Il culto di Mithra nella Commagene

di RIES J., Il culto di Mithra nella Commagene, in Opera omnia, vol. VII/1, Religioni del Vicino Oriente Antico, Il culto di Mithra dall’India vedica ai confini dell’Impero romano, trad. it. NANINI R., rev. COSI D.M., Milano 2013, pp. 193-203*.

 

1. Il Mithra ellenistico nella Commagene

La Commagene

Cominciamo la nostra ricerca sulla diffusione del culto di Mithra soffermandoci innanzitutto sulla Commagene, antica Provincia siriaca del regno seleucide. La Commagene, situata tra la Cilicia e l’Eufrate, ai piedi del Tauro, con capitale Samosata, venne integrata nell’Impero seleucide. Il nome Commagene è un adattamento greco del mesopotamico Kummuh. Questa regione ha una lunga tradizione culturale: la Commagene si trovava infatti ai confini tra l’Iran, la Mesopotamia, il paese degli Hurriti e quello degli Ittiti. Nel 162 a.C. il governatore della provincia, Tolomeo, si pone a capo di una rivolta e trasforma la Provincia in un regno indipendente. Nella Provincia della Commagene, che rappresentava un trait d’union tra il mondo iranico e il mondo anatolico, negli ultimi decenni sono state fatte importanti scoperte relative al culto di Mithra. Vanno innanzitutto ricordati i numerosi sovrani che portano il nome teoforo Mitridate. Nel regno del Bosforo il re Mitridate fu designato dall’imperatore Claudio, nel 41 a.C., come successore di Tolomeo. Nel regno dei Parti troviamo Mitridate I Filelleno dal 171 al 138 a.C. e Mitridate VI il Grande dal 123 all’86 a.C., colui che conquistò l’Armenia e istituì rapporti diplomatici con Roma nel 92[1].

Carta dell’Asia minore sudorientale (da WALDMAN H., Die kommagenischen Kultreformen unter König Mithradates I. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos I., Brill, Leiden 1973).

Nella Commagene il culto di Mithra divenne un culto regale nel corso dei secoli precedenti alla nostra era. La documentazione è vasta[2]. Dörner descrive una serie di scoperte: statue, rilievi, iscrizioni. In esse ritroviamo l’incontro tra le tradizioni greche e quelle iraniche, in particolare in alcune iscrizioni e statue in cui figurano quattro nomi divini, quelli di Apollo, Mithra, Helios ed Hermes.

Sembra certo che l’iscrizione (OGIS 383 = IGLSyr 1 1 = CIMRM 32) di Nemrut Dağı (in cui compaiono le quattro divinità appena nominate) fu fatta incidere da Antioco I, re della Commagene dal 69 al 38 a.C. Un bassorilievo ci mostra il dio Mithra che stringe la destra del re in segno di alleanza e di protezione. Dörner ha ritrovato ad Arsameia del Ninfeo, sul fianco meridionale di Eski-Kale, i resti di un santuario. Per alcuni si tratterebbe addirittura di un antico mitreo, il più antico tra tutti quelli conosciuti, cosa che ci ricondurrebbe ai misteri di Mithra celebrati nella Commagene nel I secolo a.C. Non lontano dai resti individuati da Dörner sorge un monumento eretto da Antioco I a gloria di suo padre Mitridate I, sul quale troviamo una allusione a Mithra. Bisogna però ricordare che Dörner stesso, così come numerosi altri studiosi, non accoglie l’ipotesi del mitreo.

Queste testimonianze del I secolo a.C. documentano soltanto il culto di Mithra come culto regale: non si tratta della celebrazione dei misteri. Significativa è la rappresentazione delle immagini in cui Mithra compare di fronte al sovrano. Si vedano la statua della dexiosis (il darsi la mano destra) tra Mithra e Antioco I di Commagene a Nemrut Dağı (tav. VI) e quella di Mitridate Callinico nello hierothesion di Arsameia del Ninfeo (tav. V), «Études mithraiques», 1978. Siamo nel I secolo a.C.[3] Queste scoperte ci hanno fatto conoscere il culto regale di Mithra nella Commagene. Si tratta del culto organizzato da re Mitridate I Callinico e da suo figlio Antioco I. I documenti sono di due tipi, dal momento che abbiamo le iscrizioni su stele e quelle su rocce:

Dall’altra parte abbiamo alcuni monumenti cultuali, gli hierothesia, di cui dovremo parlare più a lungo.

Queste recenti e importanti scoperte gettano nuova luce sul culto del Mithra ellenistico. R. Turcan riassume così la situazione:

Nell’Asia minore dei diadochi le dinastie di origine iranica (alcune delle quali rivendicavano una eredità achemenide) favorirono le prime contaminazioni greco-orientali che stavano aprendo la strada dell’Occidente a un mitraismo ellenizzato. Il nome teoforo Mitridate o Mitradate, assunto dai re del Ponto, d’Armenia e della Commagene, attesta che essi veneravano in Mithra il garante divino della loro autorità. Le monete di Mitridate I, re dei Parti (171-138), portano sul rovescio una figura d’arciere paragonabile all’Apollo delle tetradracme seleucidi; nell’Impero ellenizzato degli Arsacidi lo si identificava con Mithra[4].

Antioco I di Commagene. Testa, pietra calcarea, seconda metà I sec. a.C. da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia). Gaziantep, Museo Archeologico Nazionale.

La testimonianza di Plutarco

a) La Cilicia

Nel 67 a.C. Pompeo inaugura contro i pirati che infestavano il Mediterraneo un’azione destinata a mettere fine alle loro scorrerie contro i rifornimenti di grano, inviando squadre militari in diversi settori, ma riservando a sé la Cilicia, noto covo dei pirati. La campagna ha successo: dopo tre mesi regna la calma. La Cilicia, situata nella parte sudorientale dell’Anatolia, è l’antico territorio di Kizzuwatna del periodo ittita. Dopo la fine dell’Impero ittita cade nelle mani degli Assiri, in seguito dei Cimmeri. Sotto la dominazione persiana è unita alla satrapia di Cappadocia. Alessandro la occupa entrandovi da settentrione. La Cilicia è fiancheggiata a oriente dalla catena del Tauro, luogo montagnoso e poco abitato, che rappresentava il covo ideale per i pirati, i quali da oriente, attraverso la pianura e il corso dei fiumi, avevano facile accesso al mare.

b) La notizia di Plutarco

Nella Vita di Pompeo di Plutarco incontriamo un breve accenno al mitraismo. Ecco alcuni passi del ventitreesimo capitolo:

La potenza dei pirati che nacque in Cilicia ebbe un’origine tanto più pericolosa quanto meno era nota all’inizio. I servizi che resero a Mitridate durante la sua guerra contro i Romani ne aumentarono la forza e l’audacia … Facevano anche sacrifici barbari che erano in uso a Olimpia e celebravano misteri segreti, tra cui quelli di Mithres, conservatisi fino ai nostri giorni, che avevano fatto conoscere per primi.

Che cosa si può dedurre da questa notizia di Plutarco? Seguiamo la storia degli studi. In Les mystères de Mithra[5], Fr. Cumont afferma:

Se si presta fede a Plutarco … i Romani sarebbero stati iniziati ai suoi misteri dai pirati di Cilicia vinti da Pompeo nel 67 a.C. Questa informazione non ha nulla di inverosimile: sappiamo, per esempio, che la comunità ebraica stabilitasi trans Tiberim era composta in gran parte dai discendenti dei prigionieri che lo stesso Pompeo aveva portato con sé dopo la presa di Gerusalemme (63 a.C.). Grazie a questa particolare circostanza è dunque possibile che a partire dalla fine della Repubblica il dio persiano abbia trovato alcuni fedeli nella variegata plebe della capitale. Ma confondendosi nella folla delle confraternite che praticavano riti stranieri, il piccolo gruppo dei suoi adoratori non attirava l’attenzione. Lo yazata partecipava così al disprezzo di cui erano oggetto gli Asiatici che lo veneravano. L’azione dei suoi seguaci sulla massa della popolazione era praticamente nulla, tanto quanto quella delle comunità buddhiste nell’Europa moderna.

Cumont, dunque, accetta il fatto che i pirati di Cilicia abbiano introdotto, nel 67 a.C., i misteri di Mithra a Roma e ipotizza che il culto sia stato sostanzialmente ignorato a Roma nelle sue prime fasi di sviluppo. Ernest Will adotta, per interpretare questo testo, un approccio più sfumato[6]. Egli distingue due problemi: la data di formazione dei misteri e il luogo in cui si realizza questo evento. Per quanto riguarda la cronologia, Will utilizza anch’egli Plutarco, che allude all’esistenza del culto in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., ma cita anche la testimonianza del poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio), nato a Napoli verso il 46 d.C., che attorno al 65 comincia a scrivere un poema epico, La Tebaide, portato a termine nel 90 circa. In questo poema Stazio descrive l’immagine della tauroctonia (Theb.  I 719-720), dimostrando la penetrazione del culto a Roma alla metà del I secolo della nostra era. Questa indicazione, afferma Will, corrisponde alla realtà, dal momento che è appunto sotto i Flavi, tra il 70 e il 100 d.C., che i ritrovamenti archeologici dimostrano la diffusione del culto. Questo dato, accostato alla testimonianza di Stazio, attesta dunque la diffusione del culto di Mithra a Roma alla fine del I secolo. Will utilizza il testo di Plutarco, che ci fa risalire all’inizio del I secolo a.C., come testimonianza del lungo periodo di incubazione durante il quale ebbero luogo la guerra di Armenia di Nerone e la guerra giudaica, guerre che implicarono numerosi spostamenti di truppe da Roma all’Asia. Il secondo problema è quello della nascita dei misteri, che, afferma Will, presuppone una regione e un’epoca in cui gli elementi persiani erano ancora vivi:

L’Asia minore e soprattutto la sua pane orientale apparivano, alla fine dell’epoca ellenistica, particolarmente propizie. Basti ricordare, a questo proposito, i tentativi dei reucci della Commagene della stessa epoca (I secolo a.C.) di assicurare il proprio potere e il proprio prestigio richiamandosi sia alla Grecia che alla Persia: essi si fecero raffigurare faccia a faccia con Mithra. Centocinquant’anni dopo, l’ora della Persia era passata e l’Iran dei Pani non suscitava più nei Romani paura o ammirazione profonda. La verosimiglianza è dunque più favorevole al testo di Plutarco. Ma anche lo studio dell’iconografia – che è l’unica altra nostra risorsa – fornisce argomenti che vanno nella stessa direzione[7].

Will guarda dunque con molto favore alla testimonianza di Plutarco sulla presenza dei misteri di Mithra in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., a condizione che si pensi alla Cilicia orientale, che ai suoi occhi si rivela come «la probabile culla del culto misterico», soprattutto per via delle scoperte archeologiche, delle monete, di un’iscrizione di Anazarba e della presenza dei Magi in questa regione.

Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).

E.D. Francis[8] osserva che alcuni studiosi hanno ricavato dalla notizia di Plutarco l’idea che il mitraismo avrebbe raggiunto Roma proprio grazie all’operazione militare di Pompeo. Ma in realtà Plutarco non fornisce la data dell’arrivo a Roma di questi misteri. E parla del rito utilizzando il generico termine teletai. Inoltre, afferma Francis, non è certo che Pompeo abbia portato con sé a Roma i pirati, se teniamo conto di una nota di Servio alle Georgiche di Virgilio, che afferma: Pompeius enim victis piratis Cilicibus partim ibidem in Graecia, partim in Calabria agros dedit.

Per comprendere appieno il testo di Plutarco, afferma Francis, bisogna tenere presente che con il termine teletai Plutarco intende riferirsi non alle origini dei misteri, bensì a un contesto del tutto tradizionale. Francis pensa che le teletai (riti, cerimonie di iniziazione) siano da interpretare come una sorta di patto di protezione: avremmo così un’allusione all’adozione da parte dei pirati di una religion of robbers, un culto di banditi che, nella versione romana, diverrà poi un culto di soldati. Questo culto di banditi si sarebbe fondato sopra un patto di fratellanza, posto sotto la protezione di Mithra. E si può ipotizzare che questi banditi stringessero il loro patto nel profondo delle grotte. Le cerimonie del patto dei banditi sarebbero evidentemente riservate agli uomini: le donne ne sono escluse. Il culto mitraico dei pirati sarebbe stato, dunque, segnato dal rispetto di un patto stretto per combattere in vista della vittoria. Quando Roma adotterà i misteri di Mithra, questi riti di iniziazione si modificheranno profondamente.

Dopo aver analizzato la notizia di Plutarco, Vermaseren[9] si rivolge allo storico Appiano, il quale ci informa, nel II secolo d.C., che furono i sopravvissuti dell’esercito sconfitto del re Mitridate Eupatore a iniziare i pirati ai misteri. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.C.), nell’88 ordinò il massacro di tutti i Romani d’Asia. Nel 66 fu definitivamente sconfitto da Pompeo sull’Eufrate. Mitridate, come indica chiaramente il suo nome, era un fedele di Mithra. Come i suoi predecessori, aveva accolto nel suo esercito soldati provenienti da ogni parte dell’Asia.

In Cilicia, la montuosa patria dei pirati, esistono diversi monumenti dedicati a Mithra. Ad Anazarba è stato scoperto recentemente un altare dedicato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di Zeus-Helios-Mithra. Il dio era venerato anche a Tarso, la capitale, come provano alcune monete dell’imperatore Gordiano III che portano l’effigie dell’uccisore del toro[10].

I pirati, ai quali a volte si erano uniti personaggi importanti, veneravano Mithra nella loro comunità. Soltanto gli uomini erano ammessi al culto. È dunque probabile che, dopo la loro disfatta, i pirati abbiano portato Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì[11].

Secondo Vermaseren, a Roma non abbiamo alcun monumento relativo a Mithra prima della fine del I secolo d.C. Soltanto alla fine del I secolo della nostra era Mithra comincia la sua marcia trionfale nell’Impero romano[12].

Questo primo paragrafo ci ha consentito di porre in modo chiaro il problema del Mithra ellenistico. All’inizio del secolo Cumont scriveva: «Si può affermare in generale che Mithra è sempre rimasto escluso dal mondo ellenistico». Oggi questa affermazione va presa con molta cautela, in particolare dopo le importanti scoperte della Commagene. Dobbiamo spingere più a fondo le nostre indagini e chiederci soprattutto se i documenti archeologici ed epigrafici della Commagene ci forniscono elementi capaci di documentare il passaggio dal culto regale di quella regione al culto misterico dell’Impero romano.

 

2. Il culto regale della Commagene

Hierothesion

Incontriamo il termine hierothesion in diverse iscrizioni, come quelle di Karakush e di Arsameia sull’Eufrate. Il vocabolo ha un significato del tutto particolare nella Commagene. È presente anche a Nemrut Dağı, sulla terrazza in cima alla montagna. Lo studio di H. Waldmann ci permette di chiarire diversi aspetti: il termine serve soltanto a designare un santuario funebre, un santuario regale in cui si rende un culto dinastico oppure un culto ai sovrani defunti e divinizzati[13].

Ricostruzione assiometrica della tomba-tempio di Antioco I di Commagene sul Nemrut Dağı.

Lo hierothesion di Nemrut Dağı

A Nemrut Dağı avremmo così un santuario che celebra i sovrani defunti della dinastia. Mitridate I Callinico è il primo re di una nuova dinastia che fa riferimento da una parte a Dario il Grande e dall’altra ad Alessandro Magno. Due sono le serie di divinità: Mithra-Apollo e Helios-Hermes. Si tratta di una riforma cultuale di carattere sincretistico.

