i maggiori poeti dell’Urbe; dopo le precoci e brillanti prove letterarie, si avviò così verso un tranquillo e pieno successo, ottenendo una solida fama. E, verso i quarant’anni, con la terza moglie trovò anche la serenità coniugale. Tuttavia, proprio all’apice del successo, lo colse, nell’8 d.C., un improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che relegò il poeta sul Mar Nero, a Tomi (oggi Costanza). Le cause della relegatio (che, a differenza dell’exilium, non comportava perdita dei beni e della cittadinanza) non sono state mai pienamente chiarite (Ovidio vi accenna velatamente in Tristia II 207): si sospetta che, dietro le accuse ufficiali di immoralità della sua poesia (soprattutto l’Ars amatoria), si volesse in realtà colpire un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, la nipote di Augusto, con Decimo Giunio Silano. A Tomi Ovidio morì nel 17 (o 18) d.C.[1]

 

John William Cook, Ovidio (dettaglio). I poeti. Venti ritratti. Incisione, 1825, da G. Crabb, Universal Historical Dictionary, London 1825.

 

3. Le opere: non solo elegie

La produzione poetica di Ovidio è assai vasta e attraversa generi differenti. Le opere del periodo giovanile, di cui risulta molto problematica la datazione, si inseriscono nella tradizione elegiaca: il suo esordio letterario è segnato dagli Amores, una raccolta di elegie alla maniera di Tibullo e Properzio, suddivise in tre libri (si tratta di quarantanove componimenti di varia estensione per un totale di 2460 versi) e scritte nel metro tipico del genere, cioè il distico elegiaco. Quella pervenuta, tuttavia, è una seconda edizione ridotta, pubblicata dall’autore forse nell’1 d.C., a distanza di molti anni dalla prima, che risaliva a poco dopo il 20 a.C. e si componeva di ben cinque libri.

Allo stesso periodo degli Amores, attorno al 15 a.C. (ma c’è chi sposta la data fra il 10 e il 3 a.C.) si assegna di solito anche la composizione della prima serie (epistole 1-15) delle Heroides (letteralmente «Le eroine»): si tratta di una raccolta di lettere poetiche in distici elegiaci, che si immaginano composte da alcune delle principali protagoniste femminili del mito greco e indirizzate ai rispettivi amanti. A una data assai successiva (presumibilmente fra il 4 e l’8 d.C.) si fa risalire invece la seconda serie di Heroides (le cosiddette “epistole doppie”, 16-21), costituita da tre coppie di lettere in cui al messaggio dell’innamorato segue la risposta della donna. Complessivamente, queste ventun epistole (di 115 versi la più breve, di 378 la più lunga) contano quasi 4000 versi.

Nel periodo fra il 12 e l’8 a.C. potrebbe essere stata scritta la tragedia (perduta) Medea, che riscosse grande successo.

Tra l’1 a.C. e l’1 d.C. si colloca la pubblicazione del ciclo dei tre poemetti erotico-didascalici (tutti in distici elegiaci), opere che rientrano nel genere del “manuale”, del libro che impartisce precetti e consigli utili in materia amorosa: l’Ars amatoria, in tre libri, dei quali i primi due contengono precetti erotici indirizzati agli uomini e il terzo alle donne, per un totale di 2300 versi; i Remedia amoris, dedicati ai modi per liberarsi dalla passione erotica (814 versi); e i Medicamina faciei femineae («I cosmetici delle donne»), dei quali restano solo 100 versi.

Negli anni successivi Ovidio abbandona la poesia elegiaca per tentare un genere più “impegnato”. È in questo periodo, fra il 2 d.C. e l’8 d.C., che vedono la luce le sue opere di maggior respiro. Le Metamorfosi (il titolo latino è Metamorphòseon libri) sono un grande poema epico in quindici libri (il più breve di 628 versi, il più lungo di 968, per un totale di quasi 12.000 esametri: l’esilio ne ha impedito la revisione finale), in cui Ovidio, seguendo il motivo delle “trasformazioni”, passa in rassegna gran parte del patrimonio mitico tradizionale. Seguono poi i Fasti, calendario poetico in distici elegiaci, in cui il poeta, richiamandosi alle principali ricorrenze del calendario romano, descrive usi e tradizioni patrie (sul modello del IV libro di Properzio): l’opera, tuttavia, è rimasta interrotta a metà, comprendendo solo sei libri (ciascuno dedicato a un mese, da gennaio a giugno), per quasi 5.000 versi complessivi.

L’esilio provoca una nuova svolta nell’attività poetica di Ovidio, che ritorna all’elegia, abbandonando però la tematica erotica per ripiegare su una poesia consolatoria dal tono lamentoso e apologetico. Si tratta di quelle che sono comunemente definite appunto «opere dell’esilio» e che hanno le loro maggiori espressioni nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto, entrambe in distici elegiaci. I primi comprendono cinque libri, per un totale di quasi 3500 versi, sono scritti in parte (libro I) durante il viaggio a Tomi, per poi essere completata fra il 9 e il 12 d.C.: fra gli altri libri, che furono pubblicati separatamente, si segnala il II, che consiste in un’unica lunga elegia di autodifesa, di 578 versi. Dei quattro libri delle Epistulae ex Ponto (quarantasei elegie, per complessivi 3200 versi circa) i primi tre vedono la luce nel 13 d.C., mentre il quarto viene pubblicato probabilmente postumo.

A queste due opere principali sembra doversi aggiungere anche il poemetto di invettive Ibis (in distici elegiaci, per un totale di 322 versi), che risalirebbe agli anni 11-12.

Sotto il nome di Ovidio sono anche giunti componimenti di autenticità dubbia, come il frammento (in 135 versi) di un poema didascalico in esametri sulla pesca (Halièutica), o sicuramente spuri, come la Consolatio ad Liviam e l’elegia Nux. Oltre alla già citata Medea sono andate perdute di Ovidio varie poesie leggere, o d’occasione, e due poemetti per la morte o l’apoteosi di Augusto (dei quali uno in lingua getica, quella che si parlava a Tomi).

Scena erotica fra Satiro e Menade. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa degli Epigrammi (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

4. Una poesia nuova per una società mondana

Dopo Properzio, dopo Tibullo, nell’accostarsi a Ovidio si resta colpiti dalla vastità della sua produzione e dalla varietà dei generi poetici trattati. Quello che potrebbe sembrare un fatto esteriore, un puro problema di classificazione, è, in realtà, indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che coinvolgono o riflettono anche scelte esistenziali. L’adesione a un genere come l’elegia erotica non significa per Ovidio, al contrario che per i suoi predecessori, una scelta di vita assoluta, incentrata sull’amore; e soprattutto non vuol delimitare un orizzonte, non esclude altre esperienze poetiche. Diversamente, nei poeti d’amore, vincolati a una pratica poetica funzionale ai loro modi di vita, il motivo topico della recusatio esibiva una pretesa incapacità di attingere soggetti e toni poetici di maggior dignità, secondo un gesto letterario che comunque anche Ovidio utilizzerà, ma, appunto, come semplice posa. Quello sperimentalismo che lo porterà a tentare i generi poetici più diversi senza identificarsi in nessuno di essi è la conferma più vistosa dell’atteggiamento di Ovidio, che fa della pratica poetica come tale (non limitata cioè a questa o quella sfera, né subordinata ad altri valori) il centro della propria esperienza.

Questa forte autocoscienza letteraria si accorda, al tempo stesso, con la tendenza di Ovidio ad analizzare la realtà nei suoi aspetti più diversi, senza esclusioni, col suo atteggiamento eminentemente relativistico: contrario a scelte assolute, egli sa aderire alle varie facce della realtà, privilegiando quelle che gli sembrano più conformi al gusto, alle tendenze etico-estetiche del tempo e quelle sue proprie. Questo atteggiamento spiega il tratto più significativo della sua poesia, soprattutto quella giovanile, cioè l’accettazione convinta, spesso entusiastica, delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi; sebbene ciò non escluda, specie nelle opere della maturità e in quelle più impegnative, un atteggiamento più conciliante e l’apertura ai valori della tradizione.

Ultimo dei grandi poeti augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena letteraria quello spettro è ormai lontano, la pace è consolidata e cresce – con l’insofferenza per i modelli di vita arcaici proposti dal principatus – l’aspirazione a forme di vita più rilassate, a un costume meno severo, agli agi e alle raffinatezze che le conquiste orientali hanno fatto conoscere ai Romani e che informano la società mondana della capitale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete (senza tuttavia contrapporsi rigidamente al regime e alle sue direttive ideologiche: non convincono i ricorrenti tentativi di attribuire al poeta un ruolo di oppositore politico, un atteggiamento anti-augusteo), elaborando un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto, allo stile di vita informato dal cultus e dalle sue raffinatezze.

Questo avviene non solo sul piano dei contenuti, ma anche, e nondimeno, su quello formale. Anzitutto, la concezione della poesia che Ovidio ripetutamente manifesta si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, fortemente innovatrice rispetto alla tradizione classica, ovvero alla linea aristotelico-oraziana. Sotto questo aspetto, la poesia ovidiana dimostra una notevole “modernità” letteraria, che si rivela anche nel linguaggio adottato (ormai in larghissima misura quello della poesia da Catullo in poi); la produzione ovidiana, dunque, dicendosi autonoma dalla realtà, dichiara piuttosto – anzi esibisce – la propria natura letteraria e allude ai propri modelli. Ma questa “modernità” letteraria si rivela anche nelle altre qualità della scrittura di Ovidio, nello stile terso ed elegante, nella musicale fluidità del verso (egli, infatti, perfeziona il distico elegiaco, facendone il modello cui guarderanno tanti imitatori dei secoli successivi), nella ricchezza e audacia espressiva, caratteristica coltivata e affinata negli anni di brillante frequentazione delle scuole retoriche.

Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza di questa poesia sono anche l’espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita.

Marte accarezza il seno di Venere. Affresco, 20 a.C. c. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. L’esordio letterario: gli Amores, fra tradizione e innovazione

L’esordio poetico di Ovidio, che manifesta il suo straordinario talento letterario non ancora ventenne, è rappresentato dagli Amores. Si tratta di una  raccolta di elegie di soggetto amoroso, che mostra ancora ben visibili le tracce dei grandi modelli e maestri dell’elegia erotica, Tibullo e soprattutto Properzio. Anche Ovidio dà qui voce, in prima persona, ai temi tradizionali del genere elegiaco: accanto a poesie d’occasione (come l’epicedio per la morte di Tibullo) o di schietto stampo alessandrino (come l’elegia per la morte del pappagallo della sua donna), ci sono soprattutto avventure d’amore, incontri fugaci, serenate notturne, baruffe con l’amata, scenate di gelosia, proteste contro la sua venalità e i suoi capricci, le sue durezze e i suoi tradimenti, ecc. Ma accanto alla maniera, ai temi e ai toni della tradizione, si avvertono già nettamente i tratti nuovi, gli elementi propri e caratterizzanti dell’elegia ovidiana.

Anzitutto – ed è forse la novità più vistosa – manca una figura femminile attorno a cui si raccolgano le varie esperienze amorose, che costituisca, perciò, il centro unificante dell’opera e insieme della vita del poeta: i poeti d’amore precedenti, Catullo, Gallo, Properzio, avevano costruito la propria attività poetica attorno a un’unica donna, a un solo grande amore che di quell’attività costituisse il fine e il senso. Con Ovidio non è così: Corinna, la donna evocata qua e là con pseudonimo greco, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata, che si sospetta non avesse nemmeno una sua esistenza reale; non solo, il poeta stesso dichiara a più riprese di non sapersi appagare di un unico amore, di preferire due donne (II 10) o addirittura di subire il fascino di qualunque bella donna (II 4).

Come la figura della donna ispiratrice, che non ha i contorni netti di una protagonista e tende ad apparire un residuo, una funzione convenzionale del genere elegiaco, anche il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d’amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza. Il dramma di Catullo, di Properzio, la loro intensa avventura esistenziale, diventa in Ovidio poco più di un lusus (un «gioco»), e l’esperienza dell’eros è analizzata dal poeta con il filtro dell’ironia e del distacco intellettuale. Non meno significativa, in proposito, è la scarsa presenza negli Amores di un motivo centralissimo nella poesia elegiaca precedente, cioè il seruitium amoris, la professione di totale dedizione dell’amante all’amata, ai suoi voleri e ai suoi capricci: in Ovidio questo motivo ha una funzione assai limitata, mentre è notevole che un’intera elegia, e in posizione di spicco (I 2), sia dedicata alla professione di seruitium nei confronti di Amore (non è più, cioè, la singola donna, ma l’esperienza d’amore in sé che diventa centrale).

Inoltre, acquista anche peso, rispetto alla poesia elegiaca precedente, la coscienza letteraria del poeta (cfr. soprattutto I 15 e III 12), che si manifesta nell’insistenza sulla poesia come strumento di immortalità, come nei versi conclusivi di I 15:

 

perciò, anche quando il rogo funebre avrà consumato il mio corpo,

continuerò a esistere e gran parte di me sopravviverà,

 

e come autonoma creazione del poeta, svincolata dall’obbligo di rispecchiare il reale, come in III 12, 41-42:

 

la fertile fantasia dei poeti si dispiega senza limiti,

e non vincola le proprie parole alla fedeltà alla storia.

 

Pertanto, l’elegia ovidiana non si presenta più come subordinata alla vita, ovvero come suo fedele riflesso, ma rivendica il proprio primato, la propria centralità nell’esistenza del poeta.

Giovane donna al bagno, detta la “ragazza col bikini”. Mosaico, IV sec. d.C. ca., da Piazza Armerina, Villa del Casale.

6. La poesia erotico-didascalica e l’esaurirsi dell’esperienza elegiaca

La presenza negli Amores di alcune elegie di carattere didascalico (I 4 e più ancora I 8), che sviluppano spunti della poesia elegiaca precedente (Properzio I 10 e IV 5, Tibullo I 4), e lo svuotamento ironico dell’esperienza dell’eros subisce in misura sensibile già nella prima opera ovidiana, spiegano agevolmente il collegamento con il gruppo di opere erotiche (cronologicamente molto vicine) costituito da Ars amatoria, Remedia amoris e Medicamina faciei femineae. Si tratta di un vero ciclo di poesia didascalica, il cui stesso progetto, fondato sull’intenzione di impartire una precettistica sull’amore, sembra l’esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell’eros già delineata negli Amores, e caratterizzata da un progressivo distacco dell’esperienza amorosa, che porterà inevitabilmente all’esaurirsi della poesia elegiaca.

Un aggancio particolarmente importante fra le due opere, si è detto, è costituito dall’elegia I 8 degli Amores, dove il poeta rielabora un motivo già tradizionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l’astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli a una giovane donna sul modo migliore di mettere a frutto le proprie qualità con i vari pretendenti. Assai diverso però, al di là dei tratti convenzionali, è l’atteggiamento del poeta, ai cui occhi quella figura tanto deprecata della tradizione elegiaca (Properzio IV 5) appare sotto una luce sostanzialmente positiva: il suo smaliziato realismo, i suoi cinici avvertimenti, non suonano diversi dai precetti che lo stesso poeta impartisce all’amante nella sua opera didascalica. La lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore, perché analoga è la concezione dell’eros che le due opere presuppongono; solo, negli Amores il poeta, vincolato dalla convenzione elegiaca, è anche amante, è anche l’attore protagonista delle avventure d’amore, ruolo che deporrà nell’Ars per fungere compiutamente da «regista» della relazione erotica, da sapiente supervisore del gioco delle parti.

