C. Valerio Catullo

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 604-617.

Una nuova generazione di poeti

Nel I secolo a.C. una nuova generazione di poeti, in forte rottura con la tradizione romana, impose un rinnovamento del gusto letterario e fondò un’estetica “moderna”, segnando una svolta decisiva nella storia della letteratura latina. Per indicare le tendenze innovatrici di questa “avanguardia” poetica Cicerone coniò la sprezzante definizione di poetae novi (o neòteroi, alla greca), acquistò (pur senza l’originaria connotazione negativa) dalla critica letteraria.

Il fastidio di Cicerone per quelli che tutt’insieme chiamava «poeti moderni» (un Cicerone maturo, lontano ormai dagli esperimenti poetici giovanili di gusto ellenizzante) si manifestò anche in un’altra sua celebre definizione: cantores Euphorionis, dal nome del poeta Euforione di Calcide (III secolo a.C.), celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi, assunto a emblema della poetica alessandrina (lo divulgò verso la metà del I secolo a.C. il poeta greco Partenio di Nicea, «il profeta della scuola callimachea», condotto a Roma probabilmente da Cinna). Così Cicerone bollava i nuovi protagonisti del panorama letterario, irridendo il loro irriverente rifiuto della tradizione romana, personificata da Ennio.

Poeta nelle vesti di Orfeo (dettaglio). Statua, terracotta, 350-300 a.C. ca. da Taranto.

 

Alle radici del rinnovamento culturale: l’ellenizzazione della società romana

Il processo di modernizzazione del gusto letterario promosso dai poetae novi non fu che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi che caratterizzò la società romana nell’età tardo-repubblicana. Questa trasformazione dei modi di vita fu la conseguenza più evidente delle grandi conquiste del II secolo a.C., che avevano aperto alla potenza romana lo scenario dell’area orientale del Mediterraneo e messo a contatto l’arcaica società di contadini-soldati con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate. L’enorme complesso fenomeno di civilizzazione – che aveva incontrato a Roma la tenace ostilità dei cultori della tradizione, della fazione catoniana – manifestò la sua influenza, com’è ovvio, anche nel campo specificamente letterario.

Si verificò così un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione (di generi letterari politicamente e moralmente “impegnati”, come l’epica e soprattutto il teatro) e l’emersione di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. Di veramente nuovo rispetto alle scelte dei predecessori i poeti neoterici avevano non tanto la predilezione per la letteratura greca più recente (anche gli autori latini più arcaici, infatti, avevano lavorato con tecniche già “alessandrine”), quanto la decisa imitazione degli aspetti eruditi e preziosi che caratterizzavano appunto quella letteratura. I neòteori presero dai poeti ellenistici il gusto per la contaminatio tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati e, infine, il carattere decisamente disimpegnato della loro poesia.

Muse e letterati (part.). Rilievo, marmo, metà III sec. d.C. da sarcofago asiatico. Roma, Museo Nazionale.

 

I caratteri della poesia neoterica

Preludio della rivoluzione neoterica fu la comparsa, negli ultimi decenni del II secolo a.C. nell’élite colta romana, di una poesia di tono leggero e di dimensioni ridotte, destinata al consumo privato. Il carattere scherzoso di questo tipo di componimenti era implicito nel termine stesso che li designava, nugae («bagatelle», «sciocchezze»), a indicarne appunto la natura disimpegnata, di semplice intrattenimento. Coltivata nella cerchia intellettuale che faceva capo all’aristocratico Q. Lutazio Catulo, questa poesia fu il frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta; la rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifestò anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore; e, soprattutto, la ricerca di elaborazione formale (lessico, metrica, impianto compositivo, ecc.) rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine.

Nonostante gli elementi di continuità fra la poesia pre-neoterica e quella propriamente neoterica, ben maggiore era la consapevolezza che quest’ultima possedeva, e assai più netto lo scarto che essa introduceva rispetto alla tradizione letteraria latina. L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo praticato sui modelli greci dai letterati della cerchia di Lutazio Catulo, lasciarono il posto a un tipo di poesia che dall’otium e ai suoi piaceri non avrebbe concesso solo uno spazio limitato (ritagliato ai margini di un sistema, come deroga occasionale a una condotta di vita incentrata ancora sui doveri del civis), ma li avrebbe collocati al centro dell’esistenza stessa, facendone i valori assoluti, le ragioni esclusive, come sarebbe successo in Catullo.

La poesia neoterica, infatti, segnò il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte, il crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio della res publica, per i valori venerandi della tradizione, per il ruolo insomma del civis Romanus; dall’altra, il contemporaneo affermarsi del gusto dell’otium, del tempo libero dedicato alle lettere e ai piaceri, alla soddisfazione dei bisogni individuali e privati.

La rivoluzione del gusto letterario fu accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanziava, mostrando la crisi dei valori del mos maiorum. Il rifiuto della vita impiegata al servizio della comunità, del modello del cittadino-soldato, si riflesse (e insieme se ne alimentò) nel diffondersi dell’Epicureismo, di una filosofia cioè che predicava la rinuncia ai negotia politico-militari per una vita appartata e tranquilla, nell’intima comunione con gli amici.

La convergenza fra i principi dell’Epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici è evidente, ma va notata anche una differenza importante: per gli epicurei, il cui fine era l’atarassia (il piacere di vivere senza turbamenti), l’eros era una malattia insidiosa, da fuggire come fonte di angoscia e di dolore (basti pensare al libro IV di Lucrezio), mentre per i neòteroi – soprattutto per Catullo – l’amore era il sentimento centrale della vita, quello che ne costituiva il fulcro e la ragione essenziale. Esso diventava, perciò, anche il tema privilegiato della nuova poesia, e concorreva a dar forma a un nuovo stile di vita, ispirato appunto dal culto dell’eros e delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimentava.

L’affinità di gusto che accomunava i vari poeti (che non componevano, comunque, un circolo o una scuola, non erano cioè organicamente collegati in un programma complessivo; ma una ragione di vicinanza e di amicizia stava già nella provenienza della maggior parte di loro, dalla Gallia Cisalpina) si tradusse anche in contatti, incontri, discussioni e letture comuni, cioè in un’attività critico-filologica che accompagnava la pratica poetica vera e propria e le faceva da supporto e verifica. Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente labor limae erano, infatti, i tratti distintivi primari della nuova poetica callimachea (da Callimaco, appunto, il poeta ellenistico preso a modello e assurto a emblema degli ideali di poetica alessandrina).

E siccome proprio Callimaco, a suo tempo, aveva aspramente polemizzato contro gli epigoni dell’epos omerico, irridendo la sciatteria e la prolissità del lungo poema, propugnando invece un nuovo stile poetico, ispirato alla brevitas (il componimento di piccole dimensioni) e dell’ars (il meticoloso lavoro di cesello), così anche i neòteroi, dal canto loro, irridevano gli stanchi imitatori di Ennio, i pomposi cultori dell’epica tradizionale (Volusio, Suffeno e Ortensio), una poesia celebrativa delle glorie patrie, estranea ormai al gusto attuale sia per la trascuratezza formale sia per i contenuti antiquati. Ben altri, invece, furono i generi privilegiati dalla poetica callimachea e ritenuti più adatti all’accurato lavoro di cesello, al labor limae: quelli brevi, come, per esempio, l’epigramma, oppure quelli – come l’epillio, il poema mitologico in miniatura – che davano modo al poeta di fare sfoggio della propria preziosa erudizione (antichi miti di soggetto erotico, vicini perciò alla sensibilità “moderna”) e di attuare raffinate strategie compositive (racconti “a incastro”, narrazioni cucite insieme che si rispecchiavano l’un l’altra).

Inoltre, i principi ispiratori della poetica di scuola callimachea diedero luogo all’elaborazione di un nuovo linguaggio poetico e segnarono, più in generale, una svolta decisiva nella storia del gusto letterario a Roma. Il neoterismo avrebbe costituito, d’ora in poi, come un baluardo di “modernità”, che avrebbe proiettato nel passato la letteratura precedente: insomma, non avrebbero più potuto tener conto degli imperativi del nuovo gusto nemmeno i cultori delle forme più tradizionali.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

 

Una rivoluzione nel gusto e nei versi

Come si è detto, tra i precursori dei neòteroi propriamente detti un posto di rilievo spetta a Q. Lutazio Catulo, uno degli esponenti più cospicui dell’ordo senatorio, console insieme a C. Mario e vincitore con lui dei Cimbri (101 a.C.). Uomo impegnato nella vita pubblica e autore, fra l’altro, di opere storiografiche di carattere memorialistico (come il De consulatu et de rebus gestis suis), Catulo riservò all’otium e alla poesia “nugatoria” uno spazio piuttosto limitato, deroga occasionale a una condotta di vita pienamente incentrata ancora sui doveri del civis.

Così, nel fr. 1 Morel = Buechner, rielaborazione di un epigramma callimacheo sul motivo dell’èros paidikòs (l’«amore per gli adolescenti»), l’amore appare quale semplice pretesto letterario a una dotta variatio sul tema:

 

Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum

deuenit. Sic est, perfugium illud habet.

Quid, si non interdixem, ne illunc fugitiuum

mitteret ad se intro, sed magis eiceret?

5 Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur

formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.

 

Il cuore mi è fuggito; come al solito, credo, da Teonimo

è andato. Già: proprio là ha il suo rifugio.

Che mai accadrebbe, se non gli avessi fatto divieto di dar ricetto

a quel fuggitivo, ma gli avessi imposto di cacciarlo?

5 Andrò a cercarlo. Eppure, ho grande timore di essere

catturato. Che fare? Dammi tu, Venere, un consiglio.

 

Attorno a Lutazio Catulo si raccolse un gruppo di letterati accomunati dal nuovo gusto per la poesia leggera di intrattenimento. Non si dovrebbe parlare di un vero e proprio “circolo di Lutazio Catulo” – si è troppo insistito, infatti, sul carattere, a detta di alcuni, “democratico”, o almeno antisillano, di questa cerchia di intellettuali diversi tra loro per estrazione sociale e per tendenze politiche –: ma a collegare i vari componenti doveva essere solo una comunanza di gusti e di orientamenti letterari.

Venere. Statua, marmo, I sec. d.C. ca. da Arlés. Paris, Musée du Louvre.

 

Si ricordano almeno Valerio Edituo e Levio. Il primo fu autore, come Catullo, di epigrammi erotici di manierata fattura alessandrina, uno dei quali (fr. 1 Morel = Buechner) rielabora un celebre tema di Saffo, ripreso anche da Catullo nel carmen 51:

 

Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis

quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,

per pectus ‹ … › manat subito mihi sudor:

sic tacitus, subidus, dum pudeo pereo.

 

Quando io tento, Panfila, di dirti la pena del mio cuore

e quello che desidero da te, le mie labbra restano senza parole

e d’improvviso ‹…› il sudore m’intride il petto:

così muto, avvampante, me ne sto qui, vergognoso, a morire.

 

Quanto a Levio, si sa che doveva essere vissuto più o meno agli inizi del I secolo a.C. Dei suoi Erotopaegnia (“Scherzi d’amore”) resta circa una cinquantina di versi, dove i miti più famosi della tradizione epica – le storie di Ettore, Elena, Circe, Protesilao e Laodamia – diventano soprattutto temi d’amore, storie appassionate, raccontati con tratti talora di morbida sensualità. Levio era famoso anche per la relativa libertà che si prendeva nel coniare composti strani e nello sperimentare forme metriche inusitate. Al preziosismo alessandrino di Levio vanno riportati i suoi carmina figurata, componimenti in cui la forma e l’ordine dei versi “disegnano” letteralmente l’oggetto di cui si parla nei componimenti (per esempio, una zampogna, oppure un’ala d’uccello, ecc.), veri e propri calligrammi.

Se la prima poesia nugatoria era ancora strettamente dipendente dai modelli ellenistici, Levio elaborò in modo più originale i testi che imitava, sperimentando nuove possibilità espressive. In ciò è giusto considerarlo effettivamente un anello di congiunzione, un precursore più diretto della poesia neoterica vera e propria.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

 

Una figura di spicco, quasi un “caposcuola”, delle nuove tendenze poetiche fu certamente P. Valerio Catone. Originario della Gallia Cisalpina (ne parla Svetonio nel De grammaticis), nacque a Patavium probabilmente agli inizi del I secolo a.C.: venne a Roma, dove visse come grammatico e maestro di poesia fino a una tarda vecchiaia funestata dalla povertà. Lettore e critico temuto di poesia, nonché poeta egli stesso, rinnovò a Roma la grande tradizione dei filologi alessandrini (fu, infatti, accostato a Zenodoto e al pergameno Cratete).

Poeta neoterico, ma anche autore di poemi epico-storici, fu P. Terenzio Varrone Atacino, che continuò la poesia di stampo enniano, componendo un poema storico, il Bellum Sequanicum (sulla campagna di Cesare contro Ariovisto, del 58 a.C.), ma aderì anche al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata Leucadia, dal nome della donna amata; i poeti elegiaci l’avrebbero indicata fra i primi esempi di poesia erotica latina. Di Varrone Atacino va, però, soprattutto ricordato il poema epico Argonautae, libera traduzione in esametri latini (o forse, piuttosto, un rifacimento) delle Argonautiche di Apollonio Rodio: Varrone Atacino proseguì così la tradizione dei poeti-traduttori – funzionale all’esigenza di elaborare, sulla scorta dei grandi modelli greci, un nuovo linguaggio poetico latino – e insieme manifestò la preferenza per un tipo di epica che faceva largo spazio all’eros e alle sue complicazioni psicologiche. Ciò avrebbe, certamente, attratto l’interesse dei poeti nuovi. Un frammento superstite del suo poema restituisce uno splendido “notturno” (fr. 8 Morel = 9 Traglia):

 

Desierant latrare canes urbesque silebant;

omnia noctis erant placida composta quiete.

 

Avevano smesso di latrare i cani e silenziose erano le città;

ogni cosa giaceva nella placida quiete della notte.