Waldmann pubblica il testo greco ricostruito e la traduzione tedesca del nomos, cioè dell’ordinanza cultuale promulgata da Antioco I[14]. Eccone alcuni dei passi principali. «Il grande re Antioco, dio, il Giusto, Epifanio, amico dei Romani e dei Greci, figlio del re Mitridate Callinico e della regina Laodicea, dea … ». Il sovrano nomina gli dèi ai quali consacra il suo regno: «Così, come vedi, ho eretto a questi dèi immagini davvero degne: quella di Zeus Oromasdes, quelle di Apollo-Mithra-Helios-Hermes, quelle di Artagnes, Eracle, Ares… ». Alla riga 123 comincia il nomos, la legge. Il re designa un sacerdote incaricato del culto degli dèi e degli antenati divinizzati. Il giorno dell’apoteosi degli dèi e del sovrano, costui deve vestirsi con abiti sacerdotali persiani; dovrà fare offerte di incenso e di piante aromatiche e deporre sugli altari cibi e brocche di vino. Tutti gli alimenti saranno distribuiti tra i presenti. Tutti gli ieroduli consacrati al servizio degli dèi non saranno mai ridotti in schiavitù. I villaggi consacrati a questi dèi non saranno mai proprietà di nessuno. A tutti coloro che si conformeranno piamente alle decisioni del re saranno propizi gli dèi di Macedonia, di Persia e della Commagene.

 

Lo hierothesion di Arsameia del Ninfeo

Abbiamo una lunga iscrizione in cui Antioco afferma che questo hierothesion è stato creato da suo padre, Mitridate Callinico, per gli dèi e perché vi sia deposto il suo bel corpo, passato in vita di vittoria in vittoria. Descrive poi la città di Arsameia, costruita su due collinette simili al petto di una ninfa che esce dal fiume Ninfeo. Poi ritroviamo i soliti elementi: la fondazione di un culto in onore degli dèi e dei sovrani defunti, gli incarichi dei sacerdoti, degli ieroduli e dei fedeli.

Un’altra lastra di pietra, spezzata ma che ha potuto essere ricostruita, porta al recto la dexiosis di Antioco con Mithra, al verso un’iscrizione votiva di Antioco in onore di Mithra-Helios e Apollo-Hermes. Un sacerdote è incaricato di questo culto divino. Comunque, afferma Waldmann, non si tratta di un culto misterico. n culto viene celebrato all’aria aperta, con la folla dei fedeli che partecipa al pasto rituale. Non siamo in presenza di un culto iniziatico, ma di un culto mitraico di carattere regale e pubblico. La presenza di una grotta scavata nella roccia ha fatto pensare a un mitreo, ma in realtà essa era semplicemente la camera funeraria del sovrano. Si veda la lunga discussione in Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen, nella seconda parte del volume, Die Hierothesia[15]. Waldmann propone infine un’altra osservazione importante. L’iconografia ci mostra che Mitridate I Callinico non ha soltanto parlato di belle immagini degli dèi, ma le ha anche realizzate. Lo studioso si chiede se questo culto regale della Commagene, nel quale Mithra assume un ruolo di primo piano, non sia all’origine del culto mitraico che si diffonderà nei secoli seguenti. Waldmann non risponde positivamente, a causa della mancanza di prove. Ma la questione è di un certo rilievo.

Antioco I di Commagene. Testa colossale, pietra calcarea, 64-32 a.C. ca. dallo Hierothesion, Nemrut Daği.

Il culto regale della Commagene e Mithra

  1. Ciò che stupisce in questo culto, afferma J. Gagé[16], è l’associazione tra sovrano e dio: il re si assicura l’uguaglianza con gli dèi, come dimostra la dexiosis. Ciò che stupisce ulteriormente è l’equivalenza affermata tra i nomi iranici e i nomi greci delle principali divinità: Zeus = Oromasdes, Eracle = Artagnes, Helios = Hermes, Mithra = Apollo. Abbiamo qui una doppia tetrade, che si ricollega ad Ares = Eracle-Artagnes. Gagé[17] sottolinea il fatto che Mithra, «il più prossimo al re tra questi dèi, è detto anche Apollo e in fondo non è realmente diverso da Helios-Hermes». C’è una tendenza al sincretismo delle entità divine. Jonas impiega il termine «teocrasia» per definire la tendenza al sincretismo nei nomi divini.
  2. Il culto. Secondo Gagé, al sincretismo delle entità divine corrispondono le norme prescrittive di origine persiana imposte agli osservanti del culto. L’esame archeologico del monumento di Nemrut Dağı mostra il fascio di rami (baresman) nella casa di Mithra. Si tratta del rituale mazdeo del culto del fuoco. Il sacerdote deve vestire l’abito persiano per gli atti di culto da celebrare in occasione delle feste. I sacerdoti godono di diversi privilegi. Nella celebrazione del sacrificio abbiamo offerte e vittime animali e infine la condivisione del pasto sacro.
  3. Le motivazioni psicologiche e morali. Il documento regale di fondazione del culto del sovrano insiste sulla purezza morale dei suoi protagonisti. Il re è portatore dell’eusebeia, la pietà religiosa, che è una virtù regale. La perennità del culto viene enunciata con enfasi. Alcuni autori hanno persino ritenuto che si trattasse di una continuazione dello zervanismo, con il culto di Zervan-Aion.

Quello che manca, però, è l’iniziazione di tipo misterico. Su questo punto Dörrie, Gagé e Waldmann sono d’accordo. Non si tratta di un culto misterico, bensì di un culto regale, un culto dei sovrani. I sacerdoti sono Magi. Ne era convinto Cumont, che collocava nella Cappadocia i Magi e li identificava con questi sacerdoti della Commagene.

Gagé, invece, non è di questa opinione: non si tratta di Magi, ma di sacerdoti nazionali, regali, ben contenti di conservare le loro rendite e i loro privilegi all’ombra di una dinastia nazionale. Questi sacerdoti erano tuttavia molto vicini ai Magi e il culto di Mithra sviluppò alcune delle dottrine che saranno riprese nei misteri mitraici successivi. L’astrologia, in ogni caso, era già presente in questo culto.

 

3. La dexiosis mitraica

L’esame della documentazione archeologica della Commagene ci mostra una serie di immagini in cui il sovrano stringe la mano destra a una divinità, in particolare al dio Mithra[18].

La dexiosis della Commagene secondo Waldmann

Gli autori hanno interpretato in modo differente questa scena, che nella Commagene troviamo molto diffusa. Per alcuni si tratta di un gesto di saluto del sovrano e del dio. Ma, si chiede Waldmann, chi saluta e chi viene salutato? È il dio che saluta il re o è il re che accoglie il dio? Dörrie pensa, invece, che questa dexiosis sia da mettere in relazione all’astrologia: gli dèi si avvicinano (come le stelle, come i pianeti) e salutano il sovrano, la stella regale. Waldmann ritiene di trovare la spiegazione nelle righe 61-63 di Nemrut Dağı. «L’antichissima dignità degli dèi l’ho presa come compagna di una giovane fortuna». Antioco tratta dunque gli dèi in modo attivo, associandoli alla propria sorte. È lui ad avere l’iniziativa. Va persino più lontano: esso era una dignità arcaica a un elemento nuovo, come risulta dalle righe 24-27: «Quando ho ripreso la sovranità paterna ho stabilito il regno, sottomesso al mio trono sulla base della mia pietà, come residenza comune di tutti gli dèi». Waldmann insiste piuttosto su un altro fatto. Non è Antioco ad aver introdotto il culto, bensì Mitridate I Callinico, suo padre. È costui, quindi, che ha accolto nel suo regno, come residenti ufficiali, le divinità di Persia e di Macedonia. Non si tratta, per il sovrano, di prendere il posto degli dèi, ma di portarli nel suo regno. Waldmann ritiene, interpretando le iscrizioni delle stele, che il re della Commagene distingua due nature divine (Gottum), quella degli dèi e la propria: rivendica per sé una virtù, l’eusebeia; utilizza per sé il termine dikaios, ponendosi così nell’ambito della giustizia; sottolinea il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni ha sempre fatto la volontà degli dèi; evita accuratamente ogni possibile confusione tra gli dèi e se stesso; nei documenti iconografici della dexiosis non si pone mai nella condizione di poter essere identificato con gli dèi, ma si presenta come il re divino; pone i propri santuari sotto la protezione degli dèi e non sotto la propria protezione, per quanto divina. Per Waldmann in questi casi non abbiamo a che fare con una apoteosi: la dexiosis non è una divinizzazione del sovrano. Il re è divino e si mostra come tale al suo popolo. In quanto re divino, nella sua epifania divina, instaura nel suo regno un nuovo culto. Questo culto è reso agli dèi di Grecia e di Persia, ma con una predilezione per la teologia astrale, dal momento che le divinità astrali assumono un ruolo assai importante. In tale culto il ruolo di Mithra è centrale. Fondamentale, in ogni caso, è l’elemento della dexiosis tra il re e la divinità, tra il re e Mithra[19].

Antioco I di Commagene stringe la mano ad Eracle. Bassorilievo, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

Dextrarum junctio: la dexiosis

Disponiamo di una ragguardevole sintesi della nostra documentazione sulla dexiosis grazie a uno studio di M. Le Glay, La dexiosis dans les mystères de Mithra[20]. L’autore ha analizzato la documentazione di numerosi monumenti antichi, greci e cristiani. La dextrarum junctio è stata interpretata in modi differenti: come simbolo della fides o come il gesto degli sposi che si uniscono in matrimonio. Oggi sappiamo che questo gesto non appartiene né al rituale né alla simbologia del matrimonio, ma è divenuto, nel mondo cristiano, signum concordiae.

Nell’iconografia mitraica abbiamo soprattutto due episodi raffigurati sui bassorilievi cultuali collocati intorno alla scena della tauroctonia:

  • La scena dell’alleanza tra Mithra e il Sole: Mithra e il Sole si danno la mano destra, di solito al di sopra di un altare, «e questo conferisce al loro gesto un valore particolarmente sacro»[21]. «E questa dextrarum junctio è rappresentata con particolare frequenza tra il pannello che mostra il Sole inginocchiato ai piedi di Mithra e quello che ricorda il pasto sacro dei due personaggi»[22].
  • La scena dell’apoteosi: «Quando Mithra prende posto sul carro del Sole che deve condurlo fino al soggiorno celeste degli dèi, il Sole gli tende la sua destra, che il giovane dio stringe, a sua volta, con la mano destra. Questa seconda dexiosis non ha evidentemente lo stesso significato della prima».

I due episodi occupano un posto particolare nel mito e nella liturgia mitraici. Ciascuno di essi conclude una diversa serie iconografica: la serie breve termina con l’alleanza; la serie lunga con l’apoteosi e il banchetto, che seguono logicamente la scena dell’alleanza.

Per comprendere la dexiosis:

  • L’importanza del giuramento nelle società antiche. Dumézil e Boyancé hanno sottolineato l’importanza della fides, della devotio e del giuramento nella società romana.
  • La pax deorum in Occidente, la sottomissione e l’assoggettamento degli uomini agli dèi è uno degli aspetti fondamentali di questa realtà.
  • Il giuramento assume in tutte le religioni misteriche e iniziatiche un ruolo particolare: nel culto dionisiaco, nei culti alessandrini, l’Isismo e l’Osirismo.
  • Nel culto di Mithra il giuramento è proprio al centro del «gesto» divino e del rito di iniziazione dei fedeli. Questo giuramento solenne, di cui parla Tertulliano, è un sacramentum. «Colui che partecipa al mistero imita i gesti di Mithra, che tendendo la destra secondo l’uso persiano conclude il patto e ratifica il proprio giuramento».

La mano destra detiene la potenza ed esprime la volontà. In Oriente, a Roma, nella Bibbia, la destra è simbolo di potenza e di supremazia. In Siria la simbologia della mano è il segno della presenza di Dio. Da qui l’importanza della mano per gli dèi del tuono: è la mano a reggere il fulmine. Le mani votive ritrovate in Siria rimandano al culto di Giove Dolicheno. La mano divina dispensa potenza.

La mano è presente nella simbologia semitica, frigia, greca, romana e cristiana. Come in Oriente, la simbologia della potenza della mano destra si ritrova anche a Roma: potenza, protezione, benedizione. La mano destra è segno di impegno. A Roma la mano è associata alla dea Fides. P. Boyancé ha criticato una interpretazione esclusivamente giuridica di Fides, per segnalare alcuni suoi aspetti morali, sociali e religiosi[23]. Giove è Dius Fidius, e Fides, onnipresente a Roma, risulta una sorta di complemento di Dius Fidius. Nel rito della mano velata Le Glay vede un’esigenza di purezza assoluta e di rispetto della potenza divina. Le Glay si chiede se, in definitiva, Fides non sia proprio la dea dell’impegno.

Mitra (destra) stringe la mano ad Antioco I di Commagene (sinistra). Bassorilievo su stele, pietra calcarea, seconda metà del I sec. a.C. ca., dal settore occidentale dello Hierothesion di Antioco, Nemrut Dağı.

Dextrarum junctio: è il gesto che lega le potenze. La fides crea un legame, testimonia l’impegno. Boyancé ha indicato la stretta relazione tra le destre allacciate e la fides.

Così, la stretta di due mani destre evocata da tanti testi e raffigurata su tanti rovesci di moneta va compresa in tutti i casi come il segno, la testimonianza di un impegno volontario e reciproco. O meglio, essa stessa crea il legame.

Molti sono gli esempi di impegno di questo genere: impegno frutto dell’accordo che risulta da un trattato tra un vincitore e un vinto; impegno di alleanza e concordia che può risultare da un trattato; impegno di accoglienza, di ospitalità; accordo di fedeltà e di omaggio; impegno suggellato da un giuramento.

Che conclusioni trame?, si chiede Le Glay.

Che la mano destra, essendo insieme quella della potenza e quella dell’impegno, con la dexiosis crea tra gli uomini legami di ogni tipo, certamente di natura giuridica e morale, ma di essenza profondamente religiosa; legami che generalmente implicano una protezione volontaria e leale da una parte e una sottomissione volontaria e leale dall’altra[24].

Così trasposta all’ambito religioso, la dexiosis risulta ancora più importante.

 

La dexiosis nel mitraismo

a) Il parallelo dei culti orientali

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Le Glay propone la descrizione di diversi documenti. Innanzitutto la stele degli dèi palmireni trovata a Roma: Aglibol, dio lunare che indossa un’uniforme militare romana, stringe la mano al dio Malakbel, dio della fertilità, in costume palmireno. Questo gesto si ritrova a Palmira e ad Apamea: Le Glay vede qui un riferimento alla fecondità, ma anche alla salvezza, con un dio che rinasce ogni anno. Sull’altare del Campidoglio, sulle quattro facce, sono visibili le quattro fasi del sole: crescita, apogeo, declino, rinascita.

La dexiosis, gesto di introduzione: questo è il significato della scena nel culto dionisiaco. Le Glay descrive e analizza le immagini di un altare funerario di epoca imperiale. Dioniso riporta dall’Acheronte sua madre Semele e la conduce in cielo.

E la dextrarum junctio di Dioniso e di Semele mi pare dunque, sulla stele funeraria dei Musei Vaticani, evocare in realtà l’introduzione nell’aldilà beato, promesso ai misti, come normale conseguenza del loro impegno[25].

b) La dexiosis mitraica

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Mithra, il dio tauroctono, sconfigge le forze del male. Il Sole porta rinascita e salvezza. La dexiosis sta dunque a significare l’alleanza, l’impegno, il patto. Siamo nel contesto della fecondità. Il pasto sacro è segno dell’alleanza in vista della fecondità. La dexiosis nell’apoteosi di Mithra. Mithra sale e prende posto nel carro del Sole. È l’apoteosi, che prefigura l’accoglimento dell’iniziato. Con la dexiosis il Pater accoglie il nuovo iniziato, che stringe a sua volta la mano agli altri.

La dexiosis, unione di due mani destre che detengono la potenza ed esprimono la volontà, da un lato suggella l’impegno definitivo del miste con la divinità, creando con il dio e tra i misti un legame fraterno e indissolubile garantito dal giuramento, e dall’altro costituisce in fin dei conti un pegno certo di salvezza[26].

In sintesi, la dexiosis ha il valore di un giuramento con doppio impegno: dexiosis come impegno di tacere sul segreto della rivelazione e come impegno di fedeltà al contratto. È l’ingresso del miste nella milizia del dio Mithra, simbolo e garante del contratto. Il sacramentum, il giuramento, è di capitale importanza. Segno del giuramento e della fedeltà è il tatuaggio sacro, la sphragis, realizzato per mezzo di aghi acuminati. Una volta che il giuramento è prestato e l’impegno suggellato, il miste riceve la rivelazione. «Al miste il Pater dirà (i discorsi sacri)». Con questi riti si costituisce la comunità fraterna (syndexis, di quelli che si danno la mano) del mitreo, la comunità di coloro che sono salvati. Attorno alla dexiosis si svolgono così tre cerimonie liturgiche mitraiche.