Poiché di questo, infatti, si tratta: la relazione d’amore, perduto agli occhi di Ovidio il suo carattere di passione devastante, costituisce ormai un gioco intellettuale, un divertimento galante, che va soggetto a un corpus di regole sue proprie, a un codice etico-estetico che è quello ricavabile dall’elegia erotica latina. Ruoli, situazioni, comportamenti sono tutti già previsti e codificati, sono «scritti» nei testi letterari cui i protagonisti della società galante devono guardare come a modelli esemplari: il ruolo di Ovidio, ormai, non può essere che quello di redigere un inventario dell’universo elegiaco, di scriverne il “libro di testo” alle cui norme uniformarsi.

Una matrona che dipinge la statua di Priapo. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa del Chirurgo, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Ars amatoria è un’opera in tre libri, in metro elegiaco, che impartisce consigli sui modi di conquistare le donne (I) e di conservarne l’amore (II); il III libro, aggiunto più tardi per risarcire scherzosamente le donne dal danno procurato loro coi primi due, fornisce viceversa insegnamenti su come sedurre gli uomini. Ovidio descrive i luoghi d’incontro, gli ambienti mondani della capitale (banchetti, teatri, spettacoli del circo, passeggiate), i momenti di svago e passatempo, le occasioni più varie della vita cittadina (l’opera è un documento importante su usi e costumi quotidiani di Roma) in cui mettere in atto la strategia della seduzione. La veste formale è quella del poema didascalico (i grandi modelli romani erano soprattutto Lucrezio e le Georgiche virgiliane), da cui Ovidio spiritosamente mutua moduli, movenze, schemi compositivi; l’andamento precettistico è interrotto qua e là da inserti narrativi di carattere mitologico e storico (quasi una prova delle future Metamorfosi) tesi a illustrare a mo’ di exempla la validità dei precetti impartiti.

La figura del perfetto amente delineata da Ovidio si caratterizza ovviamente per i suoi tratti di disinvolta spregiudicatezza, di insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale, dell’antico costume quiritario (Quirites era l’antico appellativo dei Romani), soprattutto in una sfera molto delicata come quella dell’etica sessuale e matrimoniale, a cui l’impegno restauratore di Augusto attribuiva particolare importanza: non è un caso che lo scandalo dell’Ars potesse, perciò, essere addotto come atto d’accusa ufficiale al momento della cacciata del poeta da Roma. In realtà, il carattere libertino e spregiudicato dell’opera, che ha attirato le critiche dei moralisti non solo antichi, non costituisce più che la veste scintillante, provocatoriamente seducente del testo: proprio nel suo farsi lusus, divertita avventura dell’intelletto, l’eros ovidiano perde ogni impegno etico, ogni velleità di ribellione contro la morale dominante.

L’assolutezza dell’eros come scelta di vita su cui fondare nuovi valori, una nuova morale, ovvero il tratto più “rivoluzionario” della poesia elegiaca, che era del resto presente già in Catullo, in Ovidio viene meno e si stempera così l’apparenza immorale dell’Ars, che finisce con l’accettare, dunque, i confini dell’etica tradizionale e delle sue convinzioni. In cambio di un’aperta rinuncia a ogni velleità conflittuale, l’eros ovidiano reclama solo una certa tolleranza, una zona franca, un settore del panorama sociale (il poeta si preoccupa più volte di delinearne lo spazio ristretto, quello degli amori libertini, escludendone la società rispettabile) in cui sospendere la severità di una regola morale ormai inadeguata al costume della metropoli ellenizzata.

Dialogo fra uomo e donna. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannio Sinistore, Boscoreale.

Senza nutrire velleità di ribellione, quindi, l’elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario (è questo l’aspetto più recentemente focalizzato dalla critica): nel negare l’impegno totalizzante della precedente poesia d’amore, nel neutralizzarne le spinte più aggressive, Ovidio tenta una sorta di “riconciliazione” della poesia elegiaca con la società in cui essa si radica, indicando nell’armoniosa complementarietà delle forme di vita, della sfera privata e di quella civile, la via migliore per un’appagata adesione al presente. In realtà, Ovidio individua lucidamente, e a suo modo cerca di sciogliere, una vistosa contraddizione della poesia elegiaca, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi, ma proprio dalla tradizione aveva mutuato alcuni dei suoi moduli più caratteristici. A questo atteggiamento contraddittorio, e tendenzialmente arcaizzante, della poesia elegiaca Ovidio contrappone i valori della modernità, l’accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea, della capitale del bel vivere e dei costumi, dello splendore urbanistico (aurea sunt vere nunc saecula: così egli argutamente rovescia il motivo dell’età dell’oro, caro a ogni rievocazione nostalgica del passato).

All’esaltazione convinta del cultus, degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto (di cui restano solo cento versi, in metro elegiaco) sui cosmetici per le donne (Medicamina faciei femineae), che si oppone al tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. L’operetta, esplicitamente messa dall’autore in rapporto con il terzo libro dell’Ars, intende aiutare le donne a perseguire i propri interessi amorosi attraverso alcuni consigli sulla cosmesi. Il testo, in cui, come per l’Ars, è evidente il recupero di moduli tipici della poesia didascalica, esibisce molti termini propri del linguaggio medico ed è forse ispirato a raccolte di ricette cosmetiche in uso nella Roma del tempo.

Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l’opera che – rovesciando alcuni precetti dell’Ars – insegna come liberarsi dall’amore. Era un motivo topico della poesia erotica che per il male d’amore non esiste medicina, e di questa condanna alle pene del cuore il poeta elegiaco sembrava come compiacersi, incapace di liberarsene ma intimamente anche orgoglioso della sua dedizione totale, della sua scelta di nequitia: Ovidio rovescia questa posizione affermando che dell’amore non solo si può, ma anzi ci si deve liberare se esso comporta sofferenza (egli riprende così un assunto della filosofia stoica ed epicurea che condannava l’amore come malattia dell’anima, e che aveva già ispirato il IV libro di Lucrezio). Un’opera come i Remedia, che insegna a guarire dall’amore, costituisce l’esito estremo della poesia elegiaca, e ne chiude simbolicamente la breve intensa stagione.

Donna che si pettina con specchio. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

7. Fra amore e mito: le Heroides

Se l’eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l’altra grande fonte della sua poesia è il mito; prima delle Metamorfosi, l’opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo (quello originario era probabilmente Epistulae heroidum) si designa una raccolta di lettere poetiche: la prima serie, 1-15, è scritta da donne famose, eroine del mito greco (ma c’è anche la Didone virgiliana, e soprattutto un personaggio storico, Saffo) ai loro amanti o mariti lontani: nell’ordine, Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Didone a Enea, Ipsipile a Giasone, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo, Saffo a Faone. La seconda serie, 16-21, è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: Paride ad Elena, Ero e Leandro, Aconzio e Cidippe. I due gruppi distinti (ma che nella tradizione sono sempre accomunati; ha invece tradizione a sé la lettera quindicesima, quella di Saffo, sulla cui autenticità si sono da sempre nutriti sospetti, ormai però quasi del tutto fugati) testimoniano due diverse fasi di composizione: molto difficile da datare la prima serie (si tende a farla coincidere con la composizione degli Amores, entro il 15 a.C., ma c’è chi propone dal 10 al 3 a.C.), probabilmente da collocare poco prima dell’esilio (cioè dal 4 all’8 d.C.) la seconda.

Ercole e Onfale si scambiano le vesti. Mosaico, III sec. d.C., da Llíria (Valencia). Madrid, Museo Arqueologico Nacional.

Si è detto dei sospetti sull’autenticità dell’epistola di Saffo; in verità, la quindicesima non è la sola lettera la cui paternità ovidiana sia stata messa in dubbio: di tanto in tanto qualche studioso, sulla base di presunte irregolarità metriche e stilistiche, o più genericamente, e discutibilmente, di presunte debolezze e difetti narrativi, torna ad approvare, in tutto o (soprattutto) in parte, il giudizio del Lachmann, che considerava spurie non solo le epistole doppie, ma anche tutte quelle che Ovidio non nomina esplicitamente in Amores II 18. In questa elegia è garantita l’autenticità di nove lettere, e cioè, nell’ordine, di quella di Penelope, Fillide, Enone, Canace, Ipsipile e/o Medea (viene infatti menzionato il nome del destinatario, Giasone, che è lo stesso per entrambe le epistole), Arianna, Fedra, Didone e Saffo (si capisce che i passi di Amores II 18, 26 e 34, in cui si accenna all’epistola di Saffo, sono variamente ritenuti non validi dai sostenitori dell’inautenticità dell’epistola stessa). Viene tuttavia da chiedersi, data la sostanziale inconsistenza della maggior parte degli attacchi alla paternità di alcune di queste Heroides, se mai tali attacchi sarebbero stati mossi, e se mai sarebbero stati mossi proprio a quelle e non ad altre lettere, se non ci fosse all’origine, a suscitare sospetti, il brano degli Amores: ma è chiaro, e tutti lo riconoscono, che nulla obbligava Ovidio in Amores II 18 a nominare tutte le epistole della sua raccolta.

Dell’originalità di quest’opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso (Ars amatoria III 345): in effetti non abbiamo testimonianza prima di lui di opere simili, cioè di raccolte di lettere poetiche di soggetto amoroso. L’idea della lettera in versi gli sarà venuta probabilmente da un’elegia dell’amico Properzio (IV 3, scritta da Aretusa al marito lontano Licota), più volte evocata nelle Heroides; il materiale letterario è variamente tratto soprattutto dalla tradizione epico-tragica greca, ma accanto ai modelli più lontani sono presenti anche Callimaco e la poesia ellenistica nonché quella latina, in particolare Catullo e Virgilio.

Se personaggi e situazioni appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni, lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà, accuse di tradimento, ecc. Ad esempio, tra le epistole che più risentono del modello elegiaco (quanto a temi, situazioni, atteggiamenti), c’è quella di Fedra a Ippolito, in cui l’eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtiuus amor e disinvolta assertrice di una nuova morale sessuale, beffardamente insofferente delle antiche convenzioni. Un altro degli aspetti più interessanti delle Heroides consiste proprio nella maniera in cui materiali narrativi tratti dalla tradizione epica (i poemi omerici, l’Eneide virgiliana, le Argonautiche di Apollonio Rodio) e tragica (la tragedia attica soprattutto) vengono riscritti secondo le regole del genere elegiaco. Questa “riscrittura” non comporta solo un adeguamento formale, ma anche un’operazione di sistematica deformazione e reinterpretazione dei testi presi a modello. Il codice elegiaco agisce come una sorta di “filtro” che riduce al proprio linguaggio ogni altro possibile tema, imponendo un taglio “elegiaco” a storie di eroine dell’epica o del dramma. Le divergenze rispetto ai modelli diventano così i segnali più evidenti della nuova codificazione letteraria, che comporta, peraltro, un ricorrente confronto ironico fra la prospettiva limitata del personaggio e la verità della storia mitica.

Ippolito e Fedra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ovidio nelle Heroides fa del modello elegiaco un filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito. Ma la modellizzazione elegiaca non sta tanto in materiali e tecniche narrative (e neppure solo nel tema unificante dell’amore); essa agisce piuttosto come una prospettiva che seleziona e riduce al proprio linguaggio ogni altro possibile tema: è un’ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli «elegiaci» sul materiale narrativo dell’epos, della tragedia, del mito. È un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente.

Così, nella settima epistola, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali nella sua intenzione persuasiva (convincere Enea a non partire): così si spiega tra l’altro l’insistenza su un’ipotesi come quella della gravidanza (7, 133 ss.), che rovescia la formulazione del motivo nell’Eneide, dove si trattava di una speranza dolorosamente delusa. Nell’epistola nona l’arrivo della concubina di Ercole, Iole (9, 121 ss.), è descritto dalla Deianira ovidiana in termini che contraddicono sistematicamente tutti i tratti che si trovano nella corrispondente scena delle Trachinie sofoclee. Spesso gli stessi eventi vengono interpretati e valutati in maniera diversa e anche opposta a seconda dei diversi punti di vista e delle diverse istanze persuasive delle varie eroine: un caso particolarmente vistoso si può osservare nelle epistole di Ipsipile e di Medea, le due rivali nell’amore di Giasone, ma un buon esempio è anche il modo in cui è considerato da diversi punti di vista un evento come la guerra di Troia, o un personaggio come Enea.

Ricodificando in termini elegiaci storie di eroine dell’epica e del dramma, non nate “dentro” e “per” il codice elegiaco, Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né antico né moderno, né epico o tragico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. L’operazione di riscrittura ovviamente comporta spesso significative deformazioni dei modelli; le divergenze diventano i segnali più evidenti della nuova codificazione letteraria.

Ercole e Iole. Mosaico, dal Ninfeo di Ercole (Parco Archeologico della Villa Imperiale di Nerone, Anzio). Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme

Certo, la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, in particolare per quanto riguarda le epistole della prima serie: le varie lettere si configurano come monologhi (sono testi «chiusi», non attendono risposta) costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il «lamento della donna abbandonata» (un riferimento obbligato era in un celebre epillio latino, l’Arianna del Carme 64 di Catullo). La struttura della lettera non permetteva molte variazioni: data per nota al lettore colto la situazione di partenza, l’andamento monologico (con l’alternanza delle varie fasi, dalla ricorrente disperazione dell’eroina all’invocazione del ritorno dell’amato, all’esortazione a mantener fede alle promesse: è evidente l’influsso dell’esercizio retorico delle suasoriae) è solo interrotto qua e là da qualche flash-back della memoria, che evoca narrativamente vicende lontane, ma manca di uno sviluppo dinamico, drammatico.

Ogni epistola si vuole inserita in un ben determinato taglio temporale, un istante fecondo che si determina in un continuum narrativo; il continuum è garantito dal richiamo di noti modelli, testi letterari, o più in generale mitologici.

Per un evidente motivo di economia drammatica, le epistole sono molto più interessanti se hanno sufficiente gioco non solo verso il passato, ma anche verso un futuro non ancora deciso. Ora, ovvie ragioni di verosimiglianza esigono che il personaggio che scrive possa far riferimento a eventi passati, ma che del suo futuro sia ignaro. Dal preannuncio di eventi futuri si può quindi far carico solo l’autore (onnisciente, ma “fuori del testo”); egli, non potendo intervenire in proprio, si serve dello strumento dell’ironia per inserirsi nelle pieghe della voce del personaggio medesimo. E così il ricorso all’ironia tragica diventa il mezzo con cui più spesso nelle Heroides Ovidio si serve per ovviare alla contrazione dello spazio narrativo. “Sdoppiando”, senza violare lo statuto della forma epistolare, la voce del personaggio, egli può introdurre surrettiziamente anche la propria voce e allargare così la prospettiva ristretta dell’eroina verso una visione sinottica del mito, verso una narrazione sintetica ma completa. Spetta poi alla collaborazione del lettore, alla sua competenza letteraria ricomporre in unità i vari segmenti della linea narrativa colmando le lacune che li separano. Viene così spesso ad avere un ruolo di primo piano il gioco delle cronologie: Ovidio riesce a trarre notevoli effetti dal rapporto che intercorre tra il tempo del modello (il tempo durativo della storia) e il tempo della lettera (il tempo-momento in cui il lettore immagina che l’eroina stia scrivendo).