 

Selene e Endimione. Affresco, I sec. a.C. dalla Casa dei Dioscuri (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Ma le due figure di maggior rilievo, note soprattutto grazie a Catullo, che fu loro amico, sono state quelle dei due poeti C. Elvio Cinna e C. Licinio Calvo. Cinna era originario di Brixia e partecipò con Catullo al viaggio in Bitinia del 57 a.C. C’è chi lo identifica con il Cinna che avrebbe portato a Roma al proprio seguito il poeta greco Partenio di Nicea, i cui Erotikà pathèmata (“Sofferenze d’amore”), brevi componimenti che raccontavano di infelici amori mitici, riscossero grande successo presso i poetae novi.

Ispirata proprio ai testi di Partenio doveva essere la Zmyrna di Cinna, storia dell’amore incestuoso di una fanciulla per il proprio padre, Cinira. Il poemetto fu salutato dall’amico Catullo come opera di alto valore e destinata a durare nei secoli (c. 95, v. 1 s.): Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem / quam coepta est nonamque edita post hiemem («La Zmyrna del mio Cinna dopo la nona estate da che fu cominciata / e dopo il nono inverno è venuta alla luce»).

La Zmyrna richiese, dunque, nove anni di laboriosissime cure, e per densità di dottrina doveva essere talmente impenetrabile da aver bisogno di un commento esegetico di un grammatico, come informava Svetonio. Eccone un frammento, relativo al momento in cui, dopo la rivelazione dell’incesto voluto dalla figlia presa d’amore per lui, il padre Cinira ha scacciato Zmyrna (o Mirra), che ora vaga in preda al rimorso e alla disperazione (fr. 6 Morel = 12 Traglia; fr. 7 Morel = 13 Traglia):

 

te matutinus flentem conspexit Eous

et flentem paulo uidit post Hesperus idem.

 

Piangente ti scorse al mattino Eoo

e poco dopo Espero ancor ti vide piangente.

Scena erotica. Affresco parietale, ante 79 d.C., dalla Casa del Ristorante. Pompei, Parco Archeologico.

Licinio Calvo (82-47 a.C.) era di Roma e apparteneva a un’illustre famiglia plebea. Fu oratore famoso, seguace dell’indirizzo atticista, quello che, perseguendo un ideale di nitida, concisa, asciuttezza, contrario all’enfasi e alla prolissità, meglio si conciliava con il gusto neoterico. Di lui restano pochissimi versi (soprattutto di soggetto amoroso), tra i quali il dolente epicedio per la moglie Quintilia. La Io, invece, era un epillio sulla storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in giovenca. Il tema stesso della metamorfosi era molto caro agli alessandrini, poiché soddisfaceva la loro passione per il paradossale e dava modo di cimentarsi in descrizioni che richiedevano grande virtuosismo. Di un verso del poemetto di Calvo (a, uirgo infelix, herbis pasceris amaris [«ah, ragazza sventurata, di erbe amare ti pascerai!»], fr. 9 Morel = 14 Traglia) si sarebbe poi ricordato Virgilio, che lo avrebbe citato ben due volte nella VI egloga, riferendolo a Pasifae, moglie di Minosse innamoratasi di un toro: a, uirgo infelix, quae te dementia cepit! («ah, ragazza sventurata, quale follia ti colse!», v. 47); a, uirgo infelix, tu nunc in montibus erras («ah, ragazza sventurata, tu ora erri sui monti», v. 52).

 

Catullo, il massimo interprete della nuova poesia

Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, certo, ma – come si è detto – anche rivolta di carattere etico: mentre, infatti, nell’età di crisi acuta della res publica romana si stavano sgretolando gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventava l’alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore, insomma, a se stessi e alla propria crescita personale. Il piccolo universo privato, con le sue gioie e i suoi drammi, si identificava con l’orizzonte stesso dell’esistenza, e l’attività letteraria non si rivolgeva più all’epos o alla tragedia – i generi portavoce della civitas e dei suoi valori –, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale.

C. Valerio Catullo (forse). Frammento di decorazione parietale, affresco, fine I sec. a.C.- inizi I sec. d.C. da Sirmione. Sirmione, Antiquarium.

C. Valerio Catullo nacque a Verona, nella Gallia Cisalpina, certamente da famiglia agiata (Cesare stesso fu ospite a casa sua). La data della nascita è incerta: Girolamo, che si rifà a Svetonio, la fissa nell’87 a.C. e trent’anni dopo, nel 57, colloca la morte; ma il poeta era certamente ancora vivo almeno nel 55 a.C. Lo provano, infatti, alcuni suoi accenni ad avvenimenti occorsi in quell’anno. Pertanto, con quella della morte bisogna abbassare anche la data della nascita, cioè grosso modo 84-54 a.C. (sempre che sia vera la notizia della morte a trent’anni), oppure si dovrà supporre che Catullo sia vissuto qualche anno più di quanto attesta Girolamo.

A Roma (non è dato sapere quando vi giunse) Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario, dal celebre oratore Q. Ortensio Ortalo ai poeti Cinna e Calvo, da L. Manlio Torquato al giurista e futuro console suffectus Alfeno Varo, da Cornelio Nepote a C. Memmio, ed ebbe una relazione amorosa con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente la sorella mediana del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello Celere, console nel 60. Probabilmente nel 57 a.C. Catullo andò in Bitinia, per un anno, come membro dell’entourage del pro praetor C. Memmio; in occasione di questo viaggio, il poeta visitò la tomba del fratello, morto e sepolto nella Troade (cfr. c. 101).

Le notizie biografiche su Catullo derivano soprattutto dai suoi carmina, ma la materia di cui si sostanzia il Liber è spesso sfuggente e offuscata; sulle relazioni della famiglia del poeta con Cesare fornisce qualche informazione Svetonio in Iul. Caes. 73, dal De vita Caesarum. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia Pulcra molto riporta Cicerone, che ne traccia un fosco ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di M. Celio Rufo, ex amante della donna e da lei più tardi citato in giudizio con l’accusa di veneficio.

Di Catullo si hanno 116 carmi[1], per un totale di quasi 2.300 versi, raccolti in un Liber che si suole suddividere sommariamente in tre sezioni, su base metrica: i carmina 1-60, le cosiddette nugae, ovvero componimenti brevi e di carattere leggero; i carmina 61-68, o carmina docta, cioè testi più lunghi e stilisticamente elaborati; e, infine, i carmina 69-116, che sono sostanzialmente degli epigrammi in distici elegiaci.

È controversa la questione relativa alla composizione della raccolta: se qualche critico attribuisce al poeta stesso la responsabilità dell’ordinamento del Liber, i più tendono giustamente a credere che tale organizzazione, non rispondente a criteri cronologici o di contenuto, ma esclusivamente metrici, sia opera di altri (un criterio, quindi, da filologi!), dopo la scomparsa del poeta. Alcuni carmina, tuttavia, devono essere rimasti esclusi dalle prime edizioni postume, perché si hanno per tradizione indiretta versi attribuiti a Catullo, che non compaiono nei componimenti raccolti nel Liber. Bisognerà quindi supporre che il libellus che il poeta dedica a Cornelio Nepote (c. 1) non corrispondesse esattamente al Liber rimasto, ma ne costituisse solo una parte.

 

Poeta con stilus e tabula cerata. Mosaico, II-III sec. d.C. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

 

La poesia dei sentimenti privati: i carmi brevi

Al progetto di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, che caratterizza la rivoluzione neoterica, risponde in modo più evidente quella parte della produzione catulliana che si suole indicare come «carmi brevi», cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi: l’esiguità dell’estensione rivela già in se stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti quotidiani, e favorisce insieme il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale.

Affetti, amicizie, odi, passioni, aspetti minori o minimi dell’esistenza sono l’oggetto della poesia di Catullo: uno scherzoso invito a cena (c. 13), il benvenuto a un amico che torna dalla Hispania, le proteste per un gesto poco urbano o per un dono malizioso ricevuto dal poeta sono solo alcune di queste occasioni.

Dall’occasionalità dei temi risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa che ha dato luogo, nella storia della critica, a un equivoco tenace, quello di una poesia ingenua e spontanea, e di un poeta “fanciullo” che dà libero sfogo ai propri sentimenti, senza i vincoli della morale e i filtri della cultura. In realtà, la celebrata spontaneità catulliana è la veste che questa poesia si costruisce, ma è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di doctrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato della realtà, hanno i loro precedenti letterari (come, spesso, l’epigramma greco, il cui influsso si avverte soprattutto nei carmi in distici). L’aggancio a un preciso spunto occasionale garantisce ai carmi catulliani una freschezza del tutto incomparabile.

Nel complesso impasto stilistico della poesia di Catullo entrano precise risonanze letterarie, che quasi mai hanno valenza puramente esornativa, dissimulate più o meno sapientemente in una parvenza di slancio passionale o di immediatezza giocosa, quasi fossero gesti irriflessi di un’emozione e nulla più. D’altra parte, solide strutture formali costituiscono l’“ordito” su cui si inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta.

Bisogna, quindi, sottrarsi ai rischi del biografismo (si è creduto, infatti, sulla base dei suoi carmina, di poter fedelmente ricostruire la storia dell’amore con Lesbia) e verificare di volta in volta la genesi complessa di questa poesia intessuta di doctrina: non si tratta, beninteso, di negare la vita vissuta, l’importanza davvero insolita che l’esperienza biografica assume in Catullo, ma di vedere come essa si atteggia secondo movenze letterarie, come si deposita nelle forme della tradizione.

Non si deve dimenticare, poi, che il destinatario di ogni testo (la cui presenza alla mente del poeta non è senza conseguenze dirette e importanti sull’organizzazione formale del carmen stesso) è perlopiù rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende, dunque – gli è anzi “dovuto” –, un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato.

Lo sfondo della poesia di Catullo, infatti, è costituito dall’ambiente letterario e mondano dell’Urbe, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi interessi, da uno stesso linguaggio, da un ideale condiviso di grazia e da una brillantezza di spirito: lepos, uenustas, urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci, ma ispira anche il gusto letterario e artistico.

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Sullo sfondo del raffinato ambiente mondano campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, è sufficiente a creare attorno alla donna come un alone idealizzante: oltre alla grazia e alla bellezza non comuni, sono soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati a farne il fascino e ad alimentare la passione del poeta.

Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e darle un senso. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale, quale debolezza giovanile, tollerabile purché non infrangesse certe limitazioni e convenienze soprattutto di ordine sociale, ma esso diventa centro stesso dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana (celebre l’invito del c. 5: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus…).

All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis romano: egli resta, quindi, estraneo alla politica e alle vicende della vita pubblica, ai conflitti di potere che lacerano la società tardorepubblicana, limitandosi a esternare un generico sprezzante disgusto per i nuovi protagonisti della scena politica, arroganti e corrotti.

Il rapporto con Lesbia, nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende perciò, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che accentua il carattere sacrale del concetto, appellandosi a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato, vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri, specialmente dei consanguinei, nonché della divinità.

Catullo cerca di fare di quella relazione irregolare un aeternum… sanctae foedus amicitiae (c. 109, v. 6), nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari (pater ut gnatos diligit et generos, c. 72, v. 4), ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene uelle): celebre esempio di questo conflitto interiore è il carmen 72, appunto, che analizza con lucida amarezza la scomparsa di ogni stima e affetto per quella donna che continua, ancor più intensamente, ad accendere la passione dell’innamorato (iniuria talis / cogit amare magis, sed bene uelle minus, vv. 7-8). E celeberrimo è il carmen 85, che condensa in un ossimoro (odi et amo) la dolorosa sensazione del poeta stupito di fronte al dissidio che lo lacera.

La speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna in Catullo alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia, alla gratificante certezza della propria innocenza: il carmen 76 – in cui, a suo tempo, qualcuno volle erroneamente vedere la fiducia di una ricompensa nell’aldilà – è l’espressione più nota di questa consolazione della buona coscienza, di una uoluptas del ricordo garantita per il resto dei giorni terreni dalla consapevolezza di aver tenuto fede a un impiego morale. La sola soddisfazione sicura che l’amore per Lesbia gli avrebbe dato.

Venere, un’ancella e Amore. Affresco, post 29 a.C. Cubiculum B. Casa della Farnesina, Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

 

La poesia dotta di matrice alessandrina: i carmina docta

Lepidus, nouus, expolitus: così, presentando il suo libellus nel carme dedicatorio, Catullo oltre ai caratteri materiali ed esteriori ne definisce indirettamente anche quelli interni, i criteri di una nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale. Questa poetica rivela apertamente la sua ascendenza alessandrina, meglio ancora callimachea, soprattutto in quella sorta di “manifesto” del nuovo gusto letterario che è il carmen 95, cioè l’annuncio della pubblicazione del poemetto dell’amico Cinna (vv. 1-2; 7-10):

 

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem

quam coepta est nonamque edita post hiemem […]

At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam

et laxas scombris saepe dabunt tunicas.

Parua mei mihi sint cordi monimenta ***,

at populus tumido gaudeat Antimacho

 

La Smirna del mio Cinna dopo nove messi

e nove inverni da che è cominciata vide la luce […]

Gli Annali di Volusio periranno alla foce del Po

e serviranno spesso da tuniche ampie per gli sgombri.

A me stiano a cuore i brevi grandi testi dell’amico;

quanto al popolo, si goda le goffaggini di Antimaco.

 

Brevità, eleganza e dottrina sono i canoni di un gusto cui Catullo aderisce senza riserve, in polemica contrapposizione alla torrenziale faciloneria degli attardati epigoni di scuola enniana, che entusiasmano il pubblico incompetente. I veri intenditori apprezzeranno, invece, la nuova epica elaborata dai poeti neoterici, l’epillio, il poemetto breve (poche centinaia di versi!), che con le sue stesse dimensioni favorisce il paziente lavoro di rifinitura stilistica, teso a conferire asciuttezza e pregnanza, e che sul piano dei contenuti permette al poeta di far sfoggio della sua preziosa dottrina (si tratta, perlopiù, di vicende mitologiche esotiche e dai risvolti patologicamente passionali).

Dottrina e impegno stilistico, oltre a una maggiore ampiezza dei componimenti, sono particolarmente evidenti nella sezione dei carmi che, per tale motivo, sono noti come docta, in cui il poeta sperimenta anche nuove forme compositive, dando prove di raffinata sapienza strutturale.