In conclusione, Le Glay si domanda: «Si può constatare, nel passaggio dal rituale vedico al rituale dell’epoca imperiale romana, un arricchimento del significato e del valore della dexiosis?»[27]. E risponde:

È difficile da dire. Ciò che sembra certo è che in epoca romana la dexiosis finisce per essere molto più che il gesto del giuramento. E che con il suo triplice significato di gesto di introduzione, di alleanza e di fratellanza, avente sia valore di impegno, di patto concluso con la divinità da un lato e con i misti dall’altro, e di garanzia del segreto, condizione primaria e fondamentale della vita comunitaria fraterna, di cui ha significato la Inductio, essa si trova al cuore delle relazioni che governano principalmente la natura stessa e la vita delle religioni misteriche. E, a quanto sembra, del mitraismo in particolare, dato il posto senza eguali che essa occupa nei misteri di Mithra. Innanzitutto per le relazioni che crea con la divinità, relazioni di natura complessa (di sottomissione, di omaggio, di alleanza e di mutua fiducia), sicché in questo modo l’impegno e il patto culminano nell’unione mistica dell’apoteosi. In seguito, nei rapporti di carattere giuridico e morale di segreto e di fratellanza[28].

E infine Le Glay pone una questione molto pertinente:

Non starebbe forse in questo duplice soddisfacimento delle preoccupazioni e delle esigenze dei Romani, la cui formazione li portava a una attenzione particolare agli aspetti giuridici e le cui aspirazioni li orientavano al misticismo, una delle ragioni profonde del successo di cui godette in Occidente la religione di Mithra negli ambienti romani e romanizzati?[29]

Mitra nell’atto della dexiosis. Bassorilievo frammentario, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

4. Conclusioni

La nostra ricerca ci ha consentito, dunque, di mettere insieme una certa quantità di informazioni. Nel mondo ellenistico il dio Mithra non è sconosciuto. Le indicazioni di Plutarco su un culto mitraico di carattere iniziatico in Cilicia, nell’ambiente dei pirati, a partire dalle scoperte nella Commagene non risultano più massi erratici. Nella stessa epoca e in regioni molto vicine si parla egualmente di Mithra. Plutarco ci porta in Cilicia; le scoperte archeologiche ci portano nella Commagene. Sono scoperte importanti, poiché troviamo un culto di Mithra, culto pubblico, culto regale, con un sacerdozio e un rituale.

Questo culto pubblico ·e regale d’Asia minore fa riferimento a riti persiani, mazdei, a un sacerdozio che fa pensare ai Magi, dunque ai Medi, a divinità iraniche ma anche a divinità greche. L’ellenismo si manifesta, dunque, in modo netto. Mithra occupa un posto importante in questo culto regale, culto che, del resto, fa appello all’astrologia, che è presente ovunque, così come sarà presente nei misteri diffusi in Occidente. Esiste un luogo di culto, ma non sembra che si tratti di un mitreo, dal momento che i riti vengono celebrati all’aria aperta. n santuario si chiama hierothesion, un termine che sembra indicare piuttosto un culto regale di carattere funerario, un culto dei sovrani. La vasta documentazione iconografica ed epigrafica scoperta nella Commagene attirerà ancora, certamente, l’attenzione degli studiosi.

Accanto alle questioni legate al culto, alle corrispondenze geografiche e cronologiche, agli elementi del rituale, ci pare rilevante la questione della dexiosis mitraica. Troviamo la dexiosis nella liturgia mitraica e nell’iconografia dei misteri di Mithra: il Sole e Mithra che si danno la destra. Nella Commagene troviamo una dexiosis del tutto simile: il sovrano-dio dà la destra a Mithra, che è anche Helios.

Le scoperte della Commagene, il rituale e l’iconografia della dexiosis sembrano dare nuovo slancio a questo ambito degli studi mitraici. In una nota pubblicata alla fine del suo articolo, Le Glay segnala una serie di pubblicazioni recenti su questi aspetti, in particolare quelle di Gonda sul dio Mitra vedico e sul significato della mano destra nel rituale vedico. Egli affronta anche il problema della dexiosis nella Commagene, senza tuttavia prendere personalmente posizione.

Nelle scoperte della Commagene non abbiamo forse l’anello mancante che collega il dio Mitra dell’India, il dio Mithra iranico e il dio Mithra dei misteri dell’Impero romano? n fatto di porre la questione è forse già una risposta. Lo studio dei documenti della Commagene ci ha consentito di notare l’importanza dell’ellenizzazione del culto di Mithra. Nei documenti nella Commagene dell’India avevamo visto il dio sovrano Mìthra del mondo indoiranico. Un dio sovrano che ritroviamo in Iran, dove il suo culto si conforma all’evoluzione della religione iranica. Siamo in effetti in presenza di una iranizzazione del culto, nella quale assumono evidentemente un ruolo capitale i Magi e lo zervanismo. Forse non bisogna trascurare l’importanza dei Männerbünde, i gruppi guerrieri specificamente iranici. Nella Commagene ci troviamo di fronte a una terza tappa del culto di Mithra: la sua ellenizzazione.

In questa tappa il culto di Mìthra rimane un culto ufficiale. Diventa un culto regale, un culto dei sovrani. In questo culto troviamo tuttavia alcuni elementi religiosi, come la dexiosis, che saranno importanti nella quarta e ultima tappa del culto di Mithra: i misteri mitraici o la romanizzazione di Mithra.

***

Note:

* Le cult de Mithra en Commagène, in J. RIES, Le culte de Mithra en Orient et en Occident, coll. « Information et Enseignement » 10, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1979, pp. 115-126.

[1] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen unter Konig Mithradates l. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos 1., Brill, Leiden 1973, XXXVIII tavole e una carta.

[2] F.K. DÖRNER, Mithras in Kommagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques. Actes du 2me Congrès international, Téhéran, du 1er au 8 septembre 1975, «Acta Iranica» 17, Édition Bibliothèque Pahlavi, Téhéran-Liège 1978, pp. 123-134; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Iran and Greece in Commagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 187-200.

[3] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., e F. DÖRNER, Arsameia am Nymphaios. Die Ausgrabungen im Hierothesion des Mithradates Kallinikos, von 1953-1956, coll. «lstanbuler Forschungen» 23, Verlag Gebr. Mann, Berlin 1963.

[4] R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, PUF, Paris 1968, pp. 106-107.

[5] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, Lamertin, Bruxelles 1899, 19133, pp. 35-36

[6] E. WILL, Origine et nature du mithriacisme, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 527-536.

[7] Ibid., p. 528.

[8] E.D. FRANCIS, Plutarch’s Mithraic Pirates, «Mithraic Studies», I, Manchester 1975, pp. 207-210.

[9] M.J. VERMASEREN, Mithra, ce dieu mystérieux, Sequoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 23.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 24.

[12] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, cit., p. 31.

[13] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., pp. 132-141.

[14] Ibid., pp. 62-77.

[15] lbid., pp. 51-141.

[16] J. GAGÉ, Basileia, les Césars, les Rois d’Orient et les Mages, Les Belles Lettres, Paris 1968, pp. 144-146.

[17] Ibid., p. 144.

[18] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., tav. VIII, stele di Selik; tav. XXI, terrazza di Nemrut Dağı, la dexiosis re-Eracle; tav. XXII, la dexiosis re-Zeus e re-Mithra; tav. XXXI, Mitridate-Eracle.

[19] Ibid., pp. 197-202.

[20] M. LE GLAY, La dexiosis dans les mystères de Mithra, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 279-304.

[21] Ibid., p. 280.

[22] Ibid.

[23] P. BOYANCÉ, Études sur la religion romaine, École Française de Rome, Rome 1972. Cfr. Fides et le serment, pp. 92-103, 296, 299, 300.

[24] M. LE GLAY, La dexiosis…, cit. p. 296.

[25] Ibid., p. 299.

[26] Ibid., p. 300.

[27] Ibid., p. 302.

[28] Ibid., pp. 302-303.

[29] Ibid., p. 303.

***

Bibliografia complementare:

FR.K. DÖRNER, Arsameia am Flusse Nymphaios. Eine neue kommagenische Kultstätte, «Bibliotheca Orientalis», 9, 1952, pp. 93ss.

H. DÖRRIE, Der Königskult des Antiochos von Kommagene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Vandenhoeck &. Ruprecht, Göttingen 1964.

R. MERKELBACH, Der kommagenische Königskult, in ID., Mithras, Hain, Königstein/ Ts. 1984, pp. 50-73 [tr. it. Mitra, coll. «Nuova Atlantide», ECIG, Genova 19982]. Cfr. anche Bildteil, pp. 261-395. Vasta documentazione mitraica commentata dall’autore.

TH. REINACH, La dynastie de Commagène, «Revue des études grecques», 3, 1890, pp. 362-380.

B. YAMAN, Nemrut Dagi, Commagena, Minyatür, lstanbul s.d. (edizione francese). Bella documentazione a colori. 126 pp.

Il mitreo di Proficenzio, pater sacrorum (AE 1950, 199 = CIMRM I 423)

vd. AE 1950, 199 = CIMRM I 423; cfr. SCARPI P., ROSSIGNOLI B. (a cura di), Le religioni dei Misteri, vol. II., Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Milano 2002, pp. 376-377; 396-397; 557-558; 564.

 

 

Numerose iscrizioni documentano la costruzione o la ricostruzione di spelaea: CIMRM I 706, dall’Italia, attesta infatti la ricostruzione, per opera del pater patratus Publio Acilio Pisoniano, di uno spelaeum distrutto da un incendio. Si vd. anche CIMRM I 652, sempre dall’Italia. Dalla dedica di una grotta con statue e ornamenti parla un’iscrizione africana (CIMRM I 129), di una con statue e con un altare un’iscrizione dall’Italia (CIMRM I 6609. Di una grotta espressamente destinata al culto parla un’iscrizione dalla Mesia Inferiore (CIMRM II 2296). La grotta è il luogo ideale per un ladro di buoi come Mitra[1], ma era per i seguaci del dio anche un’immagine del mondo entro il quale si svolgeva la vita umana[2]. All’interno di queste grotte aveva luogo il sacrificio del toro (CIMRM II, figg. 614, 620-621, 630, 632, 643, 645), si svolgevano le azioni rituali e si celebravano le iniziazioni[3]. La grotta non è forse lo spazio selvaggio e inabitato, ma certamente è uno spazio “altro” rispetto al quotidiano in cui scorre la vita umana.

 

Hic locus est felix sanctus piusque benignus.

quem monuit Mithras mentemque dedit

Proficentio patris sacrorum.

utque sibi spelaeum faceret dedicaretque

5        et celeri instansque operi reddit munera grata

quem bono auspicio suscepit anxia mente

ut possint syndexi hilares celebrare uota per aeuom.

hos uersiculos generauit proficentius

pater dignissimus Mithrae.

*

Questo luogo è propizio, santo e pio (e) fausto,

Mitra lo ispirò e lo suggerì

a Proficenzio, padre dei sacri riti,

perché facesse edificare e consacrare in suo onore una caverna,

5        e, affrettando il compimento dei lavori, egli offrì doni gradevoli,

e gli fornì auspici favorevoli per sostenerne l’animo inquieto

perché felici gli iniziati uniti nella stretta di mano[4] possano

[celebrare i loro voti in eterno.

Compose questi brevi versi Proficenzio,

padre degnissimo di Mitra.

*

This spot is blessed, holy, observant and bounteous:

Mithras marked it, and made known to

Proficentius, Father of the mysteries,

That he should build and dedicate a Cave to him;

5        And he has accomplished swiftly, tirelessly, this dear task

That under such protection he began, desirous

That the Hand-shaken might make their vows joyfully forever.

These poor lines Proficentius composed,

most worthy Father of Mithras[5].

Mitra e Sole a banchetto. Affresco, 168 d.C. ca., dal Mitreo di Dura Europos (Siria). Yale University Art Gallery.

 

***

 

Note:

[1] CAMPBELL L.A., Mithraic Iconography and Ideology, Leiden 1968, pp. 7-9; COMMOD. Apol. I 13, 1-2; 4; 6-7.

[2] MERKELBACH R., Mitra, Genova 1988, p. 137.

[3] Cfr. TERT. cor. 15, 3; SFAMENI GASPARRO G., Il mitraismo: una struttura religiosa tra “tradizione” e “invenzione”, in BIANCHI U. (a cura di), Mysteria Mithrae. Atti del seminario internazionale (Roma-Ostia 28-31 marzo 1978), Leiden-Roma 1979, pp. 354-355.

[4] syndexi: è frequente nell’iconografia mitraica la rappresentazione di due figure maschili unite da una stretta di mano; stringendo la mano che il pater, che occupava il grado più alto nella gerarchia iniziatica, gli offriva, l’iniziando instaurava uno stretto rapporto personale con quello e ne diveniva, per così dire, aiutante (MERKELBACH 1988, p. 130). Attraverso di essa si sigillava l’impegno solenne dell’iniziato con la divinità e con gli altri iniziati (LE GLAY M., La δεξίωσις dans les mystères de Mithra, Acta Iranica XVII 1978, pp. 300-301).

[5] CLAUSS M., The Roman Cult of Mithras: The God and His Mysteries, London 2017, p. 42.

La politica religiosa di Giuliano l’Apostata

di G. Coppola, Padova 2006.

Dice Voltaire che di Giuliano filosofo la miglior parte è nelle lettere scritte ai capi dell’organizzazione religiosa pagana, ispirate a sensi di clemenza e di saggezza, e tali che, pur condannandone gli errori, noi ammireremo sempre la grandiosa figura di questo sventurato imperatore. Le lettere, come è noto, costituiscono, coi frammenti delle leggi da lui promulgate, un documento vivacissimo della sua attività politica, sebbene molte ne siano andate perdute, perché distrutte dagli avversari, e non poche delle conservate siano, purtroppo, mutile. La sua politica religiosa dovremo ricostruirla e studiarla leggendone le lettere, poiché Giuliano non fu soltanto un teorico, ma anche un vero uomo d’azione, e capace di mirabili energie di condottiero e di politico tutte le volte che l’occasione lo richiedesse, o la necessità lo imponesse.

Giuliano. Siliqua, Lugdunum, 360 d.C. Æ 1,83gr. Recto: legenda: Fl(avius) Cl(audius) Iulianus P(ater) p(atriae) Aug(ustus). Busto diademato di perle, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato verso destra.

Dalla sua politica è lecito dire che seguì uno sviluppo lineare e coerente; che fu un’accorta politica: voluta e fatta da un uomo il quale non si lasciò mai dominare da altri interessi che quelli superiori delle norme alle quali ubbidiva, o meglio della fede in cui militava. Il suo gioco politico, che parte da una forma di tolleranza e giunge, o minaccia di giungere, alla più stretta e tenace intransigenza, è onesto gioco; non da irrequietezza né da cieco abbandono, ma da sempre vigile coscienza esso è retto e soprattutto dalla volontà di trasformare il vacillante Impero, corrotto e tarato, in un organismo che rispondesse alle esigenze dei tempi. Del Cristianesimo egli riconosce i meriti e capisce l’importanza sociale; però tenta di strappare alle organizzazioni cristiane i mezzi che ne affermano la potenza, per farne mezzi del nuovo Paganesimo, o dell’Ellenismo del quale si elegge pontefice massimo.