Alexandre Cabanel, Fedra. Olio su tela, 1880.

Le epistole “doppie” danno a Ovidio nuove possibilità. In primo luogo, la nuova formula consente un confronto di punti di vista diversi sulla stessa realtà, confronto che può rivelarsi talvolta molto interessante (come nei casi di Paride-Elena e, in particolare, di Aconzio e Cidippe, la cui coppia epistolare sembra costituirsi come una vera e propria controversia giuridica), ma soprattutto permette una maggiore libertà di movimento, un campo narrativo più ampio. Inoltre, le tre coppie finali forniscono, grazie al rispettivo contesto drammatico, una piena motivazione della forma epistolare (che non si può certo dire fosse sempre presente nelle epistole singole: basti pensare a un caso limite come quello di Arianna, che scrive dalla spiaggia deserta di Nasso): lo scambio di lettere non è più una forma narrativa gratuita, condannata a tradire, come spesso nelle epistole della prima serie, la sua natura artificiosa, o il difetto di verosimiglianza, ma diventa parte integrante dello sviluppo drammatico della storia (è riconoscibile anche in questa contrapposizione di due punti di vista una certa affinità con le controuersiae retoriche).

C’è ancora un altro aspetto da sottolineare. Le Heroides propriamente sono poesia del lamento, sono l’espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall’amato, o anche solo la sua disaffezione, la temuta tiepidezza del suo amore, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle Heroides: c’è la sofferenza di Laodamia per la brusca separazione, causa la guerra, da Protesilao; o quella tutta particolare di Fedra, o infine quella di Canace e Ipermestra, vittime ambedue della spietata violenza paterna. Le eroine soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche, se non soprattutto, in quanto donne. È questa la condizione comune (condizione di per sé sufficiente) che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla propria debolezza, dall’inferiorità di chi deve subire senza potersi imporre. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alle proprie origini di poesia del dolore e del lamento: si pensi alla frequenza di termini chiave del lessico elegiaco come queri, querimonia e simili. Sono soprattutto le parole di Saffo a dar voce al rapporto quasi obbligato tra il verso elegiaco e la condizione delle eroine infelicemente innamorate: flendus amor meus est: elegi quoque flebile carmen («devo piangere il mio amore, e l’elegia è un canto lacrimoso»).

Un tratto rilevante di quest’opera, in confronto al resto della produzione giovanile ovidiana, è l’assai più ampio spazio concesso ai toni patetico-tragici rispetto al lusus, cioè a quell’atteggiamento ironicamente distaccato tipico soprattutto del poeta dell’Ars amatoria. Ma se la spinta alla “modernizzazione” dell’antico materiale letterario, e alla sua riduzione al registro elegiaco, è talora evidente, non è questo l’aspetto più tipico delle Heroides, in cui resta forte la tendenza al pathos.

Pertanto, l’operazione di “riscrittura” compiuta da Ovidio, nel riprendere i grandi soggetti della tradizione letteraria, non solo privilegia situazioni e aspetti funzionali al nuovo contesto, ma rielabora anche quei testi spostandone la prospettiva e dando voce alla donna e alle sue ragioni, fino ad allora, perlopiù, inespresse o sacrificate. Nell’approfondimento della psicologia femminile (tratto fortemente influenzato dal modello euripideo) è anzi proprio uno degli aspetti più notevoli delle Heroides.

Jean-Joseph Benjamin-Constant, Elena vincitrice. Olio su tela, 1883.

8. Le Metamorfosi: forma e significato di un progetto ambizioso

Dopo Virgilio, che con l’Eneide aveva realizzato il grandioso progetto di un poema di tipo omerico, di un epos nazionale per la cultura romana, nel tradurre in atto le sue ambizioni di un’opera ormai di grande impegno (dopo la poesia d’amore che gli aveva dato il successo) Ovidio segue un’altra direzione. La veste formale sarà sì quella dell’epos (l’esametro ne è il marchi distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello, d’ispirazione esiodea (Teogonia, Catalogo), è quello di un «poema collettivo», che raggruppi cioè una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Questo tipo di poesia aveva trovato fortuna nella letteratura ellenistica: vi si ispiravano, ad esempio, gli Aitia di Callimaco (una serie di saghe eziologiche, in metro elegiaco) e un poema, per noi perduto, in esametri di Nicandro di Colofone (II sec. a.C.) che raccoglieva appunto storie di metamorfosi.

Al tempo stesso, però, proprio mentre opera questa scelta di poetica alessandrina (nei contenuti e nella forma che li organizza), Ovidio rivela anche l’intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Questo sembra dire il brevissimo (e perciò più carico di senso) proemio (I 1-4):

 

In noua fert animus mutatas dicere formas

corpora: di, coeptis (nam uos mutastis et illas)

adspirate meis primaque ab origine mundi

ad mea perpetuum deducite tempora carmen!

 

L’animo mi spinge a narrare il mutare delle forme in corpi

nuovi: o dèi, se vostre queste metamorfosi,

ispirate il mio progetto, così che il canto dalle origini del mondo

si snodi ininterrotto sino ai miei giorni!

Anton von Werner, Ritratto di P. Ovidio Nasone, da Bibliothek des allgemeinen und praktischen Wissens. Bd. 5 (1905), s. 51.

Ovidio prega ritualmente gli dèi di ispirarlo nello scrivere un poema di metamorfosi (mutatas…formas), ma alla maniera dell’epos (perpetuum deducite… carmen: termini tutti «occupati» nel lessico della polemica letteraria di scuola callimachea). La grande ambizione di Ovidio è quindi quella di realizzare un’opera universale, al di sopra dei limiti segnati dalle varie poetiche.

Andava in questa direzione lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio), che realizzava così un progetto da tempo vagheggiato e solo abbozzato nella cultura latina (vi si richiamava la VI egloga virgiliana), e rispondeva anche, in qualche maniera, a una tendenza diffusa: la sintesi di storia universale (in un momento in cui Roma dominava la scena del mondo), particolarmente legata alla storiografia ellenistica.

Questo impianto permetteva a Ovidio di muoversi anche su terreni meno lontani dagli orientamenti del principato e di rispondere anzi, a suo modo, alle esigenze augustee, facendo del nuovo regime il culmine e il coronamento della storia del mondo (notevole, in proposito, la sua «piccola Eneide» nella sezione finale del poema, concepita a margine del testo virgiliano, di cui colma alcune ellissi narrative sviluppando episodi funzionali al contesto).

All’interno dei due estremi cronologici (le origini del mondo e i tempi di Ovidio, la struttura in cui si dispongono i contenuti è necessariamente flessibile: le circa 250 vicende mitico-storiche narrate nel corso del poema sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile (diventerà più sensibile, com’è ovvio, quando dall’età vagamente acronica del mito si entrerà nella storia, con gli ultimi libri) per lasciar spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate, ad esempio, per contiguità geografica (come le saghe tebane, dal III libro in avanti), o per analogie tematiche (come gli amori degli dèi, le loro gelosie, le loro vendette), o invece per contrasto (vicende di pietà contrapposte ad altre di empietà), o per semplice rapporto genealogico fra i personaggi, o ancora per analogia di metamorfosi, e così via.

Frederick George Watts, Chaos. Olio su tela, 1875-82. London, Tate Collection.

Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e la rigenerazione del genere umano grazie a Deucalione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dèi e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci: di Apollo e Dafne, con la metamorfosi di questa in lauro; di Giove e Io, custodita da Argo con i suoi cento occhi (I); di Fetonte, che precipita col carro del sole e provoca l’incendio del mondo (II); di Atteone tramutato da Diana in cervo e sbranato dai suoi cani; di Narciso, che sdegna l’amore di Eco e si consuma d’amore per se stesso; dell’empio Penteo punito da Bacco (III). Segue poi l’amore tragico di Piramo e Tisbe, quello di Salmacide per Ermafrodito; Perseo che salva Andromeda dal mostro marino (IV); il ratto di Proserpina e le metamorfosi di Ciane e Aretusa (V); poi le gelosie degli dèi, con la vendetta di Minerva su Aracne tramutata in ragno; con l’eccidio dei figli di Niobe; la cupa storia di Tereo, Procne e Filomela (VI); gli incantesimi di Medea; l’equivoco tragico di Cefalo e Procri (VII); il volo fatale di Dedalo e Icaro; Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio; la pietà premiata di Filemone e Bauci e l’empietà punita di Erisittone (VIII); le imprese di Ercole e l’amore incestuoso di Biblide (IX); poi la vicenda di Orfeo ed Euridice che incastona altre storie d’amore: Ciparisso, Giacinto, Pigmalione, Mirra, Venere e Adone, ecc. (X). Con le nozze di Peleo e Teti, cui segue la patetica storia d’amore coniugale di Ceice e Alcione (XI), siamo ai margini della fluida cronologia mitica: i personaggi della guerra troiana ci introducono nella storia per arrivare fino all’età di Augusto.

Si narrano quindi le imprese di Achille e la battaglia fra Lapiti e Centauri (XII); poi la contesa per le armi fra Aiace e Ulisse, la serie dei lutti troiani e l’amore di Polifemo per Galatea (XIII). Sulle tracce dell’Odissea e poi delle vicende di Enea (anche Ovidio vuol comporre una sua piccola Eneide, senza sovrapporsi al testo virgiliano) la scena si sposta nell’antico Lazio, con le sue saghe e le sue divinità agresti (Pomona e Vertumno). Ormai siamo a Roma con i suoi re (XIV): mediante Numa è introdotto Pitagora e il suo lungo discorso sulla metamorfosi come legge universale (che dovrebbe costituire la base filosofica del poema); l’apoteosi di Cesare, ultimo degli Eneadi, e la celebrazione di Augusto concludono questa «storia del mondo» (XV), mentre gli ultimi versi proclamano l’orgogliosa sicurezza del poeta di aver attinto l’immortalità della fama.

Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono già le dimensioni delle storie narrate, oscillanti dal semplice cenno allusivo, fortemente ellittico, allo spazio di qualche centinaio di versi, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. Diversi soprattutto sono i modi e i tempi della narrazione, che indugia sui momenti salienti, si sofferma sulle scene e sugli eventi drammatici, come è in genere l’atto stesso della metamorfosi, minuziosamente, curiosamente descritta nel suo progressivo realizzarsi. La sapienza narrativa di Ovidio si rivela poi nella cura con cui sono accostate o alternate storie di contenuto e carattere diverso: catastrofi cosmiche e delicate vicende d’amore, violente scene di battaglia e patetiche novelle di amore infelice, torbide passioni incestuose e commovente eros coniugale, ecc. A quella dei temi e dei toni si accompagna anche la mutevolezza dello stile, ora solennemente epico, ora liricamente elegiaco, ora riecheggiante moduli di poesia drammatica o movenze bucoliche: le Metamorfosi sono anche una sorta di galleria dei vari generi letterari.

Ovidio non tende all’unità e all’omogeneità dei contenuti e delle forme, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà; tende soprattutto alla continuità della narrazione, al suo armonioso e fluido dipanarsi. Ne dà prova la stessa tecnica di divisione fra i vari libri del poema: diversamente dall’Eneide virgiliana, dove il singolo libro è dotato di una sua relativa compiutezza e autonomia, la cesura fra i vari libri delle Metamorfosi cade per lo più proprio nei punti «vivi», nel mezzo di una vicenda, a sollecitare e tener desta la curiosità del lettore anche nelle pause del testo, a non allentare la tensione narrativa.

Abraham Bloemaert, Mercurio, Argo e Io. Olio su tela, 1592.

Proprio allo scopo di tenere viva la tensione del racconto, è importante anche la stessa tecnica di narrazione delle varie storie: non solo, come si è detto, l’ordinamento cronologico è in genere piuttosto vago, ma viene continuamente perturbato dalle ricorrenti inserzioni narrative proiettate nel passato. Ovidio, il narratore principale, fa frequente ricorso alla tecnica, già alessandrina, del racconto “a incastro”, che gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende incastonandone una o più all’interno di un’altra usata come cornice. Spesso sono comunque gli stessi personaggi a impadronirsi della narrazione per raccontare altre vicende all’interno delle quali può ancora riprodursi lo stesso meccanismo, in una proliferazione ininterrotta di racconti (interi libri sono costruiti secondo questa tecnica: particolarmente complessa la costruzione del X e soprattutto del V).

Oltre a variare la forma di esposizione, questa complicazione della sintassi narrativa produce, col moltiplicarsi dei livelli e delle voci narranti, come effetto di vertigine, di fuga labirintica: il racconto sembra germogliare continuamente da se stesso e allontanarsi in una prospettiva infinita, in una dimensione al di fuori del tempo. Ma la tecnica del racconto nel racconto ha anche un’altra funzione, quella di permettere al poeta di adattare talora toni, colore, stile del racconto alla figura del personaggio narrante: è il caso, ad esempio, della storia solennemente epica del ratto di Proserpina raccontata proprio da Calliope, la musa dell’epos.

La metamorfosi, la trasformazione di un essere umano in animale, in pianta, in statua o in altra forma, era un tema presente già in Omero ma caro soprattutto, come s’è accennato, alla letteratura ellenistica (oltre a Nicandro, ne avevano trattato Partenio di Nicea e altri), della quale soddisfaceva anche un gusto caratteristico, quello dell’eziologia, della dotta ricerca delle cause (nel senso che la metamorfosi descrive l’origine delle cose e degli esseri attuali da una loro forma anteriore: e Ovidio insiste sulla continuità, sui tratti comuni fra la vecchia e la nuova forma).

Nel poema ovidiano, come si è detto, la metamorfosi è il tema unificante fra le tante storie narrate: il poeta cerca anche, nel libro conclusivo, di dare retrospettivamente dignità filosofica alla sua opera (e insieme accentuarne l’unitarietà) mediante il lungo discorso di Pitagora che indica nel mutamento (omnia mutantur, nil interit, XV 165) la legge dell’universo, cui l’uomo deve docilmente adeguarsi (ecco perciò, conseguente alla teoria della metempsicosi, l’esortazione al vegetarianismo). Ma su questa eclettica filosofia della storia (fatta di una base pitagorica che accoglie elementi stoici e platonici) Ovidio non sembra molto impegnarsi, e non troppo convinto pare il suo tentativo di fornire un’interpretazione filosofica al poema.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625, Roma, Galleria Borghese.

In realtà, anche se la metamorfosi costituisce il tema unificante (ma in alcune storie non compare nemmeno, o ha spesso una funzione molto marginale), l’argomento centrale dell’opera è rappresentato dall’amore, che di tutta la poesia ovidiana precedente era stato la fonte ispiratrice. Certo, l’amore non è più ambientato nella vita quotidiana, nella Roma della società mondana (che peraltro Ovidio fa spesso profilare sullo sfondo, con arguti sfasamenti anacronistici), ma – come già per le Heroides – nell’universo del mito, nel mondo degli dèi e dei semidei, dei grandi eroi.