Amore e Psiche. Affresco pompeiano, dalla Casa di Terenzio Neo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

L’epillio: le nozze di Peleo e Teti e il lamento di Arianna

Come altri poeti neoterici – Cinna con la sua Zmyrna, Valerio Catone con la sua Dictynna, Calvo con l’Io, Cecilio (un poeta ricordato da Catullo) con la Magna Mater – anche Catullo si cimenta nel nuovo genere dell’epillio: il c. 64 ne costituirà quasi il modello esemplare per la cultura latina a venire. Questo celebre poemetto di 408 esametri narra il mito delle nozze di Peleo e Teti, ma nella vicenda principale contiene – incastonato mediante la tecnica alessandrina dell’èkphrasis e della digressione – un’altra storia, che figura ricamata sulla coperta nuziale, quella dell’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo – un motivo che conosce grande diffusione nella letteratura greca e latina: su questo modello, tra l’altro, saranno improntate le Heroides ovidiane.

L’intreccio delle due vicende d’amore, quello infelice di Arianna e quello felice dei due sposi, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il proprio nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano, quella fides di cui, nella lontana età degli eroi, gli stessi dèi si facevano garanti e che nella corrotta età presente è violata e vilipesa insieme agli altri valori morali e religiosi. Il canto profetico delle Parche saluta, invece, le nozze di Peleo e Teti, esaltando la reciproca fedeltà degli sposi. Il mito si fa cioè, qui come altrove, proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno perennemente inappagato di ancorare un amore tanto precario a un vincolo più saldo, a un foedus duraturo.

Un epillio è anche il c. 63: si ispira alla vicenda del giovane frigio Attis, che, nel delirio religioso, si mutila della sua virilità per farsi sacerdote di Cibele, la grande madre degli dèi. Il culto orgiastico di questa divinità, con musica ossessiva e danze cruente, era stato introdotto a Roma intorno al 205/4 a.C. Una volta libero dall’invasamento, Attis lamenta il folle gesto.

Bacco e Arianna. Affresco, ante 79 d.C, Casa dei Braccialetti d’Oro, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Omaggio ai modelli greci: gli epitalami e la Chioma di Berenice

Epitalami, cioè canti nuziali, sono i carmina 61 e 62. Si tratta di un genere letterario di origine ellenica, praticato dall’epoca di Saffo all’età alessandrina, che Catullo romanizza con l’inserimento di una serie di elementi tipicamente italico-romani, sia per quanto riguarda il rito nuziale sia sul piano etico-sociale. Mentre il carmen 61 fu scritto in occasione delle nozze dei due nobili romani L. Manlio Torquato e Vibia Aurunculeia, il carmen 62 non fu composto per un’occasione reale (anche se in esso non mancano accenti di sensibilità latina, il componimento rivela una più marcata adesione ai caratteri formali del genere).

Nel ciclo dei carmina docta è compreso anche un componimento (c. 66) che è un omaggio al poeta principe dell’alessandrinismo, Callimaco: si tratta della traduzione in versi latini di un’elegia famosa del poeta cirenaico, nota come Chioma di Berenice, che pare occupasse la parte finale del IV libro degli Aitia e che è giunta in forma mutila e frammentaria. In essa Callimaco celebrava in versi la cortigiana escogitazione di Conone, l’astronomo alla corte di Tolemeo III Evergete, re d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione da lui scoperta con il ricciolo offerto come ex voto dalla regina Berenice per il ritorno del marito dalla guerra, ricciolo successivamente scomparso. Nel tradurre, liberamente, la vicenda del catasterismo (cioè della trasformazione della ciocca in costellazione), Catullo introduce o accentua temi centrali della propria ideologia e particolarmente insistenti nei carmi maggiori: l’esaltazione della fides, della pietas, la condanna dell’adulterio e la celebrazione delle virtù eroiche e dei valori tradizionali (vi si riconduce anche il c. 67, in cui una porta racconta le vicende non proprio edificanti di cui è stata protagonista la singolare famiglia che abita in quella casa).

Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice) – dettaglio. Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.

 

L’amore e l’archetipo mitico: il carme 68

Particolarmente complesso è il carmen 68 (dall’unità controversa: si discute se questo componimento, trasmesso come unico dai codici, si debba, in realtà, distinguere in due testi e quale sia, in tal caso, la relazione che li lega); esso riassume i temi principali della poetica catulliana, quali l’amicizia e l’amore, l’attività letteraria e la sua connessione con Roma, il dolore per la morte del fratello. Il ricordo dei primi amori, furtivi, con Lesbia sfuma nel mito: la vicenda di Protesilao e Laodamia (unitisi prima che fossero celebrate le nozze e, perciò, puniti con la morte di lui appena sbarcato a Troia) si fa archetipo esemplare della vicenda del poeta e della sua donna, di un coniugium anch’esso imperfetto e precario.

Il carme 68 merita, dunque, una menzione particolare per il suo destino nella storia letteraria latina: il largo spazio concesso al ricordo e alla vita trascorsa, proiettata miticamente, in un componimento che andava ben al di là delle dimensioni dell’epigramma, dovevano farlo apparire come il progenitore della futura elegia soggettiva latina.

Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.

 

Lingua e stile

Quella di Catullo, si è detto, è una cultura letteraria ricca e complessa, in cui accanto all’influsso dominante della letteratura alessandrina, con la sua eleganza talora preziosa, è sensibile anche quello della lirica greca arcaica (dell’intensa affettività di Archiloco e di Saffo). Quanto al linguaggio, esso è il risultato di un’originale combinazione fra il lessico letterario e colto e il sermo familiaris: la lingua e le movenze del parlato vengono assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza però insterilirne le capacità espressive.

Il gusto ricercato non produce un’eleganza esangue, ma lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di certi volgarismi che non vanno intesi come un tratto di lingua autenticamente popolare, ma ricondotti alla snobismo compiaciuto di un’élite colta che ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata. Particolarmente frequenti, fra i tratti del sermo familiaris, i diminutivi, che nella loro stessa mollezza fonica e formale (flosculus, labella, turgiduli ocelli, molliculus, pallidulus, tenellulus, ecc.; c. 3; c. 42; c. 8) sembrano rivelare l’adesione a quell’estetica del lepos, della grazia, che accomuna la cerchia degli amici e ne condiziona anche i modi espressivi, oltre a ridefinirne la gerarchia dei valori etici.

Uno stile composito, insomma, e sempre vitale, con un’ampia gamma di modalità espressive che vanno dallo sberleffo irridente, dall’invettiva sferzante e scurrile alle morbidezze del linguaggio amoroso, dalla baldanza giovanile che dilata le immagini in iperboli alla grazia leggera, alla pacata malinconia, agli abbandoni di certi momenti elegiaci, soprattutto nei carmi più tardi.

La vitalità del linguaggio affettivo e l’intensità del pathos non sono assenti nemmeno nei carmina docta: giustamente la critica ha reagito da tempo all’idea di una netta distinzione fra i carmi più brevi, più vivacemente espressivi e dove è dominante la componente affettiva e autobiografica, e i componimenti maggiori, dove più evidenti sono la dottrina e l’elaborazione stilistica. Ma se la distinzione non va troppo marcata, non va tuttavia nemmeno annullata: vari elementi, come per esempio la selezione di un lessico generalmente più ricercato e la presenza di stilemi e movenze del poesia “alta”, della tradizione enniana (come gli arcaismi, i composti, le clausole allitteranti, ecc.), concorrono a dare ai camina docta un carattere più spiccatamente letterario.

***

Note:

[1] Più esattamente i carmina sono 113, ma la loro numerazione sale a 116, perché 3 carmi priapei (cc. 18, 19, 20) furono inseriti nel Liber (contro l’autorità dei manoscritti) dal Mureto, grande umanista del Cinquecento francese, e ne fecero parte fino a quando, nell’Ottocento, il Lachmann li escluse dal testo catulliano; eppure, la numerazione dei singoli carmi non subì sostanziali aggiustamenti. I tre carmina possono essere letti fra i Priapea dell’Appendix Vergiliana.

Essere è avere (Lucil. Sat. fr. incert. v. 1220 Marx = 1154 Terzaghi – I. Mariotti)

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di Letteratura latina. Materiali per il docente, Milano 2010, p. 43.

 

Una massima che avrà la vitalità del proverbio e sarà ripresa da Orazio (Sat. I 1, 62),  nil satis est – inquit – quia tanti quantum habeas sis, «non è mai abbastanza – si dice – perché tu sei soltanto ciò che possiedi», e da Petronio (Satyr. 77, 6), assem habeas assem valeas: habes, habeberis, «hai un soldo? vali un soldo: hai ricchezze? avrai anche stima».

L. Cornelio Silla e L. Manlio Torquato. Denario, Roma, 82 a.C. AR 3, 93 gr. Recto: L. Manli(us) pro q(uaestor). Testa elmata di Roma voltata a destra

METRO: esametro

 

 

tantum habeas, tantum ipse sies tantique habearis[1].

 

Quello che hai è quello che tu sei, quello che sei stimato.

 

(trad. it. di I. Mariotti – A. Cavazza Pasini)

***

Note:

[1] sies: sis.

T. Maccio Plauto

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 35-48

  1. Vita

Il nome del poeta (almeno nella sua forma completa) è fra i dati incerti. Gli antichi lo citano comunemente come Plautus, forma romanizzata di un cognome umbro, Plotus (significato originario dubbio: «dalle grandi orecchie» o «dai piedi piatti»), e almeno questo elemento di identificazione è sicuro. Nelle edizioni moderne, fino all’Ottocento, figura il nome completo M. (abbreviazione del prenome Marcus) Accius (scritto anche Attius) Plautus. Questa forma è di per sé sospetta alla luce di considerazioni storiche: i tria nomina – cioè l’identificazione di una persona per prenome (ad esempio, Marco), nome gentilizio (esempio, Tullio) e cognome (esempio, Cicerone) – si usavano per chi era dotato di cittadinanza romana, e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto (il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto ai primi dell’800 dal cardinale Angelo Mai) ha portato migliore luce sulla questione. Il nome completo del poeta ivi tramandato si presenta, infatti, nella più attendibile versione Titus (abbreviato T.) Maccius Plautus; da Maccius, per errore di divisione delle lettere, era uscito fuori il tradizionale M. Accius (che sembrava credibile anche per l’influsso di L. Accius, il nome del celebre tragediografo). D’altra parte, il nome Maccius si presta a interessanti deduzioni. Non si tratta certo di un vero nome gentilizio (come, poniamo, Aemilius o Iulius): e, del resto, non c’è ragione di ritenere che Plauto ne portasse uno; si tratta, invece, di una derivazione da Maccus, il nome di un personaggio tipico della farsa popolare italica – l’atellana. Questa originale derivazione doveva avere un legame con la personalità e l’attività del drammaturgo. Influssi dell’atellana in Plauto sono stati notati sin dai tempi di Orazio. È dunque verosimile e attraente ipotesi che il poeta teatrale umbro Titus Plotus, o Plautus, si fosse dotato, a Roma, di un nome di battaglia che alludeva chiaramente al mondo della scena comica e che, quindi, conservasse nei «tre nomi» canonici la traccia libera e irregolare del suo mestiere di «commediante».

Varie fonti antiche chiariscono che Plauto era nativo di Sàrsina, cittadina appenninica dell’Umbria (oggi in Romagna): il dato è confermato da un bisticcio allusivo in Mostellaria 769-770. Plauto, come, del resto, quasi tutti i letterati latini di età repubblicana su cui abbiamo notizia, non era dunque di origine romana: non apparteneva, però (diversamente da Livio Andronico e da Ennio), a un’area culturale italica già pienamente grecizzata. Si noti anche che Plauto era con certezza un cittadino libero, non uno schiavo o un liberto: la notizia che svolgesse lavori servili presso un mulino è un’invenzione biografica, basata su un’assimilazione tra Plauto e i servi bricconi delle sue commedie, che spesso vengono minacciati di questa destinazione.

La data di morte, il 184 a.C., è sicura; la data di nascita si ricava indirettamente da una notizia di Cicerone (Cato maior 14, 50), secondo cui Plauto scrisse da senex la sua Pseudolus: questa commedia, infatti, risulta rappresentata nel 191 ed è noto che la senectus per i Romani cominciava a 60 anni. Probabile, quindi, una nascita fra il 255 e il 250 a.C. Le notizie che fissano la «fioritura» letteraria del poeta intorno al 200 quadrano bene, dunque, con queste indicazioni. Dobbiamo immaginarci un’attività letteraria compresa fra il periodo della seconda guerra punica (218-201) e gli ultimi anni di vita del poeta: la Casina allude chiaramente alla repressione dei Baccanali nel 186.

Maschera comica. Mosaico, II sec. d.C. dalla Villa di Centocelle (Roma). Berlin, Altes Museum.
  1. Opere e fonti

Plauto fu autore di enorme successo, immediato e postumo, e di grande prolificità. Inoltre, il mondo della scena, per sua natura, conosce rifacimenti, interpolazioni, opere spurie. Sembra che nel corso del II secolo a.C. circolassero qualcosa come centotrenta commedie legate al nome di Plauto: non sappiamo quante fossero autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione già in antico.

Nello stesso periodo, verso la metà del II secolo, cominciò un’attività che possiamo definire editoriale, e che ebbe grande importanza per il destino del testo plautino: delle sue opere, infatti, furono condotte vere e proprie «edizioni» ispirate ai criteri della filologia alessandrina. Benefici effetti di questa attività si riscontrano nei manoscritti pervenuti sino a noi: le commedie furono dotate di didascalie e di sigle dei personaggi; i versi scenici furono impaginati da competenti studiosi, in modo che ne fosse riconoscibile la natura; e questo avvenne in un periodo che ancora aveva dirette e buone informazioni in materia.