Come mai e perché Giuliano sia passato dalla fede cristiana alla pagana c’è ignoto. L’opera sua Contra Galilaeos non ci è giunta che in frammenti, e la ricostruzione tentatane sarà ingegnosa ma non certo sicura. Irrequietezza? È probabile. Ma il fatto solo ch’egli non trovò neppure nel Cristianesimo la legge morale nella quale pacificarsi denunzia in lui un pagano. Nel vecchio Paganesimo, crollante e miserabilmente confuso e diviso, non gli era possibile trovare leggi che potessero reggere i popoli dell’Impero, e dare un volto all’Impero che non aveva più una sua fisionomia; e però egli inventa, si può dire che crei, una nuova religione che non è né cristiana né pagana; e cerca di imporla. Io, dunque, capovolgerei i termini della questione, e direi piuttosto che l’uomo di governo ha fatto nascere in lui il capo della nuova religione, e non già che il religioso ha creato l’uomo politico. Giuliano, nelle lettere, ci presenta il caso singolare di un imperatore che ormai è ribelle alla fede cristiana, e, tuttavia, non è più un pagano: la sua vera fede è nella fusione geniale dei due poteri, del religioso e del politico, che minacciavano di separarsi irreparabilmente e di costituire due Stati l’uno all’altro avverso o l’uno all’altro sottomesso. Le precedenti persecuzioni contro i cristiani avevano denunziato che l’esercito era inficiato dallo spirito indipendente e rivoltoso del Cristianesimo, ma Giuliano è il primo ad accorgersi che tutte le gerarchie dell’Impero sono o minacciano di essere dominate dalle nuove correnti ufficialmente immessevi da Costantino. I documenti pubblicati pochi anni or sono da Idris Bell sulle lotte tra Atanasiani e Melitani in Alessandria d’Egitto dimostrano fino all’evidenza quanto malfermo dovesse essere l’Impero di Costanzo, e come si trovasse alla mercé di movimenti religiosi cristiani che lo costringevano a fare della politica uno strumento della nuova religione. Era dunque naturale che un imperatore il quale non era né ortodosso né cristiano, ma dalla fede cristiana era ritornato alla morta fede pagana, dovesse trovarsi innanzi alla necessità di un programma politico nuovo e gigantesco: dare allo Stato una religione, e combattere le organizzazioni cristiane. In una parola, riformare, o meglio rivoluzionare lo Stato e creare un nuovo Stato.

Che Giuliano odiasse il Cristianesimo è certo. La sua opera Contra Galilaeos tendeva a dimostrare che neppure i cristiani erano capaci di dare al mondo una legge morale. L’Apostata si compiace di considerare ironicamente aspetti della vita vissuta dei cristiani, coglierne le contraddizioni con le norme evangeliche, sorride della loro frenesia di martirio. Giuliano, ad esempio, si accorge che dare nuovi martiri al Cristianesimo che già tanti ne aveva, è un pericolo, e cerca, quando lo può, di evitare persecuzioni sanguinose, nello stesso modo che s’adopera affannosamente a strappar loro quelle istituzioni filantropiche che ne possono rendere sempre più efficaci fra il popolo la predicazione. I cristiani avevano ospizi, organizzazioni culturali, scuole, ecc.: Giuliano creerà ospizi pagani, organizzazioni culturali pagane, e avocherà allo Stato il diritto di nominare professori. Egli non soltanto toglie ai cristiani le concessioni ottenute con Costantino, ma li isola dallo Stato senza altre persecuzioni che questa – se persecuzione può dirsi – derivante dalla proclamazione dello Stato ad arbitro inappellabile di scegliersi funzionari, di dare alle scuole insegnanti e all’esercito soldati che non riconoscano nessun’altra autorità umana o divina superiore allo Stato. Stato totalitario.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Barberini Lat. 2154, Chronographia (VII-VIII sec. d.C.). Miniatura relativa all’anno 354, raffigurante Costanzo II.

Ma l’odio suo per il Cristianesimo non è soltanto un odio letterario o filosofico, non deriva soltanto da un atteggiamento spirituale del tutto diverso. In Giuliano, nella vita sua, c’erano altri elementi che valevano a giustificare l’odio dell’imperatore. Il padre, il fratello Gallo e altri parenti suoi erano stati uccisi dalla corte di Costanzo, dove dominavano i cristiani ariani: lui stesso, Giuliano, era stato segregato dal mondo e costretto alla solitudine nel Fundus Macelli nei pressi di Cesarea di Cappadocia. Ragioni politiche, che non siamo in grado di controllare, ne lo richiamarono, e gli ottennero il governo delle Gallie come Caesar, vale a dire come «vice-imperatore». E nelle Gallie Giuliano si rivelò ottimo condottiero così da destare gelosie nella corte di Costantinopoli e indurre Costanzo a privarlo del prefetto del pretorio, il valoroso Sallustio. Giuliano era sempre in relazione con membri della corte di Costantinopoli rimastigli fedeli. In una lettera ad Oribasio, che fu poi suo medico, egli racconta un sogno che gli sembra foriero di grandi novità: ha sognato di un albero grande accanto al quale, dalle stesse radici, nasce un arbusto che a poco a poco s’irrobustisce e si leva su dritto, mentre l’altro, quello grande, si piega a terra. Giuliano teme per l’arbusto che non soccomba anch’esso con la rovina del grande albero, ma un amico gli dice di non aver paura ch’esso verrà su forte perché buone sono le radici, e ben ferme e fresche nella terra. Quando Giuliano scrive quella lettera, nel 358, Sallustio è già stato richiamato, e anche di Sallustio infatti egli scrive ad Oribasio, dolente di non averlo più seco nel campo.

Allora, egli meditava già, e sognava, nuovi tempi, l’Impero nelle sue mani, la rivolta. Egli era un letterato, conosceva bene i classici. Conosceva certo anche Sofocle, e di Sofocle avrà, senza dubbio, letto anche l’Elettra. Nell’Elettra, quando Crisotemi reca alla tomba di Agamennone le offerte sacrificali di Clitemnestra ed Elettra le domanda come mai l’omicida osi far sacrifici sulla tomba dell’assassinato, la dolce creatura narra di un sogno che Clitemnestra ha avuto la notte prima: Agamennone, nella terrificante visione, avrebbe afferrato il suo antico scettro, usurpato dall’adultero Egisto, e lo avrebbe infisso nella terra, donde subito nacque un germoglio, rigoglioso che in poco si fece grande così da coprire con la sua ombra l’intera Micene (417 sgg.). Nella mente di Giuliano era presente il sogno di Clitemnestra. La tragedia degli Atridi è un po’ simile alla tragedia della casa dei Costantinidi, e in Giuliano, anche se le vicende politiche gli hanno suggerito di operare altrimenti, viva doveva essere la volontà di vendicare gli assassinii compiuti dalla corte di Costanzo.

Giunge, invece, due anni più tardi il giorno della rivolta dei soldati che lo proclamano imperatore; e si rinnovano per lui, ancora titubante ed amletico, i dubbi di Germanico. Per lealismo il cavalleresco Germanico aveva rifiutato di battersi contro Tiberio; Giuliano si sente invece chiamato alla grande prova da tutto un tragico passato, dall’uomo di lettere e dal filosofo che vivono in lui accanto all’uomo d’armi, da un ardore mistico che lo trascina a volere potentemente la riforma dello Stato.

Testa di Costanzo II. Marmo, IV secolo d.C. dalla Siria. University of Pennsylvania’s Museum of Archaeology.

A Niš, nell’odierna Serbia, sulla via di Costantinopoli, il novembre del 361 gli giunse improvvisa la notizia della morte di Costanzo:

«Inter quae tam suspensa advenere subito missi ad eum legati Theolaphus atque Aligildus, defunctum Constantium nuntiantes addentesque quod eum voce suprema successorem suae fecerit potestatis» (Amm., XXII 2, 1).

Proclamato imperatore nelle Gallie, dal luglio al novembre, alla testa di un esercito bene agguerrito era sceso lungo il Danubio senza contrasto, e s’era fatto signore di tutte le terre occidentali fino al cuore dei Balcani, mentre altre truppe guidate da Giovino e Giovio scendevano per l’Italia. Aveva promulgato editti e indirizzato lettere alle autorità delle varie province, a Roma e ad Atene, denunziando le ragion della guerra e accusando Costanzo di intransigenza, scagionandosi dalle possibili gravi conseguenze della lotta fratricida; ma di fatto aveva cercato di venire a trattative con il cugino e di accordarsi con lui su una divisione dell’Impero. Il suo primo programma, nel dubbio del successo, dovette essere di farsi signore dell’Occidente e rafforzarsi in posizioni che, minacciose per l’avversario, avrebbero potuto consigliare l’accordo; donde la sua aperta adulazione al Senato romano e a quello ateniese, ma specialmente al primo, ch’egli promette di riformare e di rendere autorevolissimo distruggendo le innovazioni di Costantino, quod barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas consulares. Abilmente, egli giocava sulle gelosie tra l’Oriente e l’Occidente, più sicuro in questa che non nell’altra parte dell’Impero, dove c’erano una corte che l’odiava, e un esercito in marcia per combatterlo. Ma ecco che Costanzo muore, e la politica di Giuliano si volge verso un altro programma, più vasto e più difficile ad attuare, ma certo più grandioso e suggestivo.

Da Niš si diresse a marce forzate su Costantinopoli. Durante l’avanzata scrive agli amici che lo raggiungano a corte, e lascia già intravedere la volontà di riformare e d’iniziare tutto un lavoro di rivoluzione. I primi giorni di governo li impiega nelle cosiddette assise di Calcedonia e nella proclamazione di tolleranza, due atti che documentano la caduta di Costanzo e della corte di Costanzo e il sorgere improvviso di un imperatore che si era fatto dell’Impero un concetto troppo diverso dal comune. Chi legga i Caesares, l’operetta morale in cui passa in rassegna gli imperatori romani, intende subito a che mirasse il nostro e dove tendesse la mente ansiosa di raggiungere la meta. Egli disprezza apertamente la politica di Costantino ed esalta senza riserve Marco Aurelio, ma errerebbe chi volesse crederlo diverso da Costantino e cieco imitatore di Marco Aurelio del quale egli apprezza soprattutto la mentalità filosofica e quel suo rigoglioso spirito stoico. Né la sua personalità si concretizza in qualche cosa di mezzo tra quei due suoi predecessori. Uomo di governo, concepisce il magistrato come Ammiano Marcellino lo descrive nelle sue storie, dotato di cultura, virtuoso e sobrio, intenditore di poesia e di musica, secondo l’ideale risultante dal contemperamento di tutte le filosofie pagane nella teurgia di Giamblico. La legge è per lui ἔκγονος τῆς δίκης ἱερόν ἀνάθημα καὶ θεῖον ἀληθῶς τοῦ μεγίστου θεοῦ, emanazione diretta del dio; e quindi l’imperatore è artefice infallibile di questa legge, o, se si vuole, l’interpreta inappellabile, appunto perché ὁ δὲ ἀγαθός βασιλεύς, μιμούμενος ἀτεχνῶς τὸν θεόν, οἶδε μέν καὶ ἐκ τῶν πετρῶν ἐσμούς μελιττῶν ἐξιπταμένους, καὶ ἐκ τοῦ δριμυτάτου ξύλον τὸν γλυκύν καρπόν φυόμενον, è depositario, cioè, delle virtù divine e capace di far volare dalle pietre sciame di api e far nascere frutti dal tronco di arido legno. Sono parole di Giuliano, pronunciate nel discorso in onore di Costanzo, pochi giorni prima di iniziare l’attività sua di governo: chi dunque vorrà negare che dal concetto ieratico ch’egli aveva dell’Impero e dell’assoluta prevalenza dell’autorità imperiale e dei supremi diritti dello Stato su qualunque altra autorità o diritto siano nate le decisioni di Calcedonia e l’editto di tolleranza?

Le assise di Calcedonia. Ecco il primo atto ostile ai cristiani. La corte di Costanzo aveva offerto a Giuliano il mezzo migliore per legittimare l’usurpazione e la rivolta annunziandogli ufficialmente che l’imperatore suo cugino, morendo, lo aveva proclamato erede dell’Impero. La notizia era falsa, giacché dallo stesso racconto di Ammiano (XXI 15, 4) risulta che la designazione del nuovo imperatore fu piuttosto abile mossa della corte di Costanzo che non volontà di Costanzo. Si trattava di rimediare alla meglio a una situazione terribile quale era quella della corte imperiale, che, avversa a Giuliano, veniva a trovarsi, per l’improvvisa morte di Costanzo, alla mercé di Giuliano. Urgeva correre ai ripari, ed Eusebio stesso, il comes cubiculi, l’anima, si può dire, del passato governo, sembra aver consigliato di rendere a Giuliano segnalatissimo servizio nella speranza che si potesse così placarne il rancore e la vendetta, o, anzi, la giustizia: incitante, ut ferebatur, Eusebio, quem noxarum conscientia stimulabat.

Missorium di Kerch, con Costanzo II.

Ci fu dunque un tentativo di riavvicinamento fra la corte di Costanzo e Giuliano, ma non sortì buon esito, poiché il giovane imperatore agì con la severità necessaria, e le assise di Calcedonia condannarono a morte i consiglieri di Costanzo, Eusebio per primo. Tanto severamente funzionò quella corte penale, che Ammiano non può tacere l’ingiustizia di certe condanne, ad esempio di Ursulo, comes sacrarum largitionum, pur affermando altrove che una delle virtù di Giuliano, la più spiccata di tutte, era per l’appunto la giustizia. Comunque, le condanne numerose e atroci ridussero al nulla le resistenze e le velleità di una corte, piena di eunuchi, barbieri, cuochi e prostitute, e di tutta una funesta turba di malfattori; in altri termini, della parassitaria casta di cortigiani che da Costantino in poi aveva fatto di Costantinopoli una sentina di vizi.

Orbene, del disordine e della corruzione dominanti nella corte di Costanzo le Chiese erano complici dirette o indirette, o, se non le Chiese, i cristiani, o per lo meno gli Ariani. Costanzo, ambizioso e confusionario qual era, aveva gettato l’Impero nel groviglio delle eresie e convocato in pochi anni tre concili: a Seleucia, a Rimini e a Costantinopoli, provocando persecuzioni, rapine ed esili, ma riuscendo a sollevare le sorti dell’Arianesimo contro il partito ortodosso. Era quindi naturale che lo spettacolo di una corte corrotta e di un Impero diviso dalle discordie religiose dovesse far sorgere nell’animo di Giuliano sentimenti di viva indignazione e la volontà di ripristinare l’ordine e la legge; e però egli sostituisce subito i governatori delle province con uomini a lui fedeli, quasi tutti pagani, o θεοσεβεῖς, come suole chiamarli, nello stesso tempo che promulga l’editto di tolleranza.

Gli storici della Chiesa quando giudicano i motivi di quell’editto cadono in contraddizione. Alcuni lo ritengono emanato allo scopo di accattivarsi tutte le sette cristiane non-ariane, e sono Rufino, Teodoreto e Socrate; altri, come gli ariani Sozomeno e Filostorgio, credono invece che Giuliano mirasse a combattere più facilmente il Cristianesimo quando esso si fosse riunito, o, magari, lasciato libero, si fosse più rumorosamente diviso. Sta di fatto però che Giuliano convocò a Costantinopoli i capi dell’Arianesimo e dell’ortodossia e li invitò a non turbare la quiete dello Stato; esiste, cioè, un irrefragabile documento della sua volontà di proclamare lo Stato estraneo a ogni sorta di confessionalismo. L’editto, del resto, contemplava – secondo la ricostruzione più attendibile che se ne può fare mettendo insieme le notizie forniteci, si badi bene, dai nemici stessi di Giuliano – tre articoli principali: tolleranza per tutti i culti cristiani senza distinzione; restituzione dei beni usurpati dalla Chiesa alle comunità pagane; revoca dei bandi di esilio e delle confische avvenute sotto il regno di Costanzo a danno dei non-ariani e quindi richiamo di molti vescovi cacciati dai loro uffici. Il solo Atanasio di Alessandria doveva rientrare in patria a patto che non ritornasse nel suo vescovado a capo della sua diocesi, e ciò in considerazione delle gravi risse e turbolenze provocate dall’intransigenza di quel vescovo.

Giuliano. Solidus, Sirmium, 361 d.C. Au. 4,41 gr. Recto. Busto barbato, diademato con perle e paludato, voltato a destra, dell’imperatore. Legenda: Fl(avius) Iulianus p(ater) p(atriae) Aug(ustus).

La lettera 46 ad Aetio fondatore della setta degli Anomei, e confidente e maestro del povero suo fratello Gallo, è ben chiara: «Indistintamente – egli scrive – a tutti quelli che furono dalla beata anima di Costanzo banditi per la follia dei Galilei, io ho revocato il bando, ma te non solo richiamo dall’esilio, bensì, memore della nostra antica intima amicizia, prego di venire da me […]». E più tardi, il 1 agosto del 362, nella lettera 114 ai cittadini di Bostra dirà fra l’altro:

«Io credevo che i capi dei Galilei conservassero più gratitudine a me che al mio predecessore nel governo dell’Impero, poiché, mentre, durante quel regno, buon numero di loro furono esiliati, perseguitati e imprigionati, e spesso i cosiddetti “eretici” furono giustiziati in massa, e in Samosata, a Cizico, in Paflagonia, in Bitinia e in molti altri luoghi, contrade intere furono rase al suolo, durante il mio regno, invece, è avvenuto il contrario: i proscritti sono stati liberati, e quelli i cui beni erano stati confiscati ne sono rientrati in pieno possesso per una legge da me promulgata».