Alla dimensione mitica non corrisponde però un ethos idealizzante, una grandezza o solennità di valori. Il mito non ha per Ovidio la valenza religiosa, la profondità che ha per Virgilio: in ciò egli accentua una tendenza già insita nella cultura ellenistica e fa del mito, della figure che lo popolano, un ornamento della vita quotidiana, il suo decorativo scenario. Accade così che le divinità della tradizione religiosa greco-romana siano assimilate alla dimensione terrena e agiscano sotto la spinta di sentimenti e passioni assolutamente umane, spesso non delle più nobili. Amori, gelosie, rancori, vendette sono gli impulsi che li agitano e da cui gli esseri umani, vittime del loro capriccioso potere, vengono travolti.

In realtà, il mondo del mito, per il letteratissimo Ovidio, è anzitutto il mondo delle finzioni poetiche: e le Metamorfosi, la sua opera che più di ogni altra alla fonte del mito si alimenta, che ne costituirà una sorta di grandiosa enciclopedia per i futuri millenni, sono anche una summa compendiaria di testi, di uno sterminato patrimonio letterario che va da Omero ai tragici greci e latini, alla vasta e molteplice letteratura ellenistica fino ai poeti della Roma di Ovidio. Di questa sua natura complessa, intertestuale, il poema ovidiano è cosciente e orgoglioso, e ama esibire con frequenza le proprie ascendenze, le fonti della propria memoria poetica.

Tale compiaciuta consapevolezza della propria letterarietà si traduce naturalmente anche in distaccato sorriso sul carattere fittizio dei propri contenuti, in garbata ironia sull’inverosimiglianza delle leggende narrate. Il poeta che tante volte ha scherzato sulla fecunda licentia uatum (Amores III 12, 41) sorride qua e là sulla credibilità di ciò che racconta, sulla congenita infedeltà al vero da parte dei poeti: nello scettico distacco dai suoi contenuti, dal mondo della veneranda tradizione mitologica cui si ispira, è il narcisistico trionfo di questa poesia che vuole intrattenere e stupire.

Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus Aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum

Il carattere fondamentale del mondo descritto dalle Metamorfosi è la sua natura ambigua e ingannevole, l’incertezza dei confini fra realtà e apparenza, fra la concretezza delle cose e l’inconsistenza delle apparenze. I personaggi del poema si aggirano come smarriti in questo universo insidioso, governato dalla mutevolezza e dall’errore: travestimenti, ombre, riflessi, echi, parvenze sfuggenti, sono le trappole in mezzo alle quali gli esseri umani si muovono, vittime del gioco del caso o del capriccio degli dèi. Il loro incerto agire, la naturale attitudine umana all’errore, costituiscono l’oggetto dello sguardo ora commosso ora divertito del poeta, lo spettacolo che il poema rappresenta. (La lingua stessa, lo stile, si prestano a mostrare la natura ambigua delle cose: esibendo la sua connaturata doppiezza, anche il linguaggio rivela la sua pericolosità, lo scarto fra l’illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è).

I personaggi agiscono seguendo ognuno un proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà: il poeta, solo depositario del «punto di vista vero», analizza questa moltiplicazione delle prospettive, segue i personaggi sulla strada che li allontana progressivamente dalla realtà mostrando al lettore l’esito fatale che li attende. Rifiutando l’impersonale oggettività del poeta epico, il narratore delle Metamorfosi interviene spesso per commentare il corso degli eventi, per chiamare in causa il lettore – interrompendo la finzione narrativa – a condividere il suo ironico distacco, il suo divertito sorriso.

Al carattere spettacolare di questo universo, caratterizzato da eventi straordinari, meravigliosi, corrisponde anche una tecnica narrativa che, come s’è accennato, privilegia i momenti salienti di quegli eventi, ne isola singole scene sottraendole alla loro dinamica drammatica e fissandole nella loro plastica evidenza. È notevole in tal senso l’insistenza sulla percezione soprattutto visiva della realtà, che si avverte in maniera particolare nella descrizione dell’evento più ricorrente del poema, la metamorfosi. Questa è generalmente caratterizzata dai tratti del «meraviglioso» ed è messa in scena «sotto gli occhi» di qualcuno: Ovidio la descrive soffermandosi sulle fasi intermedie del processo, sui confini incerti fra la vecchia e la nuova forma, sul paradosso dello sdoppiamento fra il nuovo aspetto e l’antica psicologia degli esseri soggetti al mutamento.

Nella sua natura eminentemente visiva, nella sua immediata evidenza plastica (qualità che contribuisce a spiegare la sua immensa fortuna di modello per le arti figurative), questa poesia curiosa dei paradossi che si annidano nella realtà, amante della spettacolarità spesso nelle sue forme più orrende, anticipa caratteri importanti del gusto letterario del nuovo secolo, del «manierismo» imperiale.

Narciso alla fonte. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Loreo Tiburtino, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

9. I Fasti: Ovidio e il regime augusteo

I Fasti sono certamente l’opera ovidiana meno lontana dalle tendenze culturali, morali, religiose del regime augusteo. Sulle orme dell’ultimo Properzio, delle sue «elegie romane», anche Ovidio si impegna sul terreno della poesia civile: il progetto è quello di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano (1, vv. 1-2: «Le date festive fissate nell’anno latino io canterò; / canterò le loro origini e gli astri che sorgono e tramontano sotto la linea dell’orizzonte»). Erano quindi previsti dodici libri (in distici elegiaci), ognuno per un mese dell’anno, ma l’improvvisa relegazione del poeta interruppe a metà l’opera (al VI libro, cioè al mese di giugno), che fu parzialmente rivista negli anni dell’esilio.

Al di là del precedente immediato di Properzio, l’opera deve molto soprattutto al modello, comune ai due poeti, degli Aitia callimachei, sia nella tecnica compositiva che nel carattere appunto eziologico, di ricerca delle “cause”, delle origini della realtà attuale dal mondo del mito. Più ancora del poeta amico (Properzio IV 1, 64) Ovidio stesso vuol farsi il Callimaco romano, facendo un’opera compiuta, un nuovo genere poetico, di quelle che in Properzio erano prove sperimentali alternate al consueto argomento erotico. In questa nuova veste di vate celebratore dell’idea di Roma, Ovidio si impegna in dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie: da Verrio Flacco (il grammatico autore di un commento al calendario romano), Varrone, Livio (il principale storico dell’età augustea) e altri ancora Ovidio attinge una vastissima messe di dottrina antiquaria, religiosa, giuridica, astronomica che trova impiego nell’illustrazione di credenze, riti, usanze, nomi di luoghi, in quella riscoperta delle antiche origini che costituiva un indirizzo fondamentale dell’ideologia augustea.

Ma naturalmente l’adesione di Ovidio al programma culturale del regime, nonostante la sua insistenza sulla funzione propria della poesia civile (Fasti II 9-10), resta piuttosto superficiale: sullo sfondo di carattere antiquario (che fa dei Fasti un documento di eccezionale importanza sulla cultura romana arcaica) egli inserisce materiale mitico di origine greca (come le leggende di Proserpina e di Callisto, trattate anche nelle Metamorfosi) o di carattere aneddotico, con frequenti accenni alla realtà e alle vicende contemporanee. Ciò gli permette di ovviare ai limiti imposti dalla natura del poema, di sottrarsi ai condizionamenti di un arido «calendario in versi», e soddisfare ad esempio, in certi momenti idillici, il suo gusto per il pathos delicato, o di far spazio all’elemento erotico, con qualche tratto di sapido realismo, e più in generale ai toni giocosi, ironici, al suo sorridente scetticismo di fronte al mito.

Calendario rurale (Fasti PraenestiniCIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Questa interpretazione dei Fasti tende ad alleggerire il poema da qualsiasi responsabilità verso l’ideologia augustea: Ovidio (come ha scritto un critico recente a nome di molti altri) pagherebbe «stancamente il suo debito facendo il proprio dovere di ciuis Romanus». È un’interpretazione che si sposa bene con l’interesse moderno per i Fasti come «fonte» di preziose informazioni antropologiche: l’Ovidio usato dall’antropologo inglese Frazer è sostanzialmente solo un tramite di storie tradizionali, e non ha molta importanza l’atteggiamento del poeta verso la tradizione. Ma studi ancora più recenti suggeriscono qualche cautela. L’uso che Ovidio fa dello schema eziologico risulta essere assai più malizioso di quanto si era pensato: il poeta gioca con il suo compito di antiquario (precisamente secondo la lezione di Callimaco, che non è solo formale, ma anche di forma dei contenuti e di «crisi del sapere»). Non è detto che la malizia del poeta si fermi al confine con l’ideologia augustea, al di qua di essa, senza giungere a toccarla; nessuno può dimenticare quale parte importante abbia la ricostruzione del passato nel progetto ideologico di Augusto. Così, quando Ovidio decostruisce e mette in dubbio il rapporto fra presente e passato, il gioco minaccia di diventare serio. È la Romanità espressa dal calendario che viene insidiata e decentrata. La vera lacuna del poema – ovviamente dal punto di vista del principe – non è che Ovidio non riesca a prendere sul serio Augusto, ma (come è stato osservato) che non riesce a prendere sul serio Romolo. I Fasti sono un poema su cui c’è ancora molto da indagare, sotto il profilo ideologico-letterario, e viene il dubbio che la critica sia stata frettolosa nel separare la forma dal contenuto del poema, e il poema da tutto il resto del corpus ovidiano.

 

10. Le opere dell’esilio

L’improvviso allontanamento da Roma segna, com’è naturale, una brusca frattura nella carriera poetica di Ovidio. Lui più di altri doveva accusare la separazione dalla capitale, dalla società cui la sua poesia si rivolgeva, e di cui in gran parte si era alimentata, dagli ambienti mondani e letterari (era ormai da tempo il massimo poeta vivente): dal centro della scena si trova confinato ai margini dell’impero, in mezzo a un popolo primitivo che non parla nemmeno latino. Abituato al successo, all’appagante ammirazione di un pubblico sedotto dal suo virtuosismo, di colpo Ovidio si ritrova solo, a comporre poesia per se stesso; e la sua condizione di artista senza pubblico, senza contatto col destinatario, gli ispira la malinconica immagine di uno che danza al buio (Epistulae ex Ponto IV 2, 33 s.).

In questa condizione nuova e dolorosa Ovidio compone due opere di una certa rilevanza, i Tristia e le Epistulae ex Ponto, e un’operetta di carattere particolare, l’Ibis (tutte in distici elegiaci).

La prima opera scritta lontano da Roma – e inviata non senza esitazione, come mostrano soprattutto le elegie proemiali del I e del III libro – è la raccolta dei Tristia, cinque libri la cui cifra comune, esplicitamente sottolineata (V 1, 5 flebilis ut noster status est, ita flebile carmen, «come la nostra condizione è lamentevole, così è la nostra poesia»), è il lamento sull’infelice condizione del poeta esiliato; con pari insistenza ricorre l’appello agli amici e alla moglie per ottenere, se non una remissione completa della pena, almeno un cambiamento di destinazione: le ripetute espressioni di rimpianto per la patria infinitamente lontana, le diffuse descrizioni dell’inospitale e squallido paesaggio circostante, dei pericoli per le continue scorrerie dei barbari, della desolazione di un’esistenza privata della sua linfa vitale, mirano a suscitare un «movimento d’opinione» che possa far concedere al poeta esiliato le condizioni minime perché resti se stesso.

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Le elegie del I libro ripercorrono i momenti del commiato da Roma e del lungo viaggio verso Tomi, la traversata invernale dell’Adriatico e dell’Egeo, con le tempeste che rendono più difficile e angosciosa la navigazione. Il II libro, costituito da un’unica perorazione rivolta ad Augusto, deve scagionare l’elegia erotica ovidiana dall’accusa di immoralità: notevole anche per le questioni critico-letterarie che investe, questa autodifesa puntigliosamente argomentata passa in rassegna sub specie amoris i principali generi letterari sia greci che latini. Nei libri successivi si fanno più numerose le elegie rivolte ad un destinatario preciso, non esplicitamente nominato, ma indicato talvolta attraverso segnalazioni indirette: un altro aspetto di quell’incertezza che il poeta caduto in disgrazia e lontano dal suo pubblico nutre riguardo alle possibili reazioni provocate dai suoi versi.

La forma epistolare caratterizza decisamente le elegie raccolte nei quattro libri dell’altra raccolta dell’esilio, detta perciò Epistulae ex Ponto. Questa accentuazione del carattere epistolare si manifesta in vari modi: nell’uso regolare delle formule proprie del genere (come a inizio e in chiusura di lettera), nel riferimento alle lettere inviate in risposta dai destinatari (ormai tutti menzionati espressamente: la cautela dei Tristia non sembrava più necessaria) e soprattutto nell’infittirsi di una serie di tòpoi ricorrenti appunto nella letteratura epistolare (l’insistenza sulla lettera come colloquio fra amici lontani, l’illusione della presenza nonostante il distacco, il conforto fornito da questo strumento di comunicazione che lenisce la solitudine dell’esule, ecc.).

Le Epistulae rivelano in tal senso interessanti analogie con l’altra opera ovidiana di carattere epistolare, le Heroides (ad esempio nel parallelismo fra la lontananza sofferta dalla donna abbandonata e dal poeta esiliato), ma va notata, più in generale, nelle due opere maggiori dell’esilio la consapevole riscoperta dell’elegia come poesia del pianto, del lamento, quasi un ritorno alle funzioni originarie che nella letteratura greca si attribuivano a questo genere tanto caro a Ovidio, e ora reso tragicamente attuale nella sua forma più autentica dall’esperienza del dolore. Costretto a diventare oggetto della sua poesia (sumque argomenti conditor ipse mei, Tristia V 1, 10), il brillante cantore della mondanità romana, che stringendo con il lettore un patto di ammiccante complicità si era divertito a trattare con un distaccato sorriso tutto l’universo delle finzioni letterari, proclama ora l’assoluta autenticità della sua materia poetica, e recupera i più famosi paradigmi mitologici per affermare la portata eccezionale della sua tragedia. Nella poesia, diventata più che mai la dimensione totale dell’esistenza, l’unica in grado di dare una ragione di vita e insieme un conforto (tanto da ispirargli talora i commossi accenti dell’inno), Ovidio ripone ogni residua speranza per il futuro: pur tanto lontano da Roma, senza l’esperienza e la partecipazione diretta agli avvenimenti, non rinuncia a celebrare coi suoi versi il successo delle campagne militari in quegli anni (Tristia IV 2, Epistulae ex Ponto II 1). Ma questa sorta di anticipazione del suo possibile ruolo di poeta che si fa interprete delle grandi emozioni collettive non valse a sottrarlo alla desolante solitudine di Tomi.

Ion Theodorescu-Sion, Il poeta Ovidio a Tomi. Olio su tavola, 1916.

Caduto in disgrazia, nel periodo dell’esilio Ovidio deve anche difendersi dagli attacchi dei suoi nemici: a tale scopo risponde un poemetto in distici elegiaci, intitolato Ibis (dal nome di un uccello dalle abitudine coprofile), esemplato sull’omonimo componimento perduto di Callimaco (diretto contro Apollonio Rodio) e costituito da una lunga serie i invettive contro un suo detrattore. Al modello callimacheo è improntato l’impianto compositivo e il carattere cripticamente erudito del poemetto.