La fase critica nella trasmissione del corpus dell’opera plautina fu segnata dall’intervento di Varrone, il quale, nel De comoedis Plautinis, ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di commedie (ventuno, quelle giunte fino a noi) sulla cui autenticità c’era generale consenso: Amphitruo; Asinaria (“Commedia degli asini”); Aulularia (“Commedia della pentola”); Captivi (“I prigionieri”); Curculio; Càsina; Cistellaria (“Commedia della cassetta”); Epidicus; Bàcchides; Mostellaria (“Commedia del fantasma”); Menaechmi; Miles gloriosus (“Il soldato vantone”); Mercator (“Il mercante”); Psèudolus; Poenulus (“L’uomo di Cartagine”); Persa (“Il Persiano”); Rudens (“La gòmena”); Stichus; Trinummus (“Le tre monete”); Truculentulus; Vidularia (“Commedia del bauletto”). Questo è l’ordine delle commedie nei codici, non quello di composizione. L’ultima posizione della Vidularia la rese esposta a danneggiamenti nel corso della trasmissione manoscritta: se ne hanno, infatti, solo alcuni frammenti.

Queste erano opere accettate da Varrone come totalmente e sicuramente genuine. Molte altre commedie – fra cui alcune che il filologo stesso riteneva plautine, ma che non aggregò al gruppo delle «ventuno», perché il giudizio era più oscillante – continuarono a essere rappresentate e lette in Roma antica. Noi ne abbiamo solo dei titoli e brevissimi frammenti, citazioni di tradizione indiretta: questi testi andarono perduti nella tarda antichità, fra III e IV secolo d.C., mentre la scelta delle «ventuno» si perpetuava nella tradizione manoscritta, sino ad essere integralmente recuperata nel periodo umanistico.

La cronologia delle singole commedie ha qualche punto fermo: lo Stichus fu messo in scena la prima volta nel 200 a.C., lo Pseudolus nel 191, e la Càsina, come si è detto, presuppone avvenimenti del 186. Per il resto, alcune commedie presentano allusioni storiche che hanno suggerito ipotesi di datazione troppo sottili e controverse per essere riprese qui. È molto difficile farsi un’idea di evoluzione della poetica plautina, che ci permetterebbe di considerare certe commedie più tarde di altre. Un’impressione ragionevole è, comunque, che le commedie più ricche di ritmi variegati e ricercati siano più tarde di quelle più semplici nella tessitura ritmica.

Attore con maschera comica nei panni di un servo. Statuetta, bronzo, inizi III sec. d.C., da Roma, P.zza Madonna dei Monti. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.
  1. Tipologia degli intrecci e dei personaggi

Uno sguardo cursorio agli intrecci delle venti commedie pervenuteci integre (un complesso di più di 21.000 versi: la commedia più lunga è il Miles gloriosus, con 1437 versi, la più breve il Curculio, con 729 versi) è senz’altro opportuno, anche se può suggerire una prima impressione assai parziale e anche fuorviante. Per unanime riconoscimento, la grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l’altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione sa sprigionare. Ma solo una lettura diretta può restituire un’impressione adeguata di tutto ciò: e se l’arte comica di Plauto sfugge per sua natura a formule troppo chiuse, una maggiore sistematicità nasce proprio dalla considerazione degli intrecci, nelle loro più elementari linee costruttive.

Amphitruo – Giove arriva a Tebe per conquistare la belle Alcmena. Il dio impersona Anfitrione, signore della città e marito della dama; aiutato dall’astuto Mercurio, Giove approfitta dell’assenza di Anfitrione, che è in guerra, per entrare nel letto della moglie ignara. Mercurio intanto impersona Sosia, il servo di Anfitrione. Ma improvvisamente tornano a casa i due personaggi “doppiati”: dopo una brillante serie di equivoci, Anfitrione si placa, onorato di aver avuto per rivale un dio. La commedia occupa un posto particolare nel teatro di Plauto, perché è l’unica a soggetto mitologico.

Asinaria – Macchinazioni di un giovane per riscattare la sua bella, una cortigiana. L’impresa ha successo, grazie all’aiuto di furbi servitori e anche (cosa assai rara in questo tipo di intrecci) grazie alla complicità del padre dell’innamorato. Nasce poi una rivalità amorosa tra padre e figlio che si risolve, secondo logica, con il prevalere finale del giovane.

Aulularia – La pentola, che è piena d’oro, è stata nascosta dal vecchio Euclione, che ha un terrore ossessivo di esserne derubato. Tra molte inutili ansie dell’avaro, la pentola finisce davvero per sparire; sarà utilizzata dal giovane amoroso, con l’aiuto dello schiavo, per ottenere le nozze con l’amata, che è la figlia di Euclione.

Bacchides – Il plurale del titolo designa due sorelle gemelle, entrambe cortigiane. L’intrigo ha uno sviluppo complesso e un ritmo indiavolato: diciamo solo che la normale situazione di “conquista” della donna viene qui non solo raddoppiata (si hanno naturalmente due giovani innamorati, con duplice problema finanziario, ecc.), ma anche perturbata da equivoci sull’identità delle concupite.

Il modello di questa commedia era il Dis exapatòn (Il doppio inganno) di Menandro: il recente ritrovamento di parti dell’originale greco permette finalmente, almeno in un caso, un confronto diretto fra Plauto e i suoi modelli greci.

Captivi – Un vecchio ha perduto due figli: uno gli fu rapito ancora bambino; l’altro, Filepomeno, è stato fatto prigioniero in guerra dagli Elei. Il vecchio si procura due schiavi di guerra elei, per tentare uno scambio: alla fine, non solo egli ottiene indietro Filopomeno, ma scopre che uno dei due prigionieri in sua mano è addirittura l’altro figlio, da tempo perduto.

La commedia si distingue in tutto il panorama plautino per la smorzatura dei toni comici e per gli spunti di umanità malinconica – si noterà subito che qui è assente, eccezionalmente, qualsiasi intrigo a sfondo erotico. Per questo ha goduto di una sua autonoma fortuna, anche in periodi di svalutazione della “triviale” comicità plautina.

Càsina – Un vecchio e suo figlio desiderano una trovatella che hanno in casa; escogitano, perciò, due trame parallele: ognuno vuole farla sposare a un proprio “uomo di paglia”. Il vecchio immorale (che naturalmente è già sposato) viene raggirato e trova nel suo letto un uomo, invece che l’agognata Càsina. Costei – si scopre, infine – è una fanciulla libera di nascita, che può, quindi, regolarmente sposare il suo giovane pretendente.

Cistellaria – Un giovane vorrebbe sposare una ragazza di nascita illegittima, mentre il padre gliene destina un’altra, di legittimi natali. Il caso vanifica poi ogni ostacolo, rivelando la vera e regolare identità della fanciulla desiderata, permettendo così giuste nozze.

Curculio – (cioè “il Gorgoglione”: è un vorace insetto, parassita del grano, nome calzante per uno scurra). Curculio è, infatti, il parassita di un giovane innamorato di una cortigiana; per aiutarlo, egli inscena un raggiro sia a spese del lenone, che detiene la ragazza, sia un soldato sbruffone, chiamato Terapontigono, che ha già messo in atto l’acquisto della medesima. Alla fine, si scopre che la cortigiana è, in realtà, di nascita libera e può quindi sposare il giovanotto. Il lenone ci rimette i soldi; Terapontigono, invece, non ha lagnanze: la ragazza – si è scoperto – è addirittura sua sorella.

Epidicus – Una classica “commedia del servo”, a ritmo incalzante. L’insaziabile serie di macchinazioni attuata dal servo Epidico è messa in moto da un giovane padrone assai inquieto: egli si innamora successivamente di due differenti ragazze, quindi con duplice richiesta di denaro, duplice “stangata” al vecchio padre, e comprensibili difficoltà. Quando Epidico sta ormai soffocando nelle sue reti, un riconoscimento salva la situazione: una delle due donne amate altri non è che la sorella dell’innamorato. Rimane disponibile l’altra e, finalmente, si salda una stabile coppia di innamorati.

Menaechmi – Il fortunato prototipo di tutte le “commedie degli equivoci”. Menecmo ha un fratello, Menecmo, in tutto identico a lui. I due non si conoscono perché separati fin dalla nascita; quando sono ormai adulti, l’uno giunge nella città dell’altro e, ignaro dell’equivoca somiglianza, scatena una terrificante confusione. La commedia è tutta nel viluppo degli scambi di persona, fino alla reciproca simultanea agnizione finale.

Mercator – Su uno schema assai affine alla Càsina, vediamo affrontarsi in rivalità amorosa un giovane (il mercante del titolo) e il suo anziano padre. Dopo una serie di mosse e contromosse, il giovane sconfiggerà le mire del vecchio, che ha, fra l’altro, una moglie battagliera, e si terrà la cortigiana che ama.

Miles gloriosus – La commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, mette in scena un servo arguto, Palestrione, e un comicissimo soldato fanfarone, Pirgopolinice. Lo schema di fondo è quello abituale – un giovane si affida al servo per sottrarre a qualcuno la disponibilità della ragazza amata – ma l’esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni.

Mostellaria – C’è un fantasma nella casa del vecchio Teopropide? Lo fa credere il diabolico servo Tranione, per coprire in qualche modo gli amorazzi del giovane padrone. L’inganno è divertente, ma non può reggere a lungo: grazie all’intercessione di un amico, la vicenda si chiude su un perdono generale al giovane debosciato e al servo.

Persa – Ancora una beffa ai danni di un lenone, solo che questa volta l’innamorato è lui stesso un servo: non manca, però, un altro servo con funzione di aiutante. L’inganno, che ha successo, prevede una buffa mascherata, in cui il servo-coadiuvante impersona un improbabile Persiano.

Poenulus – Qui il personaggio del titolo è sul serio uno straniero, un Cartaginese: l’azione, come al solito, si svolge in Grecia. Assistiamo alle complicate vicende di una famiglia di origine cartaginese, con riconoscimento finale e riunione degli innamorati (i quali risultano essere fra loro cugini): il tutto a spese di un lenone.

Pseudolus – Insieme al Miles, è tra i culmini del teatro plautino. Lo schiavo del titolo è veramente una miniera di inganni, il campione dei servi furbi di Plauto. Pseudolo riesce a spennare il suo avversario Ballione – un lenone di eccezionale efficacia scenica – portandogli via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più: la beffa è così ben riuscita che Ballione, senza sapere di aver già perso la donna, si gioca una bella somma, che Pseudolo non potrà mai riuscire nel suo intento!

Rudens – Una rudens è una gòmena, attrezzo che è naturale trovare in una commedia ambientata sulla spiaggia. In un curioso prologo, la stella Arturo preannuncia il naufragio di un cattivo soggetto, il lenone Labrace. Costui porta con sé indebitamente una fanciulla di liberi natali. Il Caso vuole che la tempesta scarichi i naufraghi su una spiaggia in cui si trovano il padre della fanciulla rapita e il suo innamorato. Tutto si accomoda con danno del malvagio, e una cassetta (ripescata grazie alla gòmena del titolo) risulta decisiva nel riconoscimento finale.

Stichus – Questa trama ha sviluppo insolitamente modesto, e debole tensione. Un uomo ha due figlie, sposate con due giovani da tempo in viaggio per affari: vorrebbe spingerle al divorzio, ma l’arrivo dei mariti risolve la questione, tra prolungati festeggiamenti.

Trinummus – Un giovane scialacquatore, che in assenza del padre s’è quasi rovinato, viene salvato, tramite un benevolo raggiro, da un vecchio amico di suo padre. L’intreccio e la tonalità sono molto più edificanti del solito, con punte che, per una volta, fanno pensare all’umanità terenziana.

Truculentulus – Una volta tanto, abbiamo qui una cortigiana che non è elemento passivo e posta in palio nell’azione: Fronesio è una creatrice di inganni, che sfrutta e raggira i suoi tre amanti. Lo spostamento dei ruoli tradizionali fa sì che la protagonista sia tratteggiata in modo più fosco che la media dei “cattivi” plautini: quasi che ci sia della malizia in più, a fare i cattivi “fuori ruolo”. È certamente un esperimento isolato, che tenta di allargare il già lungo repertorio dei successi: non a caso viene datata al periodo più tardo.

Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un’osservazione d’insieme deve anzitutto accettare, come dato di fondo, la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei «tipi umani» incarnati dai personaggi. È chiaro che Plauto desiderasse proprio questa prevedibilità: non voleva porre interrogativi problematici sul carattere dei suoi personaggi, né aveva particolare interesse per l’etica o la psicologia. Come se non bastasse, il drammaturgo tendeva anche a usare dei prologhi espositivi che fornivano informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a spese di qualsiasi sorpresa o colpo di scena.

Abbiamo visto, scorrendo gli intrecci, che i personaggi in azione si possono ridurre a un numero limitato di «tipi», che riservano, in genere, ben poche sorprese: il servo astuto, il vecchio, il giovane amatore, il lenone, il parassita, il soldato vantone. Ebbene, questi «tipi» sono inquadrati fin dai prologhi (dove, infatti, si insiste non sui loro nomi propri, ma sui termini tipologici: senex, adulescens, ecc.), cosicché il pubblico avesse, fin dall’inizio, una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici.

Ma, mentre l’uso di personaggi tipici è da sempre una risorsa molto frequente nella drammaturgia, ancor più caratteristica di Plauto è proprio la prevedibilità degli intrecci. Praticamente tutte le pièces, che abbiamo testé riassunto, si possono ridurre a una lotta fra due antagonisti per il possesso di un «bene» – generalmente, una donna e/o (l’equivalenza, a suo modo, è indicativa) una somma di denaro necessaria per accaparrarsela o, più raramente, dei soldi e nient’altro. Ad ogni modo, la lotta si decide, naturalmente, con il successo di una parte e il danneggiamento di un’altra.

È buona norma che vincitore sia il giovane e che il perdente abbia in sé le giustificazioni del suo essere tale (è un vecchio, un uomo sposato, o un lenone, un ricco trafficante di schiave): così, la vittoria finale di una parte sull’altra trova piena rispondenza nei codici culturali che il pubblico già possiede, saturandone le aspettative legittime.

Adottando questo semplicissimo schema generativo – che deriva, come vedremo tra breve, dalle convenzioni della Commedia Nuova – Plauto è poi libero di puntare il suo prevalente interesse su certe particolari forme dell’intreccio (che, di quello schema, sono realizzazioni fra tante altre, ma preferite alle altre possibili). La forma di gran lunga preferita – e senza dubbio la più divertente! – è quella che si è definita spesso «commedia del servo». La ricetta sta in questo: l’azione di conquista del «bene» in gioco è delegata dal giovane (colui che desidera la posta in palio) ad un servo ingegnoso. Progressivamente, però, i servi plautini crescono di statura intellettuale e libertà fantastica: creano inganni e persino li teorizzano.