Ma, dice Voltaire a proposito di Giuliano, la tolleranza è il più grave rimedio contro il fanatismo. Si capisce, dunque, perché l’editto colpiva i cristiani nel vivo e destava nelle loro file malcontento e confusione. D’altra parte, l’editto conteneva articoli che menomavano l’autorità e l’influenza dei cristiani, e i fatti poi dimostrarono chiaro che tale voleva essere l’intenzione dell’imperatore. Sempre nella lettera 114 ai cittadini di Bostra, Giuliano dice che i cristiani, e specialmente i vescovi, sono giunti a tale eccesso di follia, che, vedendosi impediti di esercitare la loro tirannia e di continuare nelle loro violenze, si accapigliavano tra loro e quindi offendevano le autorità dello Stato. Definisce cioè λυσσομανία e ἀπόνοια la resistenza di quei vescovi che, come Tito nella diocesi di Bostra, osano imputare alle leggi nuove gli eccidi e le sommosse, e così constata le conseguenze più o meno immediate dell’editto. Il quale, fra l’altro, esautorava i vescovi di un’autorità giudiziaria loro concessa già da Costantino, e per la quale essi avevano facoltà di giudicare gli ecclesiastici colpevoli di delitto; e veniva a privare il clero di una forza veramente temibile. Sozomeno, Teodoreto e il Codex Theodosianus citano infatti una legge che toglieva al clero cristiano i privilegi e le immunità: la legge non possiamo più leggerla oggi perché non compare più nelle raccolte delle lettere e dei documenti dell’Apostata, ma è comunque certo che la sua promulgazione fu corollario del famoso editto.

Busto di ignoto diademato (forse Giuliano l’Apostata). Marmo, IV secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

È ovvio che se Giuliano avesse un solo momento approvato la politica di Costantino non avrebbe agito come agì, o, una volta promulgato l’editto di tolleranza, non avrebbe poi promulgato anche l’altro editto della restituzione dei privilegi al clero pagano nel tempo stesso che li toglieva al clero cristiano. Invece, nell’azione di questo imperatore filosofo c’è la logica della propria morale politica che non conosce, appunto perché logica di una filosofia che si identifica nella fede, altra logica, e non ammette altra fede. Egli dunque chiama al potere uomini nuovi quali Aproniano, Venusto, Pretestato, ma sono θεοσεβεῖς, e giustifica così il suo atto nella lettera 83:

«Per la follia dei Galilei poco mancò che tutto non andasse sottosopra e ciononostante con l’aiuto degli dèi ci siamo salvati: dunque dobbiamo onorare gli dèi e favorire quegli uomini e quelle città che onorano gli dèi».

Ecco un programma chiaro, sebbene formulato con sillogismo difettoso. Ma era pensato, concepito e dettato da un uomo che identificava l’Impero in un sistema filosofico laddove ne combatteva un altro che si identificava nel Cristianesimo. Nessuna differenza di metodo c’è tra la politica sua e quella dei cristiani.

Iscrizione onorifica a L. Turcio Aproniano Asterio (CIL VI, 1768). Base di statua, marmo, 346 d.C. Roma, Musei Capitolini.

In sostanza, quando afferma che l’Impero dev’essere estraneo al confessionalismo dei cristiani, Giuliano riconosce implicitamente che una parte dell’Impero è cristiana, ortodossa o eretica importa poco. La tolleranza ha quindi per lui lo stesso valore che per Costantino ha il riconoscimento ufficiale di un culto, fino allora Stato nello Stato e spesso Stato contro lo Stato. Giuliano ripete all’inverso l’editto di Costantino, ma tollera tutti i culti cristiani appunto per metterli nella più difficile condizione o di essere contro lo Stato o di subirne le leggi. Ma, soprattutto, egli vuole dir questo, che lo Stato non s’interesserà più delle questioni religiose cristiane, delle lotte tra ortodossi ed eretici, se non per quello che ne compete alla polizia. Lo Stato punirà quei facinorosi che turberanno la quiete pubblica.

 

 

 

La riforma della corte, le disposizioni sul cursus publicus fino ad allora nelle mani di infingardi e disonesti amministratori, la restaurazione delle finanze, la diminuzione degli oneri fiscali, l’accrescimento dell’autorità del Senato, la riforma amministrativa e quella giudiziaria formano un complesso di leggi degno di ammirazione; sono l’attività sorprendente di un imperatore che salito al trono nel novembre del 361, nel giugno del 363 cadeva trafitto nel deserto asiatico dalle armate di Šāpūr. In un anno, se si tiene conto del tempo impiegato nella marcia e nelle battaglie combattute, in un anno o poco più Giuliano era riuscito a cambiare l’ordine delle cose, a sostituire un ordine al disordine. È gloria questa che gli riconoscono, piena e grandiosa, gli stessi Padri della Chiesa Ambrogio e Prudenzio, e che neppure Gregorio di Nazianzo osa contestargli: Giuliano ha potuto commettere errori veramente gravi, ma non una volta sola è venuto meno all’ideale che si era prefisso di raggiungere nel governo dei sudditi.

Giuliano. Aes, Antiochia, 361-363 d.C. Æ 7,26 gr. Obverso: Toro, stante, voltato a destra, con due stelle sul capo. Legenda: securitas rei pub(licae).

La sua attività appare tirannica e la visione che egli mostra di avere dell’Impero abbraccia tutti i problemi di politica interna, amministrazione, comunicazioni, finanze, esercito; e di politica estera, sicurezza dei confini, guerra contro i Sasanidi, così che nessuna regione del vasto dominio gli è ignota ma di tutte le città si preoccupa egualmente, con lo stesso ardore. Egli accentra nelle sue mani i poteri principali, è sommo magistrato ed è capo delle forze armate; ed è, come vedremo più avanti, pontefice massimo. Ma per intendere giustamente quest’ultima sua potestà non dobbiamo dimenticare le altre due, quelle per l’appunto che insieme alla terza fanno di lui il capo del potere legislativo, del militare e del religioso, in una parola l’Imperatore del nuovo Stato.

Una mente aperta come la sua ai problemi della politica interna ed estera, non poteva non considerare un altro problema fino ad allora trascurato, o perlomeno non direttamente discusso e risolto, dallo Stato. Le riforme di Giuliano, che in conclusione sboccano nell’accentramento dei poteri, spianarono la via ad un’altra più recisa e addirittura nuovissima riforma che appassionò a lungo in controversie e polemiche i rappresentanti della cultura pagana e di quella cristiana. Il Codex Theodosianum, XIII 3,5 contiene un editto datato al 17 giugno 362 e pubblicato a Spoleto il 29 luglio dello stesso anno:

«Magistros sudiorum doctoresque excellere oportet moribus primum, deinde facundia. Sed quia singulis civitatibus adesse ipse non possum, iubeo quisque docere vult, non repente nec temere prosiliat ad hoc munus, sed iudicio ordinis probatus decretum curialium mereatur, optimorum conspirante consensu. Hoc enim decretum ad me tractandum referetur, ut altiore quodam honore nostro iudicio studiis civitatum accedant. Dat. XV Kal. Jul., acc. IV Kal. Aug. Spoletio Mamertino et Nevitta conss».

Un commento, certamente, posteriore all’editto lo leggiamo nella lettera 61 priva di indirizzo, se mai fu lettera, ma ad ogni modo interessante per la conoscenza degli scopi di Giuliano. Prescindiamo però dal commento e leggiamo l’editto nudo e secco com’è. Ne risulta che l’imperatore rivendica allo Stato la scuola e vuol sorvegliare per mezzo di speciali commissioni, quando non può farlo direttamente, la nomina degli insegnanti. Non tanto si preoccupa della dottrina quanto dei costumi degli insegnanti, e soprattutto afferma il diritto dello Stato di impedire che siano abilitati all’insegnamento uomini che non corrispondono moralmente alle qualità del maestro.

Una scuola. Bassorilievo da un sarcofago romano. 150 d.C., marmo. Treviri

In verità, tutte le volte che si esamina un atto della politica di Giuliano si è portati a riconoscervi gli elementi suggeriti dalle sue credenze religiose, se non addirittura a considerarlo motivato da esse. Nel caso specifico poi dell’editto e degli editti sull’insegnamento il sospetto sembrò avvalorato dalla lettera 61. Ci sia dunque permesso di illustrare il primo editto senza, per ora, tener conto delle disposizioni che lo seguirono, e però ci sia anche lecito esporre brevemente le condizioni dell’istruzione pubblica nell’Impero ereditato da Giuliano. È inutile parlare della scuola che noi moderni chiameremmo «elementare»: gli imperatori e le autorità dello Stato non s’interessarono mai a questa sorta d’insegnamento al quale noi con ragione diamo somma importanza. Lo stesso si deve dire delle scuole «professionali» e «di mestiere», che pure erano frequenti e frequentate, ma che solo molto tardi furono oggetto di particolari cure da parte dello Stato. Non così delle scuole «superiori», la più parte delle quali furono o sussidiate o fondate dalla munificenza degli imperatori, che molto spesso si interessarono anche delle biblioteche e di tutti i problemi dell’alta cultura. È dei tempi di Commodo e di Diocleziano un editto che intende sopprimere le biblioteche cristiane; e la confusa vicenda delle immunità e dei privilegi a favore degli insegnanti si può dire sia stata un po’ di tutti i governi che si succedettero da Augusto in poi, specialmente dopo i Flavii. Ma in sostanza, considerata bene ogni cosa, non si può affermare che prima di Giuliano sia stato promulgato un editto contro la libertà dell’insegnamento, pur essendoci dei casi speciali in cui l’imperatore preferiva nominare gli insegnanti direttamente, gli insegnanti – s’intende – delle scuole «superiori», di questa o di quella città, stipendiati dallo Stato, o stipendiati dall’amministrazione cittadina per conto dello Stato.

Orbene, in tempi posteriori, quando il Cristianesimo trionfante aveva ormai imposto quasi dovunque l’autorità dei suoi rappresentanti, ed era diventato, senza pericolo che potessero sorgere reazioni deprecabili, religione ufficiale, dico ai tempi di Giustiniano, un editto citato in Codex Justinianus, 1, 5, 18, 4 e 1, 11, 10, 2-3 bandisce esplicitamente dai diritti degli insegnanti quelli affetti dall’insania del paganesimo, accusandoli di corrompere le anime dei giovani e di trascinarle nell’errore. La stessa disposizione allontana i pagani dall’esercito e da ogni pubblica carica. È naturale il confronto con le disposizioni emanate da Giuliano in senso del tutto contrario, e però solo così possiamo spiegarci la riforma dell’Apostata, considerandola cioè risultato di quella concezione dell’Impero che lui s’era venuta formando a contatto con le questioni più gravi della politica interna.

Il Giuliano della lettera 61 è il solito Giuliano ironico e letterato, lo stesso che sofistica anche nelle prime battute dell’editto e che distingue abilmente l’importanza dei mores da quella della facundia nei professori. La differenza consiste in questo, che si può essere abilissimi insegnanti senza però avere le doti di una buona educazione che è διάθεσιν ὑγιῆ νοῦν ἐχούσης διανοίας, «armonica fusione delle facoltà intellettive», e, come diremmo noi, «umanità». Credere una cosa e professarne un’altra, ecco per Giuliano il delitto da punire negli insegnanti cristiani e quindi la necessità di circoscrivere il diritto dell’insegnamento ai soli pagani e di abolire la libertà fino ad allora dominante nel mondo della cultura.

Perché mai Giuliano, che aveva sollecitato l’arrivo a corte di Proeresio, retore cristiano, e suo antico maestro in Atene; che aveva nominato lo stesso Proeresio storiografo del suo regno; che aveva emanato un editto di tolleranza in fatto di culto e quindi di libertà religiosa, ad appena cinque mesi da provvedimenti così liberali emana un editto di tutt’altra natura? A sentire alcuni storici della Chiesa l’editto fu giudicato aspramente, e, difatti, lo stesso Ammiano lo definisce «tirannico», nel senso che non mai prima di allora lo Stato aveva avocato a sé la cultura. L’editto svelò chiaramente le intenzioni del principe, anche perché di lì a poco seguirono eguali ordinanze per l’esercito e, forse, sebbene parzialmente, per le altre magistrature. Giuliano lasciava ai cristiani la libertà di insegnare i testi cristiani, di commentarli e di diffonderli, non impediva ai giovani cristiani di frequentare le scuole «superiori» pagane nella speranza che potessero guarire dalla loro «malattia», giudicando doveroso illuminare e non già punire i giovani sviati dalla via della ragione. Dunque, sempre quella netta divisione tra i due mondi e i due imperi: da una parte il mondo cristiano e le autorità delle Chiese cristiane, dall’altro il mondo pagano e l’Impero di Giuliano. Egli è coerente anche in questo, ora che gli dèi hanno concesso la «libertà e bandito il dominio dell’ipocrisia». Le parole gravi che pronunzia sul commento all’editto contro l’incoerenza e la sofistica e la pura eloquenza, allorché afferma che «il buon insegnamento consiste nella sana disposizione della mente padrona di un esatto concetto del bene e del male, del turpe e dell’onesto», mettono Giuliano in aperto contrasto con la cultura del tempo. I cristiani, per chi giudicasse come giudicava Giuliano, erano l’esempio tipico della nuova cultura: i grandi classici, Omero, Esiodo, i lirici, gli oratori, i tragici ecc. erano letti e studiati come reliquie del passato, senza che si credesse più né agli dèi né agli eroi, senza che più si cercasse in quel morto contenuto la legge o le leggi morali. Domandarci a questo punto se Giuliano calpestasse o no con l’editto la libertà dell’insegnamento è ridicolo. Domandiamoci invece se non la calpestasse, piuttosto, due secoli dopo, l’editto di Giustiniano; poiché questo è certissimo, che Giuliano e Giustiniano ebbero tutti e due la stessa concezione totalitaria dell’Impero.

La lotta per la cultura rientra, dunque, e giustamente, nella politica dell’infelice Giuliano, come vi rientrano le disposizioni per le cariche pubbliche e per l’esercito. Uomini probi erano necessari e devoti alla causa dell’Impero, per riformare la macchina dello Stato e rafforzarne la compagine. Giuliano errò solo in questo, di non accorgersi che era opera vana dare al mondo una nuova religione quando già quella cristiana bastava alla rinnovazione dei popoli. Fu cieco?

Può darsi. Ma chi negherà che vide bene quando vide l’Impero politico vacillare perché in tutte le sue parti più vitali si affermava una nuova gerarchia che gli interessi dello Stato credeva inferiori a quelli dell’autorità divina?

Da questa necessità di fondere ad ogni costo le due autorità dello Stato e della religione in una sola, nasce la grande riforma del Paganesimo, che vedremo condotta abilmente e tragicamente finire dopo due anni di entusiastica opera organizzatrice. Ma questi primi suoi atti di governo, le assise di Calcedonia, l’editto di tolleranza e la riforma scolastica sono le basi della grande riforma del Paganesimo. Le assise di Calcedonia riducono all’impotenza le interferenze nefaste di una corte di effemminati e di pettegoli; l’editto di tolleranza significa chiaramente che lo Stato si disinteressa delle lotte tra cristiani ortodossi ed eretici; la riforma scolastica avrebbe dovuto dare con il tempo nuovi capi alle nascenti organizzazioni, nuovi funzionari allo Stato, nuovi ufficiali all’esercito, nuovi governatori alle province. Non era possibile rinnovare lo Stato senza rinnovare l’elemento uomo: Giuliano intese questa suprema necessità e diede opera alla sua attuazione. In sostanza, egli non faceva grande stima della filosofia se non per l’utilità che potesse apportare allo Stato, e però egli si sentiva soprattutto trascinato dalle questioni morali. Odiava il Cristianesimo ma intendeva conciliare la prassi cristiana con il vecchio mondo pagano, conciliare la fede con l’Impero solo perché l’Impero fosse salvo e con esso quel vecchio mondo che lo entusiasmava. Conciliare la filosofia indipendente con lo spiritualismo cristiano, le organizzazioni sociali con quelle dello Stato e dare al nuovo mondo, al futuro Impero da lui sognato, un’anima e una fede, era un programma che per attuarsi imponeva la riforma religiosa.