 

11. La fortuna

La fortuna di Ovidio nella cultura europea, sia in campo strettamente letterario che nelle arti figurativi, è stata immensa (inferiore appena a quella di Virgilio) fino al Romanticismo. Criticato per ragioni di stile, per il suo gusto del virtuosismo gratuito (emblematico il giudizio di Quintiliano), Ovidio ebbe scarsa diffusione nelle scuole antiche di grammatica (non rientra fra gli autori canonici, come attesta tra l’altro la relativa povertà di attività scoliastica sulle sue opere) e anche fra i retori. Ciò nonostante la sua popolarità fu subito vastissima (lo documenta anche la presenza frequente dei suoi versi fra i graffiti pompeiani): ebbe imitatori già in vita (come ad esempio quel Sabino suo amico che compone lettere di risposta alle sue Heroides, inaugurando una moda di componimenti apocrifi a nome di Ovidio destinata a diffondersi ampiamente in età medievale e umanistica), ed esercitò un’influenza molto vistosa sui poeti immediatamente successivi (come ad esempio sulla Ciris pseudo-virgiliana, o sul misterioso Lìgdamo) fino a tutta la tarda antichità, da Seneca tragico a Lucano, da Stazio a Valerio Flacco, da Ausonio a Claudiano (minore fu l’influsso sui poeti cristiani). Noto nel Medioevo e in età carolingia (alla quale risalgono i più antichi manoscritti ovidiani pervenutici), Ovidio vedrà fiorire la sua fortuna nei secoli successivi (soprattutto XII e XIII), che non a caso saranno definiti aetas Ovidiana per l’eccezionale favore di cui godranno le sue opere, il cui influsso si estenderà da Dante, Petrarca, Boccaccio all’Ariosto, al Marino e oltre. Dopo il declino subito col Romanticismo, ellenizzante e «primitivo», Ovidio tornerà ad affascinare D’Annunzio e a farsi nuovamente apprezzare dal gusto di questi ultimi decenni per la poesia elaborata e riflessa.

Luca Signorelli, Ovidio. Affresco (dettaglio), 1499-1502, dalla Cappella di San Brizio. Orvieto, Duomo.

 

***

 

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***

Note:

[1] La Cronaca di S. Girolamo ci attesta la data del 17; ma nel libro I dei Fasti si fa riferimento a eventi romani della fine del 17, la cui notizia difficilmente poteva esser giunta in poco tempo fino a Tomi; per questo c’è chi ritiene prudente spostare la data di un anno.

Filosofia e civiltà: la teoria del progresso (Sᴇɴ. 𝐸𝑝. 𝑎𝑑 𝐿𝑢𝑐. 90, 2-46 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚)

in F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 99-

trad. it. da SENECA, Lettere morali a Lucilio, a cur. di F. SOLINAS, pref. C. CARENA, Milano 1995 [= in I Classici del pensiero, Milano 2008, pp. 890-902], cfr. trad. PIAZZI, GIORDANO RAMPIONI, ad loc. cit., e SENECA, Lettere a Lucilio, libri VII-XIV, a cur. di B. GIULIANO, Bologna 1974, pp. 338-365.

Testo latino su PHI Latin Texts.

Argomento dell’Epistola 90 è quale sia il compito della filosofia. A esso è intrecciata la storia della civiltà umana da cui emerge chiaramente le posizione senecana nei confronti del progresso.

Il nesso è fornito dalla discussione di alcune opinioni espresse da Posidonio di Apamea (135/4-51/0 a.C.), che aveva introdotto in Roma lo Stoicismo di Zenone e di Crisippo: egli affermava che le artes, dalle quali dipendeva il miglioramento della condizione umana, erano dovute all’invenzione dei filosofi. La questione, di cui c’è traccia anche nella poesia drammatica greca dei secoli V-III, e connessa con la concezione della storia dell’umanità, era già stata posta e discussa, con soluzioni diverse, da numerosi filosofi greci (si ricordino, tra i tanti, Protagora, Democrito, Platone nelle Leggi e Aristotele nella Metafisica), riecheggiati da scrittori e poeti latini quali, ad esempio, Cicerone, Lucrezio, Orazio e Virgilio.

Secondo Posidonio, nell’età dell’oro il potere era stato nelle mani dei saggi; essi lo avevano usato, senza esercitare una tirannide, per migliorare le condizioni di vita dei sudditi; allora non c’era stato bisogno di leggi, perché gli uomini erano moralmente incorrotti. Una volta insinuatasi, però, la corruzione morale, si sentì il bisogno di una legislazione e i sapienti, come Solone, Licurgo e altri, furono gli uomini di leggi e di tutte le arti atte a rendere migliore la vita. Insegnarono così l’arte dell’edificazione delle case, della fusione dei metalli, della tessitura, dell’agricoltura, della macinazione dei cibi e della loro cottura, della costruzione di navi. Su quest’ultimo punto Seneca si dichiara in disaccordo con Posidonio; per lui omnia ista sagacitas hominum, non sapientia inuenit, tutte queste arti furono invenzioni dovute all’acutezza d’ingegno, non alla sapienza dell’uomo.

Le artes sarebbero dunque opera degli artigiani, non dei filosofi, i quali, paghi di un tenore di vita modesto, non cercano miglioramenti materiali; seguono la natura e non hanno bisogno di lusso né di alcuna cosa superflua.

Così Seneca sembra negare i vantaggi del progresso tecnologico in una idealizzazione dello stato di natura che ricorda da vicino il tono nostalgico dei poeti precedenti per una mitica età dell’oro, in cui l’uomo primitivo era più innocente e più felice.

La filosofia – sostiene Seneca – ha invece un compito più elevato: scoprire la verità sulle cose divine e umane; per questo, il filosofo si dedica allo studio della verità e della natura, della legge della vita, insegnando che cosa sia il vero bene e come raggiungerlo.

Quanto agli uomini primitivi, essi non conoscevano la filosofia: non erant illi sapientes uiri, etiam si faciebant facienda sapientibus. La filosofia, dunque, non è un dono né tocca in sorte; come la virtù, essa è una conquista dell’uomo sapiente.

Pieter Paul Rubens, La morte di Seneca. Olio su tela, 1614.

 

Il compito della filosofia (Sen. ad Lucil. 90, 2-3)

[2] Nunc enim hoc in illa pretiosum atque magnificum est, quod non obuenit, quod illam sibi quisque debet, quod non ab alio petitur[1]. quid haberes quod in philosophia suspiceres si beneficiaria res esset?[2] [3] Huius opus unum est de diuinis humanisque uerum inuenire[3]; ab hac numquam recedit religio, pietas, iustitia et omnis alius comitatus uirtutum consertarum et inter se cohaerentium[4]. haec[5] docuit colere diuina, humana diligere, et penes deos imperium esse, inter homines consortium[6]. quod[7] aliquamdiu inuiolatum mansit, antequam societatem auaritia distraxit[8] et paupertatis causa etiam iis quos fecit locupletissimos fuit; desierunt enim omnia possidere, dum uolunt propria.

[2] Infatti, se avessero messo anche questo bene [sc. la filosofia] a disposizione di tutti, nessuno escluso, nasceremmo anche già avveduti e la saggezza avrebbe perduto ciò che di meglio racchiude in sé, ossia il non potersi annoverare tra i beni fortuiti. Ora, la componente più preziosa della filosofia, ciò che la rende sommamente grande, consiste proprio in questo: non capita per caso, ognuno la deve a se stesso, non la ottiene da un altro. Che cosa potresti ammirare nella filosofia, se fosse qualcosa che ci tocca per gentile concessione? [3] L’unica sua funzione è quella di trovare la verità circa le cose divine e umane, da lei non si allontanano mai la religione, il senso del dovere, la giustizia e tutto il corteo delle virtù strettamente unite tra loro fino a integrarsi. La filosofia ci ha insegnato il culto del divino, l’amore per l’umano, e da lei abbiamo appreso che l’autorità suprema risiede presso gli dèi e che fra gli uomini sussiste una comunanza di vita e di destino. Ciò rimase per un certo tempo inviolato, finché l’avidità non lacerò il tessuto sociale e fu causa di indigenza anche per coloro che essa aveva colmato di ogni ricchezza: cessarono infatti di possedere il complesso dei beni quando vollero avere proprietà individuali.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

I primi uomini seguivano la natura (Sen. ad Lucil. 90, 4)

[4] Sed primi mortalium quique ex his geniti naturam incorrupti sequebantur[9] eundem habebant et ducem et legem[10], commissi melioris arbitrio; naturaest enim potioribus deteriora summittere. mutis[11] quidem gregibus aut maxima corpora praesunt aut uehementissima: non praecedit armenta degener[12] taurus, sed qui magnitudine ac toris[13] ceteros  mares uicit; elephantorum gregem excelsissimus ducit: inter homines pro maximo est optimum. animo itaque rector eligebatur, ideoque summa felicitas erat gentium in quibus non poterat potentior esse nisi melior; tuto enim quantum uult potest qui se nisi quod debet non putat posse.

[4] Ma i primi uomini, e quelli che da questi furono generati, seguivano, essendo ancora incorrotti, la natura, e avevano una stessa guida e una stessa legge, affidandosi all’autorità discrezionale del migliore, perché è nell’ordine della natura che i meno valenti si sottopongano ai migliori. Alle orde degli animali bruti presiedono, in verità, o gli individui di maggiore taglia o quelli di indole più fiera: gli armenti non sono guidati da un toro di complessione precaria, ma da quello che per grandezza e possanza muscolare ha superato gli altri maschi. Quanto agli elefanti, la mandria è condotta dal più alto di tutti. Fra gli esseri umani l’eccellenza morale è il valore più alto. E così il capo veniva scelto in base alle doti della sua indole e massima era la prosperità di quei popoli in cui soltanto il migliore riusciva a imporre il proprio potere; infatti, può attenuare con sicurezza ciò che vuole soltanto chi ritiene di poter soltanto ciò che il dovere gli impone.

Lucas Cranach il Vecchio, Il Giardino dell’Eden. Olio su tavola, 1530. Dresden, Staatliche Kunstsammlungen.

 

Le arti non sono invenzione della filosofia (Sen. ad Lucil. 90, 7; 11)

[7] Hactenus Posidonio adsentior[14]: artes quidem a philosophia inuentas[15] quibus in cotidiano uita utitur non concesserim, nec illi fabricae adseram gloriam[16] […].

[11] In illo quoque dissentio a posidonio, quod[17] ferramenta fabrilia excogitata a sapientibus uiris iudicat; isto enim modo dicat licet sapientes fuisse per quos

tunc laqueis captare feras et fallere uisco

inuentum et magnos canibus circumdare saltus[18].

omnia enim ista sagacitas hominum, non sapientia inuenit.

[7] Fin qui sono d’accordo con Posidonio: quanto alle arti, di cui la vita si serve nella prassi quotidiana, non potrei ammettere che siano un’invenzione della filosofia né a questa oserei attribuire la gloria di aver creato opere tipiche degli artigiani […].

[11] Anche in questo dissento da Posidonio, laddove sostiene che gli utensili di ferro sono un’invenzione di uomini saggi; infatti, allo stesso modo potrebbe affermare che proprio i saggi hanno

escogitato il sistema per catturare le fiere con i lacci

e ingannarle con il visco e circondare grandi balze con i cani.

Tutte queste furono invenzioni della sagacità umana, non della saggezza.

Pittore della Forgia. Laboratorio dello scultore. Pittura vascolare su kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. da Vulci. Antikensammlung Berlin.

Il vero oggetto delle ricerche filosofiche (Sen. ad Lucil. 90, 16; 18; 26-27; 34)

[16] […] Illi sapientes fuerunt aut certe sapientibus similes[19] quibus expedita[20] erat tutela corporis. simplici cura constant necessaria: in delicias laboratur[21]. non desiderabis artifices: sequere naturam. illa noluit esse districtos; ad quaecumque nos cogebat instruxit[22] […].

[18] Non fuit tam iniqua natura ut, cum omnibus aliis animalibus facilem actum uitae daret, homo solus non posset sine tot artibus uiuere[23]; nihil durum ab illa nobis imperatum est, nihil aegre quaerendum, ut possit uita produci. ad parata nati sumus: nos omnia nobis difficilia facilium fastidio fecimus. tecta tegimentaque et fomenta corporum et cibi et quae nunc ingens negotium facta sunt obuia erant et gratuita et opera leui parabilia; modus enim omnium prout necessitas erat[24]: nos ista pretiosa, nos mira, nos magnis multisque conquirenda artibus fecimus[25]. sufficit ad id natura quod poscit […].

[26] […] sapientia altius sedet nec manus edocet: animorum magistra est[26]. uis scire quid illa eruerit, quid effecerit? non decoros corporis motus nec uarios per tubam ac tibiam cantus, quibus exceptus spiritus aut in exitu aut in transitu formatur in uocem. non arma nec muros nec bello utilia molitur: paci fauet et genus humanum ad concordiam uocat[27]. [27] Non est, inquam, instrumentorum ad usus necessarios opifex. quid illi tam paruola adsignas?[28] artificem uides uitae[29]. alias quidem artes sub dominio habet; nam cui uita, illi uitae quoque ornantia seruiunt[30]: ceterum ad beatum statum tendit, illo ducit, illo uias aperit[31] […].

[34] Quid sapiens inuestigauerit, quid in lucem protraxerit quaeris? primum uerum naturamque, quam non ut cetera animalia oculis secutus est, tardis ad diuina[32]; deinde uitae legem, quam ad uniuersa derexit, nec nosse tantum sed sequi deos docuit et accidentia non aliter excipere quam imperata[33]. uetuit parere opinionibus falsis et quanti quidque esset uera aestimatione perpendit; damnauit mixtas paenitentia uoluptates et bona semper placitura laudauit et palam fecit  felicissimum esse cui felicitate non opus est, potentissimum esse qui se habet in potestate[34].

[16] Furono saggi o almeno simili ai saggi quelli che provvidero con speditezza alla tutela del proprio corpo. L’indispensabile ha bisogno soltanto di semplici attenzioni; ci affatichiamo, invece, per le raffinatezze. Non avvertirai la mancanza degli artigiani [sott. e della loro opera], se seguirai la natura. Essa non ha voluto che fossimo presi da troppi pensieri: imponendoci necessità inderogabili, ci ha dato la capacità di affrontarle […].

[18] La natura non è stata tanto ingiusta al punto che, mentre concedeva agli altri animali un’esistenza da gestire senza difficoltà, soltanto all’uomo non permettesse di vivere senza il supporto di tutti i nostri mestieri, così numerosi. Nulla di rude ci è stato imposto da lei, nulla di estremamente faticoso deve essere cercato per poter portare avanti la vita. Appena nati abbiamo trovato tutto già pronto; siamo noi che abbiamo reso tutto difficile per la noia delle cose facili. Ripari e indumenti e mezzi per riconfortare i corpi, e cibi, e tutto ciò che ora richiede un lavoro notevole, erano a portata di mano e non costavano nulla, e si potevano ottenere con poca fatica, perché la misura di ogni bene era determinata dal bisogno. Noi abbiamo reso preziosi codesti beni, li abbiamo trasformati in meraviglie, li abbiamo resi oggetti da acquisire mediante tecniche complesse e di vario genere. La natura basta a darci ciò che essa richiede […].

[26] […] La saggezza dimora più in alto, non istruisce la mani: è maestra di anime. Vuoi sapere che cosa essa abbia scoperto, quali sono le sue realizzazioni? Non eleganti movimenti del corpo né le varie modulazioni eseguibili con la tromba e con il flauto, per cui il fiato all’uscita o attraversando lo strumento si trasforma in suono. La saggezza non appronta armi né fortificazioni né strumenti utili alla guerra: è fautrice di pace e invita il genere umano alla concordia. [27] E neppure è l’artefice – dico – di congegni che servono alle necessità quotidiane. Perché le attribuisci cose di poco conto? È lei, come vedi, l’esperta della vita. Le altre arti, per la verità, essa tiene sotto il proprio dominio, perché se le è subordinata la vita, le è subordinato pure tutto ciò che orna la vita. Del resto, la saggezza tende alla felicità, a questa conduce, verso questa meta dischiude ogni via […].