Al centro dell’azione sta nelle opere più mature un vero demiurgo: un artista della frode, un poeta che sotto gli occhi di tutti sceneggia la vicenda; Epidico nell’omonima commedia, Crìsalo nelle Bacchides, Palestrione nel Miles, e più ancora Pseudolo, il servo-poeta che si abbandona a un narcisistico dialogo con il pubblico, o anche Tranione nella Mostellaria, che si distingue per un illusionismo fulmineo e una sorta di gusto per l’assurdo. (Non a caso sono questi i copioni da cui ha più imparato Molière). Ecco Pseudolo, ad esempio, rivendicare, in aperto colloquio con gli spettatori, il proprio ruolo creativo: non sa su cosa, come cominciare a imbastire la nuova tela, ma ecco:

come il poeta, quando ha preso le sue tavolette, cerca qualcosa che non c’è, in nessun luogo, eppure lui la trova, e fa che sia credibile ciò che è menzogna – io, ora, mi farò poeta: le venti mine, che ora non esisto in alcun luogo, pure io le troverò (vv. 401 ss.).

e poco più avanti:

sospetto che ora voi state sospettando che io prometta queste grandi imprese così, per divertirvi e far passare la commedia, e che io non realizzerò quello che avevo promesso. Ma io non cambierò una virgola. Eppure, io di certo, a quanto ne so, come farò a farcela, non lo so: tranne che avverrà. Guardate: chi entra in scena, bisogna che sappia portare del nuovo, in nuovo modo; se non è capace, faccia posto ad altri (vv. 562 ss.).

La coppia «giovane desiderante – servo raggiratore» è, quindi, la più solida costante tematica del teatro di Plauto. Sono possibili peraltro numerose varianti occasionali, che, però, toccano solo alcune qualifiche esterne, non la sostanza dell’intreccio: è ovvio che il raggiratore possa essere anche un parassita (Curculio) o che anche il servo possa essere, per una volta, giovane amoroso della storia (come avviene nel Persa). Le invenzioni del servo si possono moltiplicare per due (Epidicus, Miles) o per tre (Bacchides), ma lo schema continua a funzionare ottimamente. Ben definita è anche la scansione temporale, che prevede tre fasi distinte: il servo medita l’inganno, agisce e, alla fine, trionfa.

Per completare il nostro schematico quadro, manca un solo elemento, che, però,  non è un personaggio: è una forza onnipresente, la Fortuna, la Tyche, che è regina incontrastata nel teatro ellenistico. La presenza della Fortuna ha un grande valore stabilizzante. Il servo ha bisogno di un alleato e anche, in fondo, di un antagonista alla sua altezza: altrimenti, certe volte, rischierebbe di dominare sino in fondo la trama come se manovrasse un teatrino meccanico. E la trama comica ha spesso bisogno di uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile. Ma non è solo questo il valore della Fortuna nel sistema del teatro plautino.

Accanto (e insieme: vedremo subito che non c’è mutua esclusione tra i due tipi) alla «commedia del servo», Plauto afferma un’altra sua preferenza importante: sono commedie che ruotano tutte su un riconoscimento, un’identità prima nascosta, o mentita, o casualmente perduta, e poi, fortunosamente, rivelata a tutti. Queste commedie possono passare per una lunga fase di errori e confusioni di persona – si parla, allora, propriamente (è il caso dei Menaechmi) di «commedia degli equivoci» – oppure, assai spesso, il problema dell’identità salta fuori solo nel finale: ma tutte hanno in comune lo scatto fortunoso dell’agnizione conclusiva, del riconoscimento che scioglie ogni difficoltà. Cortigiane e schiave tornano donne libere; si scoprono figli, figlie, fratelli e sorelle; figli illegittimi diventano legittimi; le trovatelle, poi, esistono solo per il «finale».

In molte di queste commedie – quasi tutte – c’è uno schiavo furbo al lavoro: lavoro immorale, magari, ma svolto a fini in sé accettabili, e destinato ad avere successo. Lo schiavo, da parte sua, opera su una realtà preesistente e il suo lavoro «sporco» è falsificare, confondere, cambiare connotati. Il contrasto fra messinscena e realtà non può durare per sempre, anche se è divertente: e qui appunto entra in gioco la Fortuna. Grazie ad essa, allora, si viene a sapere che esiste una realtà, per così dire, più autentica e sincera della realtà «iniziale» – quella su cui, certo poco moralmente, lo schiavo operava i suoi trucchi. La realtà iniziale, dopotutto, non era molto più vera e stabile delle frodi di Epidico e Gorgoglione.

«Commedie della Tyche» e «commedie del servo» trovano così un interessante centro di equilibrio e questi due filoni – i preferiti da Plauto – si saldano in una visione del mondo che ha inesauribili potenziali di comicità.

Maschera con volto del Primo schiavo. Marmo, II sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
  1. I modelli greci

La grandezza comica di Plauto è per noi più facile da cogliere di un altro aspetto, che pure deve aver avuto enorme importanza qualitativa; la maestria ritmica, i numeri innumeri di Plauto («gli infiniti metri», secondo una definizione che Varrone e Gellio ci assicurano risalire a Plauto medesimo: ma i moderni sono scettici al riguardo), sono parte integrante della sua arte, ma noi ne cogliamo solo una traccia inaridita. È questo un aspetto in cui Plauto si distacca nettamente dai suoi modelli greci: e anzi, proprio la sua predilezione (senza dimenticare, ad esempio, il predecessore Nevio) per le forme «cantate» – estranee alla struttura del modello teatrale menandreo – è uno dei principali fattori che regolano il vertere, la ricezione in latino dei modelli greci. «Riscrivere» il contenuto di una scena passando dal codice piano e prosaico dei trimetri greci alle fantasiose armonie dei cantica è già, ovviamente, un’operazione di elevata autonomia artistica.

Che cosa sappiamo realmente del rapporto tra palliata e modelli greci? Vediamo anzitutto le informazioni che Plauto stesso ci dettaglia. A differenza di autori successivi come Terenzio, Plauto si preoccupa molto poco di comunicare il nome, ed eventualmente la paternità, della commedia greca su cui via via si è orientato. È chiaro che, ancora a differenza di Terenzio, il suo teatro non presuppone un pubblico così ellenizzato da gustare minimamente il riferimento a certi famosi modelli. I titoli di Plauto non sono quasi in nessun caso trasparenti traduzioni di titoli greci. Inoltre, l’uso dei nomi degli schiavi come titolo (Pseudolo, Epidico) ha ben poco a che fare con la prassi greca: e già abbiamo visto quale originale preferenza guida Plauto in queste scelte.

Su alcuni modelli siamo abbastanza ben informati: Cistellaria, Stichus e Bacchides si basano su tre commedie menandree; Rudens, Casina, Vidularia dipendono da Difilo; il Poenulus da Alessi; l’Asinaria riprende l’Onagos di un certo Demofilo. È assolutamente chiaro che Plauto, pur attingendo soprattutto ai grandi maestri della commedia attica, non ha una marcata preferenza per nessuno di essi, e ricorre anche, almeno occasionalmente, ad autori non di primo piano. Ne deriva una conseguenza importante: lo stile di Plauto è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia e, accostando le varie sue opere, la coerenza di stile e di maniera è pronunciata. Questa forte coerenza di stile si spiegherebbe male se Plauto si lasciasse condizionare troppo dallo stile dei suoi molteplici modelli attici. Anche se di Menandro e Difilo abbiamo solo frammenti, è chiaro che Plauto non dipende dallo stile di nessuno di loro in modo dominante, e tanto meno ricalca “una ad una” le sue commedie sui modelli.

D’altra parte, i tratti costanti e dominanti dello stile plautino hanno in sé ben poco di attico. Queste costanti non riguardano l’intreccio delle singole commedie – aspetto per cui Plauto aderiva più volentieri ai suoi modelli –, ma le attraversano tutte quante: e sono giochi di parole, bisticci, metafore e similitudini, bizzarri paragoni mitologici, enigmi, doppi sensi, neologismi istantanei, allusioni scherzose alle istituzioni e al linguaggio militare di Roma. Questo compatto registro di stile è senza dubbio un’iniziativa originale di Plauto.

Le trasformazioni sono meno profonde per quanto riguarda le linee generali dell’intreccio, ma sono pur sempre significative: a cominciare dalla ristrutturazione metrica e dalla cancellazione della divisione in atti; per continuare con la completa trasformazione del sistema onomastico. Per quanto ne sappiamo, Plauto non dà quasi mai a un personaggio il nome che l’originale gli attribuiva; e, per di più, introduce un gran numero di nomi di persona non attestati sulla scena attica. Inoltre, pochissimi nomi riappaiono da commedia a commedia in Plauto stesso; è chiaro che Plauto voleva proporre un suo autonomo “stato civile”: nomi greci, ma non degli stessi modelli; e nomi sempre nuovi, non i nomi fissi che portavano le “maschere” della farsa italica. Molte altre trasformazioni – nella tecnica e nelle convenzioni sceniche, per esempio – sono impossibili da seguire qui in dettaglio.

Una recente scoperta – frammenti del Dis exapatòn di Menandro, che per la prima volta mettono faccia a faccia estesi brani di Plauto con brani corrispondenti del suo diretto modello – ci ha confermato quanto intensa sia stata la rielaborazione cui Plauto sottopone le sue fonti.

Guardando ai risultati, la trasformazione dei modelli dà quasi un’impressione distruttiva. Plauto ha lavorato con impressionante tenacia per assimilare e i singoli modelli attici e tutto il loro codice formativo: convenzioni, modi di pensare, personaggi tipici, drammaturgia, espressività. Ma ha poi lavorato con intensità a distruggere molte qualità fondamentali dei modelli che si era scelto: coerenza drammatica, sviluppo psicologico, realismo linguistico, motivazione, caratterizzazione, serietà di analisi, senso della sfumatura e del limite. Proprio le qualità che determinano l’originalità e il valore della Commedia Nuova. Il problema, come vedremo subito, è capire non solo in che modo, ma perché Plauto operò in questo senso.

Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.
  1. Il «lirismo comico»

L’apprezzamento obiettivo dell’arte plautina ha sempre posto gravi problemi ai critici e persino ai teorici della letteratura. Il confronto con i modelli greci rappresenta, come si è visto, un importante e ineliminabile mezzo di giudizio e di analisi. È uno strumento prezioso che, però, ha prodotto gravi storture quando lo si è usato in modo esclusivo, senza integrazioni e correttivi. Quando, nel caso di Plauto, i modelli sono perduti, l’interpretazione resta soggetta a un movimento circolare: dal testo plautino ci si fa un’idea del modello e su questa idea si misura poi il quid originale che l’autore stesso ha espresso nella sua trasformazione dell’originale greco. Il punto più delicato di queste analisi è sempre nella formazione di questa «idea» di modello: molto spesso si lavora solo su incoerenze e difficoltà dell’azione drammatica, presupponendo che la linea dell’originale greco si ritrovi, semplicemente, sottraendo le difficoltà e attribuendole tutte a iniziative dell’imitatore romano. È chiaro che, altrettanto spesso, gli interpreti si fanno guidare da un giudizio di valore e da un riduttivo e meccanico ideale di originalità.

In risposta a queste tendenze della critica “analitica” – in gran parte sviluppata nella filologia tedesca tra Ottocento e Novecento – si sono volute contrapporre (soprattutto da parte italiana) formule ben più meccaniche e sbagliate: ad esempio, identificando come «plautino» ogni aspetto del testo di Plauto (forme, contenuti, stile, intreccio), accettando l’assioma che ogni opera d’arte sia unità irripetibile; oppure cercando l’originalità e lo specifico della sua arte in una non meglio precisata «comicità italica» (spesso si è riproposta piattamente la formula oraziana dell’Italum acetum). Sarebbe questo senso del comico, schietto e popolaresco, il principio di autenticità che rende Plauto un artista autonomo, ben distinto dai suoi modelli greci.

Invece, proprio la critica analitica – se usata con prudenza e con senso del limite – ha saputo rendere buoni servigi alla comprensione della poetica di Plauto. È sufficiente svincolare queste analisi dai pregiudizi estetici che spesso le hanno implicitamente guidate per ottenere una comprensione migliore dell’arte plautina: solo che si sappia restituire dignità e interesse autonomo a quegli aspetti che la critica analitica tende a scartare, trattandoli come aggiunte estrinseche ed estemporanee sovrapposte alle pure linee dell’azione originale.

Le analisi comparative dimostrano che questo drammaturgo trasforma i suoi modelli secondo tendenze e preferenze che possono, o no, piacere, ma che sono in se coerenti, orientate in un senso preciso. Plauto tende a trascurare la severa coerenza dell’azione drammatica e le sottili sfumature nel carattere dei personaggi. Ma non si deve ridurre il teatro a unità d’azione e psicologia: l’autore, semplicemente, preferisce – e costruisce – un altro teatro. I «difetti» che la critica spesso riconosce a Plauto (mancanza di continuità e di coerenza drammatica, dispersività dell’azione, schematicità della psicologia, convenzionalità dei sentimenti) sono piuttosto da inquadrare come sacrifici: Plauto rinuncia a certe virtù dei suoi modelli greci per spostare l’accento su altri interessi.

Proprio la costruzione dei personaggi – un tipico «difetto» del teatro plautino – offre una chiave in questo senso. Fra tutti i personaggi della Commedia Nuova Plauto ha chiaramente un suo favorito: è il servo, ribaldo, amorale, creatore di inganni e risolutore di situazioni. Questa figura tipica della commedia prende nelle sue opere uno spazio del tutto eccezionale. È quasi sempre lo schiavo furbo a gestire lo sviluppo dell’intreccio; è lui il solo che, stando sulla scena, può controllare, influenzare, commentare con ironia e lucidità lo sviluppo degli avvenimenti. Il servo, d’altra parte, è una «figura tipica», non troppo individualizzata sul piano psicologico. Entra nell’azione, in genere, come orditore di inganni e quindi come fonte del comico: suo è il piano ingannatore che dovrà dare al giovane padrone la fanciulla desiderata.