San Gregorio di Nazianzo. Affresco russo-bizantino, IX-X sec.

La tragedia della riforma del Paganesimo che noi studieremo, dei πιθήκων μιμήματα, «degli scimmiottamenti di Giuliano», come Gregorio di Nazianzo definisce sprezzantemente le riforme religiose dell’odiato avversario, è soprattutto in questo, che Giuliano non si accorge che il suo grandioso sono politico denunzia la fine del Paganesimo.

Le sue riforme constatano che il Paganesimo morente si adatta da sé ai costumi del Cristianesimo, ne accetta le organizzazioni, ne ammira la legge. Comincia da ora, quando i cristiani costituiscono ancora una minoranza, la drammatica sostituzione del Cristianesimo al Paganesimo, e l’uno cede all’altro qualche cosa di suo. Rovinano i templi degli dèi, ma le colonne, le pietre, le suppellettili servono ai templi cristiani, i martiri cristiani sono adorati come santi e sostituiti nel nuovo politeismo gli dèi spodestati, poiché l’immaginazione popolare riporta la terra e il cielo di una moltitudine di figure animate. Lo stesso Giuliano vive la stessa vita di asceta ed ha la stessa energia di fede che ha Basilio il Grande, suo contemporaneo.

 

 

 

Nei primi giorni della primavera del 362 Giuliano accompagnato dal prefetto del pretorio Sallustio e da Anatolio e Memorio si recò ad una conferenza del cinico Eraclio: uno dei rappresentanti più famosi di quei «falsi» filosofi capaci di tutto, e dannosi al Paganesimo ancor più degli stessi cristiani. Eraclio parlò dell’arte del governo ed ebbe spesso nel suo discorso parole offensive per gli dèi, ma soprattutto si mostrò animato di quello spirito rivoluzionario e antisociale che inficiava le basi dell’Impero e sprezzava tutto ciò che era tradizione e civiltà. Giuliano ascoltò fino alla fine il discorso di Eraclio, sebbene fremesse e fosse più volte tentato di far sciogliere la riunione, ma rispose più tardi, in un pubblico discorso, sconfessando apertamente lo scetticismo dei cinici.

Non che Eraclio con la sua irriverente conferenza abbia avuto influenza sulla politica giulianea, la quale ormai doveva camminare diritta e fatale verso la meta; ma è certo che in quegli stessi giorni l’imperatore tentò un’interpretazione della mitologia pagana che riuscisse finalmente a strappare i miti e gli dèi all’incredulità e arginasse le minacce di un movimento pericoloso, già abbastanza diffuso e seducente. I miti, per Giuliano, sono un poetico travestimento della verità, poiché:

«La Natura ama il segreto e non vuole che il mistero dell’essenza degli dèi sia manifestato con espressioni comprensibili anche agli impuri; il mito è necessario non solo alla rivelazione ma anche al carattere magico delle iniziazioni. Più un’allegoria è incredibile e prodigiosa, più essa ci invita a non attenerci a ciò che ci dice ma a ricercare il senso enigmatico nascosto nel mito […]».

Egli stesso, in quei giorni, tenta una nuova esegesi del mito di Attis, rifiutando l’interpretazione naturalistica di Porfirio e giungendo, confusamente, a far dell’adolescente salvato dalla Grande Madre Cibele, e poi eviratosi in un eccesso di follia per ritrovare, alla fine, la sua virilità e l’amore della ninfa che lo amava, il demiurgo creatore che venne sulla terra a fecondarla, che è devoto a Cibele, sorgente delle idee e provvidenza infinita, per la promessa di un amore costante, ma che, trascinato dall’ebbrezza della vita, conobbe la via del peccato e ne fu alla fine liberato per opera del Sole, «con l’essenza invisibile, incorporea, divina e pura dei suoi raggi per cui esso attrae e fa salire fino a lui le anime sante». Nel mito di Attis il Sole è raffigurato nel leone che è segno della forza ascensionale del fuoco, e l’ebbrezza della vita è rappresentata dall’acqua nella quale Attis cade: il Sole è il lógos, e Cibele è la Madre degli dèi, come Cristo e la Vergine Maria.

Statua di Cibele, da Nicea. Istanbul Archaeological Musem.

Giuliano, dunque, non dimentica la sua educazione cristiana, ma interpreta il Paganesimo come un cristiano, con spirito cristiano e con quell’eloquenza che fu propria dei dottrinari Padri della Chiesa d’Egitto e d’Asia. Sono in lui lo stesso entusiasmo, la stessa poesia, lo stesso credo; e perfino le anime pagane, «fiammelle del celeste fuoco», che cadono insieme con Attis nella perdizione, ritornano poi, liberate dal Sole come da Cristo, alla patria loro, a Dio. Questa mortale vita è una prigione; qui, le anime «folli si sono cambiate in desideri alati che volano in un raggio di primavera dalle labbra del giovane a quelle della donna amata e ci supplicano di coglierle in un bacio per dar loro un corpo»; qui, l’amore celeste è diventato amore terreno, ma è pur sempre cosa divina. Giuliano interpreta Platone attraverso la dottrina di Cristo, e finisce, difatti, con il bandire dalle scuole tutti quei testi che Basilio, suppergiù negli stessi anni, proibiva di leggere nella famosa dissertazione De legendis libris gentilium.

Su queste basi, l’imperatore che aveva proclamato l’editto di tolleranza e che aveva tentato una riforma della scuola inaugurando il concetto di «scuola di Stato», costruiva l’edificio della Chiesa pagana. Messo tra i cinici e i cristiani, costretto a scegliere tra uno Stato agnostico e uno Stato cristiano, Giuliano preferì crearne uno nuovo che fosse avverso agli uni e agli altri e che richiamasse in vita l’agonizzante Paganesimo. Non era possibile uno Stato agnostico perché antisociale ed egualitario. I cinici distruggevano lo Stato, i cristiani erano già uno Stato che non poteva tollerare altro Stato il quale non fosse a lui sottomesso. L’esperimento di Costantino era fallito subito dopo la sua morte, poiché i cristiani ebbero il sopravvento durante il regno di Costanzo e governarono di fatto; e però non restava altra via che governare a modo loro ma senza di loro.

Giuliano fu logico, e però il suo dramma politico è il dramma di uno spirito troppo logico, che, commesso l’errore, subisce la logica delle conseguenze dell’errore, fatalmente. Egli parte da una visione giusta delle cause che sconvolgono l’ordine dell’Impero, ma cerca poi il rimedio lì donde esso non può venire, e fa più cruda la piaga. Egli dice: se i cristiani sono un elemento dannoso per lo Stato, impediamo loro di far danno e lo Stato sarà guarito; se i cristiani sono forti perché hanno una fede, perché sono una grande comunità, perché hanno una loro morale, ebbene diamoci anche noi una fede, diventiamo anche noi una comunità, creiamo anche noi, con l’opera e la parola, una nostra morale, e torneremo ad essere noi i più forti. Ma l’esame conduce al dubbio, e Giuliano non s’accorgeva che la fede da lui restaurata era frutto di un esame al quale non potevano accedere le folle. Egli trascinava dietro di sé non una fede necessaria alla società, ma una filosofia armata di poesia e di ironia, mentre i cristiani trascinavano con sé una fede pericolosa armata di martelli, avida di rovine ed esaltata dal sacrificio dei martiri. Ecco perché, alieno persecuzioni sanguinose, e cosciente della sua responsabilità, Giuliano fu vittima della sua logica la quale non teneva conto del fatto che le verità si rinfrescano nei bagni di sangue e che i cristiani avevano già fatto quel bagno.

Stele funeraria di un archigallus (grande sacerdote di Cibele). Bassorilevo, marmo, II sec. d.C. da Roma.

Credette invece che la legge del giugno 362 potesse frantumare la potenza dei cristiani nelle scuole, così come, poco più tardi, credette che la ricostruzione del tempio ebreo di Gerusalemme potesse dimostrare al mondo che la profezia di Cristo non si era avverata. Ma quel tempio, pochi giorni dopo che s’era posto mano alla sua ricostruzione, rovinò per un terremoto uccidendo molti operai, e le scuole, avocate allo Stato, subirono rassegnate, non soffocate, la nuova legge. Egli costruiva il suo edificio in un miracolo di volontà e di fede, me le pietre non erano solide perché d’intorno a lui pochissimi credevano, con lui, nella restaurazione dell’Impero, e molti erano invece già corrotti da quello scetticismo irriverente di cui facevano professione i cinici. A chiunque egli avesse domandato come restaurare lo Stato, tutti gli avrebbero risposto che lo Stato era il presente ma non il futuro: anche il suo Massimo, ch’era vanitoso; anche Libanio, che fu suo storiografo; anche Ammiano, che lo esalta come un eroe, ma che insieme con Libanio ne ammira piuttosto le gigantesche proporzioni dello spirito che l’opera, conscio che essa si riduceva a un mirabile sogno.

Ond’è che noi restiamo ammirati dinnanzi alla sua concezione della Chiesa pagana considerando come logicamente essa sia costruita e suggestiva. Gli dèi scompaiono; gli dèi pare che non ci siano, ma che resti il volto dell’idea dello Stato etico, la visione di un organismo immenso che doveva a un tempo stesso essere tempio di Dio e sede del potere imperiale. Commistione superata di due autorità alla quale la folla non si sarebbe facilmente accomodata, e che misconosciuta avrebbe condotto all’annullamento della religione e della regalità. Giuliano credeva, sperava, che quelli intorno a lui che con lui combattevano la stessa battaglia fossero, come lui, spiriti superiori: essi erano invece spiriti mediocri, espressioni degli interessi materiali del vecchio mondo pagano. Si illuse di dare un colpo mortale al Cristianesimo e non gli dette che una ferita, credette di salvare il Paganesimo e non fece che raccoglierne l’ultimo sospiro, poiché come sempre avviene, finito lui, uccisi i pochi fedeli, gli altri preferirono immolare gli dèi piuttosto che accusare se stessi.

Statua di sacerdote di Serapide con pallio e corona (precedentemente ritenuta di Giuliano). Marmo, 120-130 d.C. ca. Paris, Musée national du Moyen Âge.

Aveva avuto un precursore in Massimino. Circa quarant’anni prima, Massimino aveva cercato di resuscitare il culto pagano avocando a sé la nomina degli ἀρχιερεῖς («sommi-sacerdoti») per affidar loro la sorveglianza sulle organizzazioni provinciali. Ma tra la sua politica e questa di Giuliano corre una profonda differenza, poiché mentre la prima provoca confusione tra il potere politico e quello religioso, la seconda invece si preoccupa di evitarla. L’imperatore solo è imperatore e pontefice massimo nello stesso tempo, i sacerdoti sono invece nei confini dei sacri recinti indipendenti dall’autorità politico-militare, e nel tempio sono arbitri supremi. Sono tutelati dall’altro potere, non sopraffatti; e non già essi devono andare dai magistrati, ma questi devono recarsi a conferire con i sacerdoti, nel tempio. Se Massimino credette opportuno nominare sacerdoti del culto pagano uomini che si erano distinti nelle amministrazioni pubbliche, Giuliano invece si propone di sceglierli fra i migliori.

«Gli amministratori delle città – egli dice nella lettera 89 – sorveglieranno che la giustizia regni conformemente alle leggi, ma è necessario che voi sacerdoti diate l’esempio di rispettare le leggi che sono di provenienza divina. Inoltre, poiché la vita del sacerdote richiede una santità maggiore di quella civile, voi dovete guidare ad essa, mercé il vostro insegnamento, gli uomini, e i migliori vi seguiranno certamente […]».

Il concetto di φιλανθρωπία che deve sollevare i miseri e punire i cattivi, provvedere ai bisogni dei poveri ed esaltare gli onesti, è un concetto politico, dunque, poiché nel passo citato della lettera 89 egli mostra di volere che autorità religiose e politiche collaborino insieme alla riforma dei costumi. In questo senso Giuliano inserisce la nuova religione di Stato nello Stato, come se debba essere il concime poiché dalla terra fino ad allora arida e trascurata nascano germi di vita totalmente rinnovata. In un altro passo della stessa lettera, scrive:

«I sacerdoti sacrificano e pregano per tutti noi; è dunque giusto che da parte nostra si renda loro gli stessi onori e anzi maggiori che ai magistrati civili. Se si ritiene che questi ultimi hanno diritto a molta considerazione perché, essendo custodi delle leggi, sono anche sacerdoti degli dèi, ebbene dobbiamo ai primi riverenza più grande […]. Non dobbiamo fermarci su rilievi personali, ma per tutto il tempo che un uomo esercita il sacerdozio dobbiamo onorarlo e aver per lui dei riguardi. Se è disonesto, priviamolo del sacerdozio e disprezziamolo, perché se n’è mostrato indegno, ma tutto il tempo che egli sacrifica e prega per noi e si avvicina agli dèi, veneriamolo santamente poiché egli è prezioso servo degli dèi […]».

Io ho avvicinato a bella posta questo passo della lettera all’altro precedentemente tradotto, per dimostrare, meglio che con altri esempi, come e in che limiti Giuliano interpretasse la condizione dei nuovi sacerdoti verso l’autorità politica. Divine sono le leggi, e quindi i magistrati che le rappresentano sono degni di onore, ma i sacerdoti sono sulla terra rappresentanti degli dèi dai quali ci sono venute le leggi e però ad essi è dovuto un rispetto anche maggiore. Ne consegue che le due autorità si completano, ed è però logico che si debbano confondere nella sola persona dell’imperatore, capo dello Stato e capo della religione. Che il suo programma fosse soprattutto di carattere etico risulta dalla stessa lettera 89, dove accenna brevemente alle cause che hanno distrutto o per lo meno mortificato l’antica pietas:

«Vedendo la nostra grande indifferenza verso gli dèi, e constatando che il rispetto dovuto alle superiori potenze è stato interamente bandito da un’impura e vile mollezza di costumi, da lungo tempo i deploro la nostra situazione. I seguaci della religione dei Giudei spingono il loro fervore fino a morire per essa, fino a sopportare la privazione di ogni bene e a soffrire la fame pur di non toccare carni di maiale e di altri animali dalle cui carni non sia estratto tutto il sangue, ma noi, invece, per la nostra negligenza verso gli dèi, dimentichiamo la tradizione dei nostri padri e ignoriamo perfino se mai ci siano state norme religiose per noi. È vero però che i Giudei sono religiosi nel senso che il loro Dio è un Dio solo, potentissimo e buono, che regge il mondo sensibile e che noi veneriamo con altri nomi […]».

Giuliano non dà torto agli Ebrei che però errano quando disprezzano tutti gli altri dèi pagani, ma taccia i cristiani di νόσημα («malanno») e riprova assolutamente come antisociale quel loro desiderio di fuggire la società ritirandosi nel deserto. Il contemporaneo Basilio, che fu poi vescovo di Cesarea e divenne capo temuto ed energico del giovane partito ortodosso, sentì come Giuliano che antisociale ed inumana era la vita ascetica se fine a se stessa, e fondò quindi il primo ordine monastico dal quale non uscirono degli asceti, ma dei militi della Chiesa, agguerriti alla propaganda della fede e disposti al sacrificio, devoti alla causa dell’umanità sofferente, esempio di carità cristiana e abilissimi sostenitori dei diritti della società cristiana nello Stato. Giuliano e Basilio si può dire che collaborino insieme, in due campi tanto diversi e tanto nemici, per la stessa riforma, poiché anche Giuliano si propone di far uscire dalle file del sacerdozio militi della nuova fede pagana. Egli vuol fondare παρθενῶνας per le donne, e φροντιστήρια per gli uomini, asili di religione pagana nei quali si dovrebbe educare lo spirito a principi etici severi; egli sa che soltanto un costume di vita austero ed esemplare può creare una barriera alla rovina che travolge il Paganesimo.