[34] Chiedi quali siano state le ricerche del saggio, che cosa egli abbia portato alla luce? Anzitutto il vero e la natura, che il saggio ha osservato non, come gli altri esseri viventi, con occhi lenti nell’individuare le componenti divine; poi la legge che regola la vita morale, che egli ha regolato secondo i principi universali; e ha insegnato non soltanto a conoscere, ma anche a obbedire agli dèi e ad accettare come ordini divini i casi fortuiti dell’esistenza. Ci ha proibito di prestare ascolto a false opinioni e ha valutato esattamente quanto ciascuna cosa valesse; ha condannato i piaceri che comportano il pentimento, e ha lodato i beni destinati a essere graditi per sempre e ha dimostrato apertamente che il più felice è colui che non ha bisogno della felicità, e che il più potente è colui che ha pieno dominio su se stesso.

Sandro Botticelli, Pallade e il Centauro. Tempera su tela, 1482. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

Il progresso dell’umanità (Sen. ad Lucil. 90, 36-46)

[36] Hanc philosophiam[35] fuisse illo rudi saeculo quo adhuc artificia deerant et ipso usu discebantur utilia non credo[36], †secutam† fortunata tempora[37], cum in medio iacerent beneficia naturae promiscue utenda[38], antequam auaritia atque luxuria dissociauere mortales et ad rapinam ex consortio discurrere. non erant illi sapientes uiri, etiam si faciebant facienda sapientibus[39]. [37] Statum quidem generis humani non alium quisquam suspexerit magis, nec si cui permittat deus terrena formare et dare gentibus mores, aliud probauerit quam quod apud illos fuisse memoratur apud quos[40]

    nulli subigebant arua coloni;

    ne signare quidem aut partiri limite campum

    fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus

    omnia liberius nullo poscente ferebat[41].

[38] Quid hominum illo genere felicius? in commune rerum natura fruebantur; sufficiebat illa ut parens in tutelam omnium; haec erat publicarum opum secura possessio[42]. quidni ego illud locupletissimum mortalium genus dixerim in quo pauperem inuenire non posses?[43] inrupit in res optime positas auaritia et, dum seducere aliquid cupit atque in suum uertere, omnia fecit aliena et in angustum se ex inmenso redegit[44]. auaritia paupertatem intulit et multa concupiscendo omnia amisit. [39] Licet[45] itaque nunc conetur reparare quod perdidit, licet agros agris adiciat uicinum uel pretio pellens uel iniuria, licet in prouinciarum spatium rura dilatet et possessionem uocet per sua longam peregrinationem[46]: nulla nos finium propagatio eo reducet unde discessimus[47]. cum omnia fecerimus, multum habebimus: uniuersum habebamus. [40] Terra ipsa fertilior erat inlaborata et in usus populorum non diripientium larga[48]. quidquid natura protulerat, id non minus inuenisse quam inuentum monstrare alteri uoluptas erat[49]; nec ulli aut superesse poterat aut deesse: inter concordes diuidebatur[50]. nondum ualentior inposuerat infirmiori manum, nondum auarus abscondendo quod sibi iaceret alium necessariis quoque excluserat: par erat alterius ac sui cura[51]. [41] Arma cessabant[52] incruentaeque humano sanguine manus odium omne in feras uerterant. illi quos aliquod nemus densum a sole protexerat, qui aduersus saeuitiam hiemis aut imbris uili receptaculo tuti sub fronde uiuebant[53], placidas transigebant sine suspirio[54] noctes. sollicitudo nos in nostra purpura uersat et acerrimis excitat stimulis[55]: at quam mollem somnum illis dura tellus dabat! [42] Non inpendebant caelata laquearia[56], sed in aperto iacentis sidera superlabebantur et, insigne spectaculum noctium, mundus in praeceps agebatur, silentio tantum opus ducens[57]. tam interdiu illis quam nocte patebant prospectus huius pulcherrimae domus; libebat intueri signa ex media caeli parte uergentia, rursus ex occulto alia surgentia[58]. [43] Quidni iuuaret uagari inter tam late sparsa miracula? at uos ad omnem tectorum pauetis sonum et inter picturas uestras[59], si quid increpuit, fugitis adtoniti[60]. non habebant domos instar urbium: spiritus ac liber inter aperta perflatus et leuis umbra rupis aut arboris et perlucidi fontes riuique non opere nec fistula nec ullo coacto itinere obsolefacti sed sponte currentes et prata sine arte formosa[61], inter haec agreste domicilium rustica politum manu[62] – haec erat secundum naturam[63] domus, in qua libebat habitare nec ipsam nec pro ipsa timentem: nunc magna pars nostri metus tecta sunt.

[44] Sed quamuis egregia illis uita fuerit et carens fraude, non fuere sapientes, quando hoc iam in opere maximo nomen est[64]. non tamen negauerim fuisse alti spiritus uiros et, ut ita dicam, a diis recentes[65]; neque enim dubium est quin meliora mundus nondum effetus ediderit[66]. quemadmodum autem omnibus indoles fortior fuit et ad labores paratior, ita non erant ingenia omnibus consummata. non enim dat natura uirtutem: ars est bonum fieri[67]. [45] Illi quidem non aurum nec argentum nec perlucidos ‹lapides in› ima terrarum faece[68] quaerebant parcebantque adhuc etiam mutis animalibus: tantum aberat ut homo hominem non iratus, non timens, tantum spectaturus occideret[69]. nondum uestis illis erat picta, nondum texebatur aurum, adhuc nec eruebatur. [46] Quid ergo ‹est›? ignorantia rerum innocentes erant[70]; multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat[71]. deerat illis iustitia, deerat prudentia, deerat temperantia ac fortitudo[72]. omnibus his uirtutibus habebat similia quaedam rudis uita: uirtus non contingit animo nisi instituto et edocto et ad summum adsidua exercitatione perducto[73]. ad hoc quidem, sed sine hoc nascimur[74], et in optimis quoque, antequam erudias, uirtutis materia, non uirtus est[75].

Vale.

[36] Che questa filosofia esistesse già in quella rozza età, in cui mancava ancora ogni attività della tecnica e solo dall’esperienza si apprendevano nozioni utili, non credo; credo invece che †essa sia venuta dopo† quei tempi fortunati, quando i beni della natura, da usare senza distinzione, erano alla portata di tutti, prima che l’avidità e il desiderio del lusso dividessero gli uomini e che essi passassero dall’avere in comune i beni al portarseli via reciprocamente. Quelli non erano sapienti, anche se facevano le cose che i sapienti devono fare. [37] Per la verità, nessuno potrebbe ammirare di più un’altra condizione del genere umano: e se mai il dio concedesse a qualcuno di dare un’organizzazione alle cose terrene e di regolare i costumi delle genti, questi non approverebbe alcun altro stile di vita se non quello che fu seguito – come si tramanda – da coloro, presso i quali

nessun colono rivoltava i fertili campi

e neppur era lecito segnare o dividere con linee di confine

i campi: cercavano il cibo per la comunità, e la terra

spontaneamente offriva ogni cosa senza che alcuno lo chiedesse.

[38] Quale generazione umana fu mai più prospera di quella? Gli uomini godevano in comune della natura e quella bastava a proteggerli tutti, come una madre e perfettamente tranquillo era il possesso delle comuni ricchezze. Perché non dovrei definire la più agiata fra le genie dei mortali quella in cui non avresti potuto trovare un povero? In una felicissima condizione di vita irruppe l’avidità, e questa, mentre desiderava ardentemente trarre a sé qualcosa e appropriarsene, rese estraneo ogni bene e dall’immensità si ridusse in uno spazio ristretto. L’avidità arrecò la povertà e, desiderando molte cose, perse tutto. [39] E così, ora, per quanto ci si affanni a recuperare ciò che si ha perduto, per quanto si aggiunga altri campi ai propri, estromettendo il vicino o con il denaro o con la violenza, per quanto pure si estendano i campi fino alla dimensione di intere province e si chiami possesso un lungo viaggio per le proprie tenute, nessun ampliamento dei confini, tuttavia, ci ricondurrà là da dove ci siamo allontanati. Quando non ci sarà più nulla da fare, avremo molto: una volta, però, avevamo l’universo. [40] La terra era di per sé più fertile senza essere arata e generosa per i bisogni di popoli che non la depredavano. Tutto ciò che la natura aveva prodotto, mostrarlo ad altri era un piacere non meno grande dell’averlo trovato; nessuno poteva avere qualcosa di troppo o esserne privo: si divideva tutto in perfetto accordo. Non ancora il più forte aveva messo le mani addosso al più debole, non ancora l’avaro, nascondendo ciò che era per lui stesso un’inutile giacenza, aveva escluso gli altri persino dal necessario: ci si occupava in egual misura di se stessi e degli altri. [41] Le armi non esistevano ancora e le mani non macchiate di sangue umano avevano rivolto contro le fiere tutta la loro ostilità. Quelli, che una fitta boscaglia aveva protetto dai raggi del sole e che, contro il rigore dell’inverno o della pioggia vivevano sicuri in misero riparo coperto di fronde, trascorrevano senza angoscia notti serene. Quanto a noi, l’inquietudine ci tormenta continuamente nei nostri letti di porpora e ci tiene svegli con punture acutissime. Ma quanto placido sonno che concedeva a quelli là la dura terra! [42] Non pendevano sulle loro teste soffitti riccamente fregiati, ma, mentre erano distesi all’aperto, gli astri scorrevano sopra di loro e la volta celeste, stupendo miracolo delle notti, ruotava volgendo al tramonto, assolvendo in silenzio una così grande opera. Tanto di giorno quanto di notte si aprivano ai loro sguardi le prospettive di questa dimora meravigliosa: era bello osservare le costellazioni, che dai quadrati centrali del cielo volgevano al tramonto, e altre sorgere dall’oscurità. [43] Perché non avrebbe dovuto essere piacevole vagare in mezzo a meraviglie sparse in così largo spazio? Voi, invece, tremate di paura a ogni rumore della casa e fra le vostre pitture, se sentite qualche scricchiolio, scappate in preda al panico. Non avevano case simili a città. L’aria e il suo libero soffiare attraverso spazi aperti e la tenace ombra di una rupe o di un albero e fonti e fiumi non guastati né dal lavoro umano né da tubazioni né da alcuna condotta forzata, ma scorrenti per naturale impulso, prati stupendi senza artificio e, fra tutte queste bellezze, una rustica abitazione rifinita con cura da una rozza mano – questa era, in armonia con la natura, la dimora nella quale era dolce abitare senza temere da essa né per essa: ora, invece, la maggior parte dei nostri timori deriva proprio dalle abitazioni.

[44] Ma per quanto eccellente e priva di inganni fosse la loro esistenza, essi non furono propriamente degli uomini saggi, perché questo nome è ormai legato a un’attività di altissimo livello. Non negherei tuttavia che siano stati uomini di spirito elevato e, per così dire, appena usciti dall’atto creativo degli dèi; né infatti si può dubitare che il mondo, non ancora esausto, abbia generato esseri migliori. Però, mentre tutti avevano un’indole più gagliarda e più pronta a sopportare le fatiche, non tutti possedevano un’intelligenza perfetta. La natura, infatti, non ci provvede di virtù: diventare buoni è un’arte. [45] Quelli almeno non andavano a cercare nelle viscere della terra l’oro né l’argento né le pietre preziose e risparmiavano persino i muti animali: tanto l’uomo era lontano dall’uccidere un altro uomo non per ira o per paura, ma soltanto per il gusto dello spettacolo. Quelli non possedevano ancora vesti ricamate, né si tessevano ancora trame di fili d’oro e neppure lo si estraeva. [46] E dunque? Essi erano innocenti per ignoranza; ma c’è una bella differenza se uno non vuole sbagliare o se non sa di farlo. Mancava a quegli uomini il senso della giustizia, mancava la prudenza, mancavano la moderazione e la fortezza d’animo. Qualcosa che assomigliava a tutte queste virtù c’era pur sempre nella loro vita primitiva. Però, la virtù è riservata soltanto a un animo munito di educazione, di cultura e condotto da un esercizio assiduo al più alto grado di perfezione. Certo, per raggiungere questa perfezione, ma senza di essa nasciamo, e anche nei migliori, prima che tu li affini con l’educazione, c’è soltanto la materia della virtù, non “la” virtù.

Stammi bene.

Pierre-Paul Prud’hon, La Saggezza e la Verità che discendono sulla terra. Olio su tela, 1797.

***

Note:

[1] hoc in illa (sc. sapientia) … quod … petitur: la conquista della saggezza è squisitamente personale e in questo Seneca ravvisa la magnificenza del suo possesso; hoc è prolettico rispetto ai successivi quod con valore epesegetico che seguono; debeo ha qui il significato, presente anche in italiano, di «dovere» nel senso di «essere debitore»; si noti in ab alio petere la diversa immagine che usa la lingua latina, di provenienza di ciò che segue alla richiesta (chiedo – per avere – qualcosa da qualcuno), a fronte della lingua italiana che privilegia il termine a cui è rivolta la richiesta (chiedo qualcosa a qualcuno).

[2] quid haberes… si… esset?: period. ipot. dell’irrealtà, la cui apodosi è costituita dall’interrogativa quid haberes? quod… suspiceres: relativa consecutiva che si può rendere con «da ammirare»; beneficiarius: usato come agg. nel latino post-classico, è peraltro poco frequente: «che proviene da un dono».

[3] Huius… invenire: huius riferito a philosophia; opus indica l’opera, il lavoro (fatto o da fare) e, in senso lato, il compito, la funzione.

[4] religio, pietas, iustitia et… inter se cohaerentium: Seneca pone come elementi fondamentali i sentimenti di religio, pietas, iustitia, che inglobano ogni forma di rispetto per gli dèi e per gli uomini, a cui si accompagnano (comitatus) tutte le virtù.

[5] haec: la filosofia; si noti l’anafora con poliptoto del pronome dimostrativo e la posizione enfatica nella proposizione (huius; ab hac; haec) che sottolineano come alla filosofia si debbano i sentimenti migliori, il culto degli dèi e l’amore fra gli uomini (colere diuina, humana diligere: si noti la disposizione a chiasmo).

[6] penes deos… consortium: Seneca pone l’accento sul diverso rapporto degli uomini con gli dèi e degli uomini fra loro; più oltre ribadirà che la filosofia ha insegnato l’obbedienza agli dèi e la solidarietà fra gli uomini.

[7] quod: nesso relativo.

[8] antequam… distraxit: in distraho c’è l’immagine del dividere, disunire, semanticamente opposta a societatem che indica associazione, comunità; l’idea che auaritia fosse stata la prima causa del dissolvimento della vita associata si trova in numerosi scrittori.