La posizione del servo astuto, che regge le fila dell’intreccio, ne fa spesso quasi un equivalente del poeta drammatico: come se il teatro plautino trovasse in questa figura uno spazio di rispecchiamento, un modo per giocare con se stesso (è ciò che alcuni chiamano propriamente “metateatro”). Non a caso il servo è il personaggio che, più di ogni altro, gioca con le parole: è un grande creatore di immagini, di metafore, di doppi sensi, di allusioni, di battutacce, ed è quindi il più vero portavoce dell’originale creatività verbale di Plauto. Pur essendo il personaggio socialmente più debole, sulla scena è lui la figura centrale e il punto di attrazione per il pubblico e per gli altri personaggi. È stato notato, infatti, che Plauto non solo amplia per quanto possibile lo spazio del servitore, ma addirittura assimila altri personaggi a questo ruolo e a questo livello: in Plauto, certi personaggi che nella Commedia Nuova (o in Terenzio, ad esempio) godono di una certa rispettabilità, vengono spesso attratti nella sfera di comicità tipica dello schiavo: vecchi e giovani padroni sono “giocati” dal servo, ma giocano anche con se stessi, esattamente come è tipico del servo briccone.

Nei suoi momenti migliori, Plauto utilizza dunque gli intrecci dei suoi modelli come materia, in sé già dotata di significato, ma disponibile a significati nuovi e imprevedibili. Certi innamorati, per esempio, dichiarano il loro amore, secondo ragione (poca) e sentimento (molto): è il ruolo previsto per essi dal canovaccio originale, dall’intreccio del modello greco; ma, mentre svolgono il ruolo previsto, gli innamorati imbastiscono variazioni su se stessi; “cantano”, e si ascoltano cantare, con enfasi imprevedibile e pittoresca; interpretano il ruolo e insieme ne sono i mattatori; si abbandonano spudoratamente a scintillanti variazioni verbali e, però, a tratti, sembrano quasi scollati da se stessi, come se una sottile patina di distacco li rendesse qua e là ironici e autoironici. Il miracolo di Plauto sta nell’equilibrio con cui questo gioco (che potrebbe, al limite, dissolvere l’azione drammatica, o renderla intellettualistica) viene sviluppato senza nette fratture. In realtà, l’innamorato, o il vecchio signore, o il lenone, sono se stessi, ma possono anche partecipare della natura imprevedibile e ludica del servo, il personaggio chiave del comico plautino. Il comico originale di Plauto sta appunto nel contatto fra la materia dell’intreccio – che egli riprende dai Greci, con maggiore o minore fedeltà – e l’aprirsi di «occasioni» in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa «lirismo comico» (secondo la felice formula di M. Barchiesi).

Schiavo mauretano. Statuetta, bronzo, I sec. d.C. da Pompei. London British Museum.
  1. Le strutture degli intrecci e la ricezione del teatro plautino

Ciò non toglie che anche nelle strutture tipiche dell’intreccio – l’aspetto in cui Plauto è più legato alle sue fonti – si possano cogliere delle intenzioni autentiche e storicamente determinate. La preferenza per un certo schema d’intreccio – sia pure riconducibile a modelli già formati – è comunque, di per sé, un indizio significativo. Abbiamo già visto quanto sia sostanzialmente monotono il tracciato di fondo a cui si può ricondurre la speciosa e molteplice varietà dei singoli canovacci. Si è notato come quasi sempre la messa in gioco di un «bene» – che, sintomaticamente, può essere individuato in una donna e/o dalle somme di denaro necessarie a decretarne il possesso – si tramuta in una fase critica, dove possono vacillare valori sociali e familiari di riconosciuta importanza: persone libere sono trattate come schiave, padri insidiano le donne desiderate dai figli, uomini sposati le pretendono da libertini a spese degli scapoli. In questa fase della struttura narrativa, le commedie minacciano una sovversione di tutto ciò che il pubblico accetta come normale e naturale; è normale che i figli scapoli corteggino una donna e che i vecchi stiano al loro posto; è necessario che chi è libero non sia trattato da schiavo (nella società romana, è anche normale e «naturale» che i figli siano fortemente vincolati all’autorità del capofamiglia, mentre qui possono nascere dei conflitti, in cui si scontrano valori e aspettative legittime: ad esempio, quando un figlio trama contro l’autorità paterna, mentre, al contempo, il padre utilizza il suo potere familiare ed economico per un fine immorale, come nella Casina. La commedia plautina tratta questi conflitti entro il piano comico dell’intreccio, senza mai assumere direttamente – come avverrà in Terenzio – un valore di riflessione critica e di rinnovamento della mentalità tradizionale). Qualche volta la crisi rimescola e confonde valori ancora più generali e fondamentali, quali l’identità personale – le «commedie degli equivoci» – e persino la distinzione fra uomini e dèi (il caso, isolato in Plauto, dell’Amphitruo).

Lo scioglimento tipico della commedia consiste in un «rimettere a posto le cose». La punizione del lenone, la sconfitta del vecchio libertino rincitrullito o del soldataccio, la riunione della coppia di innamorati predestinata, lo scioglimento dell’equivoco, la ricostruzione della giusta identità personale, non sono altro che diverse esecuzioni di questo schema obbligato. È chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all’ordine un particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in gioco dalla commedia – pur ripreso, senza profondi aggiustamenti, dalla tradizione della scena ateniese del IV secolo – è perfettamente compatibile con l’esperienza vissuta del pubblico romano. Al di là di dettagli esotici, che Plauto consapevolmente ripropone senza adattarli (sono convenzioni estranianti che hanno grande importanza in molti generi letterari e, in particolare, nella letteratura di massa), il corpo dell’intreccio tocca problemi reali e quotidiani, quali la disponibilità delle donne e l’uso del denaro nella famiglia. Greci sono i nomi dei personaggi e dei luoghi, certe sfumature legali, certe istituzioni politiche o allusioni storiche: e questi dettagli garantiscono che il genere comico ha sede altrove, per consentirsi, grazie appunto a questo «altrove» spiazzante, solo occasionali e vivaci puntate anacronistiche verso la realtà romana. Ma questi dettagli punteggiano e coloriscono situazioni in cui è facilissimo ambientarsi, senza un vero sforzo di traduzione e di relativizzazione.

Così il pubblico romano partecipa molto concretamente al precipitare delle crisi e al comporsi finale di un ordine più ragionevole e rassicurante. Nessuna pretesa insegnativa e moraleggiante governa, però, queste vicende tipiche. Basta a mostrarcelo, come già si accennava, il primato e il protagonismo incontrastabile dello schiavo furbo: che è il motore della trama e spesso anche del riordino finale. Questo personaggio centrale è davvero incompatibile con la trasmissione di un serio «messaggio» morale o culturale. Egli è la fonte principale del divertimento e anche, guarda caso, il personaggio più fantastico del cast teatrale: il personaggio in cui meno di tutti il pubblico può riconoscere un fondamento realistico e un’intonazione credibilmente quotidiana; il personaggio, infine, che più spesso marca il distacco di Plauto dalla traccia dei suoi modelli.

L’azione di questo personaggio creativo e anti-realistico ci appare ancora una volta come tratto caratterizzante della palliata plautina. Sotto l’indiavolato movimento della trama si avverte un difficile e sapiente senso d’equilibrio, che è anche una chiave dell’irripetibile successo di Plauto. Orientata alla riconferma di un ordine e di una normalità sociale, la commedia plautina ha ben poco di sovversivo e anche il protagonismo dello schiavo, naturalmente, non vuole in nessun modo discutere o corrodere i dogmi della vita sociale; per converso, l’azione imprevedibile e amorale del servo ingegnoso porta nella trama un quoziente di disordine e di irriverenza che arriva quanto meno a «sospendere» la normalità irreggimentata dalla vita quotidiana. Il servo è per lo più colui che persegue un risultato legittimo – di fatto, la soluzione che alla fine risulterà vincente e accettabile a tutti –; ma, altrettanto spesso, fa questo con mezzi illegittimi e truffaldini. Da questa contraddizione di fondo (una prestabilita dissonanza tra fini e mezzi) nasce il paradosso di un’arte che sfugge alle nostre tradizionali definizioni (di conformismo, di anticonformismo). Soprattutto, Plauto non propone, non vuole proporre al suo pubblico, una chiara scelta tra realismo e finzione. I suoi personaggi sono così propensi a giocare con se stessi e a mettere in forse la verisimiglianza della loro costruzione da proibire al pubblico qualsiasi stabile identificazione. Proprio in questo genere letterario, che ha fondamenti quotidiani e realistici, i Romani imparano da Plauto a riconoscere le inesauribili ambiguità della finzione poetica.

Attori comici con maschera e pallia. Statuetta, terracotta.
  1. Fortuna del teatro plautino

Le «venti commedie», che risalivano alla scelta canonica di Varrone (ventuno, in realtà, ma l’ultima, la Vidularia, era caduta, e ricomparve solo in parte con la scoperta del Palinsesto Ambrosiano compiuta dal cardinal Mai al principio dell’Ottocento), continuarono ad essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto eccezionale. Infatti, Dante e i suoi contemporanei, mentre grande fortuna ebbe Terenzio, ignoravano i testi plautini. All’incirca a partire dalla generazione di Petrarca una parte delle commedie plautine – le prime otto, da Amphitruo a Epidicus – cominciarono a conoscere una buona diffusione. A partire dal 1429 tornarono, però, in circolazione presso gli umanisti italiani anche le altre dodici commedie «varroniane». Cominciò così il lavorio filologico sul testo di Plauto e, parallelamente, rinacque la passione per questo autore intesa come fatto squisitamente teatrale: cioè, da una parte ci si preoccupò di ristabilire un testo sempre più attendibile e corretto, e dall’altra si «rivissero» queste opere nella loro originaria destinazione scenica – sia attraverso rappresentazioni in latino, sia, sempre più, per rappresentazioni tradotte, di adattamenti e libere trasformazioni dei modelli plautini: si sviluppò, perciò, un teatro in latino (ad esempio, la Chrysis di Enea Silvio Piccolomini) e poi, nel Cinquecento, un teatro italiano che volle liberamente inserirsi nel codice scenico costituito dalla palliata romana – non solo il teatro comico dell’Ariosto, ma anche un’opera di profonda originalità come la Mandragola del Machiavelli vanno comprese in questa tendenza e devono molto all’assimilazione del modello plautino.

Tra Cinquecento e Settecento, tra Ariosto e Goldoni, insomma, la fortuna di Plauto è stata sempre intrecciata con lo sviluppo del teatro comico europeo: nomi così diversi tra loro, come Shakespeare, Calderón, Corneille, Molière, Ruzante e Da Ponte (il grande librettista di Mozart), sono tutti collegati dalla traccia di una tradizione plautina, variamente rivissuta. La figura-chiave del teatro plautino, il servo astuto con le sue macchinazioni, potrebbe servire ed è effettivamente servita, come spia per disegnare l’evoluzione della commedia e dell’opera buffa, dall’età dei primi umanisti fino all’Illuminismo e oltre. Anche nell’età moderna e contemporanea, le rappresentazioni di Plauto continuarono a essere una viva presenza scenica: anche oggi, egli è certamente il più rappresentato di tutti i poeti scenici latini.

A differenza di Terenzio, Plauto rimase invece per lunghissimo tempo estraneo alla tradizione dell’insegnamento. Le ragioni di questa poca fortuna scolastica sono molteplici: lingua, stile e metrica di Plauto risultano troppo difficili e richiedono particolari strumenti di comprensione; inoltre, l’insegnamento normativo della grammatica e dello stile latino si basava su ben altri autori, come Cicerone e lo stesso Terenzio; per di più, i temi e le trame delle commedie si prestavano male (con qualche eccezione, ad esempio, i Captivi) a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e di serietà: anche in questo senso, la fortuna di Terenzio è del tutto opposta ed è un’eloquente controprova.

Plauto era destinato a incontrare notevoli difficoltà anche presso i teorici della letteratura, soprattutto quando, nel Seicento e nel Settecento europeo, l’ondata del Classicismo propose ben diversi modelli di comicità e di forma teatrale. Una migliore comprensione dell’arte di Plauto poteva nascere solo dalla ricerca di canoni artistici più liberi. Un forte impulso in questa direzione venne dalle ricerche del Lessing, autore teatrale tedesco del Settecento, che recuperò nelle sue teorie estetiche i valori della comicità plautina. Di qui in avanti, la rivalutazione di Plauto fu sempre più completa, sia nella ricerca di criteri estetici più appropriati, sia nell’approfondimento filologico del testo, dovuto alle ricerche dei latinisti fra Ottocento e Novecento.

Attore con maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Villa di Cicerone, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
  1. Bibliografia

Le due principali edizioni critiche di tutto Plauto sono quelle di F. LEO, 2 voll., Berlin 1895-96 e di W.M. LINDSAY, 2 voll., Oxford 19102 (più volte ristampata).

Eccellenti introduzioni a Plauto sono quelle premesse da C. QUESTA alle edizioni di singole commedie, con versione italiana a fronte, nella Biblioteca Universale Rizzoli (ogni volumetto contiene una parte utile come avviamento complessivo e una trattazione specifica della singola commedia). Di C. QUESTA è anche l’opera di riferimento basilare su prosodia e metrica (Introduzione alla metrica di Plauto, Bologna 1967).

Alcuni saggi di rilevanza generale: E. FRAENKEL, Elementi plautini in Plauto, Firenze 1960 (sul cruciale problema del rapporto con i modelli greci); F. DELLA CORTE, Da Sarsina a Roma, Firenze 19672 (per le questioni storico-biografiche); A. TRAINA, Forma e suono, Roma 1977 (sondaggi sullo stile); M. BARCHIESI, Plauto e il “metateatro” antico, in I moderni alla ricerca di Enea, Roma 1980 (poetica teatrale in Plauto); M. BETTINI, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», 7, 1981, pp. 39 ss., e C. QUESTA, ivi, 8, 1982, pp. 9 ss. (struttura degli intrecci, tipologia e funzioni dei personaggi). Tra i numerosi lavori sulla fortuna si può citare l’indagine di C. QUESTA, Il ratto del serraglio (Euripide, Plauto, Mozart, Rossini), Bologna 1979.