Si può dire perciò che nella lettera 89 siano contenuti i principali paragrafi della sua regola. Che deve fare il prete pagano? Egli deve la mattina e la sera – come il sacerdote cristiano – pregare gli dèi; deve astenersi dal teatro; deve provvedere alle necessità dell’umanità bisognosa; deve amare il suo prossimo e stare lontano da tutto ciò che possa minimamente turbare il suo colloquio con gli dèi. Nei trenta giorni che il prete dimora nel tempio a purificarsi con le lustrazioni prescritte dal rituale, niente che non sia rigidamente sacro deve distrarlo; e poi, quando ritorna alla vita del secolo, deve frequentare i migliori, non tutti indistintamente. Nel tempio deve portare vesti magnifiche; fuori del tempio deve vestire senza ostentazione, e deve essere armato della modestia di Anfiarao. Prostituire in pubblico i vestimenti sacri, è peccato; offrire alla folla lo spettacolo di una magnificenza perché i curiosi l’ammirino, è peccato; frequentare i teatri dove si rappresentano cose sconvenienti e che tuttavia non è possibile proibire per non privare il teatro delle sue volgari attrattive, è peccato. Giuliano sa bene che il Paganesimo trova la sua ragion d’essere in ciò che è appariscente e può, anche se volgare, attrarre la folla; si propone perciò di correggere a poco a poco con norme piene di umanità l’errore. Egli afferma che il sacerdote è sempre un uomo e che qualcosa si deve pur concedere all’uomo; quindi distingue sapientemente la vita del sacerdote dalla vita dell’uomo, l’anima dal corpo – come egli dice – il divino dall’umano.

Sacerdote in atto di sacrificare ad Attis. Rilievo, marmo, III sec. d.C. dalla Necropoli di Porta all’Isola Sacra. Ostia, Museo Ostiense

Ma è una distinzione da filosofo la sua, e sa di sofisma. Essa è teorica, non pratica, perché in realtà nessun contenuto pratico riesce a darle vita nella lettera di Giuliano. Il che non è difetto di chi ha scritto la lettera, non è colpa di Giuliano. Né Giuliano, né altri pagani, avrebbero potuto evitarlo praticamente. Basilio sì, perché Basilio parlava ad un popolo nuovo che non aveva tradizioni da difendere, anzi doveva combattere la tradizione. Lo Stato rivoluzionario, lo Stato antisociale, lo Stato egualitario avrebbero formato il nuovo Impero; uomini che nascevano alla vita sprezzando il passato e calpestando i templi degli dèi per erigere chiese di Dio. Si può perfino credere che Giuliano abbia sofferto e lavorato per essi, per questi uomini nuovi, attirando l’attenzione dei capi del Cristianesimo sulla possibilità di inquadrare anche meglio le loro forze e di inserirle nello Stato per trasformarlo. Ma i suoi, invece, Bacchio e altri confratelli nel Mitraismo, furono, chi più chi meno, pessimi sacerdoti e abili profittatori, e quasi mai attivi collaboratori del principe; e non per colpa loro, ma perché quel mondo etico-religioso in cui avrebbero dovuto credere era finito per sempre, o meglio era straziato dalla folla che gli era rimasta sensualmente non già spiritualmente fedele. Restava l’Impero: ma l’Impero sarebbe stato del più forte, e Giuliano sentiva che questa volta la forza non era nella armi ma nello spirito, e però si trova costretto a distinguere il bene dal male nella stessa tradizione pagana, a bandire Archiloco e Ipponatte, Aristofane e la commedia antica, a porre dei limiti in dolorosa contraddizione. Così distinguono anche i Padri della Chiesa orientale, ma la distinzione loro è giustificata, perché del passato, una volta rinnegatolo, potevano, comunque, accettare qualche cosa, e fare diciamo così concessioni da vincitori ai vinti.

Appunto per questo la riforma della Chiesa pagana di Giuliano, che giunge fino a copiare in molti particolari quella cristiana, a noi sembra un contributo al Cristianesimo e non già una restaurazione del Paganesimo. Egli fece, infelice e grande imperatore, più cruda la piaga, quando ne mostrò le labbra sanguinolenti e ne scrutò il fondo, poiché anche la sua fede era la fede di un pagano convertito al Cristianesimo.

 

 

 

Campagna persiana di Giuliano (363).

 

«Già la primavera si avvicina e gli alberi fioriscono e si aspettano le rondini, il cui ritorno caccerà di casa noialtri soldati e darà il segnale di passare oltre la frontiera […]»,

scrive Giuliano nella lettera 40 a Filippo di Cappadocia. Di fatti l’estate del 362 passava il Bosforo con l’esercito e muoveva attraverso l’Asia contro Šāpūr II di Persia.

Non aveva voluto andare contro i Goti sicuro che i Galati sarebbero bastati a rintuzzarne l’insolenza, ma aveva preferito combattere i Persiani per imitare Alessandro e Traiano. In realtà, fino ad allora vittorioso, e senza che nessuno osasse in una qualunque parte dell’Impero di opporsi a lui, Giuliano si sentiva capace di risolvere finalmente il più grave problema di frontiera assoggettando la Persia. Lo stesso Šāpūr, che sotto Costanzo era riuscito a minacciare duramente il confine orientale, all’annuncio che il vincitore delle Gallie era stato eletto imperatore, aveva creduto meglio non inorgoglire della vittoria ma attendere gli eventi. Cercò anche di trattare non appena Giuliano fu giunto ad Antiochia, ma l’imperatore rifiutò e riprese la marcia. Sentiva Giuliano necessaria quella spedizione al consolidamento del suo potere, ovvero la sola ambizione ne affrettò la rovina? Io non esito ad affermare che l’impresa contro la Persia gli sembro condizione necessaria per la restaurazione dell’Impero. Aveva domato l’Occidente, voleva ora tranquillizzare l’Oriente: sicuro nei suoi confini, e restituito all’antico splendore militare, l’Impero sarebbe stato meglio all’interno. Partì da Costantinopoli nel solstizio d’estate del 362, riprese la marcia nel marzo del 363: quando gli giunse l’ambasceria di Šāpūr II egli non aveva più saputo rinunciare al programma militare, perché ormai aveva constatato che il Cristianesimo era ben più forte di quel che s’immaginasse, e che lo si sarebbe potuto combattere al solo patto di essere completamente libero da ogni preoccupazione esterna. La sua potenza sarebbe stata ancor più temibile quando fosse riuscito a piegare perfino l’orgoglio degli invincibili Sasanidi.

Colonna di Giuliano. Ankara, 362 d.C.

Era giunto ad Antiochia passando per Calcedonia, Libyssa, le rovine di Nicomedia, Angora, Pessinunte, Tyana, e sfuggendo ad attentati dei cristiani. In Pessinunte fu offeso da due giovani, e quasi dovunque trovò resistenza contro il culto pagano: Antiochia, che pure l’accolse con sincero entusiasmo, gli riserbava amarezze più gravi. Gli Antiocheni erano cittadini di una città che oggi si direbbe veramente civile, ed erano, pertanto, piuttosto inclini all’indifferenza e al motteggio. Quando si accorsero che Giuliano li avrebbe voluti più severi nei loro costumi e più riguardosi verso gli dèi, e che egli stesso spendeva buona parte del giorno in sacrifici e preghiere, cominciarono a tormentarlo con facezie e con l’ironia. Dicevano che se il regno di Giuliano fosse durato ancora qualche anno, l’Impero non avrebbe avuto più bovini, perché l’imperatore li sgozzava nei sacrifici; lo chiamavano «ciclope», schernivano la sua castità, e mettevano in ridicolo i suoi costumi severi e frugali. Come se non bastasse, l’imperatore, a fin di bene, per opporre una resistenza all’ingordigia dei profittatori, aveva fatto venire del grano dall’Egitto e da altre regioni e lo aveva fatto vendere a vilissimo prezzo, ma non era riuscito nello scopo perché i primi ad accaparrarselo furono i soliti profittatori, e però quell’uomo che in verità era onesto quant’altri mai apparve agli occhi della folla per lo meno inabile ed incapace. A colmare la misura si aggiunse l’incidente di Daphne, dove Giuliano aveva ordinato che si rimuovessero le tombe dei martiri cristiani intorno al tempio di Apollo, e allora i cristiani per vendetta bruciarono il magnifico tempio. La rappresaglia fu mite ma dispettosa: Giuliano fece chiudere il tempio cristiano di Antiochia, scrisse il Misopogon e affrettò la ricostruzione del tempio ebreo di Gerusalemme. Fu la rappresaglia di un letterato, degno di un uomo che rifuggiva la lotta civile, ma pare meditasse in cuor suo la vendetta non appena fosse ritornato dalla Persia. In realtà, egli scorgeva intorno indifferenza ostile, e ne soffriva.

Ma non ritornò. Avanzava distruggendo per chiudersi la via del ritorno in caso di sconfitta, e per domare l’avversario costringendolo alla fame in caso di vittoria. Affamava invece il suo esercito, che dopo più di tre mesi di marcia, logorato dalla resistenza qua e là abbastanza ferma, estenuato dalle malattie, dalle privazioni e dal caldo, si vide il 16 giugno 363 minacciato da un nemico dieci volte più forte e che tuttavia non osava affrontarlo, ma lo stancava sempre più sui fianchi. Unica speranza era una possibile congiunzione con l’esercito comandato da Procopio o con i soccorsi di Arsace, ma né Procopio né Arsace avevano obbedito al piano dell’imperatore; la ritirata era possibile a costo di sacrifici ancora più gravi che l’avanzata e poteva, come questa, mutarsi in sconfitta: era dunque destino che Giuliano cadesse lì, e vi cadde infatti il 26 giugno mentre si gettava nella mischia senza corazza, colpito da un giavellotto.

Aveva trentadue anni e aveva regnato venti mesi. Morì come Socrate, sprezzando questa vita e cosciente che la sua anima sarebbe salita al cielo e si sarebbe confusa con il fuoco delle stelle, di una di quelle tante stelle che erano la corona luminosa di Attis. Fu sepolto a Tauro in Cilicia e sulla sua tomba fu scritto questo semplice e bel distico: «Dalle rive del Tigri impetuoso, Giuliano è venuto a riposare qui, buon sovrano e valoroso guerriero».

Illustrazione di A. McBride. Giuliano nell’imboscata dei Sasanidi a Samarra (Mesopotamia), 363 d.C, in cui verrà ferito a morte.

Che cosa è rimasto della sua opera? Molti hanno detto che non è rimasto niente e pochi soltanto hanno intravvisto in lui un uomo politico. In complesso, possiamo dire che egli è stato un isolato, un grande imperatore che meritava uomini più degni e più onesti. Il suo odio contro i cristiani non era odio per la dottrina che professavano, ma odio naturale di chi, venuto al potere, considerasse la condizione dell’Impero, e tenesse piuttosto alla riforma dell’amministrazione e alla sicurezza dello Stato, che al gioco pericoloso di proteggere questa o quella eresia o di combatterle tutte per favorire l’ortodossia. Non si può non riconoscere che Costanzo aveva dimostrato eccessiva debolezza lasciandosi trascinare dalle lotte tra Ariani ed ortodossi, e che la politica inaugurata da Costantino aveva fatto con lui cattiva prova. Costantino aveva incorporato – diciamo così – il Cristianesimo nell’Impero, ma non si era accorto che i termini della sua politica di equilibrio e di tolleranza potevano essere capovolti, come di fatto lo furono, e che il sopravvento del Cristianesimo sullo Stato diventava una minaccia sempre maggiore. Poiché la minaccia si avverò sotto il regno di Costanzo, il successore si trovava stretto da un dilemma: o con i cristiani o contro i cristiani. Giuliano preferì la seconda perché il suo temperamento e gli avvenimenti della sua vita lo facevano avverso al Cristianesimo, ma non si deve dimenticare che tutta una rete di interessi economici e politici agiva su di lui e che nel suo piano di riforma entrava il disegno di un Impero che fosse un vero Impero, che avesse cioè un imperatore come autorità assoluta. Di qui l’editto di tolleranza e quindi la riforma religiosa. La quale, come già dimostrammo, è riforma etica, e appunto perché riforma etica ci dà il modo di interpretare nel suo effettivo valore la politica di Giuliano.

Della politica di questo sventurato imperatore rimane qualche cosa di più che dei semplici e nudi particolari: rimane il principio politico. Egli supera Costantino nella visione dell’Impero futuro, ed è, nello stesso tempo che lo supera, un continuatore dell’opera di Costantino. Questi aveva valutato i cristiani come numero e come organizzazione, Giuliano li valutò come numero, come organizzazione e come società, riconoscendo la loro entità etica. Sentì cioè, o meglio presentì che l’Impero di ieri crollava perché i principi etici, sui quali si era retto fino ad allora, non bastavano più a sostenere la compagine mostruosa e che tante vittorie non erano sufficienti a giustificare il suo compito. L’Impero non poteva restare più a lungo estraneo a quel vasto movimento etico che distruggeva il passato e che attirava a poco a poco nella sua orbita uomini e cose che per tradizione o naturalmente avrebbero dovuto resistere. L’Impero si trovava dunque costretto ad accettare e far suo quel movimento, ma non con atti di ordinaria amministrazione, bensì con una riforma politica che fosse sostanzialmente religiosa ed etica.

Giuliano è il primo imperatore che sente la gravità di questo grande problema politico. Non già Costantino, ma Giuliano capisce finalmente che il nuovo Impero non può trascurare correnti di pensiero che concorrono minacciosamente verso lo Stato. Egli non si preoccupa come Costantino di una questione di numero, non dà importanza alle sole questioni amministrative, studiando come i cristiani possano giovare all’Impero, ma vede, perché è uno spirito religioso, l’altro aspetto del problema, che è etico e politico insieme e che consiste niente di meno che nella fusione di due poteri in uno solo. Io dico che la politica di Giustiniano e il grande edificio dell’Impero Romano d’Oriente, continuando ancora per secoli nella Chiesa ortodossa soggetta all’imperatore riconosciuto come capo spirituale e politico, erano già nel programma di Giuliano. Allora, chi concepiva lo Stato come Giuliano, non poteva altrimenti agire che come agì lui, e quindi doveva soccombere perché stretto tra un’inutile maggioranza pagana e una forte minoranza cristiana, che appunto perché minoranza era ancora ribelle al potere politico; allora, chi come Giuliano affrontava in pieno il problema di una religione politica, doveva necessariamente subire la realtà di una politica religiosa e quindi sentire il peso morto di quella maggioranza e il peso vivo di quella minoranza fino a diventare, come è diventato Giuliano, attore di un dramma mistico, fino ad assumere per noi, che ricostruiamo a distanza di secoli la sua personalità politica e religiosa, proporzioni tragiche. Tragica fu infatti la sua vita; ma sbaglieremmo se noi credessimo fuori della realtà storica il tentativo di ricostruire la Chiesa pagana. Così doveva avvenire fatalmente, quello doveva essere il collasso del Paganesimo; in un uomo, nel pensiero politico di un uomo, doveva risolversi la lotta che da circa un secolo il trionfante Cristianesimo combatteva contro il morente Paganesimo, il Cristianesimo di Paolo contro il Paganesimo di Augusto. La pietas come religione di Stato, o meglio come la base religiosa dello Stato, fu il programma religioso di Augusto, il quale presentì con Agrippa che i culti orientali avrebbero sovvertito l’Impero, quegli stessi culti che erano invece parte essenziale del programma religioso e politico di Antonio e di Cleopatra. Noi dobbiamo tener conto di questi precedenti per meglio capire in che modo e fino a che punto la politica religiosa di Giuliano costruisse il suo sogno, e da quali realtà contemporanee esso fosse irrimediabilmente distrutto. Naturalmente, egli vi portò il suo cuore, la sua mente e la sua vita, in una parola la sua personalità, che fu veramente complessa e in un certo senso misteriosa; ma, pur commosso da sentimenti profondi e sebbene dotato di un temperamento caldo ed animoso, egli cominciò, come Augusto, con un editto di tolleranza, e come Augusto ebbe dell’Impero non un concetto astratto ma concreto. Concreta voleva essere anche la riforma religiosa, perché essa abbracciava e cercava di risolvere problemi etici che erano e sono ancora problemi dell’umanità, la quale li vive e li sente drammaticamente.