[9] primi… sequebantur: Seneca segue la dottrina stoica secondo la quale i primi uomini vissero innocenti seguendo la natura; nel De vita beata (3, 3) così si esprime: interim, quod inter omnis Stoicos conuenit, rerum natura assentior; ab illa non deerrare et ab illius legem exemplumque formari sapientia est («intanto, d’accordo con tutti gli Stoici, io seguo la natura; è saggezza, infatti, non allontanarsi da essa e conformarsi alla sua legge e al suo esempio»); ma l’umanità primitiva, come dirà più avanti in questa stessa epistola, viveva in un’innocenza ignara del bene e del male e, quindi, si comportava in modo degno dei saggi pur non possedendo la saggezza.

[10] eundem… legem: «avevano una stessa guida e una stessa legge», perché riconoscevano l’autorità del migliore e gli si affidavano; già Cicerone nella pro Sextio (42, 91-92), descrivendo le origini della civiltà, attribuisce l’incivilimento umano all’opera di uomini qui primi uirtute et consilio praestanti exstiterunt, superiori per intelligenza. Il pensiero deriva ai due scrittori latini da Posidonio; analogamente Polibio (VI 5) e Lucrezio (rer. nat. 1105-1112) attribuiscono al migliore, ma per forza fisica, l’autorità fra i primi uomini; la stessa concezione di una specie di età dell’oro, di pace e concordia naturali, era anche in Democrito, probabile fonte degli autori citati.

[11] Mutus, -a, -um: è agg. usato spesso, in testi filosofici o di derivazione filosofica, riferito agli animali che sono caratterizzati, rispetto all’uomo, dalla mancanza di parola.

[12] degener: «indegno» per qualità caratteristiche della sua razza.

[13] magnitudine ac toris: «per grandezza e possanza muscolare»; torus è propriamente «muscolo».

[14] Hactenus… adsentior: con l’affermazione sviluppata nei paragrafi precedenti, che i primi a detenere il potere furono i saggi, per i quali officium erat imperare, non regnum («comandare era un dovere, non esercitare una tirannide»); così anche che furono i primi a elaborare leggi quado i regni si trasformarono in tirannidi.

[15] artes… inventas (sott. esse): oggettiva retta da non concesserim (cong. potenziale di modestia)

[16] nec… gloriam: Seneca contesta dunque a Posidonio che i saggi siano stati anche inventori delle arti utili alla vita materiale della società.

[17] In illo quoque… quod: secondo Seneca, i saggi non solo non hanno inventato le arti, ma neppure gli strumenti a esse necessari.

[18] Verg. Georg. I 139-140: Seneca si serve delle parole del poeta per descrivere la caccia, arte inventata dall’uomo grazie al suo ingegno; in essa Seneca ravvisa un vero e proprio inganno alla natura e per questo motivo non la ritiene una scoperta degna dei saggi.

[19] sapientibus similes: i primi uomini, che seguivano la natura, accontentandosi di ciò che essa offriva loro, si comportavano in modo simile ai saggi; cfr. infra §36. Tuttavia, non possono essere definiti sapientes, in quanto il loro comportamento era determinato da un naturale istinto, non dalla volontà.

[20] expeditus, –a, -um, indica propriamente colui che viaggia senza bagagli, quindi, senza impedimenti, senza complicazioni.

[21] Cfr. Sen. ad Lucil. 4, 10: ad superuacua sudatur.

[22] ad quaecumque… instruxit: la natura ha dato all’uomo modo di affrontare tutte le necessità materiali perché, libero da preoccupazioni, potesse dedicarsi a soddisfare i bisogni dello spirito.

[23] non fuit… sine tot artibus uiuere: in Cic. de rep. 3, 1-2 è esposto il pensiero, elaborato per la prima volta da Protagora, che la natura fece l’uomo inferiore fisicamente agli altri animali perché senza protezione dalle intemperie, fragile e debole (corpore nudo, fragili et infirmo), ma che tuttavia «la ragione conferisce all’uomo più di quanto non conferisca la natura ai bruti» (e dalla ragione derivano le arti); Seneca, invece, sostiene che la natura ci ha fornito di quanto è necessario per vivere felicemente e che l’uomo si è creato delle difficoltà, disdegnando le cose facili.

[24] modus… erat: secondo Seneca, con il progresso portato dalle arti, sono aumentate le esigenze dell’uomo, all’origine determinate soltanto dalla necessità.

[25] nos… fecimus: è stato dunque l’uomo stesso che ha reso tutte le cose, case, vesti e ogni altro agio, preziose, straordinarie e conquistabili solo con grandi e numerose arti (pretiosa, mira, magnis multisque conquirenda artibus).

[26] sapientia… magistra est: Seneca ribadisce che le arti non sono invenzione dei sapienti e passa quindi a indicare l’oggetto della ricerca della saggezza e, conseguentemente, dei saggi.

[27] paci… uocat: l’insegnamento del sapiens mira esclusivamente alla pace; egli non può quindi essere inventore di strumenti di guerra.

[28] Quid… adsignas?: emerge qui chiaramente un certo disprezzo per le arti manuali, frequente nell’antichità.

[29] artificem… uitae: l’espressione, in contrapposizione con quella precedente non est opifex, vuole indicare che la sapientia ha come oggetto la vita stessa nella sua più intima sostanza, non gli strumenti necessari a soddisfare i bisogni materiali.

[30] Cfr. Sen. ad Lucil. 85, 32: artes seruient uitae, sapientia imperat.

[31] Attraverso la sapientia l’uomo può raggiungere la felicità, fine ultimo della filosofia.

[32] quam… ad diuina: solo all’uomo, che è dotato della ragione, è stato concesso di cogliere, con gli occhi della mente, di cui gli altri esseri viventi sono privi, la verità e la natura, opera divina. In tale convinzione, che le verità divine possono essere colte solo con il lume dello spirito, Seneca appare vicino ai Platonici.

[33] nec nosse… imperata: il sapiente accetta, poiché li inserisce in un ordine universale, tutti gli eventi, anche le sventure, e li considera espressione della volontà divina.

[34] Solo il sapiente può raggiungere la felicità attraverso il dominio delle proprie passioni e il completo distacco dai beni materiali; la sua autarchia è totale e solo nel raggiungimento della virtù – unico vero bene – egli trova la felicità. Queste convinzioni erano proprie della filosofia stoica, come Seneca stesso afferma nei paragrafi seguenti, ponendosi in polemica con l’epicureismo che, oltre a prescrivere la lontananza dalla vita pubblica e a considerare gli dèi indifferenti alle vicende umane, subordinava la virtù al piacere.

[35] Hanc philosophiam: quella che ha insegnato all’uomo la ricerca della verità (cfr. infra §34).

[36] non credo: diversamente da Posidonio, che riteneva che la filosofia fosse presente già in età primitiva, Seneca dichiara di non credere che i sapienti operassero illo rudi saeculo.

[37] †secutam (sott. esse)† … tempora: appare subito evidente la considerazione di Seneca circa la Preistoria: tempi fortunati la dice e spiega subito il perché: non c’erano ancora auaritia e luxuria, causa prima del dissolvimento e della corruzione della società umana (cfr. infra §3).

[38] Secondo la tradizione, seguita da Seneca, nell’età dell’oro non vi era la proprietà privata, né il desiderio di possedere beni propri (cfr. ancora infra §3).

[39] non erant… sapientibus: Seneca ribadisce che gli uomini primitivi non erano sapienti, anche se si comportavano in modo degno di sapienti, in quanto – come già detto altrove – vivevano secondo natura e non desideravano nulla più del necessario.

[40] quod… apud quos: l’età dell’oro è ancora viva nel ricordo per ciò che di essa hanno tramandato i poeti.

[41] Verg. Georg. I 125-128 descrive l’età dell’oro, un’epoca precedente a Giove, cioè sotto il regno di Saturno, rievocandola con toni di nostalgico rimpianto, sentimento presente ogniqualvolta si considerino i tempi primitivi. Il poeta cerca, tuttavia, di conciliare la concezione dell’età dell’oro con quella del progresso, per cui afferma che Giove stesso impose il labor improbus affinché l’uomo potesse migliorare le proprie condizioni di vita.

[42] in commune… possessio: è uno dei motivi del topos dell’età dell’oro che insiste sul possesso dei beni necessari all’uomo privo di preoccupazioni (secura da sine cura).

[43] Gli uomini primitivi erano ricchissimi, perché disponevano di tutto il necessario, e non esistevano poveri, perché ogni cosa era condivisa.

[44] A causa dell’avidità, l’uomo, cercando di avere sempre di più solo per se stesso, ha perso la possibilità di godere di tutto insieme con gli altri, passando in tal modo dal possesso dell’universo a quello di un piccolo spazio.

[45] Licet: congiunzione che introduce una concessiva enfatica come i licet che seguono (licet adiciat; licet dilatet et vocet).

[46] licet agros… peregrinationem: Seneca fa propria la polemica contro i latifondisti e la loro cupidigia (cfr. Hor. Carm. II 18, 23-26) e ritiene che non sia un possesso quello di terre che, per la loro eccessiva ampiezza, non possono essere neppure conosciute dal loro padrone.

[47] eo… unde discessimus: cioè, come si comprende dalla dichiarazione seguente, da quella condizione di natura che dava all’uomo il possesso dell’universo.

[48] Seneca torna alla realtà dei tempi primitivi e la descrive seguendo tutti i topoi dell’età dell’oro (cfr. §§40-43): la terra produceva spontaneamente i frutti senza che l’uomo dovesse lavorarla (inlaborata), non regnava l’avidità né vi erano guerre; l’uomo viveva modestamente, ma in sicurezza; le acque dei fiumi scorrevano limpide.

[49] quidquid… uoluptas erat: ciascun individuo provava piacere a mettere in condivisione ciò che potesse essere utile anche agli altri; è il principio della solidarietà, opposto all’auaritia, che, anche secondo Lucr. rer. nat. V 1019-1023, caratterizzava i rapporti umani dell’età primitiva.

[50] inter concordes diuidebatur: la divisione dei beni avveniva secondo le necessità di ciascuno, senza alcun contrasto: conseguenza della solidarietà era dunque la concordia.

[51] Pur avendo dunque la natura creato elementi più forti e altri più deboli, nessuno ne approfittava, ma ciascuno si prendeva cura degli altri come di se stesso.

[52] Arma cessabant: la mancanza di conflitti è un altro aspetto topico delle descrizioni dell’età dell’oro.

[53] qui… uiuebant: l’immagine risente, ancora una volta, del ricordo di Lucr. rer. nat. V 971, circum se foliis ac frondibus inuoluentes.

[54] sine suspirio: è la naturale conseguenza del uiuere tuti, al sicuro; si può tradurre «senza sospirare», cioè senza provare sentimenti di angoscia.

[55] sollicitudo… stimulis: la descrizione dei tempi primitivi è continuo riferimento, per opposizione, ai tempi contemporanei. Il motivo, presente anche in Lucrezio e in Orazio, era già in Epicuro (fr. 207 Us.: «È meglio per te giacere con animo tranquillo su di un umile giaciglio che essere agitato da turbamenti su di un letto dorato»).

[56] caelata laquearia: sono i soffitti a cassettoni, i cui riquadri, nelle case più sontuose dei ricchi, erano intarsiati e cesellati in oro e avorio; si può tradurre: «soffitti riccamente fregiati».

[57] Il cielo stellato e il silenzio notturno, con la loro suggestione, da sempre suscitano nell’uomo un sentimento di ammirazione e di stupore che Seneca descrive, qui, con accenti poetici.

[58] ex occulto alia surgentia: il movimento delle costellazioni affascina chi osserva la volta del cielo, rendendolo partecipe del mistero dell’universo; si avverte qui, come in altri passi senecani, una profonda religiosità di fronte al meraviglioso spettacolo della natura.

[59] inter picturas uestras: gli affreschi parietali, raffiguranti per lo più scene di caccia o motivi floreali o architettonici, che adornavano le dimore dei ricchi sono, come al §42 i caelata laquearia, simbolo del lusso in mezzo a cui vivono i contemporanei; frequenti erano, però, anche i crolli delle case, che provocavano grande apprensione in chi le abitava.

[60] adtoniti: l’agg. adtonitus, -a, –um, parola cara alla tragedia senecana, «porta sempre in sé il valore interiorizzante di smarrimento e di allucinazione e sta quasi a testimoniare l’attimo in cui lo sbigottimento si traduce in impulso violento e in agitazione inarrestabile» (Pasiani).

[61] Tutta la descrizione di paesaggi e luoghi naturali, infatti, mira a mostrare che laddove non è presente la mano dell’uomo, che migliora, sì, le condizioni di vita, ma altera e turba l’armonia della natura, si conserva un rapporto di comunione con la natura stessa, indispensabile all’equilibrio e alla felicità umana. Si noti che il motivo è topico e ancora oggi si manifesta sotto diverse forme (ecologia, pubblicità, politica, ecc.).

[62] L’abitazione degli uomini dei tempi primitivi non conosceva lusso, ma era inserita fra le bellezze della natura (inter haec).

[63] secundum naturam: l’idea della Natura e del vivere secondo le sue leggi è al centro della filosofia di Seneca e dello stoicismo classico; si vd., per es., quanto afferma in vit. beat. 3, 3, «d’accordo con tutti gli stoici, io seguo la natura; è saggezza, infatti, non allontanarsene e conformarsi alla sua legge e al suo esempio».

[64] Il raggiungimento della sapientia è, per Seneca, frutto di applicazione e di volontà, non dono di natura, ma conquista dell’uomo.

[65] a diis recentes: cioè «usciti da poco dalle mani degli dèi»; Seneca riprende qui Posidonio.

[66] Il mondo, cioè, quando era ancora agli inizi e aveva, perciò, maggior vigore e forze, produceva esseri migliori.

[67] L’ars è contrapposta alla natura ed è grazie a essa che l’uomo è in grado di raggiungere la virtù e la sapientia.

[68] faex: trae il suo significato da quello originario di «feccia, deposito che lasciano il vino o l’olio».

[69] Più volte nelle sue opere Seneca biasima gli spettacoli gladiatori, nei quali la folla si lasciava eccitare dalla vista del sangue (cfr., per es., ad Lucil. 7).

[70] ignorantia… erant: cioè non conoscevano la distinzione fra bene e male, in quanto il male era sconosciuto, e quindi il loro comportamento non era dovuto a una scelta consapevole. Per questo, secondo Seneca, non si può parlare per i primi uomini di sapientia.

[71] Si ribadisce qui l’importanza della coscienza del male per il suo superamento.

[72] deerat… fortitudo: nella mancanza delle quattro virtù cardinali – prudenza, giustizia, forza e temperanza – sottolineata dall’anafora del verbo (deerat), Seneca pone la causa dell’incapacità di distinguere il bene dal male e, quindi, della coscienza del male.

[73] uirtus… perducto: si spiega ulteriormente il concetto che ars est bonum fieri, esposto nella parte precedente, dal quale Seneca trae la conclusione che gli uomini primitivi non fuere sapientes.

[74] L’uomo tende alla perfezione morale, che è fine primo della vita, ma non dat natura uirtutem e, quindi, non la possiede fin dalla nascita.

[75] Seneca, infine, distingue la potenzialità della virtù dalla virtù stessa; per raggiungere la virtù è necessario sviluppare con l’esercizio quelle potenzialità che sono insite nell’uomo. Così si chiude l’epistola, che espone in tal modo la concezione senecana circa i rapporti fra filosofia e tecnica, filosofia e civiltà.

Il fuoco e il diluvio (Ps.-Apollod. I 7)

di APOLLODORO, Biblioteca, a cura di M. CAVALLI, Milano 2011, pp. 20-23.