Importanti commenti a singole opere sono: Amphitruo di W.B. SEDGWICK, Manchester 1950; Aulularia di C. QUESTA, Milano 1972; Bacchides di C. QUESTA, Firenze 1975 (II ed.; comprende i nuovi frammenti del modello menandreo); Captivi di W.M. LINDSAY, Oxford 19302 (utilissimo); Casina di W.T. McCARY-M.M. WILLCOCK, Cambridge 1976; Curculio di G. MONACO, Palermo 1969; Epidicus di G.E. DUCKWORTH, Princeton 1940; Mercator di P.J. ENK, 2 voll., Leiden 19662; Mostellaria di E.A. SONNENSCHEIN, Oxford 19272; Rudens di F. MARX, Heidelberg 1962 (II ed., rivista da A. THIERFELDER); Stichus di H. PETERSMANN, Heidelberg 1973; Truculentus di P.J. ENK, 2 voll., Leiden 1953.

Sui rapporti coi modelli greci vedi soprattutto, più recentemente: W.G. ARNOTT, Menander, Plautus, and Terence, Oxford 1968; E.W. HANDLEY, Menander and Plautus: a Study in Comparison, London 1968; V. PÖSCHL, Die neuen Menanderpapyri und die Originalität des Plautus, Heidelberg 1973; C. QUESTA, edizione citata delle Bacchides.

Sulla poetica teatrale vedi più recentemente: D. KONSTAN, Roman Comedy, Ithaca-London 1983; N. ZAGAGI, Tradition and Originality in Plautus, Göttingen 1980; N.W. SLATER, Plautus in Performance, Princeton 1985.

L’apologo di Menenio Agrippa Lanato (Liv. II 32, 8-12)

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 450-451. Per la trad. cfr. Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. I (libri I-II) a c. di C. Moreschini.

 

Secondo la tradizione, agli inizi del V secolo a.C. la plebe romana era in fermento perché tormentata dalla servitù per debiti (nexum): chi era in condizioni economiche disagiate era costretto a debiti che spesso, non potendo essere ripagati, portavano alla perdita della libertà personale. Nel 494 le agitazioni sfociarono in aperta rivolta, con la famosa secessio plebis sul Monte Sacro, significativa del rifiuto di partecipare alla vita civica e ai conseguenti doveri militari. Il Senato, dopo diversi tentativi di conciliazione andati a vuoto, inviò presso i ribelli una deputazione di dieci illustri cittadini, fra i quali il consolare Menenio Agrippa, caro alla plebe. L’apologo dell’autorevole personaggio, attraverso le colorite immagini metaforiche dell’indispensabile concordia fra tutte le parti del corpo umano, convinse i rivoltosi a trattare.

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

 

Placuit[1] igitur oratorem ad plebem mitti Menenium Agrippam[2], facundum uirum et quod inde[3] oriundus erat plebi carum. Is intromissus in castra prisco illo dicendi et horrido modo nihil aliud[4] quam[5] hoc narrasse[6] fertur: tempore quo in homine non ut nunc[7] omnia[8] in unum consententia[9], sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo[10] fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio[11] uentri omnia quaeri, uentrem in medio quietum nihil aliud quam datis uoluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes quae acciperent conficerent[12]. Hac ira, dum uentrem fame domare uellent[13], ipsa una[14] membra totumque corpus ad extremam tabem uenisse. inde apparuisse uentris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem[15] in omnes corporis partes hunc quo uiuimus uigemusque, diuisum pariter in uenas maturum[16] confecto cibo sanguinem. Comparando hinc[17] quam intestina corporis seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse[18] mentes hominum.

 

 

Fu deciso di mandare alla plebe come oratore Menenio Agrippa, uomo facondo e, poiché da essa proveniva, caro alla plebe. Egli, introdotto nell’accampamento, con quel modo di parlare primitivo e disadorno, non raccontò, a quanto si tramanda, altro che questo: nel tempo in cui nell’uomo non tutte le parti del corpo erano armoniosamente concordi verso un unico fine, come ora, ma ogni membro aveva un suo particolare modo di pensare, un suo particolare modo di esprimersi, si indignarono le altre parti che tutto ciò ch’esse si procuravano con la loro attività, con la loro fatica, con la loro funzione andasse a vantaggio del ventre, mentre questo, standosene tranquillo nel mezzo, ad altro non pensava che a godersi i piaceri che gli venivano largiti; giurarono, dunque, insieme che le mani non portassero più il cibo alla bocca, che la bocca rifiutasse quello che le veniva offerto, che i denti non masticassero quello che ricevevano. Per questa ostilità, mentre si proponevano di domare il ventre con la fame, tutte le membra insieme e tutto il corpo si ridussero a un estremo esaurimento. Risultò quindi evidente che anche l’opera del ventre non era inutile e che non era nutrito più di quanto non nutrisse restituendo a tutte le parti del corpo, equamente distribuito per le vene, questo sangue cui dobbiamo la vita e le forze e che si forma con la digestione del cibo. Si dice che, così paragonando la ribellione interna del corpo all’iroso furore della plebe contro i patrizi, egli piegò gli animi di quella gente.

 

***

Note:

[1] Placuit: è termine tecnico per indicare le decisioni del Senato.

[2] oratorem … Agrippam: Dionigi di Alicarnasso, scrittore greco vissuto nel I sec. a.C., autore di un’opera storica, intitolata Archaeologia Romana, in 20 libri, dei quali sono pervenuti solo i primi undici e frammenti degli altri, colui che aveva giustamente visto nel mos maiorum, nell’amore di libertà dei cittadini, nella consapevolezza dei loro diritti e nell’accettazione dei doveri, la superiorità dell’Impero romano, ha lasciato della secessio plebis un ampio e particolareggiato racconto. Egli narra che furono mandate ai plebei due ambascerie, ma che, essendo state minacciosamente respinte, si diede incarico a M. Valerio, T. Larcio e Menenio Agrippa e ad altri sette legati di parlamentare con i dissidenti. Valerio invitò la plebe a tornare in città, Bruto tenne un discorso assai commuovente, esponendo le richieste della plebe, e Agrippa persuase la folla alla riconciliazione. Freddo, monotono, scolorito il racconto di Dionigi, che si dilunga nell’esposizione dei più minuti particolari di fatti leggendari; ben più vivo ed illuminato quello di Livio, che li accenna appena, lasciando loro tutta la vaghezza e il sapere della tradizione.

[3] inde: cioè ex ea, dalla plebe. Però, un ramo della gens Menenia doveva essere stato ammesso già da tempo in Senato.

[4] nihil aliud: sottinteso egisse.

[5] quam: negli autori classici di solito dopo la locuzione nihil aliud si trova nisi e solo eccezionalmente quam.

[6] narrasse (= narravisse): da questo infinito dipende il discorso indiretto che segue.

[7] ut nunc: propos. incidentale, fuori dell’oratio obliqua, perché osservazione dello scrittore.

[8] omnia: cioè membra.

[9] non… consententia: non tutte le parti del corpo erano armoniosamente concordi verso un unico fine.

[10] suum cuique consilium, suus sermo: traduci: «un suo modo di pensare e di discorrere».

[11] labore ac ministerio: traduci: «con faticosi servizi».

[12] conficerent: «masticassero».

[13] dum … vellent: cong. obliquo, ma anche perché nella prop. alla circostanza di tempo è congiunta l’idea di intenzione e non manca una sfumatura avversativa.

[14] una: avv. «tutte insieme».

[15] reddentem: part. con valore causale.

[16] maturum: il sangue acquista vigore proprio attraverso l’assimilazione del cibo.

[17] Comparando hinc: «Quindi, con il paragone».

[18] flexisse: l’infin. è retto da fertur.

***

Bibliografia:

BOTTERI P., Stasis: le mot grec, la chose romaine, Mètis 4 (1989), pp. 87-100.

BRADLEY G., Mobility and Secession in the Early Roman Republic, Antichthon 51 (2017), pp. 149-171.

BROUGHTON T.R.S., The Magistrates Of The Roman Republic. Vol. 1: 509 B.C. – 100 B.C., Cleveland 1951 (= 1968), p. 8.

HALE D.G., Intestine Sedition: The Fable of the Belly, CLS 5 (1968), pp. 377-388.

HILLGRUBER M., Die Erzählung des Menenius Agrippa. Eine griechische Fabel in der römischen Geschichtsschreibung, AuA 42 (1996), pp. 42-56.

HOEFMANS M., De Speeck van Menenius Agrippa. Livius, AUC II, 32, 8-12.

LABRUNA L., Secessio, Res publica: riconsiderazioni, Heidelberg 2009, pp. 639 ss.

MCVAY J.K., The Human Body as Social and Political Metaphor in Stoic Literature and Early Christian Writers, BASP 37 (2000), pp. 135-147.

MIGNONE M.L., The Republican Aventine and Rome’s Social Order, Ann Arbor 2016.

NESTLE W., Die Fabel des Menenius Agrippa, Klio 21 (1927), pp. 350-360.

PEIL D., Der Streit der Glieder mit dem Magen Studien zur Überlieferung Und Deutungsgeschichte der Fabel des Menenius Agrippa von der Antike bis ins 20. Jahrhundert, Frankfurt-am-Main – Bern – New York 1985.

PICCALUNGA G., La colpa di « perfidia » sullo sfondo della prima secessione della plebe, EFR 48 (1981), pp. 21-25.

POMA G., Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, in Diritto@storia 7 (2008), § 2 e 3.

SALADIN C.S., Revolution in the Divided City. The Plebeian Social Movement, Secessions, and Anti-Government in the Roman Republic during the 5th Century Struggle of the Orders, diss.th., Augustana College, Rock Island Illinois, 2017.

SMITH D.L., Why Paul’s Fabulous Body is Missing its Belly: The Rhetorical Subversion of Menenius Agrippa’s Fable in 1 Corinthians 12.12-30, JSNT 41 (2018), pp. 143-160.

SQUIRE M., Corpus Imperii: Verbal and visual figurations of the Roman “body politic”, W&I 31 (2015), pp. 305-330.

WARNOCK J.D., The Parable of Menenius Agrippa, CW 14 (1921), pp. 130-133.

La carriera smagliante di M. Porcio Catone (Nep. 24, 1-2)

Cfr. commento di E. GIAZZI, G. BOCCHI (eds.), Dentro e fuori i confini di Roma. I vires illustres di Cornelio Nepote, Milano 2007, 15-17; cfr. traduzione da Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri, a cura di E. NARDUCCI, C. VITALI, Milano 2010, 326-329

Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì probabilmente fin dall’adolescenza a Roma, dove si dedicò agli studi, intrattenendo rapporti di amicizia con Tito Pomponio Attico, Marco Tullio Cicerone e il conterraneo Gaio Valerio Catullo, che gli dedicò il suo Liber di poesie; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C. Fu autore di un’opera di cronografia in tre libri, i Chronica, e di una raccolta di Exempla in cinque libri; ma la sua opera principale fu il De viris illustribus, noto anche come Vitae, una raccolta di biografie di personaggi famosi dell’antichità. Il testo doveva comprendere almeno sedici libri, dei quali rimangono un libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le vite di Attico e di Catone, tratte dal Liber de Latinis historicis.

Con il De viris illustribus Nepote si iscrisse nel filone biografico. Quanto resta di quest’opera è solo una piccola parte di quella che dovette essere l’impresa più vasta e ambiziosa: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico fra la civiltà greca e quella romana. L’idea di Cornelio Nepote era quella di raggruppare le notizie dei suoi personaggi in categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, poeti, oratori, ecc.); ogni categoria occupava due libri, in cui venivano rispettivamente trattati i suoi esponenti stranieri (soprattutto greci, ma non solo) e romani. Anche se la consuetudine di radunare i personaggi secondo categorie era ben attestata nella biografia ellenistica, il raffronto sistematico fra “eroi” romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote, che farà da modello in età imperiale al capolavoro di questo genere, le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (I-II secolo d.C.).

Si è pensato che l’intento fondamentale di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei Romani in ogni settore. Ma quanto rimane non sembra viziato da pregiudizi “nazionalistici”: fra gli scrittori latini egli è, per esempio, quello che rappresenta nella luce migliore la figura di Annibale, il nemico più terribile che Roma si fosse mai trovata ad affrontare. Il progetto dell’autore è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani cominciarono a interrogarsi sui caratteri originali della propria civiltà, e a farsi più disponibili ad apprezzare i valori e le usanze di quelle straniere. Addirittura di una forma moderata di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della breve praefatio che Cornelio Nepote premette al libro sui condottieri stranieri. I concetti di «moralmente onorevole» e «moralmente turpe», egli precisa, non sono gli stessi presso i Greci e i Romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta di ciascun popolo; così alla biografia di Epaminonda viene premesso l’avvertimento di non giudicare i costumi di altre nazioni sulla misura dei propri: la musica e la danza, disdicevoli per un cittadino romano, non lo sono altrettanto per un personaggio eminente di una città greca, dove anzi procurano favore e reputazione.

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.
Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Nella breve Vita Catonis, Cornelio Nepote delinea alcuni tratti della personalità del protagonista, precisando anche con chiarezza i motivi della sua diffidenza nei confronti delle mode grecizzanti del suo tempo. Fin dal primo capitolo Nepote dice che Catone sarà in contrasto per tutta la vita con Scipione Africano: in effetti, con una serie di processi (187-184) egli riesce persino a farlo condannare all’esilio. Sempre in tribunale, inoltre, Catone cerca di reprimere il lusso, imperante soprattutto tra le donne romane, opponendosi all’abrogazione della lex Oppia che, approvata durante la seconda guerra punica, vietava loro ornamenti e stili di vita troppo sfarzosi; mentre, sul piano letterario, può essere considerato il vero fondatore della prosa latina diversamente dagli annalisti che, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrivevano in greco. Catone, infatti, compone in latino un’opera storica, le Origines, tacendo il nome dei protagonisti delle varie imprese della storia romana per raccontarla come un fatto collettivo, non legato al prestigio personale di alcuno: in questo modo, egli non cede al culto della personalità di stampo ellenistico, che tendeva a presentare i grandi personaggi come veri e propri “miti”. A ciò si possono aggiungere altri elementi dell’azione anti-greca di Catone, non direttamente affrontati da Nepote. Quando viene eletto censore, nel 184, Roma è ancora agitata dallo scandalo dei Baccanali: è difficile pensare che Catone non abbia contribuito alla battaglia contro i riti dionisiaci, che si svolgevano in modo del tutto sfrenato ed eccessivo. Inoltre, nel 155, sempre Catone fa allontanare da Roma tre filosofi greci (l’accademico Carneade, il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Babilonia), giunti in qualità di ambasciatori di Atene, in quanto ritenuti responsabili di un’azione corruttrice dei giovani, dovuta al diffondersi delle loro dottrine “razionalistiche”.