È quindi molto facile attribuire al grande Giuliano commozioni mistiche che erano nel tempo e del tempo, quella tendenza all’universale, quell’abbandonarsi improvviso, e però spesso ingiustificabile, a fantasmi di grandezza e di potenza, che sono caratteristica del IV secolo e che preparano la civiltà bizantina. Spiriti che lottano tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano hanno in sé il destino dell’errore e la luce della verità politica ed etica. La sovrastruttura religiosa non è il vero aspetto dell’edificio che si andava costruendo, mentre quello vecchio rovinava: essa è soltanto la contrazione dolorosa in cui si esprime la tragedia politica dell’Impero, che dopo quattro secoli si riconosceva finalmente destinato a rinnovarsi o a morire.

Mitra, Cristo e la disputa per il vero pane

di M. CLAUSS, in Archeo, Attualità nel passato, n.3, marzo 2014, pp. 82 sgg.

I luoghi dedicati al culto di Mitra (i cosiddetti «mitrei») oggi conosciuti sono più di duecento, un dato riconducibile all’enorme diffusione che questo culto ebbe nella parte occidentale dell’Impero romano, ma anche al fatto che i mitrei sono facilmente identificabili grazie alla loro peculiare architettura: un edificio rettangolare con un corridoio centrale che conduce a una parete di fondo, nella quale si apre una nicchia con l’immagine cultuale, il dio Mitra, rappresentato nell’atto di uccidere un toro. Durante questo atto, l’animale subisce una misteriosa metamorfosi: dalla sua coda emergono spighe di grano e dal sangue che fluisce dalla ferita infertagli si generano grappoli d’uva!

Mitreo conservato sotto la basilica di S. Clemente
Mitreo conservato sotto la basilica di S. Clemente, a Roma.

Dalla morte del toro, dunque, si genera la vita, la sua uccisione diventa garanzia per accedere nell’aldilà. Dalla leggenda mitraica emerge, inoltre, l’importanza che il culto di Mitra attribuiva al pane e al vino (insieme all’acqua gli elementi base dell’alimentazione nell’antichità).

L’ambiente principale del mitreo appare come una «sala da pranzo»: sui due lati lunghi del corridoio centrale sono due podi che fungevano da panchine per i membri del culto; alcuni di questi podi conservano ancora la modanatura sulla quale veniva deposto il vasellame da tavola. È palese la somiglianza con il triclinio della tradizione romana, una ambiente con tre letti conviviali disposti intorno a un tavolo centrale. Nei mitrei, il posto d’onore è sempre occupato dall’immagine cultuale del «padrone di casa», lo stesso Mitra. I mitrei appaiono, così, come sale da banchetto riservate a una ristretta cerchia di convitati, per i quali il pasto rituale doveva ricoprire un significato di fondamentale importanza.

La più suggestiva rappresentazione di un tale pasto comunitario è quella raffigurata su un rilievo proveniente dalla città di Konjic (Bosnia ed Erzegovina). L’immagine è racchiusa, su entrambi i lati del rilievo, da due colonne, suggerendo che gli eventi rappresentati si svolgano all’interno di uno spazio chiuso, come, per esempio, una grotta di culto. Al centro della scena si notano due sacerdoti intenti al pasto. Il letto sul quale sono poggiati non è altro che lo stesso toro ucciso, di cui si riconoscono la pelle e la testa. L’animale sopraffatto è il simbolo della vittoria di Mitra che si intende celebrare, una vittoria che sarà foriera di successi anche per i seguaci del dio.

Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina)
Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).

I due principali protagonisti della scena giacciono su un letto conviviale, appoggiati su cuscini, con il braccio sinistro – come è consuetudine durante il pasto – poggiato sul letto, mentre la mano destra è sollevata in gesto di benedizione. I sacerdoti sembrano pronunciare formule sacre destinate alle offerte disposte su un tavolino a tre piedi. Questo tavolino, su cui è convogliata l’attenzione dello spettatore, è rappresentato «dall’alto», contro ogni legge di prospettiva. Su di esso sono disposte alcune piccole pagnotte, incise a croce, affinché possano essere più facilmente spezzate. Questo pasto terreno riproduce, a livello cultuale, il banchetto che Mitra stesso aveva consumato insieme al dio Sole, prima del loro comune viaggio sul cocchio solare, una scena riprodotta spesso, soprattutto sui rilievi provenienti dalle province danubiane.

Anche le testimonianze provenienti dalle regioni del Reno pongono particolare enfasi sul banchetto, raffigurato nei massimi dettagli: un rilievo da Ladenburg (Baden-Württemberg) rappresenta la panchina sulla quale sono distesi Mitra e il dio Sole, ricoperta dalla pelle del toro; entrambe le divinità tengono un corno potorio nella mano. Sul tavolo, con gambe a forma di zoccoli di toro, si riconoscono un grappolo d’uva e una pagnotta incisa.

Mitra e Sole a banchetto. Rilievo con tracce di policromia, arenaria, c. 130, da Lopodunum (od. Ladenburg). Lobdengau-Museum
Mitra e Sole a banchetto. Rilievo con tracce di policromia, arenaria, c. 130, da Lopodunum (od. Ladenburg). Lobdengau-Museum.

Su un rilievo proveniente dalla città romana di Nida (l’odierna Heddernheim, distretto di Francoforte sul Meno) sono rappresentato Mitra e Sole, in piedi dietro l’imponente carcassa del toro, abbattuto dal superiore potere del dio e crollato in tutta la sua maestosità. Nella mano destra Mitra regge un recipiente per bere e, con la sinistra, riceve da Sole un grappolo d’uva –quasi in sostituzione del consueto corno potorio. Poiché la carcassa del toro riempie quasi tutto lo spazio della scena, manca il tavolo e, per questo motivo, sono raffigurati due servitori che accorrono ai due lati, recando cesti con piccole pagnotte.

La rappresentazione fa parte di una tipologia di rilievi scolpiti su entrambe le facciate e munite di un dispositivo rotante. In questo caso, la cornice dell’immagine rimane fissa, mentre il rilievo stesso ruota grazie a un perno centrale. Grazie a questo espediente, nel corso della celebrazione le due scene essenziali del culto – la tauroctonia (l’uccisione del toro) e il banchetto – potevano essere esibite nel momento opportuno. Quello che, se si considera solo una delle due immagini, poteva sembrare una mera uccisione, acquista così ulteriore significato: morte e pasto rituale, con pane e vino, contribuiscono entrambe alla salvezza dei fedeli del culto.

Ma rivolgiamo ora l’attenzione al Cristianesimo. Comune a tutti i fedeli del vasto spettro delle comunità cristiane è la fede nella resurrezione di Gesù Cristo, garanzia e speranza dell’esistenza di una vita dopo la morte e della possibilità, per ogni cristiano, di risorgere. Sostiene San Paolo «che se non si dà risurrezione dai morti, neanche Cristo fu risuscitato! Ma se Cristo non fu risuscitato, è vana la nostra predicazione, è vana la vostra fede» (1 Corinzi 15:13-14). La speranza dei cristiani è radicata nella successione o, meglio, nell’imitazione di Cristo, e di questa imitazione è parte essenziale la celebrazione dell’eucaristia, in diretto riferimento al convivio di Gesù e i suoi discepoli. Da Paolo in poi, la ripetizione del rituale dell’Ultima Cena rappresenta il modo in cui i cristiani celebrano il ricordo della morte di Gesù. E già in Paolo possiamo rilevare l’alta considerazione che, in questo contesto, l’apostolo riserva al pane e al vino.

Tauroctonia. Bassorilievo, travertino, II-III sec. d.C., da Fiano Romano. Musée du Louvre
Tauroctonia. Bassorilievo, travertino, c. II-III secolo, da Fiano Romano. Paris, Musée du Louvre.

Fino a quando le dimensioni circoscritte della comunità dei fedeli lo consentivano, questa celebrazione commemorativa avveniva con un vero e proprio pasto, utilizzando spazi in cui trovavano posto diversi triclini. In seguito, al più tardi partendo dagli inizi del II secolo, i cristiani celebrano il loro pasto rituale di domenica, nello stesso girono che rivestiva un significato importante anche per i seguaci di Mitra, dio del Sole.

La descrizione dettagliata di un tale culto eucaristico ci viene offerta dal padre della Chiesa Giustino di Nablus, il quale, verso la metà del II secolo, visse a lungo in un ambiente pagano prima di convertirsi al Cristianesimo: il capo della comunità, visto come l’imitatore di Gesù durante l’Ultima Cena – e dunque considerato il suo rappresentante –, formula una preghiera di elogio e di ringraziamento sopra il pane e un calice di vino misto ad acqua.

Dopodiché, i servitori distribuiscono il pane e il vino ai fedeli. La descrizione sembra evocare una scena raffigurata su un monumento funebre di Roma, che ritrae una defunta che, guidata da un angelo, attraversa la porta celeste per dirigersi verso un banchetto.

La descrizione di Giustino può essere ben usata per comprendere anche la già citata rappresentazione del rilievo di Konjic, visto che è egli stesso a esprimere sorpresa per le somiglianze tra l’eucaristia cristiana e il banchetto mitraico: Giustino descrive la cerimonia cristiana non come un semplice pasto in cui si consumano pane e vino ordinari, ma in quanto consacrazione del cibo – nutrimento dei fedeli – che, attraverso la preghiera eucaristica, viene tramutato in carne e sangue di Cristo (come recitano i Vangeli). E il consumo della carne e del sangue a sua volta trasforma i fedeli che, attraverso l’atto eucaristico, acquistano la speranza nella resurrezione.

Dopo aver citato, nella sua opera (Apologie, I 66), le parole di Gesù («Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue»), Giustino spiega come «demoni malvagi» abbiano introdotto una simile pratica anche nei misteri di Mitra. Egli è ben consapevole, dunque, del corrispondente rituale mitraico, dei parallelismi esistenti tra le due celebrazioni, e non solo sul piano delle pratiche rituali, ma, verosimilmente, anche per quanto concerne le formule usate durante la consacrazione.

Iniziato ai Misteri. Affresco, II sec. d.C., dalla Domus di L. Licinio Sura (Mitreo di S. Prisca, Roma)
Un μύστης, un iniziato ai Misteri. Frammento di affresco, c. II secolo, dalla Domus di L. Licinio Sura, ovvero dal Mitreo di Santa Prisca, Roma.

Circa mezzo secolo più tardi, verso il 200 d.C., il padre della Chiesa Tertulliano – grande conoscitore dei misteri mitraici – affermava che a «scimmiottare» le azioni dei sacramenti divini all’interno del culto di Mitra fosse proprio il Diavolo. Nel convito mitraico, quest’ultimo celebrava una presentazione del pane e inscenava una rappresentazione della resurrezione (De praescriptione haereticorum, 40, 3-4). Il rischio di confondere i rispettivi banchetti rituali era, dunque, tutt’altro che scongiurato. Rimane il fatto che nei misteri mitraici, come nei riti iniziatici cristiani, Tertulliano aveva ravvisato l’espressione di una speranza per la vita eterna; nella comune convinzione che il consumo del pane e del vino – cibi metaforici oltre che alimenti di questo mondo – fosse il viatico per la rinascita, per l’ascesa dell’anima verso la luce immortale.

Tertulliano, dunque, stabilisce un rapporto diretto tra il banchetto mitraico, comunione cristiana e l’idea di «resurrezione». Può darsi che egli si riferisca a immagini e suggestioni letterarie, ma non si può escludere che avesse in mente anche delle immagini concrete. Forse il padre della Chiesa alludeva a una sequenza – spesso raffigurata come una successione di tre immagini – al cui centro è una scena di banchetto con Mitra e il dio solare, seguita da quella del viaggio di entrambe le divinità sul cocchio solare. Spesso il carro è rappresentato con un’inclinazione verso l’alto, in un moto ascensionale verso il cielo. Così come il dio Mitra, una volta completate le sue gesta terrene, ascendeva in cielo, anche l’iniziato al culto poteva sperare che la sua anima, con l’aiuto del dio, un giorno potesse ritornare nel regno della luce solare.

Se consideriamo l’importanza che i cristiani attribuivano alla luce come simbolo celeste o di vita eterna (Cristo stesso, del resto, era una divinità solare), possiamo comprendere meglio l’osservazione di Tertulliano. A prescindere dagli atti (che non conosciamo) svolti durante il culto mitraico, i seguaci di Mitra facevano uso di queste due immagini per «mettere in scena» il rapporto tra eucaristia e resurrezione.

Rito mitraico officiato da alcuni militari nel Mithraeum di Housteads Fort (Britannia), c. III secolo. Illustrazione di P. Connolly
Rito mitraico officiato da alcuni militari nel Mithraeum di Housteads Fort (Britannia), c. III secolo. Illustrazione di P. Connolly.

Ora, offerte votive di pane e di vino si trovano in quasi tutte le culture antiche e l’idea di un pasto comune, inteso come elemento unificante tra i credenti e tra questi e la divinità, è tratto distintivo di molte religioni. Se però, come nel caso sopra descritto, il banchetto mitraico poteva essere interpretato – dal punto di vista di un osservatore cristiano – come la «caricatura» dei misteri cristiani, è assai verosimile che ciò accadesse perché i due banchetti si svolgevano secondo identiche modalità rituali, e forse anche usando le medesime formule di benedizione.

È bene ricordare, inoltre, che gli scritti di Giustino e di Tertulliano non erano diretti a un generico pubblico esterno, quanto piuttosto a quei cristiani, forse provenienti dal culto di Mitra, ai quali essi intendevano spiegare il nuovo o – per usare un’espressione cara al Cristianesimo – il «vero» punto di vista. E, sebbene a proposito delle similitudini appena descritte non si possa in nessun modo parlare di imitazione (dall’una o dall’altra parte), i cristiani vedevano la questione in maniera diversa: convinti di essere gli unici detentori della verità, bollarono le analogie presenti negli altri culti come banali «imitazioni» o, peggio, come volgari «scimmiottamenti». Fino a che i cristiani non poterono disporre di altri mezzi, l’unico modo era quello di mettere in guardia contro il culto di Mitra e i suoi banchetti. Il quadro mutò a partire da Costantino, quando –forti del sostegno imperiali – i cristiani abbandonarono le semplici raccomandazioni per scagliarsi con violenza contro tutte quelle comunità religiose considerate alla stregua di concorrenti.

Intorno all’anno 400, il padre della Chiesa Girolamo (autore della cosiddetta Vulgata latina) scrive una lettera a una donna cristiana, in cui elogia il prefetto di Roma degli anni 376/7 (Lettere, 107, 2): «Non è forse vero che qualche tempo fa uno dei tuoi parenti, della stirpe dei Gracchi, prefetto della città di Roma, ha distrutto, smembrato e bruciato la grotta dedicata al dio Mitra e tutte le immagini prodigiose (…) e che per questo impegno ha preteso il battesimo di Cristo?». Quel prefetto di Roma aveva messo in atto la distruzione di uno dei numerosi mitrei dell’antica capitale come proprio pegno d’ammissione al Cristianesimo. Girolamo loda esplicitamente quell’azione, non riferendo semplicemente della distruzione del santuario mitraico, ma insistendo sui termini «distruggere», «smembrare» e «bruciare», offrendo così un ritratto inequivocabile della fanatica intolleranza che all’epoca vigeva tra i cristiani.

Gli effetti di quella temperie possono essere illustrati anche grazie agli scavi archeologici. Valga l’esempio del mitreo rinvenuto a Strasburgo-Koenigshoffen (Francia): qui, come in centinaia di altri casi simili, nell’area dell’altare si trovava un rilievo di culto, di circa 180×230 cm, con la raffigurazione della tauroctonia. Di questo grande rilievo gli scavi hanno recuperato più di 360 frammenti, una chiara dimostrazione che l’altare era stato deliberatamente distrutto: una demolizione accuratamente pianificata ed eseguita, partendo dal distacco di tutte le parti sporgenti e proseguendo, poi, con la frantumazione in mille pezzi della lastra stessa. Infine, come se non bastasse, i frammenti furono sparpagliati per tutta la superficie del santuario.

Con la fine del IV secolo si assiste al tramonto di gran parte dei mitrei e della stessa memoria di Mitra, cancellata assai più sistematicamente di quanto non fosse accaduto per le vestigia degli altri culti. A quell’epoca, infatti, la disputa intorno al «vero» pane era stata decisa.

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