Il brano che segue contiene due tra i più significativi miti classici, fondendoli assieme: il racconto di Prometeo e la vicenda di Deucalione e Pirra. Si tratta di due episodi legati al mito della creazione che sta alla base della maggior parte dele forme di culto religioso, dall’antichità sino ai nostri giorni. Unita al mito di Prometeo, che è storia di ribellione e successiva punizione, di tradimento e di creazione, la saga di Deucalione e Pirra dà forma a una conclusione “rigenerativa” e positiva, perché annuncia un riscatto o addirittura una rinascita vera e propria dell’umanità.

Constantin Hansen, Prometeo modella l’uomo dall’argilla. Olio su tela, 1845.

[7, 1] Προμηθεὺς δὲ ἐξ ὕδατος καὶ γῆς ἀνθρώπους πλάσας ἔδωκεν αὐτοῖς καὶ πῦρ, λάθρᾳ Διὸς ἐν νάρθηκι κρύψας. ὡς δὲ ᾔσθετο Ζεύς, ἐπέταξεν Ἡφαίστῳ τῷ Καυκάσῳ ὄρει τὸ σῶμα αὐτοῦ προσηλῶσαι· τοῦτο δὲ Σκυθικὸν ὄρος ἐστίν. ἐν δὴ τούτῳ προσηλωθεὶς Προμηθεὺς πολλῶν ἐτῶν ἀριθμὸν ἐδέδετο· καθ᾽ ἑκάστην δὲ ἡμέραν ἀετὸς ἐφιπτάμενος αὐτῷ τοὺς λοβοὺς ἐνέμετο τοῦ ἥπατος αὐξανομένου διὰ νυκτός. καὶ Προμηθεὺς μὲν πυρὸς κλαπέντος δίκην ἔτινε ταύτην, μέχρις Ἡρακλῆς αὐτὸν ὕστερον ἔλυσεν, ὡς ἐν τοῖς καθ᾽ Ἡρακλέα δηλώσομεν.

[2] Προμηθέως δὲ παῖς Δευκαλίων ἐγένετο. οὗτος βασιλεύων τῶν περὶ τὴν Φθίαν τόπων γαμεῖ Πύρραν τὴν Ἐπιμηθέως καὶ Πανδώρας, ἣν ἔπλασαν θεοὶ πρώτην γυναῖκα. ἐπεὶ δὲ ἀφανίσαι Ζεὺς τὸ χαλκοῦν ἠθέλησε γένος, ὑποθεμένου Προμηθέως Δευκαλίων τεκτηνάμενος λάρνακα, καὶ τὰ ἐπιτήδεια ἐνθέμενος, εἰς ταύτην μετὰ Πύρρας εἰσέβη. Ζεὺς δὲ πολὺν ὑετὸν ἀπ᾽ οὐρανοῦ χέας τὰ πλεῖστα μέρη τῆς Ἑλλάδος κατέκλυσεν, ὥστε διαφθαρῆναι πάντας ἀνθρώπους, ὀλίγων χωρὶς οἳ συνέφυγον εἰς τὰ πλησίον ὑψηλὰ ὄρη. τότε δὲ καὶ τὰ κατὰ Θεσσαλίαν ὄρη διέστη, καὶ τὰ ἐκτὸς Ἰσθμοῦ καὶ Πελοποννήσου συνεχέθη πάντα. Δευκαλίων δὲ ἐν τῇ λάρνακι διὰ τῆς θαλάσσης φερόμενος ἐφ᾽ ἡμέρας ἐννέα καὶ νύκτας τὰς ἴσας τῷ Παρνασῷ προσίσχει, κἀκεῖ τῶν ὄμβρων παῦλαν λαβόντων ἐκβὰς θύει Διὶ φυξίῳ. Ζεὺς δὲ πέμψας Ἑρμῆν πρὸς αὐτὸν ἐπέτρεψεν αἱρεῖσθαι ὅ τι βούλεται· ὁ δὲ αἱρεῖται ἀνθρώπους αὐτῷ γενέσθαι. καὶ Διὸς εἰπόντος ὑπὲρ κεφαλῆς ἔβαλλεν αἴρων λίθους, καὶ οὓς μὲν ἔβαλε Δευκαλίων, ἄνδρες ἐγένοντο, οὓς δὲ Πύρρα, γυναῖκες. ὅθεν καὶ λαοὶ μεταφορικῶς ὠνομάσθησαν ἀπὸ τοῦ λᾶας ὁ λίθος.

γίνονται δὲ ἐκ Πύρρας Δευκαλίωνι παῖδες Ἕλλην μὲν πρῶτος, ὃν ἐκ Διὸς γεγεννῆσθαι ἔνιοι λέγουσι, δεύτερος δὲ Ἀμφικτύων ὁ μετὰ Κραναὸν βασιλεύσας τῆς Ἀττικῆς, θυγάτηρ δὲ Πρωτογένεια, ἐξ ἧς καὶ Διὸς Ἀέθλιος. [3] Ἕλληνος δὲ καὶ νύμφης Ὀρσηίδος Δῶρος Ξοῦθος Αἴολος. αὐτὸς μὲν οὖν ἀφ᾽ αὑτοῦ τοὺς καλουμένους Γραικοὺς προσηγόρευσεν Ἕλληνας, τοῖς δὲ παισὶν ἐμέρισε τὴν χώραν· καὶ Ξοῦθος μὲν λαβὼν τὴν Πελοπόννησον ἐκ Κρεούσης τῆς Ἐρεχθέως Ἀχαιὸν ἐγέννησε καὶ Ἴωνα, ἀφ᾽ ὧν Ἀχαιοὶ καὶ Ἴωνες καλοῦνται, Δῶρος δὲ τὴν πέραν χώραν Πελοποννήσου λαβὼν τοὺς κατοίκους ἀφ᾽ ἑαυτοῦ Δωριεῖς ἐκάλεσεν, Αἴολος δὲ βασιλεύων τῶν περὶ τὴν Θεσσαλίαν τόπων τοὺς ἐνοικοῦντας Αἰολεῖς προσηγόρευσε, καὶ γήμας Ἐναρέτην τὴν Δηιμάχου παῖδας μὲν ἐγέννησεν ἑπτά, Κρηθέα Σίσυφον Ἀθάμαντα Σαλμωνέα Δηιόνα Μάγνητα Περιήρην, θυγατέρας δὲ πέντε, Κανάκην Ἀλκυόνην Πεισιδίκην Καλύκην Περιμήδην.

Περιμήδης μὲν οὖν καὶ Ἀχελῴου Ἱπποδάμας καὶ Ὀρέστης, Πεισιδίκης δὲ καὶ Μυρμιδόνος Ἄντιφος καὶ Ἄκτωρ.

Pittore Branca. Scena di Prometeo incatenato. Pittura vascolare su un calyx-krater apulo a figure rosse, 350-325 a.C. ca. Antikensammlung Berlin.

Prometeo impastò acqua e terra, e creò gli uomini[1]. A essi poi donò il fuoco, sottraendolo di nascosto a Zeus dentro una canna cava[2]. Quando Zeus se ne accorse, ordinò a Efesto di inchiodare il corpo di Prometeo sul monte Caucaso, che sorge nella Scizia. Infiniti anni Prometeo restò così incatenato: e ogni giorno un’aquila si avventava su di lui e gli divorava il fegato, che poi di notte ricresceva. Così Prometeo scontava la pena di aver rubato il fuoco, fino al giorno in cui Eracle lo liberò – ma di questo parleremo nei capitoli dedicati alle imprese dell’eroe.

[2] Prometeo aveva un figlio, Deucalione, re del territorio di Ftia, e sposo di Pirra, figlia a sua volta di Epimeteo e Pandora, la prima donna[3]. Quando Zeus decise di far scomparire la stirpe umana del bronzo, Deucalione, su consiglio di Prometeo, costruì un’arca, vi imbarcò tutto il necessario, poi vi salì insieme a Pirra[4]. Zeus riversò dal cielo una pioggia infinita, e sommerse quasi tutta la terra di Grecia: tutti gli uomini vennero distrutti, tranne quei pochi che erano fuggiti sulle cime più alte dei monti vicini. Le montagne della Tessaglia restarono isolate, e tutte le regioni fuori dall’Istmo e dal Peloponneso vennero sommerse dalle acque. L’arca di Deucalione navigò in balia del mare per nove giorni e nove notti, e alla fine si fermò sul monte Parnaso: quando la pioggia cessò, Deucalione uscì e offrì un sacrificio a Zeus protettore dei fuggiaschi. Allora il dio inviò Ermes, con l’ambasciata che qualunque cosa avesse voluto gli sarebbe stata concessa: e Deucalione chiese di poter avere degli uomini. Zeus diede il suo assenso, e Deucalione cominciò a raccogliere dei sassi e a gettarseli dietro le spalle: così, le pietre tirate da Deucalione divennero uomini, e quelle tirate da Pirra divennero donne. È da allora che i popoli hanno preso per metafora il loro nome (laòs) da quello che indica la pietra (làas)[5].

Deucalione e Pirra ebbero alcuni figli. Il primo fu Elleno, che però alcuni sostengono fosse figlio di Zeus. Poi nacque Anfizione, che dopo Cranao ebbe il regno dell’Attica; e terza fu Protogenia, che ebbe da Zeus il figlio Etlio. [3] Insieme alla ninfa Orseide, Elleno generò i figli Doro, Xuto ed Eolo. Elleno stesso diede il suo nome ai popoli che prima si chiamavano Greci, [6]e divise tutto il territorio fra i suoi figli. Xuto ricevette il Peloponneso, e da Creusa, la figlia di Eretteo, ebbe i figli Acheo e Ione, che diedero il loro nome agli Achei e agli Ioni. Doro, invece, ricevette tutta la regione di fronte al Peloponneso, i cui abitanti vennero chiamati Dori dal suo nome. Eolo poi regnò sul territorio intorno alla Tessaglia, e chiamò Eoli i suoi sudditi: sua sposa fu Enarete, figlia di Deimaco, che gli diede sette figli – Creteo, Sisifo, Atamante, Salmoneo, Deione, Magnete, Periere – e cinque figlie – Canace, Alcione, Pisidice, Calice e Perimede.

Perimede ebbe i figli Ippodamante e Oreste da Acheloo; Pisidice ebbe Anfito e Attore da Mirmidone.

Paul Merwart, Deucalione solleva la sposa. Olio su tela, 1880.

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Note:

[1] La tradizione secondo la quale Prometeo fu il creatore degli uomini non sembra essere antichissima. La prima testimonianza in tal senso è quella di Ovidio (Metamorfosi I 82 ss.); né Esiodo né Eschilo, le due principali fonti sulla figura di Prometeo, sembrano prospettare una sua opera di creazione dell’umanità, ma semplicemente quella di benefattore e di apportatore di civiltà (Esiodo, peraltro, è abbastanza generico nell’attribuire la creazione dell’uomo agli “dèi immortali” del periodo di Crono, ai vv. 109-111 delle Opere e i giorni). Sempre Esiodo (Teogonia 521 ss.) racconta di come Prometeo volle ingannare Zeus a favore degli uomini, tentando di assegnare loro le parti migliori di un bue offerto in sacrificio, a svantaggio degli dèi: ma Zeus se ne accorse, e per ritorsione tolse agli uomini il possesso del fuoco. Ma la storia continua (Esiodo, Opere e i giorni 47 ss.); Prometeo riesce a rubare il fuoco a Zeus e a ridarlo agli uomini, e Zeus allora attua una nuova crudele vendetta, creando Pandora, la prima donna: «Agli uomini, come pena per il fuoco, io darò un male di cui tutti saranno felici, e faranno festa al loro stesso male» (vv. 57-58). Già in Esiodo, quindi, Prometeo appare come una fiera figura di dio anomalo, che sceglie di mettersi in contrasto con i suoi simili per aiutare la debole razza dei mortali; e questa impostazione risulta ancor più evidente nel Prometeo incatenato di Eschilo, dove il figlio di Giapeto dichiara tutti i benefici che la sua audace indipendenza da Zeus ha saputo apportare all’umanità: come l’agricoltura, la medicina, la divinazione, la scrittura, il calcolo matematico e astronomico.

[2] Cfr. per esempio Esiodo, Opere e i giorni 50 ss. ed Eschilo, Prometeo incatenato 107 ss.

[3] Per Pandora, cfr. Esiodo, Opere e i giorni 42 ss. Esiodo racconta di come, per curiosità, Pandora sollevò il coperchio del vaso in cui erano contenuti tutti i mali: che subito saltarono fuori e si diffusero nel mondo.

[4] Un’ampia trattazione del diluvio di Deucalione è assente nelle fonti più antiche: solo Pindaro (Olimpiche 9, 41 ss.) vi allude con una certa precisione, ma si tratta comunque di pochi versi da cui non si evince l’intera vicenda. Il racconto poetico principale è quello di Ovidio (Metamorfosi I, 177-415), di intensa bellezza, rispetto al quale la narrazione di Apollodoro risulta mancare di alcuni nodi essenziali per la vicenda. Da Ovidio, per esempio, sappiamo il motivo che indusse Zeus a decidere lo sterminio dell’umanità: l’empietà degli uomini, e soprattutto quella di Licaone, che non esitò a uccidere uno straniero, per servirlo a Zeus sulla tavola imbandita, e mettere così alla prova la sua divinità. Sempre Ovidio specifica l’origine del lancio delle pietre da parte di Deucalione e Pirra, che in Apollodoro manca di spiegazione. Scampati al diluvio, i due sposi chiedono aiuto a Themis, la dea profetica che aveva il suo oracolo sul monte Parnaso, e questa risponde loro – con un oscuro responso – di gettarsi dietro le spalle le ossa della grande madre. Deucalione risolve l’enigma, capisce che la grande madre è la terra e le sue ossa sono le pietre, e agisce di conseguenza, dando vita alla nuova stirpe umana. Plutarco (Quali animali sono più ingegnosi 968f) aggiunge il particolare della colomba inviata da Deucalione a esplorare le terre riemerse, proprio come nella storia di Noè. Il racconto del diluvio universale sembra, infatti, presentare caratteri comuni alle diverse civiltà, ed è probabilmente da ricollegare a tradizioni di origine babilonese, forse in relazione al grande diluvio che si verificò in Mesopotamia nel III millennio a.C.: anche il poema babilonese di Gilgamesh, infatti, tramanda la storia di Parnapishtim, che si salvò in un’arca dal diluvio provocato dalla dea Ishtar.

[5] Al medesimo gioco etimologico – ma con un significato etico più ampio – allude anche Ovidio, nel commentare l’origine dell’umanità da quelle pietre di Deucalione e Pirra: Inde genus durum sumus experiensque laborum / et documenta damus qua simus origine nati (Metamorfosi I 414-415).

[6][6] Secondo il Marmor Parium, il passaggio del nome da Greci a Elleni avvenne nel 1521 a.C. Questa famosa lastra di marmo, scoperta nel 1627 a Paro e portata in Inghilterra da Thomas Arundel, contiene in novantatré righe la successione dei principali eventi della storia greca da Cecrope fino all’arconte Diogneto (264 a.C.), comprendendo quindi circa 1318 anni, calcolati non in base alle olimpiadi, ma secondo i re e gli arconti attici; sono presenti però alcuni evidenti errori di datazione.