Nella biografia del personaggio, Nepote non mette in rilievo soltanto i motivi che lo portarono a opporsi al filellenismo del suo tempo, ma lo presenta anche come un vero campione di virtù, elevandolo a exemplum e facendone il prototipo dell’onesto cittadino romano. Emergono, infatti, diversi aspetti di questa personalità e dell’opera che inequivocabilmente lo pongono nell’alveo del più puro spirito italico tradizionale.

Come in tante altre sue biografie, anche all’inizio di quella di Catone, l’autore traccia un breve profilo del personaggio, presentandone il luogo di nascita, i primi passi nella vita pubblica e poi la smagliante carriera. Dopo una giovinezza passata nel podere paterno in Sabina, Catone, com’era consuetudine per i Romani che si avviavano a ricoprire cariche pubbliche, cominciò a frequentare il foro, dove riscosse fin da subito grande popolarità. Egli svolse poi il servizio militare nel corso della Seconda guerra punica, partecipando nel 207 a.C. alla sanguinosa battaglia del Metauro, in cui trovò la morte Asdrubale, fratello di Annibale. Intraprese, quindi, la carriera politica vera e propria, della quale bruciò le tappe: seguendo la successione delle magistrature stabilite dal cursus honorum, Catone fu questore nel 204 a.C., edile plebeo nel 199, pretore nel 198 e, infine, console nel 195.

Angus McBride, Catone il Censore.
Personaggio togato. Illustrazione di A. McBride.

M. Cato, ortus[1] municipio Tusculo[2], adulescentulus, priusquam honoribus operam daret[3], uersatus est[4] in Sabinis[5], quod[6] ibi heredium a patre relictum habebat. inde hortatu L. Valerii Flacci[7], quem in consulatu censuraque habuit collegam[8], ut[9] M. Perpenna[10] censorius narrare solitus est, Romam demigrauit in foroque esse coepit. primum stipendium meruit annorum decem septemque[11]. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit[12]. inde ut[13] rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam[14], quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. quaestor obtigit P. Africano consuli[15], cum quo non pro sortis necessitudine uixit: namque ab eo perpetua dissensit uita[16]. aedilis plebi factus est[17] cum C. Heluio[18]. praetor prouinciam obtinuit Sardiniam[19], ex qua quaestor superiore tempore ex Africa decedens Q. Ennium poetam deduxerat[20], quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum[21].

Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum, durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini, perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna, l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura, cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato [: iniziò il servizio militare]. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano, con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio; in qualità di pretore, ottenne la provincia di Sardinia, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli)
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Eletto console nel 195 a.C., all’età di trentanove anni, con l’amico e patrono Lucio Valerio Flacco, Catone ottiene per sorteggio di amministrare la provincia appena costituita (197 a.C.) dell’Hispania Citerior (s’intende la Spagna al di qua del fiume Ebro). Dopo un breve accenno all’ottenimento del trionfo proprio per questo incarico, Nepote non si sofferma sulla descrizione del periodo iberico, preferendo affrontare il delicato problema dell’opposizione di Scipione Africano all’operato del console. Nella vita nepotiana Catone, e con lui il Senato, esce vincitore da questo confronto con il potentissimo rivale quale incrollabile difensore della legalità: nonostante Africano goda di un immenso prestigio e aspiri al potere personale, non è in grado di convincere i senatori a rimuovere Catone dal suo mandato, perché la res publica a quel tempo, a differenza dell’epoca in cui Nepote scrive, è ancora retta iure (“dal diritto”). Si legge in queste parole un’amara nota polemica dell’autore nei confronti del secolo in cui vive. La parte finale del capitolo si riferisce alla censura, carica alla quale Catone viene eletto nel 184 insieme con Flacco: è questo il periodo della lotta serrata al lusso dilagante e alla corruzione dei costumi, una lotta che procurerà a Catone numerose inimicizie, ma della quale mai si stancherà, rimanendo sempre fermo nella sua posizione di campione del mos maiorum.

Consulatum gessit[22] cum L. Valerio Flacco, sorte prouinciam nactus[23] Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportauit[24]. ibi cum diutius moraretur[25], P. Scipio Africanus consul iterum[26], cuius in priori consulatu quaestor fuerat[27], uoluit eum de prouincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per senatum[28] efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in ciuitate obtineret[29], quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur[30]. qua ex re[31] iratus senatui ‹consulatu› peracto[32] priuatus[33] in urbe mansit. at Cato, censor cum eodem Flacco factus[34], seuere praefuit ei potestati[35]. nam et in complures nobiles animaduertit[36] et multas res nouas in edictum[37] addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare[38]. circiter annos octoginta[39], usque ad extremam aetatem ab adulescentia[40], rei publicae causa[41] suscipere inimicitias non destitit. a multis tentatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad uixit[42], uirtutum laude creuit[43].

Esercitò il consolato insieme a Lucio Valerio Flacco, gli toccò in sorte la provincia della Hispania citerior, e da questa riportò un trionfo. Siccome, però, vi si trattenne alquanto a lungo, Publio Scipione Africano, nel suo secondo consolato – nel primo Catone era stato suo questore –, volle farlo espellere dalla provincia per prenderne il posto, ma non riuscì ad ottenerlo dal Senato, benché fosse il cittadino più influente; allora, infatti, lo Stato si reggeva non tanto con il credito individuale quanto con l’esercizio del diritto. Ciò lo offese a tal punto che, scaduto il periodo del consolato, si ritirò a vita privata. Quanto a Catone, creato censore insieme allo stesso Flacco, esercitò il suo incarico con assoluto rigore: colpì con note di biasimo parecchi cittadini in vista e aggiunse alle leggi suntuarie molte nuove prescrizioni per porre freno al lusso che allora cominciava a dilagare. Per circa ottant’anni, e cioè dall’adolescenza fino agli ultimi giorni, Catone non rinunciò mai a tirarsi addosso odio e inimicizie per il bene dello Stato. Citato spesso in giudizio, non solo non subì alcuna diminuzione di stima, ma, anzi, finché visse, andò sempre crescendo nella fama della sua virtù.

***

Note:

[1] ortus: è participio perfetto di orior, -eris, ortus sum, -iri, verbo di coniugazione mista.

[2] Cittadina del Lazio, sui colli albani, corrispondente all’odierna Frascati. Il municipium (da munus capio “assumo i [miei] doveri”, s’intende di cittadino romano) era una città che, una volta conquistata, entrava a far parte della cittadinanza romana; i municipia potevano scegliere se adottare il diritto romano o mantenere le proprie leggi; i loro abitanti, tuttavia, avevano i diritti e i doveri della Romana civitas.

[3] priusquam honoribus operam daret: costruito con il congiuntivo imperfetto, introduce una proposizione temporale che indica un’azione posteriore a quella della reggente (versatus est), cioè l’anteriorità della reggente rispetto alla temporale. L’espressione operam dare seguita dal dativo corrisponde all’italiano “impegnarsi”, “dedicarsi a qualche cosa”.

[4] versatus est: perfetto da versor.

[5] I Sabini erano un’antica popolazione laziale di lingua osca imparentata con i Sanniti.

[6] quod: introduce una proposizione causale oggettiva con l’indicativo habebat.

[7] Lucio Valerio Flacco fu console con Catone nel 195 a.C. e con lui ottenne la censura nel 184 a.C., condividendone la lotta contro la corruzione dilagante per la salvaguardia del mos maiorum.

[8] collegam: predicativo dell’oggetto riferito a quem.

[9] ut: costruito qui con l’indicativo solitus est, introduce una proposizione incidentale di tipo comparativo.

[10] Il nome di questo personaggio tradisce la sua origine etrusca, come rivela il suffisso ­-enna. Morì nel 49 a.C.

[11] annorum decem septemque: sottinteso adulescens; era l’anno 217 e in Italia si stava allora combattendo la seconda guerra punica.

[12] Nel 214 a.C., anno in cui Claudio Marcello mise sotto assedio Siracusa, riuscendo a conquistarla soltanto due anni dopo. Durante il saccheggio della città rimase ucciso il famoso Archimede. Fu nel corso di questa campagna che Catone, in età straordinariamente giovane, fu nominato tribuno militare.

[13] ut: con l’indicativo assume qui valore temporale.

[14] L’odierna Senigallia. La battaglia, più nota come battaglia del Metauro, è del 207 a.C. I comandanti romani erano Claudio Nerone e il collega Marco Livio Salinatore.

[15] Nel 204. Quaestor è complemento predicativo del soggetto sottinteso Cato; obtigit è il perfetto di obtingo. I quaestores avevano il compito di amministrare le truppe e durante le campagne militari erano affiancati ai comandanti dell’esercito tramite sorteggio.

[16] namque… vita: ordina: namque dissensit ab eo perpetua vita. Si pone qui in rilievo con chiarezza il totale disaccordo tra Catone e Scipione che si manifestò soprattutto nel loro modo diametralmente opposto d’intendere il rapporto tra Roma e il mondo ellenico.

[17] factus est: perfetto di fio.

[18] Nel 199.

[19] Nel 198.

[20] In occasione di una tappa in Sardegna, durante il suo ritorno dall’Africa, nel 204 a.C. Catone aveva portato con sé a Roma il poeta Ennio, che militava nell’isola fra le truppe ausiliare. Uno dei massimi esponenti della letteratura latina arcaica, autore di numerose opere, fra cui tragedie, ma ricordato soprattutto per gli Annales, poema epico in esametri in cui veniva narrata la storia di Roma, Quinto Ennio (239-169) era nato a Rudiae, in Puglia e conosceva ben tre lingue: l’osco, il greco e il latino.

[21] quodtriumphum: quod è nesso relativo; minoris è genitivo di stima retto dal verbo aestimamus; quam introduce il secondo termine di paragone; quemlibet è accusativo dell’aggettivo e pronome indefinito quilibet, quaelibet, quodlibet, composto dall’aggettivo o pronome indefinito qui, quae, quod + il presente del verbo impersonale libet, libuit o libitum est, -ere (“piace”, “è gradito”).

[22] Consulatum gessit: unito al nome della carica il verbo gero assume il significato di “esercito”, “rivesto”. I consoli erano i supremi magistrati della Repubblica: comandavano l’esercito, convocavano e presiedevano i comitia.

[23] nactus: participio perfetto di nanciscor.

[24] L’espressione triumphum deportare ex aliquo significa “celebrare il trionfo su qualcuno”. I Romani avevano l’usanza di celebrare un pubblico trionfo quando risultavano vincitori di una guerra: il generale vittorioso (acclamato dai suoi soldati imperator) sfilava a cavallo, seguito dalle truppe, dai prigionieri e dal bottino, lungo un percorso che normalmente andava dal Campo Marzio al tempio di Giove Capitolino.

[25] ibi cum… moraretur: costrutto del cum narrativo con valore causale; diutius è il comparativo di maggioranza dell’avverbio diu.

[26] Nel 194.

[27] cuius… fuerat: proposizione relativa, il cui soggetto sottinteso è Catone.

[28] per senatum: complemento di mezzo costruito con per + accusativo.

[29] cum… obtineret: costrutto del cum narrativo con valore concessivo; il termine principatum, connesso al sostantivo princeps, indica la supremazia; il verbo obtineo non ha il significato di “ottengo”, ma di “mantengo”, “detengo”. Africano godeva di grande prestigio in Senato, appartenendo a una delle famiglie più in vista di Roma, ma, nonostante questo, non riuscì a far deporre Catone.

[30] quod… administrabatur: ordina: quod tum res publica administrabatur non potentia sed iure; proposizione causale con il verbo all’indicativo per esprimere oggettività; potentia e iure sono ablativi di causa efficiente. Emergono qui l’ammirazione e la nostalgia di Nepote per i tempi di Catone, quando lo Stato era amministrato secondo giustizia e nessun cittadino riusciva a impadronirsi del potere con la violenza.

[31] qua ex re: nesso del relativo.

[32] ‹consulatu› peracto: ablativo assoluto; peracto è participio perfetto di perago, composto da per + ago, in cui il prefisso per indica il compimento dell’azione.

[33] priuatus: usato in funzione predicativa.

[34] censor… factus: ordina: factus censor cum eodem Flacco (nel 184).

[35] severe… potestati: praefuit è perfetto di praesum, che, come ogni composto di sum, è accompagnato dal dativo; potestas ha il significato di “carica”. L’avverbio severe fissa l’attenzione del lettore sull’intransigenza di Catone nell’amministrare la censura, tanto da meritagli l’appellativo di “Censore” per antonomasia.

[36] animadvertit: il verbo animadverto, seguito da in + accusativo, significa “prendo provvedimenti contro qualcuno”.

[37] edictum: si fa riferimento qui alle leges sumptuariae che limitavano il lusso, in particolare alla lex Oppia.

[38] pullulare: il verbo presenta la medesima radice di pullus, “germoglio”, ed esprime l’idea di “metter germogli”, del “balzar fuori”. Detto della luxuria, rappresenta una metafora.

[39] circiter annos octoginta: complemento di tempo continuato in accusativo semplice.

[40] adulescentia: corrisponde all’età della giovinezza, compresa all’incirca tra i 15 e i 30 anni.

[41] causa: preceduto dal genitivo, esprime un complemento di fine.

[42] quoad vixit: proposizione temporale con l’indicativo, che esprime oggettività.

[43] Il capitolo si conclude con l’affermazione dell’integrità morale di Catone, evidente nell’uso della parola virtus.